Ti ruberò il cuore - Heartlocked

di Love_in_London_night
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il passato è il presente di ieri ***
Capitolo 2: *** City of blinding lights ***
Capitolo 3: *** Grandma said ***
Capitolo 4: *** Il bisogno di sapere ***
Capitolo 5: *** Questioni di fiducia ***
Capitolo 6: *** Lost Child ***
Capitolo 7: *** Di principesse e di regine di cuori spezzati ***
Capitolo 8: *** Conflitti d'interesse ***
Capitolo 9: *** Life is a dangerous game to play ***
Capitolo 10: *** Affogare in se stessi ***



Capitolo 1
*** Il passato è il presente di ieri ***



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Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Capitolo 1
 
Il passato è il presente di ieri
 

Avere diciassette anni era bellissimo, specialmente se non avevi fretta di crescere ed eri la presidentessa del Comitato Studentesco.
Camminava in compagnia della sua immancabile spensieratezza per i corridoi della scuola, con lo sguardo sicuro e solare che la contraddistingueva. Era giunta con il suo passo aggraziato nella sala mensa del liceo dove, con l’aiuto dell’associazione cui faceva capo, si stavano preparando gli addobbi per il ballo di primavera. Le ragazze dipingevano fiori che con strascichi degni di un pittore esperto diventavano eleganti lettere, atte a dare il benvenuto a chiunque la sera del ballo si fosse presentato in palestra. I ragazzi invece, da buoni cavalieri, avevano deciso di dedicarsi ai lavori più pesanti, quali le costruzioni in compensato di parti del palco e della scenografia: il tema della festa erano le creature leggendarie.
Travis, dell’ultimo anno, stava costruendo un bellissimo albero finto a cui poi sarebbero state appese fronde piangenti come quelle di un salice. Quale luogo migliore per donare ristoro a meravigliose fate dei boschi?
Pemberley passò da ogni gruppo per controllare a che punto fosse il lavoro, per sapere se avevano bisogno di aiuto e per capire se occorreva altro materiale; era puntigliosa, un fatto rinomato in tutta la scuola, ecco perché ricopriva quella carica. Non c’era nessuno più adatto di lei, era la prima a esserne a conoscenza.
Dopo aver passato in rassegna ogni lavoro in corso, riunì le persone più fidate all’interno della mensa per programmare altri punti riguardo l’organizzazione del ballo: nulla poteva essere lasciato al caso, niente sarebbe andato storto, non era nel suo stile.
Stavano parlando della disposizione dell’arco davanti all’entrata, una cosa importante, dato che sotto a esso sarebbe stata scattata la foto ricordo, il problema era non creare coda all’ingresso. La discussione era entrata nel vivo, facendo permeare la serietà dei membri e prevalere il loro raziocinio, quando furono interrotti.
Lauren, una ragazza del secondo anno che si fermava a scuola il pomeriggio per frequentare il corso di economia internazionale richiamò l’attenzione della presidentessa con un timido schiarirsi di voce. Questa si girò paziente, in attesa che la ragazza parlasse.
«Pemberley ciao, scusa se ti disturbo, ma…» divenne rossa, come se continuare le costasse fatica «Ho incontrato Nathan Alcott nei corridoi, mi ha detto di dirti che il Preside ti sta aspettando per parlare riguardo il ballo».
La ragazza scostò indietro i voluminosi capelli castani, leggermente crespi, nel tentativo di darsi un aspetto sbarazzino. Fissò Lauren con furbizia prima di ringraziarla per averle recapitato il messaggio. La ragazzina corse fuori, felice di non essere più in presenza dei più grandi della scuola.
Pemberley sospirò e si scusò con i suoi collaboratori per quell’inconveniente, eppure si alzò dalla sedia contenta: una pausa era quello di cui aveva bisogno.
«Silene, lascio a te il comando». Silene Endeckis era una ragazza dai capelli scuri e gli occhi azzurri che incorniciavano e davano colore alla sua pelle nivea. Pemberley nutriva un immenso rispetto per lei, perché era una ragazza fuori dagli schemi dei normali licei americani. Se ne fregava di ciò che la gente pensava di lei, di chi fossero i più influenti e di come i meccanismi della popolarità le fossero estranei. Faceva parte del comitato studentesco per puro piacere personale, era una persona a cui piaceva avere responsabilità a cui badare. Era simpatica a molti, ma non concedeva la propria allegria ai più. Nonostante fosse sotto gli occhi di tutti, passava la maggior parte del tempo sola.
Pemberley la stimava molto, avrebbe voluto chiamarla amica un giorno, usare l’appellativo Sil a testimonianza del rapporto che avrebbe potuto legarle.
Fuori dal brusio della mensa si diede il tempo di riflettere. Le sembrava strano che il Preside l’avesse mandata a chiamare per un colloquio proprio quel pomeriggio, era sicura che fosse fuori sede. Evidentemente si ricordava male, anche ai più puntigliosi capitava di sbagliare.
Prima di avviarsi verso lo studio del direttore, si concesse una sistemata generica. Rianimò il collo inamidato della camicia, allineò con i bottoni lo scollo a punta del maglione indossato sotto una giacca elegante e sistemò la gonna a scacchi portata appena sopra il ginocchio. Non frequentava un liceo privato, ma le piaceva darsi un tono comunque, come se portassero davvero le divise.
Era abituata al meglio Pemberley Voight. Di famiglia ricca, aveva avuto un’istruzione ottima, continuata e quasi conclusasi in quella scuola. Era pubblica, ma la migliore che Princeton e dintorni potessero avere.
Le piaceva camminare nei corridoi semideserti del proprio istituto e, nonostante brulicasse di attività per i corsi extracurricolari, si sentiva a casa. Quello era il suo habitat naturale e Pemberley si muoveva al suo interno con grande maestria ed eleganza.
La meta era vicina, quando qualcuno la strattonò per un braccio; non era stata una presa violenta, ma sicura e salda. Avrebbe riconosciuto ovunque quel tocco. Il cuore le salì in gola, battendo all’impazzata.
L’aveva spinta in modo delicato sulla porta della presidenza senza nemmeno darle il tempo di vederlo. Sentiva solo il suo fiato sul collo, intento a baciarla.
«Velvet» sussurrò Nathan sulla pelle tremolante di Pemberley, strappandole un gemito soddisfatto. Sentire il soprannome che Nate le aveva dato la mandava in estasi.
Velluto, perché solo lui poteva saperlo. Nathan era un componente della squadra di football, e anche se non ne era la punta di diamante, a scuola era sempre stato famoso. Bravo e piacente, aveva avuto una vita confortevole al liceo, tra i ragazzi popolari, non abusandone mai. Non gli interessava, a lui importava solo di Pemberley. L’aveva conosciuta da piccola, essendo la figlia di amici di famiglia. Passavano il tempo insieme quando i genitori di entrambi si ritrovavano per le più svariate occasioni. Da piccoli c’era complicità, alle elementari sopportazione e alle medie scherno. La scuola superiore aveva cambiato tutto: li aveva fatti incontrare nello stesso istituto, dove avevano imparato a conoscersi di nuovo, come un ragazzo e una ragazza qualunque. Nathan era sempre stato innamorato di Pem, ma non l’aveva mai capito prima del secondo anno di liceo.
Stavano insieme da un anno circa, e da molti mesi Pemberley era diventata Velvet. La prima volta in cui avevano fatto l’amore lui aveva potuto constatare quanto la pelle di lei fosse morbida come il velluto, una sensazione nuova che le dita di Nathan avevano scoperto sul corpo fin troppo esile della ragazza, segnando la memoria in modo quasi doloroso.
Sorrise sotto all’orecchio di lei, risvegliando la voglia di Pemberley e provocandole un brivido lungo la schiena «Tira fuori la ragazzaccia che c’è in te».
Non era cattivo, non era nemmeno una presa in giro; la stava solo invitando a ritagliarsi un momento per loro anche lì, a scuola, dove tutto diventava proibito e, quindi, eccitante. Cercava solo di farle dimettere i panni della presidentessa del consiglio studentesco e far spuntare la Pem più vera, quella capace di sobillare una rivolta di classe per avere i pastelli a cera alle elementari, o quella capace di osare per stare con Nathan.
Pemberley fu percorsa da una scossa d’adrenalina. Sorrise sulla bocca di Nate mentre faceva scattare la serratura della presidenza. Amava Nathan e non riusciva a dirgli di no. Forse non lo voleva nemmeno. Non si ricordava l’ultima volta in cui gli avesse rifiutato qualcosa. Avrebbe scommesso su poche cose Pem, ma una di queste era il loro amore. Sapeva bene che erano adolescenti e a diciassette anni si avevano percezioni diverse e poche esperienze alle spalle per giudicare le cose in modo obiettivo, ma lo amava talmente tanto da poter giurare sul per sempre.
Lo baciò con crescente trasporto, ma non dimenticò di chiudere la porta a chiave alle loro spalle. Il bacio divenne malizioso come ogni loro atteggiamento.
Non si ricordava quando aveva iniziato ad amare Nathan, perché forse era sempre stato così e non se ne era mai resa conto. Il primo anno di liceo, però, qualcosa era cambiato. Nate stava con Stacy Roberts, una bionda tinta alquanto dozzinale per uno come lui, e a Pemberley aveva creato fastidio. Aveva sentito crescere giorno dopo giorno un senso di disagio a ogni bacio, carezza o attenzione che si rivolgevano, finché non aveva litigato con il suo amico di sempre. Aveva confessato infine, all’inizio del secondo anno, che ogni suo problema era dovuto a Stacy e alla relazione che loro avevano. Nate si era avvicinato e l’aveva baciata. Non voleva solo raccogliere le lacrime che lei aveva versato, ma fermarle. L’avrebbe fatta sorridere sempre, da quel momento in poi, non doveva più versare lacrime per lui, perché lui provava lo stesso sentimento. Era stato felice di constatare che lei provasse la stessa cosa. Per la prima volta era stato davvero felice di una sua scelta, anche se Pemberley non poteva essere considerata solo una soluzione, perché era qualcosa di ben più grande ai suoi occhi. Era la persona che gli avrebbe cambiato la vita, rendendolo una persona migliore anche in futuro.
Fu proprio lei a riportarlo alla realtà, sedendosi sul bordo della scrivania del preside. Gli sorrise con la testa piegata, come ogni volta in cui lo fissava per capire in che tipo di pensieri si fosse perso in quel momento. Nathan la raggiunse sentendo salire l’urgenza di prima che l’aveva spinto a mentire a mezzo corpo studentesco. Le accarezzò la fronte con le labbra, correndo a cercare la bocca per catturare ogni suo respiro, una cosa di cui si sarebbe alimentato a vita.
Pem gli tolse il maglione per poter arrivare all’orlo della maglietta. Si prese un momento per appoggiare le labbra alla base del collo, lì dove poteva sentire il battito del cuore di lui, dove riusciva anche a rubare un po’ del suo profumo non troppo costoso, ma mai dozzinale.
«Velvet, sei con me?» e per richiamare ancora di più la sua attenzione fece camminare le dita dalla coscia fino alla biancheria nascosta sotto la gonna, facendola sussultare «Sai che non sei costretta a fare nulla. Volevo solo sentirti su di me. È un bisogno costante».
Pemberley infilò la mano sotto la sua maglia, aggrappandosi ai timidi muscoli che facevano capolino sulla schiena mentre languida gli baciava un punto impreciso tra la gola e la giugulare «Se non volessi essere qui con te sarei già tornata in mensa tra palloncini e pailettes».
Le era costato fatica parlare, perché la voce era resa roca dal desiderio che si era scatenato in lei.
Avrebbe voluto rimanere lì dentro con il suo ragazzo per molto tempo, ma non potevano rischiare di essere scoperti, e quindi espulsi, pochi mesi prima del diploma. Se fosse successo avrebbe dovuto rinunciare al suo posto alla Columbia.
Eppure era stanca di giocare, così si stese sul legno lucido della scrivania, prendendo Nathan per il colletto e attendendo che il corpo di lui seguisse il suo movimento. Erano talmente in sincronia che gli ci volle poco per seguirla.
Velvet era nato la loro prima volta, quando Nate aveva accarezzato un lembo scoperto della sua pelle. L’aveva scoperta per non dimenticarla più. Liscia e innocente, Pemberley era formata dalla sua purezza e scolpita dalla propria spontaneità. Nathan, quando era entrato in lei, le aveva accarezzato le guance e aveva ammirato il rossore che le colorava di secondo in secondo, sempre di più.
Velluto. Semplice, liscio e arrendevole al suo tocco.
Velvet. Pura, innocente e spontanea. Sua.
Le aprì la camicetta con una certa foga, perché giocare con la scintilla che poteva scatenare l’incendio per lui era sempre stato pericoloso; lo spingeva al limite.
Conosceva i punti deboli di Pem, e quando arrivò al reggiseno, con la lingua accarezzò il bordo di pizzo che separava la bocca dalla carne, scatenandole un gemito che, roco, le morì in gola. Continuò così nella sua personale tortura, mordendole il seno sinistro ancora coperto dalla stoffa. Affondò i denti nel corpo con gentilezza proprio all’altezza del battito accelerato, tanto che lei inarcò la schiena, come a chiederne tacitamente ancora.
«Ti ruberò il cuore». Una promessa facile da rispettare al momento, ma difficile mantenerla nel tempo.
E Pemberley non gli disse mai che il suo cuore già lo possedeva, perché si donava a una sola persona, e non poteva lasciargli tutto questo potere; erano ragazzi, anche se lo amava come si amavano gli adulti. Lo vedeva con i suoi genitori.
Nate non sapeva di averlo in mano, e  avere la capacità di accudirlo o distruggerlo con un solo gesto.
Non l’avrebbe mai saputo.
Ma sveva sbagliato Pemberley, perché doveva ricordargli che una persona che ti rubava una cosa importante come il cuore, poi non poteva restituirtelo a piccoli pezzi; doveva tenerselo in qualsiasi stato fosse, nonostante la colpa non fosse imputabile al custode che l’aveva conservato al meglio.
«Nathan, basta giocare, ti prego». Gliel’aveva sussurrato morsicandogli un lobo, stuzzicandolo con la lingua. Impazziva con quel gesto, e lei stava implodendo. Avevano poco tempo e lo stavano sprecando in preliminari sì piacevoli, ma inutili.
Non se lo fece ripetere una seconda volta e, con entrambe le mani, andò sotto la gonna per sfilarle gli slip ormai umidi della sua voglia, mentre lei, fragile e tremante, slacciava la chiusura dei jeans.
Amava sentire il suo fisico modellato dal football sotto le sue mani e sopra la propria figura ma, soprattutto, dentro di sé.
Non era il quarterback, la scuola non viveva sulla sua vita, per quello esistevano il capitano della squadra e le cheerleader. Lui era un linebacker, colui che doveva fermare le azioni in corsa. Un ragazzo come tanti che credeva nel concetto di squadra ma ancor di più in quello di amicizia, così tanto che non dava confidenza a molti, infatti i suoi più cari amici si potevano contare sulle dita di un amano, e ne sarebbero avanzate pure un paio.
Era introverso e taciturno. A scuola non viveva sotto i riflettori, ma nella luce che dal centro di essi si spandeva intorno, perdendo la propria luminosità, creando penombra. Aveva solo l’idea di sopravvivere al meglio al liceo, per poi vivere davvero al college. Era un po’ sulle sue, e contribuiva agli occhi delle ragazze ad accrescerne il fascino.
Si ricordava come con fretta, d’un tratto, era entrato in lei… Come certi dettagli facessero la differenza ma, a diciassette anni, non gli si dava peso.
Era così che ricordava il giorno in cui le era cambiata la vita.
 
«Ehi, bella addormentata, ci sei?». Silene le stava passando ripetutamente la mano davanti agli occhi, risvegliandola dal proprio torpore. Erano al JFK da più di tre ore, il loro volo aveva subito un leggero ritardo.
L’amica era andata a fare un giro per i negozi del Duty Free, e Pemberley era rimasta lì a riposare, dato che la mattina aveva comunque lavorato nonostante l’imminente partenza.
E, in quel momento di relax, la mente era tornata ai giorni spensierati del liceo, dove la sua vita aveva preso la direzione opposta a quella che si era sempre prospettata. Ma si sapeva, se si stava a guardare la vita questa decideva per te.
Annuì stanca.
«Hanno chiamato il nostro volo, è ora di andare». E le sorrise in modo entusiastico. A lei, che quel viaggio non voleva nemmeno intraprenderlo.
Era l’inizio di dicembre e New York era una grande, gigantesca, lampadina. Tutta illuminata dagli addobbi natalizi, era uno spettacolo che contagiava i sorrisi che si incontravano in ogni passante, impossibile rimanerne immuni. Le dispiaceva quindi abbandonare la sua città in quel momento.
Si stropicciò la faccia stanca con le mani e seguì l’amica verso l’imbarco, sospirando rumorosamente.
Perché aveva desiderato essere amica di Silene un tempo? Perché erano cambiate così tanto le cose?
Una volta sarebbe stata lei a proporre viaggi impossibili e imprese impraticabili, ora si ritrovava nel ruolo di quella che rifiutava sempre, la classica persona che metteva i bastoni tra le ruote nei progetti altrui.
La spina nel fianco.
In coda, Pemberley guardava distratta le luci della pista, lo sguardo perso nei suo pensieri, di nuovo. L’essere riflessiva era uno dei suoi maggiori difetti, o lei lo considerava tale. Ragionare la portava a una sorta di impasse in cui era ferma da dieci anni, nonostante pensasse di aver fatto dei grandi passi avanti.
Era sicura di essere tornata al presente, ma avrebbe potuto giurare di sentire l’odore di legno e libri vecchi che alleggiava nell’ufficio del preside. Era qualcosa di familiare e rassicurante, ed era la sensazione di Nathan, collegata infine del suo odore. Era come quello di erba tagliata. All’inizio faceva arricciare il naso, dopo, quando ci si abituava, diventava fresco e indispensabile.
Familiare e rassicurante, appunto; un po’ come le luci della grande mela che rivedeva tutte intorno alla pista.
Silene lasciò andare la maniglia del bagaglio a mano e la prese per le spalle.
La scrollò per ricevere la sua attenzione. «Pem, ascoltami. Andrà tutto bene. Il mondo va avanti anche senza di te. Tutti sopravvivranno anche se ti allontani per un po’ di giorni, non è un problema».
L’altra storse la bocca, poco convinta, così Sil continuò nella sua filippica «Da quant’è che non ti prendi una vacanza?»
«Quest’estate!» rispose l’altra quasi offesa.
«Una vacanza dai tuoi ruoli e dalla tua vita. Quando è stato?». Era seria, voleva un risposta e pretendeva fosse sensata.
«Dieci anni fa, circa» ammise Pemberley controvoglia.
Non le importava quanto tempo prima avesse preso una pausa dalla sua vita. Quando aveva scelto ciò che era più giusto fare, sapeva a cosa sarebbe andata incontro, non poteva prendersi una vacanza dai propri doveri, anche se poteva essere un suo diritto.
Sacrificarsi per gli altri. Altro difetto che la caratterizzava.
«Allora fammi il sacrosanto piacere di dimenticare cosa ti aspetta a New York, per cinque giorni ritorna a essere solo una ragazza nel fiore degli anni che deve recuperare un sacco di esperienze».
Ricopriva troppi ruoli nella sua vita perché potesse dimenticarseli o anche solo sperare che non la schiacciassero; erano troppo forti e lei troppo piccola e concentrata sui vari aspetti che la circondavano perché non si intrecciassero e la sopraffacessero.
«C’è solo un problema… Non ricordo come si fa».
L’altra sorrise più rilassata. «Non c’è problema, basta che segui me. Sorridi, divertiti e non pensare a nient’altro. Rilassati!».
Una parola. Rilassarsi non era compreso nel vocabolario di Pemberley Voight. Non ne conosceva il significato.
Mentre avanzavano verso le hostess che controllavano i biglietti aerei Silene continuò «E, soprattutto, trovati qualcuno con cui fare un po’ di sesso. Questo aiuterebbe a rilassarti».
Pemberley si imbarazzò e guardò le persone che le stavano intorno per scusarsi. Non era colpa sua se aveva un’amica che parlava di sesso così liberamente, anche davanti a sconosciuti.
«Trovati un bello straniero con cui flirtare. Sei bella, giovane e potresti avere tutto quello che desideri, se solo non ti mettessi sempre in punizione».
Evitò di rispondere alla seconda parte, concentrandosi sulla precedente. «Oh sì, non vedo l’ora di trovarmi un bel francese… Sarebbe l’ideale avere una relazione a distanza. Come ho fatto a non pensarci prima?».
Assunse un’aria ingenua, gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata, come le migliori oche giulive.
Con la mano libera si tolse i capelli biondi, e non più crespi, che le erano ricaduti sul volto. Odiava averne così tanti, ma erano belli nonostante fossero troppi e difficili da tenere in ordine. Con gli anni i prodotti per disciplinarli e le piastre erano migliorati, quindi gestirli non era poi un grosso problema. Solo un grande impegno. Un altro da aggiungere alla sua già infinita lista.
«Ti esce bene la faccia svampita, chissà perchè». Le fece una linguaccia mentre porgeva all’hostess i propri documenti di viaggio.
Fu lungo il corridoio che portava all’aereo che Silene si girò e puntò gli occhi chiari e splendenti di felicità in quelli di Pem. «Non vedo l’ora di presentarti tutti. E poi forse Jacques potrebbe piacerti davvero. Oh, quando arriviamo? Quando, eh?».
Lei scosse la testa divertita e rise
Nonostante non avesse voglia di allontanarsi da Princeton, staccare la spina le avrebbe fatto bene. Inoltre era felice di accompagnare Sil in questo viaggio a cui lei teneva molto.
Aveva trascorso sei mesi fuori dagli Stati Uniti per lavorare in un’azienda affiliata alla propria. Là aveva lasciato un sacco di amici e di belle esperienze e, con la scusa della festa della città, quei giorni di dicembre aveva deciso di tornare, e voleva farlo con la sua migliore amica.
«Su, forza bambina, prima sali sull’aereo, prima partiamo» le aveva detto con un tono esasperato, tirando a sé il piccolo trolley.
«Ok, ti darò tregua fino all’atterraggio, poi sarai tutta mia». La guardò con espressione famelica, come se fosse stata la sua prossima vittima. Poi, come se nulla fosse, diede il passaporto all’hostess che la salutò cordiale per accoglierla sul velivolo.
Pemberley sorrise e si domandò perché avesse avuto la fortuna di avere un’amica così.


* * *


Buon rainy day a tutti! Come va?
Io ho pensato di farvi compagnia in questa giornata sonnachiosa con una nuova long, spero vi faccia piacere.
Per chi non mi conoscesse beh, benvenute, sappiate che potete aver letto in giro il mio nick a causa di questa storia:
Loverdose

Se invece mi conoscete già, oddio... MI DISPIACE PER VOI!
Detto questo, passiamo alla storia: so che non si capisce molto, ma i miei primi capitoli sono così. Un punto strano di partenza o sblocco per l'intera vicenda, e qui si parte addirittura da un flash-back.
Spero che comunque possa avervi incuriosito.
Inoltre ringrazio IRIS per la fantastica copertina, perchè ovviamente non l'ho fatta io.


AVVISO IMPORTANTE: La storia prende spunto da un telefilm che mi piace molto, non è uguale, ma alcuni aspetti sono simili, io poi ho apportato modifiche e ricamato sopra gli accaduti che sono i punti di partenza, suppongo. Ora non vi svelo il nome per lasciarvi brancolare nel buio e per non spoilerare sulla trama, dato che l'elemento fondamentale per renderlo simile al tf verrà inserito più avanti. A tempo debito il titolo di questo telefilm verrà svelato senza tanti problemi, perchè non ho mai fatto mistero di questa somiglianza. Se tutto va come deve andare, si scoprirà alla fine del terzo capitolo.

Niente, se qualcuna volesse può trovarmi nel mio gruppo fb per spoiler, volti e quant'altro, Love Doses, se no ci si ritrova qui tra una decina di giorni, suppongo.
Vi ringrazio per aver letto, spero di sentirvi a breve.
E giuro che presto rispondo alle recensioni dell'ultimo capitolo di Loverdose.
A presto, sbaciucchiamenti, Cris.

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Capitolo 2
*** City of blinding lights ***




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Capitolo 2
 
City of blinding lights

 
Le luci che rischiaravano la città a giorno nonostante fosse dicembre, la camera lussuosa dell’hotel e quelli che poteva considerare suoi amici: non poteva chiedere di meglio, eppure non gli sembrava abbastanza.
Lione era sì una bella città, ma non reggeva il confronto con ciò a cui era abituato. Perché avevano insistito per andare proprio lì i ragazzi, quando c’erano capitali molto più interessanti e degne di questo nome? Perché partecipare alla festa delle luci, quando vivevano a New York, la città delle luci sempiterne?
Doveva ammettere che aveva il suo fascino, certo, era innegabile; ma una città non molto grande non offriva grandi divertimenti, secondo lui.
Era del parere che l’Europa avesse un certa quanto antica attrazione, ma a lui sembrava solo vecchia e nostalgica. Era più il tipo d’uomo che prediligeva l’architettura moderna, i palazzi tutto vetro e cemento; posti asettici ma funzionali, come lui.
Ecco perché amava tanto New York e Manhattan, il suo centro nevralgico. Era un uomo d’affari Rhys Hewitt, e lo era dentro e fuori. Nonostante avesse solo ventotto anni, adorava quantificare tutto ciò che lo circondava, cercare il profitto in ogni cosa. Se non portava ad avere tanti zeri dalla propria parte, questo qualcosa non valeva la pena di essere calcolato. Di sicuro non valeva il suo tempo.
Così era seduto su quel divano sontuoso in pelle, con la camicia e il maglione ben accomodati e stirati, mentre davanti a lui, sul tavolino di un materiale freddo e specchiato spiccavano due strisce malfatte di cocaina e dei flute di ottimo champagne; almeno la gita in Francia aveva portato i suoi frutti.
Prese il bicchiere e si versò il Dom Pérignon con assoluta eleganza, saltando le strisce di droga. Ecco sotto i suoi occhi il modo peggiore di sprecare i soldi. Il buon vino era un lusso in cui investire, la cocaina non faceva certo per lui; aveva bisogno di tutto il suo raziocinio sul lavoro come nella vita, non poteva lasciare che una sostanza ormai del tutto chimica portasse via la sua ragione e i suoi soldi.
Lasciò così che fossero gli amici a usufruirne come meglio credevano, come sempre.
In poco tempo Stephen riprese il proprio posto davanti alla droga, raggiunto subito dopo da Addison e Colton che, avidi, si litigarono la bottiglia di champagne per cercare di accaparrarsene di più. Colton conosceva troppo bene Addison per permettersi di fare il cavaliere con lei, nonostante avesse fatto sue le buone maniere.
Ma d’altronde chi si comportava in modo decente con Addie? Era bella, ricca e stronza, voleva raggiungere vertici alti a ogni costo e per questo si concedeva a tutti, anche ai perdenti. La filosofia adattata dalla ragazza le permetteva di frequentare la gente più facoltosa di New York di cui faceva parte di diritto, ma non la portava a realizzare i propri obiettivi. Se tutti potevano avere senza difficoltà ciò che lei offriva, perché sposarsela?
Il fatto che fosse in viaggio con tre uomini e che si facesse sbattere a sere alterne da tutti e tre ne era la prova, nonostante provasse sempre a far cadere Rhys nella propria trappola, solo perché era il partito migliore tra tutti. Ma questo era troppo intelligente e scaltro per cascarci: Addison Lloyd non valeva tutti gli zeri che il cognome offriva, era solo un buon diversivo con cui sfogarsi. Perché starle insieme quando lei ti concedeva lo stesso il suo corpo? Anche perché altro non poteva offrire, e Rhys le donne vuote le usava solo per due motivi: scopare e come accompagnatrici agli eventi della New York bene, dei trofei da mostrare a tempo determinato, nulla più. E, poco ma sicuro, Addie non era un trofeo degno di essere presentato in pubblico.
Steve fissò gli amici «Ne preparo una terza?»
«Sei fuori? Da quando ho ufficializzato il fidanzamento con Adrianne ho smesso con quella merda, devo rimanere pulito. È una clausola del contratto prematrimoniale, se no in caso di divorzio non becco nulla». Colton finì le bollicine e se ne versò un altro bicchiere, sistemandosi sul divano quasi spossato, nonostante non avessero fatto poi molto nella giornata.
«Rhys, tu?». Stephen sapeva che l’amico non si univa mai a certe usanze, ma non voleva essere sgarbato, così la domanda era diventata di rito.
Amico poi era una parola grossa: per lui Rhys era solo un conoscente. In comune dividevano l’amicizia di Colton, che li portava a frequentarsi, ma se fosse stato per loro si sarebbero limitati ai soliti convenevoli scambiati durante a barbose feste di beneficenza, nulla più. Addison era stata una loro compagna di college che aveva preso l’abitudine di seguirli ovunque. Più che un’amica era una gregaria, ma i più la consideravano una sanguisuga.
«No, grazie. Fate voi» sfoggiò il suo sorriso educato e condito con una punta di freddezza, prese il tablet e lesse le notizie che riguardavano il Nasdaq, voleva sapere come stavano andando i suoi affari; nonostante fosse in vacanza non poteva concedersi del vero e proprio relax, dato che era a capo delle maggiori società del paese, lasciate a lui dal padre. Quel figlio di puttana che era scappato in Russia sedici anni prima per non essere perseguito dalle autorità.
Puff, sparito. Eppure secondo Mitchell lasciare a lui la responsabilità della società era il modo per dire al figlio che gli voleva bene. Ma lui voleva un padre, non un conto fiduciario a nove zeri e nessuno con cui spartirlo. Ecco il motivo per cui aveva chiuso con le persone e aveva teso le braccia verso i dollari, erano molto più facili da gestire, nonostante la gente fosse più manipolabile.
Stephen alzò le spalle prima di arrotolare una banconota da cinquanta euro e avvicinarsi alla striscia per aspirarla con forza. Quando sollevò la faccia si ripulì il naso dalla polvere bianca, allungò il piccolo rotolo ad Addison e si lasciò cadere sul morbido schienale del divano, la faccia al soffitto e gli occhi rivoltati in cerca dell’estasi che di lì a poco sarebbe arrivata.
Lei si fiondò sulla striscia restante, quella più sottile, e infine mimò ogni gesto del suo pusher improvvisato.
Con la testa reclinata, il suo respiro divenne affannoso, facendo alzare il petto sempre più concitatamente. Il rumore si presentò prepotente alle orecchie di Stephen, ormai sotto il completo effetto della cocaina.
La guardò e vide la camicia bianca slacciata fino al seno, di cui riusciva a intravedere la carne. Senza chiedere il permesso, né aspettare un qualsiasi tipo di invito, slacciò il bottone sul petto e infilò la mano nella camicia, spostando il pizzo dell’indumento intimo per palpare il seno e giocare con il capezzolo già turgido.
Addie ridacchiò a occhi chiusi, convincendosi ancor di più di essere una donna irresistibile a cui gli uomini non potevano non cedere, non pensando nemmeno un attimo a quanto in realtà la vedessero invece come una facile occasione per soddisfare il loro bisogno di dimostrarsi uomini e appagare il proprio ego, quindi lo lasciò fare.
Colton li guardò famelico, il suo lato voyeuristico ringraziava per lo squallido spettacolo. Avrebbe fatto di tutto per unirsi a loro, ma non era il momento, la fame veniva prima di tutto e di lì a venti minuti sarebbero dovuti uscire per andare a cena. Quel poco tempo gli sarebbe servito solo per i preliminari.
«Quanto potremmo continuare ad andare avanti in questo modo?» domandò al nulla riflettendo sulla propria vita.
«Fino a quando non ci si sposa, suppongo» rispose Rhys senza alzare lo sguardo dallo schermo touchscreen, aveva visto costa stava succedendo con la coda dell’occhio e aveva scelto di far finta di nulla «Quindi direi che per te il tempo non è poi molto».
«Io però sono felice del matrimonio con Adrianne. È una compagnia piacevole, una donna pacata. Sembra anche fedele e devota» sorrise compiaciuto a quell’idea «Devo dire che i miei mi hanno indirizzato proprio bene».
«Dalla descrizione è una stronza frigida» intervenne Addison con il fiato corto, segnale che stava gradendo le attenzioni di Stephen.
«Non possono essere tutte stronze in calore come te, se no non serviresti a nulla» fu la risposta di Colton, che si divertiva a sminuirla dato che non riusciva a rispondere, visto dove era la mano dell’amico mentre stavano parlando insieme.
«È questo il linguaggio di una delle ragazze perbene di New York? Dove finiremo!» disse amareggiato Rhys. Forse la descrizione di Adrianne non era stata delle migliori, ma lui l’aveva conosciuta e gli aveva fatto una buona impressione, quella ragazza.
Per la prima volta abbandonare quel genere di vita che comunque non gli apparteneva non gli sembrava una cattiva idea.
«Dovresti trovarti una donna anche tu Rhys, sarebbe la volta buona che ti liberi di tutte le stronze in calore e ti trovi una stronza frigida» Colton affondò il colpo, ma Addie era intenta a giocare con la lingua di Steve per preoccuparsene, anche se al suggerimento di trovare una donna a Rhys la fece tornare alla realtà dopo qualche secondo di troppo.
«Mettere la testa a posto. Magari amare o anche solo affezionarsi a qualcuno» rincarò Colton.
Facile per lui a dirsi. Rhys era il classico self-made man. Il padre l’aveva abbandonato a dodici anni, così a ventuno, poco prima di laurearsi all’università di Harvard, aveva avuto il permesso di dirigere la Hewitt corporation. Milioni di migliaia di dollari nelle sue mani, quando il padre si era rifatto una vita in Russia: una compagna più giovane della madre di Rhys, un figlio più piccolo, un lavoro nuovo e sempre remunerativo. Una sorta di buen retiro anticipato.
Due anni dopo, quando Rhys si era fatto carico di troppe responsabilità per un ragazzo giovane come lui, aveva perso la madre, stroncata da una fulminea malattia. Solo, si era ritrovato con poche persone al funerale, gli occhi chiari, velati di pianto che non voleva saperne di abbandonare il suo sguardo, cercavano il padre, che non si era degnato nemmeno di presentarsi o chiamare per fare le condoglianze. Era stata sua moglie, la donna con la quale aveva concepito un figlio, che per anni aveva amato, e in quel momento non aveva meritato nemmeno un suo ricordo.
Rhys si era chiuso in se stesso, votando la propria vita al successo e ai soldi. Aveva imparato che le persone ti lasciavano, i soldi no, finché non decidevi tu di spenderli e abbandonarli. Non erano di compagnia, ma per quello c’erano Colton e i suoi amici, anche se erano solo rumori perlopiù fastidiosi che veri e propri amici con cui passare il tempo.
Ecco perché l’idea di abbandonare tutto quello e affidarsi a una persona lo allettava e lo spaventava al tempo stesso. Non cercava felicità, ma stabilità.
Se doveva soddisfare i propri bisogni abbordava qualche ragazza bella e in cerca di un partito d’alto bordo per tentare di farlo diventare il loro futuro marito, erano le più facili da portare a letto. Se aveva bisogno di compagnia ricorreva a Colton e se voleva felicità – o una semplice parvenza – studiava i suoi estratti conto o giocava a golf sul tetto della Hewitt corp.
«Avanti, stasera esci e trovati una ragazza. Parlale, corteggiala e cerca di non scopartela subito. Io ho fatto così con Adrianne, è stato divertente, finché è durato».
«Oppure rimani qui» Addison, per attirare l’attenzione di Rhys e tentare di avvicinarsi a lui, aveva scacciato la mano di Steve dal proprio seno, cercando di nascondere il fastidio per quel contatto mancato.
Rhys però la fermò «Stai dove sei Addie, da me non otterresti nulla, come sempre. Sono più l’uomo da una ragazza alla volta» riferendosi al fatto che si stava facendo palpare da un altro.
La freddezza con cui la rimbeccò la ferì, ma cercò di non darlo a vedere, non voleva passare per la donna che si offendeva con nulla, non poteva fare la rompipalle di turno, o si sarebbe giocata la compagnia.
Steve, ormai preda dell’eccitamento causato dalla droga, mise la propria mano sulla coscia scoperta di lei, dato che la gonna era corta. Addison, al posto di allontanare le dita, aprì un po’ di più le gambe facendo salire ancora di più la stoffa, permettendogli di salire fino agli slip. Si era dimenticata quanto la cocaina rendesse tutto eccitante, tanto da iniziare a muovere la mano sull’inguine ormai indurito di Stephen coperto dai pantaloni.
Lui si fece più vicino e scostò il pizzo coordinato al reggiseno per raggiungere la sua entrata già umida. Eppure, l’elastico degli slip non gli permetteva di muovere le dita dentro di lei come avrebbe voluto, così strappò il tessuto per avere un rapido accesso, facendola arrabbiare.
«Fanculo Steve. Erano di Laperla» aveva cercato di chiudere le gambe, ma lui ormai aveva le dita intrappolate lì in mezzo, e sentire l’irrigidimento di lei lo spingeva a muovere la mano con più veemenza.
«Sssshhh Addie, stai zitta e lasciami divertire. In fondo sei qui per questo» e si fece spazio tra le gambe con forza, sapendo di avere facile accesso grazie all’eccitamento di lei che ormai sentiva sulle proprie dita.
Rhys, infastidito da quella scena ormai porno, era sbottato «Andate in camera e fatevela lì una scopata veloce, perché a noi di assistere a spettacolini di questo tipo non interessa affatto» parlò anche a nome di Colton che, seppur eccitato, annuì «E fate presto, perché tra quindici minuti passa l’auto per portarci a cena».
Steve non se la prese. Si alzò e tese la mano ad Addison che la afferrò per seguirlo. L’ultima cosa che Colton vide fu la mano dell’amico sollevare la gonna, tanto da permettergli di vedere tutta la parte più segreta di Addie mentre, contro la porta della sua camera, le strappava un gemito godurioso.
L’unica cosa che rimase nel salotto furono gli slip rotti di Addison e la bottiglia di Dom Pérignon che Rhys finì in quei quindici minuti.
 
Si strinse nel cappotto a doppiopetto, sistemandosi poi la sciarpa attorno al collo in modo che non rovinasse il colletto inamidato della camicia. Sorrise a una battuta idiota di Colton e si divertì ad ammirare il vapore prodotto da quell’emissione di fiato. Faceva veramente freddo, eppure andarsene in giro per le strade piene di gente non era poi così male. Doveva ammettere che la festa delle luci era davvero uno spettacolo mozzafiato di cui probabilmente avrebbe sentito la mancanza. Ripartire l’indomani sera alla volta degli Stati Uniti gli sarebbe dispiaciuto un po’.
Ogni angolo di Lione era preparato per stupire gli avventori di quei giorni con effetti luminosi. Statue che assomigliavano a palle di neve, giochi di luce montati nelle fontane e nei loro vapori. E ancora facciate di palazzi animate dalle luci proiettate ad arte e la ruota panoramica che cambiava colore e motivi a ogni corsa.
Per un simile spettacolo si lasciava entrare il freddo nelle ossa volentieri, anche se Rhys rimaneva poco convinto della cosa.
Non era il tipo da feste cittadine che ricordavano a tratti le sagre di paese con i prodotti tipici, ma non era nemmeno il tipo da locali in e discoteche. Era un giovane vecchio dai gusti raffinati che preferiva gli ambienti cui ormai era solito frequentare: eventi di beneficienza, cene e feste che richiedevano un determinato codice d’abbigliamento. La musica dal vivo e soffusa, bicchieri tintinnanti e sfarzo centellinato, coperto da sobria eleganza. Non voleva altro, quello era il mondo in cui era abituato a muoversi e lo faceva con un certo fascino, e questo gli bastava.
Era anche uno che non capiva certe tendenze, infatti non aveva condiviso la scelta del ristorante: il giapponese. Avevano scelto il più costoso e lussuoso della città, come se questo offrisse un pesce migliore degli altri; più fresco, più buono. Lui adorava la cucina giapponese, ma mal sopportava la gente che si affacciava al genere per pura moda, come Stephen, che aveva scelto il ristorante perché era cool. Essendo in Francia, avrebbe preferito cenare in un buon ristorante tipico che gli permettesse di provare le prelibatezze tipiche della nazione, non del pesce crudo. Eppure il suo disappunto non gli aveva impedito di gustarsi dell’ottimo sushi, non aveva fatto storie, non gli piaceva mettere zizzania ed era inutile lamentarsi della scelta con due strafatti.
Si girò al rumore sfalsato dei tacchi di Addie sull’asfalto. Si vedeva che con quell’ambiente non c’entrava nulla. La ruota panoramica sullo sfondo e le luci a circondarla, al contrario delle altre donne lì intorno, che indossavano scarpe comode e poco femminili e giacconi spessi e per nulla eleganti, Addison vestiva un cappotto con inserti di pelliccia e scarpe con il tacco dodici, talmente sottile che a volte scompariva alla vista. O si infilava tra i ciottoli, come in quel caso.
La lasciò a imprecare il giusto, il tempo necessario per farle dare spettacolo e farla vergognare, poi la aiutò prendendo la scarpa, esercitando una pressione sul tacco e sfilandolo dalle fessure. Mise la decolleté sull’asfalto assicurandosi che il tacco fosse saldo sul suolo e la tenne ferma finché Addison non la calzò.
Una volta in piedi si sistemò i vestiti in modo che fossero impeccabili come sempre, non gli piacevano i tessuti sgualciti. Addie, colpita dal gesto, si sperticò in ringraziamenti eccessivi, tanto che gli promise una notte che non avrebbe mai dimenticato, e che se solo lui avesse voluto gliene avrebbe concesse molte altre.
Ma lo sguardo di Rhys era ben oltre il viso di Addison, era fisso sulla piccola folla in coda sotto la ruota panoramica, c’era qualcosa ad attrarlo, eppure non capiva cosa. La poca affluenza l’aveva colpito poco prima di abbassarsi per aiutare la sua amica, dato che di solito le persone in fila per salire e ammirare la festa nella sua completezza erano sempre molte. Guardò l’ora, erano le undici e quarantacinque circa, di lì a pochi minuti ci sarebbe stato lo spettacolo di luci nella piazza principale della città, ecco la scarsa affluenza.
«Bravo Rhys, guardati in giro e cerca di farti spezzare il cuore da qualche giovane sconosciuta» Colton gli mise un braccio intorno alla spalla con fare amichevole.
Pensava che l’amico potesse essere sulla strada giusta, poi seguì il suo sguardo e vide qualcosa di bizzarro e invitante al principio della ruota panoramica e decise di metterci lo zampino.
«Ragazzi» urlò al gruppo «Andiamo a farci un giro!».
Non attese risposta e si mosse verso l’esigua fila davanti all’attrazione, comprò i biglietti per tutti e si fece spazio tra le persone che, disturbate da quel comportamento, si lamentarono.
Colton si giustificò dicendo che ad attenderli davanti c’erano delle amiche, peccato che lo fece in inglese quando avrebbe dovuto scusarsi in francese.
 
Pemberley stava parlottando con Silene, quando fu distratta dal vociare delle persone dietro di lei. L’amica però non le permise di distogliere l’attenzione da ciò che stavano per dare, dato che Sil aveva abbandonato gli amici per poter salire: era da tempo che aspettava quel momento.
La bionda scosse la folta chioma ed entrò nella cabina prima dell’amica. Fu questione di pochi secondi, il tempo di accomodarsi, che successe tutto.
Una volta seduta fissò un tizio dai capelli neri dare dei soldi al ragazzo che faceva salire le persone nelle varie cabine, spingere poi un ragazzo dai capelli chiari in quella da lei occupata, prendere in disparte Silene e l’addetto alla ruota chiudere la porticina della loro cabina, facendo accomodare Silene in quella dopo con il tizio moro che aveva avviato tutto quello.
Sbatté le palpebre ripetutamente, cercando di togliersi da davanti gli occhi le immagini di poco prima. Cos’era successo?
Lo sconosciuto si schiarì la voce, spaesato quanto lei, e le sorrise cordiale. Pemberley lo fissò per studiarlo. Aveva i capelli di una tonalità scura di biondo, non erano corti ma nemmeno lunghi, ed erano tutti sistemati all’indietro, anche se qualche ciocca si ribellava alla cera e si ergeva più dritta di altre. Gli occhi erano chiari e glaciali, un particolarità che non le piaceva molto, dato che risultavano freddi e impenetrabili. Il naso era dritto e grazioso, in linea con i lineamenti del viso. Ma a colpirla fu il sorriso: bianco e dai denti perfetti.
Se aveva pensato che il moro non fosse male, per quel poco che l’aveva visto, doveva dire che lo sconosciuto era davvero un bel ragazzo, non male come colpo di fortuna.
Era elegante e aggraziato, ed era tremendamente affascinante e conscio di questo suo aspetto e della sua bellezza.
Di fatto, quando realizzò tutto quello, si sentì piccola e insignificante e un po’ rozza; nonostante sua mamma l’avesse cresciuta come una piccola duchessa, da quando aveva preso le distanze dal suo passato di ragazza perfetta si era rivelata più normale delle altre donne esistenti. In quel momento si vergognò della sua tinta bionda, dei capelli che con quel clima non le stavano a posto e ringraziò di avere nella borsa una cuffia con cui camuffarli, anche se indossarla al chiuso non sarebbe stato l’ideale per dimostrare di non essere una stupida totale.
Rhys, invece, era affascinato da ciò che vedeva.
Era la prima ragazza dopo tempo che non aveva attaccato subito bottone, anzi, lo studiava quasi come se fosse sbagliato, un alieno sulla terra. La ragazza era sì piacente, ma a colpirlo fu la chioma. Non pensava che una donna potesse avere così tanti capelli e così lunghi. Capì che a catturare il suo sguardo, qualche minuto prima, erano stati proprio i capelli della sconosciuta che gli sedeva di fronte. Sembravano soffici e profumati.
Lei aveva gli zigomi alti, cosa che si accentuava quando sorrideva, aveva notato; il naso era piccolo e lasciava spazio a una bella bocca a cuore, quasi della stessa forma del viso.
Inoltre aveva una certa compostezza, e quello gli fece piacere. Indossava un cappotto blu con vistosi bottoni oro e una cintura in vita, le gambe erano fasciate da collant scuri e spessi e ai piedi calzava stivali bassi da cavallerizza. La cosa che più lo colpì fu il portamento che la contraddistingueva: le spalle dritte, il mento alto le mani in grembo e le gambe unite ma non accavallate. Non era come tutte le ragazze che si vedevano per strada e non era nemmeno una di quelle con la puzza sotto il naso che frequentava di solito; quella ragazza sembrava vivere in un mondo tutto suo, e gli piaceva. Forse aveva trovato la preda perfetta per attuare quella specie di piano di cui aveva parlato prima con gli amici.
Ma in che situazione l’aveva cacciato Colton? Poteva aver intravisto l’interesse di lui prima che Rhys se ne accorgesse, ma come poteva pensare che chiuderlo lì dentro con una sconosciuta potesse aiutarlo? Aveva l’aria di essere straniera, e di sicuro era intimorita.
Sorrise in modo affabile «Ciao. Io mi chiamo Rhys, e mi scuso per questo errore, non so cosa sia successo»
Dio, che situazione imbarazzante, non gli succedeva dal terzo anno di liceo. «E ti chiedo perdono per il mio pessimo francese».
Sua madre, dopo che Mitchell era sparito, aveva deciso di impiegare il tempo del figlio in modo utile, istruendolo il più possibile. Gli aveva fatto frequentare il corso di francese, poi quello di spagnolo, infine quello di giapponese. Aveva così un vocabolario ridotto di ogni lingua, e sapeva esprimere i concetti base, difatti aveva sbagliato un sacco di parole e verbi in quelle poche frasi, lo sapeva.
La ragazza rise divertita e  il suono riempì la cabina in modo piacevole, avvolgendoli e rompendo finalmente il ghiaccio «Piacere, io sono Pemberley e sì, nonostante io non sia francese, ma avendolo studiato, posso dirti che il tuo fa un po’ pena».
Gli allungò la mano e Rhys ridacchiò, felice di essere uscito da una situazione imbarazzante e di constatare che Pemberley parlava fluentemente la sua stessa lingua. Afferrò la mano e la strinse in modo saldo, come gli avevano insegnato a fare.
«Pemberley? Bel nome. Sei inglese?» gli venne spontaneo, visto e considerato il modo in cui si chiamava.
Lei storse il naso «Nah, americana. Non si sente che abbiamo lo stesso accento strascicato?» scosse il capo, divertita «Però mia madre voleva per me un nome originale. In quel periodo si era ostinata con Orgoglio e Pregiudizio ed eccomi qui, una persona che si chiama come una tenuta».
La smorfia che accompagnò quelle parole lo fece ridere ancor di più.
«Sembra che la cosa non ti piaccia, invece io trovo che sia davvero azzeccato. Inoltre è quasi regale, dovresti esserne fiera»
«Diciamo che poteva andarmi peggio. Ti immagini se mi fossi chiamata Netherfield? Meglio Pemberley» convenne infine. Si stupì di quanto fosse facile aprirsi e ridere con quel ragazzo, non le capitava da tempo. Più o meno dal suo ultimo flirt, avvenuto un paio d’anni prima. Non si ricordava quanto fosse bello poter parlare e civettare nella giusta misura con un uomo.
Rhys si piegò in avanti, poggiando i gomiti sulle cosce «Decisamente» poi unì le mani «Allora Pemberley, di dove sei di preciso?».
La curiosità a riguardo era sincera, una volta tanto. Era abituato a fare domande per ammaliare chi aveva davanti, fare in modo che lo amassero, venerassero e temessero. Era un pezzo grosso degli affari di New York e doveva fare di tutto per mantenere alto il proprio prestigio. Invece davanti a una semplice sconosciuta voleva saperne solo di più. Voleva scoprirla e ricordarla. Quel misto di sicurezza e spontaneità, portamento e quieta esuberanza l’aveva colpito.
«Ah, Rhys, sei un tipo curioso, vedo» appoggiò la schiena contro la parete trasparente dietro di sé «Ma io lo sono di più. Soddisfa tu per primo i miei desideri di sapere qualcosa in più su di te, e io farò lo stesso. Quindi… Di dove sei di preciso?».
Com’era riuscito a farsi mettere con le spalle al muro da una ragazza all’apparenza così indifesa, nonostante vedesse in lei tante doti positive? E perché era pronto a cedere a quel debole ricatto?
Semplice, l’attrazione. Questa smuoveva mari e monti, era facile per lei far breccia in un muro costruito male dietro cui si nascondeva un uomo così tutto d’un pezzo.
«Dire New York è riduttivo, io appartengo all’Upper est side».
Pemberley rise divertita. Non poteva essere possibile, il mondo era davvero piccolo. In effetti, a ben guardarlo, aveva una faccia conosciuta. Chissà, magari l’aveva incontrato da qualche parte e nemmeno se ne era accorta.
«Perché ridi? Lo trovi presuntuoso, vero?» mise le mani in tasca e indietreggiò, in segno di difesa. Mettere distanza tra di lui e la persona che lo stava mettendo alla prova era il miglior modo per far capire che non stava più scherzando.
«No, rido perché conosco bene quei posti. Io vivo a Princeton, ma nell’Upper east side ci accompagno i miei, qualche volta… Quando ci sono feste di beneficienza, sai, quelle cose lì».
Interessante, tanto che Rhys rilassò le spalle, di nuovo tranquillo. Non gli piaceva fare la figura dell’arrogante quando non ce n’era bisogno; o peggio, dell’insicuro.
«Sono i tipi di eventi a cui presenzio. Sempre» sottolineò l’ultima parola come per farle capire che forse c’era stata la possibilità di vedersi in passato e che, forse, ci sarebbe stata anche quella di vedersi in futuro. «Posso chiederti il cognome?»
«Voight» sussurrò quasi imbarazzata Pemberley, perché scoprire tutte le carte non le piaceva affatto. Temeva sempre che qualcuno potesse sapere troppo su di lei, e giudicarla prima ancora di poterla conoscere.
«Tuo padre è Terrence, Terrence Voight?» chiese interessato. Si ricordava di lui e la moglie. Terrence, prima di andare in pensione, aveva fatto il contabile per uno studio associato di avvocati molto famoso a Manhattan, mentre Felicia era stata una meravigliosa docente all’università di New York, che in quegli ultimi anni si era dedicata molto all’associazione benefica Lost Children, occupandosi così di tutti gli eventi di beneficienza che si tenevano in città e nei suoi dintorni, volti a raccogliere fondi per i bambini malati terminali, con un occhio di riguardo a quelli orfani.
Pem annuì in silenzio; prima di parlare voleva sapere quanto conosceva di lei e della sua famiglia. Improvvisamente quella cabina era diventata piccola e priva d’aria a sufficienza per farla respirare a dovere.
«Conosco per sentito dire la tua famiglia, tua mamma è un membro della Lost Children, e la mia società è una dei fondatori dell’associazione. Non ho mai parlato con loro, ma li conosco di fama, so che tutti vi apprezzano».
Era difficile non ricordarsi dei Voight: non avevano mai fatto parte della New York bene –  non di diritto, almeno – ma erano a tutti gli eventi più importanti. Terrence aveva lavorato per uno dei pezzi grossi della grande mela, e quindi conosceva molte persone in quell’ambiente patinato. Sapeva che non avevano un conto cospicuo, o ridicolmente senza fondo come il suo, ma di certo non erano solo benestanti. I Voight erano l’anello di congiunzione tra i potenti e i semplici borghesi che popolavano l’America. Come Pemberley, vivevano in un mondo tutto loro, costruito su loro misura, dove erano il centro di tutto.
Pemberley tirò un sospiro di sollievo. Quello che Rhys sapeva si limitava al lato più superficiale della sua famiglia, e questo non poteva che farle piacere. Odiava quella privazione di privacy che subentrava una volta che si diventava un nome da mormorare nel giro giusto a New York. Se uno dei tanti rampolli usciva con una persona per più di due volte, veniva segnalato sul giornale locale o qualche sito di gossip, senza che l’interessato ne fosse a conoscenza, e non solo dell’articolo, ma di avere un partner.
Per fortuna i Voight non erano tanto rilevanti da meritare quest’attenzione. In quel momento Pem capì l’importanza di vivere a Princeton, abbastanza vicini da non essere tagliati fuori, ma abbastanza lontani da non far parte di quel mondo che affascinava ma, in realtà, annientava tutte le persone che ne facevano parte. Gliel’avevano sempre detto che la loro era stata una scelta ponderata, ma lei non aveva ma concepito il perché.
A Manhattan era tutta una questione di soldi, potere e prestigio, e a qualsiasi mezzo fosse utile per arrivarvi; i Voight invece avevano incentrato la propria vita sul lavoro pulito e sui benefici che si potevano trarre da esso, nulla più.
Dopo aver tirato un sospiro di sollievo, si concentrò sulle parole di Rhys. «E, se posso sapere, qual è la tua società? Penso di conoscerle tutte quelle che hanno fondato la Lost Children».
Sua mamma non avrebbe mai creduto a quelle parole, era il colmo. Aveva tentato per anni di presentarle i pargoli d’oro che facevano parte dell’associazione e lei si era sempre tirata indietro con le più fantasiose scuse, e ora, a causa di un incidente alquanto bizzarro, stava fraternizzando con uno di loro.
«La Hewitt Corporation. Conosci?»
Pemberley spalancò gli occhi «Sei il padrone della HewittCorp?! Mio Dio, ora mi sento inadatta anche a respirare la tua stessa aria» lo fissò quasi intimorita «Tu non appartieni a New York, tu sei New york!».
Gli occhi di Rhys si piegarono verso il basso, tristi. Era la prima volta che non gli piaceva il risultato di quella rivelazione, non voleva incutere timore nella persona che aveva davanti, anzi.
«Ti prego, così mi rattristi. Sono una persona come tante»
«Ma tra le mani hai mezza America. O mezzo mondo» convenne Pemberley, un po’ meno intimorita.
Ci fu un momento di silenzio imbarazzante, dove entrambi concentrarono lo sguardo fuori, sullo spettacolo che imperversava sui muri dei palazzi, nelle fontane e nel cielo. La gente formava un fiume che, lento, imperversava per le strade e sui ponti. Un’immagine che nessuno dei due avrebbe dimenticato.
Poco dopo Rhys sogghignò involontariamente.
«Cosa c’è?» Pemberley staccò a fatica gli occhi dalle immagini con cui si stava riempiendo la memoria, doveva ringraziare Silene per la bella esperienza.
«Stavo pensando a prima» spostò lento lo sguardo su di lei, cercando di catalizzarne l’attenzione «Quando ho visto qualcosa di strano qui, in coda, e la cosa ha portato me e le persone in mia compagnia a salire».
«E cosa c’è di strano?» era curiosa, non capiva il nesso con la sua presenza in quella cabina.
«Quello che mi ha colpito erano i tuoi capelli, l’ho capito ora. Sono veramente tanti!» e rise. Voleva dimenticarsi di essere il padrone della HewittCorp, di avere ruoli e obblighi, voleva solo essere una persona come tante, libera di fare quello che più gli piaceva, almeno per una sera.
Pemberley fece una smorfia «Lo so, e sono pure difficili da gestire. Li tengo lunghi perché corti sarebbero impossibili».
Tornò a fissare le luci fuori, mentre la ruota li riportava piano verso il basso.
«No, così lunghi sono belli, ti stanno bene. Con i capelli corti perderesti la tua particolarità, suppongo» non sapeva come gestire al meglio complimenti sui capelli, ma non era facile quando di una ragazza ti colpivano quelli per primi rispetto al resto.
Un altro momento di silenzio a frapporsi tra loro.
«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».
E lo credeva davvero. Il buio non era solo fonte di paura o portava con sé le cose peggiori, l’oscurità nascondeva le cose migliori, cullandole con le ombre e tenendole segrete agli occhi di chi non voleva vedere, era il silenzio di chi sapeva custodire i segreti nel migliore dei modi. Bastava una piccola punta di luce, una scintilla, per illuminare il minimo e vedere un po’ di più, un po’ meglio, scoprire solo parte di quello che circondava e cullava le persone. Davvero custodiva i segreti meglio di un amico, c’era sempre e, volendolo, poteva essere accantonato, accendendo la luce.
Un lusso che questa non poteva garantirti. Non sempre.
Sì, il buio la rendeva tranquilla, era la costante che vedeva nella sua vita. L’elemento che la rasserenava con la sola presenza, anche se timida.
La ruota stava compiendo il loro giro, smettendo di far sovrastare loro Lione e la sua festa.
Parlarono poco di lì alla fine, rapiti dalla magia degli spettacoli.
Fu solo quando tornarono con i piedi per terra che si guardarono straniti, quasi imbarazzati. Si erano sentiti protetti in quella cabina, lontano da tutti; ora dovevano condividersi agli occhi di un mondo famelico a cui non erano preparati.
Si allontanarono dalla struttura senza parlarsi.
«Io, beh, penso di aspettare la mia amica, dovrebbe scendere a breve…» non si era ricordata che Silene era in compagnia degli amici di Rhys.
Gli occhi chiari erano diventati d’improvviso duri, come se non volesse accettare quel distacco. Facevano paura tanto erano freddi, così diversi da quelli di Nathan.
Era la prima volta che il pensiero corse a lui, dato che per Pemberley era spontaneo paragonare al proprio ex ragazzo ogni essere vivente. E, dopo tempo immemore, quel pensiero era diventato scomodo e non doloroso, un ostacolo che riusciva a superare senza difficoltà. Rhys l’aveva colpita.
Lui abbassò lo sguardo. Tirò un sospiro arreso. D’improvviso raddrizzò le spalle, alzò il viso e tornò a essere il giovane uomo sorridente e sicuro che era stata sulla ruota panoramica.
Estrasse la mano dalla tasca del cappotto blu che faceva risaltare gli occhi azzurri, e con un sorriso accennato colmo di speranza si rivolse a Pem, la mano tesa verso di lei con il palmo rivolto verso l’alto in un tacito invito.
«Vuoi illuminare ancora un po’ la notte con me?».
Pemberley sgranò gli occhi e arrossì, una cosa che non le capitava da anni.
Una proposta così diretta e differente dalle altre non le era mai stata posta. Come poteva aver colto il segno in poco tempo? Possibile che Lione avesse compiuto la magia, il miracolo?
Si voltò a guardare dubbiosa la ruota, come se potesse vedere comparire Silene da un momento all’altro.
«Solo tu e io» la incalzò.
Si girò verso di lui, studiandolo.
Non ebbe bisogno d’altro, in quel momento, per accettare.
Posò la mano sulla sua e, per la prima volta in quella serata, non sentì freddo.

* * *

Buonasera! eccomi qui con il secondo capitolo di questa storia.
Lo so che magari aspettavate dei chiarimenti sul passato, capire cosa ne è stato del rapporto tra Pem e Nathan, ma per quello c'è tempo. In questo capitolo ho voluto presentarvi la situazione nuova, e sotto quali sembianze si presenta.
Rhys che, ci tengo a sottolineare, non è bipolare. E' molto rigido anzi, ma com Pem, una totale sconosciuta, ha deciso di rilassarsi un attimo. Stessa scelta, tra l'altro, che ha deciso di fare lei: godere della compagnia dell'altra persona con un po' di spensieratezza, questo perchè forse sono stanchi di adempiere sempre ai propri doveri.
Ma prima o poi giuro che tutti questi lati, verranno fuori.
Mi scuso per la scena iniziale un po' forte, me ne rendo conto, ma spero che possiate apprezzarla, ho cercato di immaginare il suo mondo e, quindi, descriverlo.
Lo so che ho tagliato il capitolo su un punto interessante, ma ho preferito gestire le cose così, anche perchè la scena dopo mi premeva in particolar modo e trovo che all'inizio del terzo capitolo ci stia bene.
Altra precisazione: la festa delle luci di Lione esiste e vi lascio un link per aver un'idea a riguardo. ah si, si svolge nei giorni in cui ho scelto di ambientare là l'occasione, ho cercato di essere fedele alla festa, ecco. qui il video: Fête des lumières
Inoltre ringrazio ale per il video trailer della storia che io adoro: lei ha un canale youtube: TheCarnivalefp e una pagina fb: La vida es un Carnaval
Io, infine, vi lascio il link al mio gruppo: Love Doses,
Vi ringrazio per l'accoglienza per la storia, spero che questo secondo capitolo sia stato di vostro gradimento.
A presto, Cris.

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Capitolo 3
*** Grandma said ***




Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Capitolo 3

Grandma said

L’aria odorava di buono e inaspettato, adorava il profumo delle esperienze che doveva ancora provare.
Fermarsi a riflettere, però, era deleterio. Capire in che giorno la tua vita era cambiata, e guardarlo a posteriori era come rivivere a più riprese quel momento e non potere far nulla. Non si poteva cambiare ciò che era stato, era troppo tardi.
Eppure non riusciva a pentirsi di ciò che era successo, perché la sua vita, nonostante tutto, era bella così. Non perfetta, ma appagante, anche se le mancava qualcosa. Pemberley si poneva sempre dei traguardi, perché se non si avevano scopi da perseguire e raggiungere non si viveva più. Ogni giorno era una scoperta e stupirsi delle piccole cose era il modo migliore per godere appieno di ciò che veniva offerto a una persona, e lei lo sapeva bene.
Ecco perché aveva accantonato i pensieri che riguardavano la sua vita oltreoceano per abbandonarsi alla compagnia di un ragazzo sconosciuto. Avrebbe ricordato per sempre il suo profumo, forse una colonia costosa, come l’odore della novità.
Si avviarono a passo lento per le strade illuminate e festanti, mentre Pemberley digitava un messaggio a Silene.
 
Faccio un giro con Rhys, il ragazzo che era con me nella cabina della ruota. Non ti preoccupare, tutto ok, è carino! Ci vediamo in Hotel, a dopo.
E quello secondo lei era un messaggio esauriente riguardo le circostanze?! Se ne stava andando con uno sconosciuto chissà dove! Solo lei vedeva la gravità della situazione?
Sospirò sconsolata, in fondo era quello che si augurava per lei: passare dei giorni divertenti e magari sperare in qualche fortuito incontro. Per una volta, sembrava che Pemberley le avesse dato ascolto.
«Cosa succede?» Colton le si fece vicino. Non era male fisicamente a suo avviso, ma era il fascino che contribuiva a renderlo più bello agli occhi delle donne. Purtroppo però non ai suoi. Lui, nel tentativo di conquistarla, aveva esagerato, passando così per il classico uomo pieno di soldi e di sé da non lasciare posto ad altro se non al suo ego.
In quel giro sulla ruota panoramica aveva parlato dei suoi viaggi, delle sue case, della sua barca di quindici metri e del suo stipendio. Tutti argomenti che non avevano fatto presa su Silene, che puntava più alla sostanza rispetto all’apparenza.
Inoltre era urtata dagli altri due amici che, quasi posseduti, si toccavano in modo spudorato e indecente. Era quello il modo di comportarsi in pubblico?
«Succede che la mia amica ha deciso di fare un giro per Lione con il tuo amico» l’ultima parte della frase venne sputata come un’offesa atta a ferirlo e mortificarlo.
Colton, al posto di sentirsi oltraggiato, scivolò sulla panca per avvicinarsi ulteriormente alla ragazza, sulla faccia il ghigno soddisfatto e seducente di chi aveva la vittoria in tasca.
«Quindi questo vuol dire che hai tempo per stare un po’ con me…» non era nemmeno una domanda, solo la conclusione di una persona troppo sicura delle sue possibilità di riuscita.
Silene spostò il braccio che le aveva posto dietro le spalle e gli rispose a tono «Significa, caro il mio presuntuoso Colton, che appena sarò fuori di qua – a breve, visto che siamo in dirittura d’arrivo – tornerò dai miei amici, perché di te ne ho avuto abbastanza».
Lo scansò con grazia e decisione, giusto per essere chiara ma non scortese, e tornò a guardare fuori. Stava odiando il destino per il brutto tiro mancino che le aveva giocato. Perché a lei tre pazzi fuori controllo mentre all’amica un bel ragazzo con cui proseguire la serata?
Anche lei era da un po’ che non aveva un ragazzo accanto, non solo Pemberley. Poi sorrise, ricordandosi che lei non aveva bisogno di quella pausa dalla realtà, mentre l’amica sì.
Abbandonò al volo la cabina, salutando quegli estranei e ringraziandoli – con un velo di ironia – per la compagnia che le avevano riservato.
Tornò dai suoi vecchi colleghi con un sorriso e una nuova speranza nel cuore riguardo Pemberley; non era Jacques, ma era comunque un buon inizio.
 
Avevano camminato seguendo la massa per le vie della città. Palazzi che diventavano quadri o facce che si muovevano, fontane che si coloravano e mostravano le proiezioni di persone in movimento, tutto era diventato luce e azione, lasciando la gente senza fiato per l’emozione.
Parlando del più e del meno, ma non sbilanciandosi mai troppo, erano arrivati in una parte imprecisata della città. I giochi di luce si erano fatti radi, così come la fiumana di persone che riempiva ogni viale. La vista era meno spettacolare, ma le orecchie godevano di quel rinnovato silenzio e dell’inaspettata tranquillità, una bella differenza tra le musiche e il chiacchiericcio della vie principali.
«Dove siamo finiti?» mormorò divertita Pemberley, rendendosi conto che non aveva mai visto una simile piazza o strada, nemmeno di giorno.
Rhys si guardò intorno, spaesato. «Non lo so».
Una folata di vento più gelida delle altre fece rabbrividire Pemberley, costringendola a rintanare la faccia nella sciarpa e a stringere il cappotto all’altezza del collo per non lasciar passare il freddo. Rhys fece la stessa identica cosa.
Si guardarono nello stesso momento e scoppiarono a ridere per la casualità di quei gesti.
Pemberley guardò l’ora, d’improvviso il cuore sprofondò nello stomaco. Erano quasi le due e, contando il fuso orario, a New York mancava qualche minuto alle nove, non aveva molto tempo per fare la chiamata a cui non avrebbe rinunciato per nessun motivo.
«Devi andare?» era cortese, non freddo come l’aria che li aveva colti prima, ma distaccato come la mezza stagione che raramente si mostrava per come doveva essere davvero. Rhys aveva la stessa tendenza a nascondersi dietro una bella visuale, facendo dimenticare quanto in realtà, come le foglie rosse e arancio che riempivano i prati di Central Park, fosse arido e secco.
L’impronta che gli avevano dato i suoi genitori, con il loro essere distanti. I precetti che aveva fatto suoi come se fossero delle vere e proprie ragioni di vita. Le uniche certezze che conosceva e che applicava con facilità a ogni campo da lui conosciuto.
Il successo del suo potere, l’aridità della sua vita; una cosa che avrebbe scoperto solo con l’aiuto di Pemberley.
«Sì. Non è a causa della tua compagnia, credimi, è che non voglio far preoccupare Silene, e devo fare una telefonata importante» cercò di scusarsi, come se gli dovesse realmente qualcosa.
Lui sembrò prenderla meglio del previsto. Anche lui viveva di telefonate importanti, e vedere quanto la ragazza gli somigliasse riguardo a puntigliosità lo stuzzicava, oltre che fargli molto piacere.
«Allora andiamo. Dove alloggi? Ti accompagno»  girò le spalle alla piazza illuminata di arancio senza quasi prestarle attenzione.
Pemberley, invece, si riempì gli occhi di quella calma colorata, memorizzò ogni cerchio di luce che ricordava il colore delle foglie che ricoprivano il lastricato e, mentalmente, salutò tutto quello. Sapeva che non avrebbe più avuto occasione di rivederla, come sapeva di non aver più occasioni per passare altro tempo in compagnia di Rhys. Le cose belle finivano sempre, e lo facevano prima di tutte le altre; era parte della loro natura essere sfuggenti, durare il tempo di un battito per morire nella loro imperfetta eternità.
«Non ce n’è bisogno, davvero». Alloggiava in un semplicissimo hotel, un tre stelle dall’aria un po’ fatiscente. Un palazzo degli anni trenta lasciato in balìa dell’usura del tempo. Non voleva che il padrone di mezza New York vedesse quanto fosse stata modesta la sua scelta. «Non voglio farti allungare la strada del ritorno».
Ma lui non demorse. Sorrise schietto e genuino prima di rivolgerle di nuovo la parola «Non dire sciocchezze, non lascerei mai una ragazza da sola in giro per una città sconosciuta. In special modo se ha accettato la mia compagnia qualche ora fa» e le porse il braccio.
Era colpita: sentì il cuore accelerare i battiti. Non era da tutti imporsi senza davvero darlo a vedere come aveva fatto lui, mettere gli altri nella condizione di accettare il proprio volere senza che passasse per imposizione. Si vedeva che conosceva a fondo le buone maniere, studiate nei collegi più severi ed esclusivi del paese e, inoltre, aveva un fascino naturale. Dei modi di fare quasi impeccabili, se non fossero stati viziati dalla sua genuinità, così insiti da essere ordinari, per lui.
Modi di fare che non facevano ostaggi, solo vittime; e Pemberley sapeva di star per cadere nella trappola, ma non riusciva a resistere a Rhys, non quella sera. Non voleva.
«Sono vicino alla Soana, alla fine di Rue Saint-Georges, Hotel Des Artists» disse lei cingendo il braccio che le era stato offerto. Trovò confortante il caldo che proveniva dal corpo di Rhys, una piccola tentazione a cui fece fatica a non rispondere. Si domandò come baciasse, a come fosse sotto le coperte, a quanto ci tenesse a far provare eccitazione alla propria partner.
«Il nome è grazioso, ma l’Hotel non l’ho mai sentito nominare. Sarà perché alloggio un po’ più su e di Lione non so nulla, in pratica» alzò le spalle, allontanando quella sensazione di ignoranza che New York non gli dava.
Era da un po’ di anni che non faceva sesso Pemberley, e il pensiero di prima nacque spontaneo. Due anni, per la precisione, da quando aveva smesso di uscire con Paul, il bancario sfigato che in realtà non le era mai interessato.
«E dove alloggi?»
«Al Villa Florentine».
Era chiaro, aveva scelto l’albergo più lussuoso della città, dove peccare non era reato. Tutto ti era concesso, se pagavi, anche l’amore. Ma era così ovunque, nel mondo, non solo negli hotel a cinque stelle.
Cercò di tornare alla realtà, dimenticando i pensieri impuri per dedicarsi alla limpidezza della sua compagnia.
«Dici che ci rivedremo a New York?». Porre quella domanda l’aveva fatto sentire un ragazzino indifeso. Imputò la colpa di quella sua debolezza alle luci che, riflesse nell’acqua della Soana, uno dei due fiumi che divideva Lione, piano si spegnevano sotto i loro occhi, lasciandoli disarmati e fragili nella cecità del buio da cui erano circondati. Quell’oscuro in cui si erano avvicinati per sentirsi meno soli.
Eppure, a Rhys non sarebbe dispiaciuto. Aveva riscoperto l’arte di corteggiare una donna per conquistarla e non sedurla per poi abbandonarla. Era stato il suo orgasmo più soddisfacente di quegli ultimi anni, perché era stato mentale e non fisico.
«Penso che dipenda da noi, no?». Sorrise imbarazzata «Mi hai fatto venire in mente una cosa. Mia nonna diceva: “Non fare in modo che ti noti subito, fa’ in modo che si ricordi di te poi».
Continuò allontanandosi da lui, in cerca del panorama. «Non pensi si adatti alla situazione? Dipende tutto da questo. Mi hai notata e basta, o ti ricorderai di me?!» si appoggiò alla balaustra di spalle, e Rhys notò che ormai l’unica cosa a creare riverbero nel fiume era la luna e qualche pallida luce che illuminava la camminata da loro percorsa. Fissò il profilo di Pemberley e, per la prima volta, si accorse che i suoi occhi brillavano più di tutte le luci dell’intera festa.
Si avvicinò incuriosito. Suo nonna le aveva detto una cosa sensata, ma la parte che lo stupì fu quella in cui Pem la fece sua. Quanti nipoti ascoltavano davvero i consigli dei nonni?
«Il mio Hotel è là, in fondo alla via dietro le tue spalle».
Ma Rhys non ascoltava più, si era avvicinato attratto dall’argento che le incorniciava la pelle, dalle labbra piccole e carnose che nel buio erano diventate scure, color della carne diventata preda. Un richiamo in cui non si poteva evitare di affondare i denti.
Mise le mani ai lati del corpo piccolo di lei, delineandone i confini con una piccola distanza. Era più alta della media delle donne normali, ma era sempre lui a sovrastare tutti dal suo metro e novanta abbondante.
Lei si accorse della sua presenza e voltò il viso trovando gli occhi di lui più vicini di quel che pensasse. Il battito accelerò, ma decise di non darlo a vedere, ostentando una sicurezza che non aveva.
«Sta a te. A quanto farai per essere ricordata o solo notata» non c’era malizia nel suo tono, era solo serio, come se fosse stato sul punto di chiudere un affare importante e avesse messo il cliente alle strette, lasciando a lui la decisione.
Pemberley tolse le mani dal muretto dietro di sé e le posò sul bavero del cappotto, facendole scorre su quella lana di ottima qualità. Si protese sulle punte, mise le mani fredde sul collo di lui per avvicinarlo a sé e lo baciò. Un bacio languido, irruento e casto come poteva essere Pemberley. Un bacio potente, che avrebbe lasciato strascichi a Lione come nelle loro vite.
Rhys non si aspettava una simile risposta, ma replicò a dovere, contento di quello che stava succedendo. Le strinse la vita e si abbassò per permetterle di avere un facile accesso alla sua bocca.
Non fu un bacio lungo, perché a Rhys non piaceva la sensazione umida che lasciano i baci prolungati, ma aveva apprezzato ciò che gli era stato offerto. Qualcosa di inaspettato, come lei.
Quando Pemberley tornò con i piedi per terra e si separò da lui, frugò nella borsa. Ne estrasse una biro e un’agenda, scarabocchiò qualcosa su una pagina pulita, infine piegò il foglio e glielo porse.
«La prossima mossa è in mano tua Iron Man, sta a te decidere se con questo bacio mi sono fatta ricordare, o solo notare» disse mentre si allontanava da lui, ancora basito per l’imprevedibilità della ragazza. si stava distaccando da lui e non se ne era nemmeno accorto.
«Iron Man?» non capiva.
«Non sei un multimilionario potente e un po’ cinico, almeno all’apparenza?!» rispose lei divertita.
Annuì poco convinto.
«E allora sei come Tony Stark, o Iron Man. Sono la stessa persona».
Girò le spalle e si diresse verso le uniche luci accese nella piccola via, dove c’era l’albergo. La camminata sicura e sinuosa e una mano che si muoveva nell’aria, salutandolo appena.
Non sapeva il nome della nonna di Pemberley, non sapeva nemmeno se fosse ancora in vita, ma era a conoscenza di una cosa: le parole che aveva detto alla nipote erano vere, e lui si era ritrovato invischiato in quella semplice, quanto complicata, teoria.
Lione non era così facile da dimenticare come pensava. Credeva di averla solo notata, invece, l’avrebbe ricordata per lungo tempo. Forse per sempre.
 
Dicembre, con i giorni forsennati che lo contraddistinguevano, era volato come il sussurro di una frase nel vento, lasciando il posto allo scarno gennaio, dove tutto sembrava meno magico, meno illuminato e ancor più frenetico. Le luminarie natalizie erano sparite, riposte chissà dove per la prossima festività, lasciando il posto alle scritte dei saldi che, per quanto invogliassero a comprare, dell’atmosfera che si liberava a Natale non avevano nulla, lasciando nell’animo delle persone un vuoto che si sarebbe riempito con il primo germogliare dei fiori a Central park. Gennaio si era portato via tutto: le luci, gli odori di zenzero e cannella, i regali, le feste e, con esse, i buoni propositi.
Pemberley, nella solita pausa pranzo, si era incontrata con Silene. Non lavoravano propriamente vicine, ma Silene, dall’alto del suo nuovo titolo di associata a un vecchio studio legale, poteva permettersi di staccare quando meglio credeva e, dato che Pemberley da più di un mese a quella parte aveva imparato dopo anni a ritagliarsi degli spazi per sé, avevano deciso di approfittarne.
«Andiamo, sii positiva!» la ammonì l’amica, la persona che vedeva sempre gli aspetti buoni di ogni faccenda, anche la peggiore.
«Forse hai ragione tu» le sorrise appena, facendo rigirare la cannuccia nera nella bibita gassata troppo dolce ma che tanto le piaceva «In fondo ci siamo visti un paio di volte o poco più, stasera non sarà così importante, anche se sarà la prima cena».
Se Pemberley avesse ripensato a dicembre in quel momento, avrebbe strabuzzato gli occhi. Aveva lavorato come una dannata, con tutte le clienti alla ricerca dell’abito giusto proprio dopo Natale, a causa degli anelli ricevuti in dono. Il resto del tempo l’aveva trascorso in famiglia. I suoi e Naive, le cose più preziose che aveva. E, anche quell’anno, Nathan si era fatto notare per la sua assenza, ben più grande del pacco regalo che aveva fatto recapitare nel tardo pomeriggio della sera della Vigilia, puntuale come sempre. Nessuno aveva detto niente riguardo quella mancanza, ma i genitori la guardavano con un misto di pietà, compassione e astio che la rendevano sempre nervosa. Sapeva che quel tacito “te l’avevamo detto” era la parte più difficile da sopportare, nonostante la felicità di quella famiglia ritrovata fosse la cosa più importante per tutti loro, specialmente per Naive.
Per la prima volta, però, quella mancanza aveva trovato modo di essere riempita, almeno nell’animo di Pem. Poco dopo il ritorno in patria, un numero sconosciuto era comparso sullo schermo del suo cellulare touchscreen. Aveva risposto con il cuore in gola, il nodo delle aspettative che la speranza aveva creato in una manciata di secondi.
Con sollievo, aveva scoperto essere Rhys che, con il suo solito fascino da uomo sicuro a cui niente veniva negato, a meno che non lo avesse voluto lui, la invitava a vedersi per un caffè. Si erano ritrovati così in una di quelle catene famose in tutto il mondo per capire quanto di quello provato a Lione fosse volato con loro oltreoceano. Un tavolino tondo e troppo piccolo per permettere alle gambe di lui di trovare agio, due caffè bollenti e il suono di due voci che riempivano i silenzi freddi che si portavano nel cuore: gli ingredienti che avevano formato la loro pausa dai rispettivi lavori. Il suono cadenzato e armonioso di risa che si fondevano in una melodia sincronizzata, come se fosse stata abitudine e non novità, quel primo incontro. Lo sguardo gelido di lui che la scaldava, gli occhi di lei che lo studiavano dentro; una scoperta che aveva lasciato in entrambi un calore inaspettato, come il conforto tiepido che le giornate d’inverno lasciavano nella memoria delle persone.
Era stato facile, se non addirittura naturale, vedersi a inizio gennaio per un paio di pranzi informali. Gli impegni di Rhys non avevano permesso che la cosa accadesse prima, ma era stato ugualmente piacevole. L’attesa aveva innescato una piacevole voglia che si era palesata nelle guance colorite di entrambi al momento dei saluti non appena si furono incontrati.
Pemberley ricordava ancora come l’odore di lui fosse lo stesso sentito a Lione, quello che le faceva chiudere lo stomaco per essere così affascinante e nuovo. L’ebbrezza che solo una cosa inaspettata poteva donare.
Aveva impresso nella memoria come lui, serio, avesse iniziato il discorso più ridicolo mai sentito in una delle due occasioni.
«A Lione mi hai detto una cosa che mi ha colpito molto. Una volta tornato ho comprato i DVD di Iron Man» alzò impercettibile un angolo della bocca «E li ho guardati».
Sorrise beffardo, come se avesse detto qualcosa di divertente, poi si piegò sul tavolo è continuò «Per inciso, ti ringrazio perché è stata la prima sera dopo tempo immemore che ho passato a casa e ho avuto così la scusa per inaugurare il lettore DVD che ho comprato due anni fa e non ho mai usato».
La notizia la sconvolse, se il suo lettore DVD avesse potuto parlare, come minimo avrebbe chiesto pietà. Tra i cartoni e le commedie romantiche su chi si trovava a sospirare ogni sera, non sarebbe durato ancora a lungo. Non capiva come Rhys potesse preferire vestirsi di tutto punto dopo una giornata di lavoro, mangiare fuori casa e vedersi con persone che parlavano ancora di lavoro o che lo accondiscendevano per il ruolo che ricopriva. Si ritrovò a pensare che doveva condurre una vita triste e molto solitaria.
Lei adorava passare le sere con le luci spente, una coperta e il divano, la cioccolata calda e, infine, le risate con Naive. Quello era il suono che più si avvicinava alla felicità che avesse mai sentito.
«Comunque… Davvero non capisco perché tu mi abbia paragonato a lui» concluse infine serafico e distaccato, come se avesse tirato le conclusioni davanti al bilancio annuale della sua società, tanto che Pemberley dovette trattenersi per non scoppiare a ridere.
«Perché dici questo?» voleva capire fino a che punto si vedesse diverso da Tony Stark.
Si schiarì la voce, leggermente a disagio per doversi esporre a quel modo «È vero, Stark ha un cospicuo conto in banca e un immenso potere. Ma lui ha una certa ironia, un’autoironia, che io non posseggo. Io sono più… Asettico, o meno divertente».
Inutile dire che lei aveva già notato quella cosa. Rideva poco, come se fosse stato un male, e non era certo avvezzo a battute che lo rendevano il giullare di corte. Eppure, nonostante tutto quello, Pemberley poteva dire che aveva visto un qualcosa di positivo in mezzo a tutta quella freddezza, una scintilla di solarità che avrebbe voluto scoprire volta per volta, per rimanerne sempre stupita.
Si allungò un po’ sul tavolo, sfoderando la sua aria complice «Ti ho paragonato a Iron Man per il suo conto in banca, anche per il suo potere e la sua influenza, ma non solo: come lui sei d’acciaio, indossi una maschera che non mostra le tue emozioni e ti difende dal mondo. Penso faccia parte di te e del ruolo che ricopri, ma io so che dietro a tutto questo c’è molto altro. E, lo ammetto, mi piacerebbe scoprirlo».
Aveva allungato la mano sul tavolo con fare innocente. Se avesse voluto provare a dimostrarle qualcosa, avrebbe potuto stringerla e giocare con le dita lunghe e magre di lei. Rhys la fissò, provò ad avvicinare la propria ma, alla fine, la ritrasse, perché negare ogni contatto era più forte di lui, era da lui essere così.
In compenso, decise di compensare quella mancanza con delle parole «Sono felice che tua nonna ti abbia detto una simile cosa, una volta. Era una gran donna e aveva ragione. Io non ti ho solo notata».
E le chiacchiere si erano dilungate anche oltre al pranzo, chiudendosi in un timido bacio sulla guancia che Pemberley gli lasciò prima di salutarlo. Un piccolo gesto che doveva provare a sciogliere un po’ la freddezza dietro cui s’era sempre nascosto. Aveva visto gli occhi liquefarsi un poco, persi in quella piacevole sorpresa; gli aveva sorriso contenta, infine si era avvicinata alla fermata della metropolitana con la sua solita naturalezza.
«Scusa puoi ripetere?» in realtà, in tutto il tempo in cui si era persa in piacevoli ricordi, aveva ignorato l’amica che, come un fiume in piena, aveva continuato a parlare, snocciolando teorie, consigli e chissà cos’altro.
Silene la guardò di sbieco, interrompendosi. Chiuse gli occhi, si schiarì la voce e sospirò arresa, conosceva bene la tendenza dell’altra a viaggiare con la mente nonostante stesse affrontando un discorso, era una delle tante cose che la caratterizzavano. Odiava questo lato, perché la portava a ripetersi e non le piaceva per nulla, ma era parte di Pemberley, e non poteva non apprezzare una persona che non smetteva di sognare e fantasticare nonostante la vita per lei fosse stata in salita. Lo trovava ammirevole. Odioso e ammirevole.
«Ho detto, mentre tu eri intenta a pensare a chissà chi, che non è poi da prendere così sotto gamba. È vero, è solo una cena e non è la vostra prima uscita, ma non sottovalutare le potenzialità della situazione».
Pem non riuscì a non sorridere «Non lo faccio, ma hai ragione tu a dirmi che non devo avere ansia».
Silene appoggiò la schiena alla sedia mentre posò la forchetta nel piatto «Perché tu hai avuto la fortuna di incontrare Rhys e io Colton? Perché non è successo il contrario? Lo volevo io quello galante e un po’ freddo che mi porta a cena, al posto di quella colla che ha tentato quasi di copulare con me davanti ai suoi amici. Che, per inciso, secondo me erano sotto effetto di stupefacenti».
Pemberley adorava l’amica, riusciva a mischiare il gergo lavorativo con la vita vera. Non sarebbe stato più semplice per lei dire che erano strafatti?! Si morse l’interno della guancia per non riderle in faccia, altrimenti Sil si sarebbe alzata e l’avrebbe abbandonata a quel tavolo da sola.
«Io so il perché» rispose con un cenno di rossore sulle guance «Rhys era stato attratto da qualcosa di chiaro nei pressi della ruota, erano i miei capelli. Colton poi, oltre a seguire il suo sguardo, aveva notato te e sperava di far colpo».
Silene avrebbe voluto rispondere, lamentarsi a proposito, dato che aveva scoperto direttamente da un’intervista rilasciata al New York Post che Colton Cane si era fidanzato ufficialmente qualche tempo prima, ma il cercapersone vibrò, lasciando vano ogni suo intento.
«Mi rivogliono in studio» sentenziò seria.
«Ok, tanto tra mezz’ora devo rientrare in negozio. Magari in questo tempo faccio un salto da MAC, un nuovo rossetto potrebbe portare il mio umore alle stelle» e le strizzò l’occhio con fare confidenziale.
«Brava, ma non metterlo stasera, magari fai passare la voglia di baciarti» sorrise mentre si infilava il cappotto. Una volta conclusa l’operazione appoggiò una mano sul tavolo davanti all’amica «In bocca al lupo Pem, è da anni che non ti vedo così felice ed emozionata per un appuntamento, sono contentissima per te. Te lo meriti. E vedi di far ballare un po’ la lingua, perché se non vi baciate stasera, dopo Lione, lo puoi pure scaricare. E, ti prego, fammi sapere come va a finire! Un sms, una mail, una chiamata, anche un piccione viaggiatore, basta che io riceva i dettagli subito dopo l’uscita».
L’interessata rise, era proprio vero che le sue caratteristiche si fondevano alla perfezione con il suo lavoro. Come avrebbe potuto, in aula, non incantare e convincere la giuria con quella parlantina?!
«Ok, ti dirò tutto appena torno a casa, ora vai, prima che ti caccino dallo studio!».
Non se lo fece ripetere una seconda volta, la baciò sulla guancia e poi uscì dal ristorante dopo aver pagato la propria parte del pranzo, tempo addietro avevano pattuito che si sarebbero sempre divise i conti, per evitare ogni volta di litigare su chi avrebbe dovuto offrire il pasto all’altra.
Pemberley rimase seduta ancora qualche minuto, crogiolandosi nel profumo di fiori d’arancio, sicurezza e serenità che Silene emanava, infine pagò e si diresse a fare un po’ di shopping prima di tornare a lavoro, la serata si avvicinava sempre di più.
 
Non aveva comprato alcun rossetto, perché nessun colore che aveva deciso di provare si sarebbe abbinato alla bocca di Rhys. Non che fosse importante, perché non l’avrebbe indossato quella sera, ma una tonalità era troppo accessa, l’altra troppo aggressiva e aveva sempre trovato un motivo al fatto che a lui potesse non piacere, e questo non poteva succedere, specialmente quella sera.
Si era ritrovata così nello spogliatoio di Forbes, il negozio in cui lavorava, con addosso un abito nero da cocktail che le arrivava appena sopra il ginocchio. Una gonna morbida e un po’ a palloncino, uno scollo  dal taglio classico se non fosse stato per il taglio che arrivava in mezzo al seno, lasciando a vista un po’ di carne. La giusta via di mezzo per essere elegante ma non volgare non mostrando poi molto. Delle semplici decolleté nere col tacco, un po’ di trucco e i capelli mossi.
Non doveva aspettarsi molto da quella serata, ma era più forte di lei pensare il contrario: in Rhys aveva trovato una compagnia piacevole, una sicurezza che derivava dal suo essere così abitudinario, e questo lato le piaceva molto.
Ripassò mentalmente ogni cosa: lei era a posto e quasi carina, i suoi e Naive erano a casa Voight così, in caso, se la cena fosse andata bene e avesse voluto invitarlo a casa sua a bere un drink poi, niente sarebbe stato fuori posto.
Tirò un sospiro di sollievo e iniziò a sentire l’ansia serrarle lo stomaco. Una sensazione spaventosa e rinvigorente. Era da anni che non provava una cosa simile, l’adrenalina scorrere nel corpo come un motore fluido e silenzio che corroborava ogni sua fibra. Più o meno da Nathan, perché quei pochi uomini con cui era uscita non le avevano mai dato nulla.
Guardò l’orologio affisso alla parete della stanza che, silenzioso, le diceva che mancavano un paio di minuti e tutto quell’agitazione sarebbe sparita, lasciando il posto a Rhys e a tutto quello che ne sarebbe conseguito.
Sorrise al pensiero del ragazzo: le aveva detto che sarebbe passato a prenderla. Da quanto non le accadeva? Di solito avrebbe chiamato un taxi per raggiungere il suo accompagnatore nel posto stabilito, pagando per arrivarci, ma quella volta sarebbe stato diverso.
Salutò i propri titolari e la guardia che aveva il compito di chiudere l’imponente negozio. Uscì nel buio illuminato che la città offriva, convinta di aspettare almeno un po’, invece si dovette ricredere: Rhys aveva appena parcheggiato davanti alla porta di Forbes.
Scese dall’auto e, dopo aver sistemato il cappotto, fissò lo sguardo su di lei e sorrise appena, quasi timido. Le andò incontro con la sua camminata sicura e la salutò cortese, porgendole il braccio mentre Pemberley lasciava che la sua essenza le riempisse le narici, facendole tremare le gambe al ricordo di Lione. Le piaceva non abituarsi mai alla sua presenza e alle sensazioni che riusciva a smuovere in lei.
La scortò con calma convinta verso l’auto, dove poi le aprì la portiera e la richiuse una volta che si fu assicurato che Pemberley fosse accomodata all’interno, un gesto che la sorprese per la sua antica galanteria. Aveva sempre sentito sua nonna e le amiche parlare di questi gesti d’un tempo, ma mai ne aveva avuto conferma: le uniche persone che le riservavano quella gentilezza erano gli chauffeur che, durante gli eventi a cui partecipava insieme alla sua famiglia, svolgevano semplicemente il loro lavoro e dedicavano le stesse attenzioni a tutti gli invitati.
Rhys entrò nell’abitacolo e accennò un sorriso «Ciao. Ti ringrazio per avermi dato quest’opportunità».
Pemberley non capì a cosa si riferisse «Di cosa stai parlando?»
Lui indicò la macchina mentre la mise in marcia, scivolando silenzioso nel lieve traffico di New York «Ho un sacco di auto, e mi piace guidarle, solo che non ne ho mai l’occasione. Stasera l’ho colta al volo, lasciando a casa il mio autista».
Gli sorrise gentile. Lei non poteva capire che gusto ci fosse a possedere tante auto e non guidarle nemmeno. Aveva la sua Ford, una semplice berlina grigia, che svolgeva al meglio il suo compito. Auto che aveva lasciato a casa, dato che Rhys sarebbe passato a prenderla. Per l’occasione aveva scelto l’Aston Martin.
Suppose che al ritorno avrebbe preso un taxi, come tutto i newyorkesi erano soliti fare. Peccato che loro dovessero pagare la tratta di una decina di isolati al massimo, lei invece si sarebbe svenata per percorrere cinquantacinque miglia; eppure l’avrebbe fatto volentieri, perché Rhys le ricordava quanto non avesse prezzo ritagliarsi dei momenti per se stessa.
«Allora, dove andiamo?» era curiosa, tanto valeva non nasconderlo nemmeno. Però constato che le chiacchiere in quella vettura la stavano tranquillizzando. Le luci dei lampioni e delle case infrangevano i vetri trasparenti e si riflettevano su di lei, scivolando silenziose e impassibili come solo Rhys poteva essere. L’auto scorreva lungo il breve tragitto senza emettere rumore, l’unico suono a tener loro compagnia erano le voci e le risate che emettevano, pacate ma sincere.
«Tra poco vedrai» ma non ci fu quasi tempo di risponderle, dato che aveva iniziato a parcheggiare l’auto in un posto libero davanti a un grattacielo imponente e all’apparenza vuoto.
Si sentì spaesata, perché quella era zona di uffici, pochi erano i ristoranti che poteva ricordarsi nei dintorni, nessuno all’altezza di un uomo come Rhys Hewitt. Era convinta di dover mettere piede in un ristorante che cucinava nouvelle cuisine e con piatti dai prezzi esorbitanti, una simile scelta l’avrebbe certo sorpresa e fatto ricredere molte cose riguardo i comportamenti dell’uomo con cui si stava accompagnando.
Rimase stupita quando si diressero proprio verso il palazzo poco illuminato e vuoto, incredulità che aumentò quando si rese conto di essere nella sede della HewittCorp.
«Cosa ci facciamo qui? Potevi dirmelo, io avrei potuto prendere un taxi e raggiungerti qui. Dio, mi sento così in imbarazzo per averti fatto arrivare fino a Forbes» si sentì in dovere di giustificarsi, non l’aveva fatto apposta, eppure le sembrava che la situazione richiedesse delle scuse, dato che si sentiva nel torto.
Salì nell’ascensore completamente rossa, si vergognava della sua dote migliore: l’ingenuità.
«Non dire sciocchezze. Ti ho già detto quanto mi abbia fatto piacere guidare. Davvero, è una cosa che mi è sempre piaciuta e di recente ho potuto dedicarci poco tempo. Sono io che dovrei scusarmi, ti ho quasi usata come scusa per riprendere l’abitudine».
Arrivarono a uno degli ultimi piani e Rhys, con una mano sulla base della schiena di lei, la guidò verso un grande spazio trasparente. Era un ufficio, solo che al posto della classica scrivania c’era un tavolo apparecchiato per due persone. La stanza non era illuminata, a farlo bastavano le luci che New York offriva in inverno, spiragli di speranza  provenienti da case e persone che si nascondevano dietro una finestra o una tenda.
«Wow» fu la reazione sbalordita di Pemberley che, presa alla sprovvista, abbandonò il suo accompagnatore per avvicinarsi alle vetrate che sovrastavano tutta Manatthan.
Rhys fu contento della sua reazione, puntava a stupirla e così era stato. Ora poteva dirsi soddisfatto e sicuro di avere la situazione in pugno. Muoversi in ambienti a lui consoni lo rendeva tranquillo e padrone di sé, sapeva di poter trarre il meglio da contesti simili.
Le si avvicinò piano, cercando di non interrompere il suo genuino stupore, una cosa che a lui mancava dall’abbandono del padre, o la scomparsa della madre.
Pemberley si guardò attorno e, nella penombra, cercò di assimilare più dettagli possibile dell’ambiente in cui si trovava «È il tuo ufficio questo, vero?»
Lui si aggiustò la cravatta sottile lasciata cadere alla perfezione sulla camicia azzurra, un gesto automatico che all’occhio di lei non sfuggì. Il movimento, di per sé casto, fece venir voglia a Pemberley di disfare il nodo e allentare i bottoni; poter accarezzare la gola e il pomo d’Adamo, sfiorare maliziosa con le labbra la pelle fresca di rasatura e stendersi sulla moquette che avrebbe attutito ogni loro movimento.
Deglutì imbarazzata, ricordandosi che, per fortuna, le luci erano spente.
«Sì, è il mio ufficio. Non mi piacciono molto i ristoranti di lusso per i primi appuntamenti, nonostante ti mettano in disparte non si ha mai la privacy che si desidera. Così ho pensato di riadattare il mio quartier generale, è tranquillo, nessuno ci disturberà e abbiamo New York come cornice».
«Stupire è il tuo forte, vero?» Pemberley non gli diede possibilità di rispondere, anche se Rhys non l’avrebbe fatto, dato che l’affermazione riguardo al suo piano svelato lo fece vacillare appena «È incredibile come tu veda ogni giorno questo spettacolo» poco più in là poteva scorgere una fetta di Central Park, come uno dei tanti laghi al suo interno sembrasse uno specchio di pece con una lacrima di perla all’interno. La calma da cui erano contornati era quasi palpabile, e sembrava estendersi fino all’Hudson e oltre, come se tutti gli Stati Uniti potessero essere contagiati da quella bolla in cui erano rinchiusi loro.
«Già, peccato che di giorno sia tutto così uguale e terribilmente grigio, diventa spettacolare solo col buio» la accompagnò al piccolo tavolo e solo allora Pemberley si accorse che c’era un maitre ad attenderli.
Questo la fece sedere e le accomodò un tovagliolo sul grembo, infine le diede un menù da cui scegliere le portate, dopo riservò lo stesso trattamento a Rhys.
«Ma dove cucinano?»
«Nelle cucine della mensa, le ho messe a disposizione degli chef» sorrise amabile da sopra la carta rivestita.
«È pazzesco» rispose con un sorriso incredulo e gli occhi sgranati.
Non erano le attenzioni a cui era abituata o che di norma le piacevano, ma erano i modi di Rhys, stava entrando nel suo mondo, poteva solo apprezzarne lo sforzo ed essergli grata per quell’opportunità; quando lui si sarebbe avvicinato al caos di lei, avrebbe scoperto le sfumature che intercorrevano tra la perfezione e l’inferno.
Scelsero i primi e i secondi da ordinare e, una volta lasciati soli dal loro cameriere personale, riuscirono a sciogliere sul serio i nervi.
«Allora, altre perle per cui ringraziare tua nonna, o ti ha rivelato solo quella che mi ha detto a Lione?» la guardò curioso e attento, era sempre pronto a carpire i segreti delle altre persone. Con il fascino o con il terrore era solito ad arrivare dove voleva.
“Il cuore si dona una volta sola” ecco cosa le aveva detto qualche anno prima di morire, quando Pemberley aveva sì e no una decina d’anni. Un ricordo che, davanti a Rhys, la fece sussultare quasi colpevole. Perché lei l’aveva donato a Nathan tempo addietro, ma se l’era ripreso nello stesso modo in cui gliel’aveva dato: in silenzio.
Nonna Sierra si sbagliava. Forse era una cosa che valeva ai suoi tempi, ma ora le cose erano cambiate. Tramite la facilità degli spostamenti in madrepatria e la semplicità con cui si poteva mantenere un rapporto mediante cellulari e computer, le persone erano portate a conoscere molta più gente; ciò, agli occhi di Pem, portava ad avere più possibilità di incontrare persone che potevano entrare a far parte della propria vita per i più disparati motivi. Rhys ne era la prova. Dopo quasi dieci anni aveva fatto battere di nuovo il cuore di lei, come se all’improvviso le avesse fatto capire che i pezzi distrutti che aveva tra le mani potevano essere rimessi insieme e, con un po’ di pazienza, le ferite sarebbero diventate cicatrici. Non era nuovo, era forse fragile, ma ricominciare era una sensazione meravigliosa che voleva godersi in ogni singolo suo istante.
Aveva riscoperto la vita in quei mesi, non l’avrebbe lasciata fuggire di nuovo.
«No, nessun’altra perla. Se ne è andata prima di regalarmene altre, o prima che io potessi capirle» sorrise rilassata dopo quelle parole. Per quanto sua nonna non ci fosse più, parlare di lei le faceva sempre piacere, era sicura che essere ricordata con un sorriso l’avrebbe resa contenta.
«Mi dispiace, avrei dovuto pensare prima di parlare» da quando uno come lui, che valutava i rischi e i pericoli di ogni singola azione, incappava in un simile errore di superficialità? Strinse i pugni attorno al tovagliolo che aveva adagiato sulle cosce, così da sfogarsi per quella pecca e passare inosservato. Odiava sbagliare.
«Non preoccuparti, mi fa sempre piacere parlare di lei, è un buon modo per ricordarla e onorarne la memoria» gli sorrise in modo che potesse trasparire la sincerità delle sue parole e aspettò una sua reazione.
Lo vide poggiare le mani sul tavolo, per poi dedicarsi ancora alle posate e al cibo nel piatto, come se avesse assunto di nuovo il controllo di se stesso alla perfezione. Aveva ripreso a parlare e a sorriderle in quel modo sicuro che affascinava chiunque avesse di fronte, parlando di tutto e tenendo le redini della conversazione.
Pemberley si fece cullare dal suono elegante e rassicurante della sua voce, lasciandosi trasportare tra le portate per arrivare d’improvviso al dolce; era giunto il tempo di lasciare il tavolo e quell’ambiente ovattato.
Senza bisogno di parlare si avviarono verso l’ascensore, un viaggio riempito da sorrisi caldi e leggermente ebbri dallo champagne. Fu solo all’aria fredda di quello spoglio gennaio che si ripresero, le guance bollenti e rosse piano si adattarono alla temperatura glaciale da cui erano circondate. Guance piene e rialzate dai sorrisi imbarazzati di lei, fossette quasi saccenti quelle di Rhys.
«Ti ringrazio per la bella serata, mi è piaciuta molto… È volata» gli sussurrò felice Pem.
«Penso che bisognerebbe riperterla al più presto» ecco l’uomo che con la sua persuasione riusciva a ottenere ogni cosa che voleva, e Pemberley dopo quella cena era in cima alla lista.
«Sì, presumo di sì» sorrise divertita e lusingata, sapere che anche lui aveva avuto la stessa impressione la rinfrancava un bel po’.
«Io forse ora è meglio che vada, si è fatto tardi e trovare un taxi a quest’ora non è il massimo…».
Fu la prima volta che sentì distintamente la risata divertita di Rhys.
L’aver detto qualcosa di sbagliato, di così stupido da farlo ridere la fece vergognare di aver aperto bocca. Si ritròvo a fissare la punta delle proprie scarpe, sempre dritta su se stessa tranne per le spalle che, dopo quel momento, avevano perso l’orgoglio che le contraddistingueva.
«Pemberley…» bisbigliò più roco e serio. Non aveva avuto il coraggio di abbreviare il suo nome, non era da lui esercitare quella forma di potere che i soprannomi davano. Se l’avesse chiamata Pem avrebbe significato molte, troppe cose, il conoscerla, l’avere un certo grado di confidenza e intimità, tutte sfumature che non c’erano ancora nel loro rapporto. Aveva sempre ringraziato i propri genitori per avergli dato un nome corto che non incorresse ad abbreviazioni, non voleva che la gente si arrogasse il diritto indebito di chiamarlo come meglio credeva, lasciando che trasparisse una complicità in realtà inesistente.
Il tono utilizzato da lui le fece alzare il volto senza volerlo, assecondando il richiamo di Rhys, ben più profondo della sola voce.
Inaspettato, arrivò un bacio.
Le avvolse i sensi in una calda emozione, facendole abbassare la guardia e perdere lucidità. Il cuore aumentò i battiti, le guance presero colore e il corpo perse vigore. Pemberley si strinse al corpo solido di lui, l’ancora a cui aggrapparsi in quel mare di sensazioni in cui stava fluttuando da quando le loro labbra erano entrate in contatto.
Appoggiò con forza le mani alla sua schiena e si rilassò solo quando sentì le braccia di lui attorno alla vita, in una presa salda. Solo dopo Rhys, senza aspettare un cenno d’assenso, inoltrò la lingua nella bocca di lei, saggiando il retrogusto del dolce alla crema di cui aveva goduto Pemberley poco prima.
Fu un attimo, il tempo in cui la scintilla nei loro corpi si accese e li infiammò. Una sensazione calda e languida dietro l’ombelico che scendeva verso le gambe, intorpidendo ogni movimento e svegliando il desiderio che, in agguato, non aveva mai dormito davvero alla presenza dell’altro.
«Era da Lione che volevo ripetere l’esperienza» le disse mentre delle fossette irresistibili si formavano ai lati del suo sorriso, poi vi si posò una goccia dell’imminente pioggia e divenne ancora più bello.
La voleva, voleva provare se anche a letto avevano quell’intesa; non poteva permettersi di sbagliare a scegliere una persona, era come pattuire il contratto sbagliato a lavoro. O ti andava bene tutto il pacchetto o non se ne faceva nulla; non esistevano contratti sufficienti di partenza che poi miglioravano col tempo, in caso era l’esatto contrario.
«Anche io» rispose a corto di fiato Pemberley, l’eccitazione che le scorreva lungo il corpo.
Dopo anni passati a conoscere le persone sbagliate, aveva trovato un uomo che con un bacio le risvegliava il torpore in cui era caduta. Desiderava spogliarlo e scoprirlo, avere il suo corpo vicino al proprio. Aveva bisogno della sua fisicità su di sé.
Si allontanò da lei senza accennare nulla, andando verso l’auto.
Aprì la portiera dalla parte del passeggero, infine si girò verso di lei «E ora su, ti accompagno a casa. Non avrai davvero pensato che ti abbandonassi qui e ti lasciassi salire su uno squallido taxi».
Era un gentiluomo, per chi l’aveva preso? Freddo forse, ma comunque conosceva le buone maniere, l’educazione e le etichette del caso, e queste non lasciavano che una giovane donna vagasse sull’auto di uno sconosciuto in piena notte. New York era sì la sua città, ma sapeva bene che non si poteva considerare sicura, niente era sicuro a quel mondo.
«Niente taxi?» aveva fatto un passo in avanti senza volerlo, ma doveva sentire la risposta in modo che non ci fossero fraintendimenti postumi. Possibile che avesse conosciuto un uomo che la apriva la portiera e la riaccompagnava a casa nonostante abitasse a cinquanta miglia da lì?
«No» e sorrise cercando di irretirla, riuscendoci.
«Grazie» riprese Pem avvicinandosi all’auto e accarezzandogli una guancia che iniziava a essere umida di pioggia, prima di entrare nell’abitacolo.
«Prego» rispose con gli occhi sgranati prima di riuscire a muoversi. Quel contatto l’aveva ghiacciato sul posto. Non riceveva una carezza dalle elementari, suo padre non si era mai azzardato ad avvicinarsi a lui se non per schiaffeggiarlo e punirlo per qualche pasticcio, sua madre era sempre stata fredda; il contatto in casa sua era bandito, specialmente se si trattava di affetto. Nemmeno le poche fidanzate che aveva avuto erano arrivate a un contatto così intimo dopo anni di relazione. All’inizio non aveva gradito una simile aggressione emotiva, ma poi si accorse che gli aveva fatto piacere, ricordandogli quanto in realtà fosse umano; sciogliendo qualcosa di congelato e dimenticato nella sua anima.
La strada scorreva veloce e silenziosa sotto di loro, l’auto aumentava di velocità come il fluire del sangue nel corpo di entrambi, sospinto dal desiderio reciproco.
C’era tensione nell’aria, e Pemberley lo sapeva bene. Voleva invitarlo a salire in casa per bere qualcosa, ma sperava di non dover arrivare e una vera e propria offerta, se non la propria.
Aveva alzato la gonna con indifferenza, lei, lasciando scoperta la coscia fasciata dai collant. Sapeva di non essere provocante, non ne era capace ed era una dote innata che non le apparteneva, ma voleva giocare con gli sguardi di Rhys fissi sulla strada.
Lui aveva osservato con interesse ciò che gli veniva proposto, gli piaceva ciò che vedeva, ma non era pronto a toccare quello che lo attraeva, posò così la mano sul cambio e si concentrò sul percorso, pigiando un po’ di più l’acceleratore.
Fu tra una chiacchiera e un sorriso che la mente di Pemberley si gelò. Avrebbe dovuto spiegare tutti i disegni attaccati al frigorifero, i giocattoli sparsi per casa, i cartoni accanto al lettore DVD, l’odore di innocenza che permeava tra quelle quattro mura. E avrebbe anche dovuto spiegargli perché non aveva mai fatto un accenno a tutto quello, a quell’esistenza così importante e silenziosa agli occhi del mondo di cui Rhys faceva parte. Come poteva dirgli che l’aveva fatto per darsi una possibilità con una persona che, per la prima volta dopo un decennio, la vedeva solo come una ragazza di ventisette anni? Come si sarebbe giustificata?
Non voleva pensarci oltre, rovinando così quel momento, decise che ci avrebbe pensato al momento opportuno, quando il problema si sarebbe presentato in tutta la sua maestosità.
«Dove devo andare?» Rhys la risvegliò dalle sue preoccupazioni poco dopo, indicando il navigatore.
«Nassau street» rispose prontamente, e lo vide inserire l’indirizzo nel computer di bordo.
Era felice di non dover parlare per dare indicazioni, stufa ormai di parlare, voleva usar le labbra per baciare quelle di lui, scorrere sulla sua pelle scoperta.
Rhys si fermò davanti al civico che successivamente gli aveva comunicato.
«Allora eccoci qua. Grazie anche per il viaggio, non pensavo potesse essere delizioso come in realtà è stato» e sorrise, facendo fissare Pemberley su quel gesto così sensuale.
«Ti andrebbe di salire a bere qualcosa prima di andare?» avrebbe voluto aggiungere altro, ma non se la sentì, mentire non le riusciva mai bene.
Negli occhi di Rhys passò un lampo di soddisfazione che andò a contagiare l’espressione del viso «Con piacere».
Pem non attese altro, non voleva che Rhys le aprisse la portiera, aveva fretta di raggiungere il primo piano, urgenza di aprire la porta e richiuderla alle loro spalle per scoprire poi cosa sarebbe successo.
Lo anticipò lungo la breve scala che portava al portone, una volta dentro Rhys le poggiò una mano sulla schiena e salì le scale al suo fianco, quasi sostenendola.
Il rumore dei passi sul marmo era forte e rimbombava come i battiti del cuore di Pem, desiderava quel momento da quando aveva conosciuto Rhys, e finalmente si stava avverando.
Aprì la porta nel rumore dei loro sospiri carichi di attesa e solo quando richiuse l’uscio Rhys la baciò di nuovo, slacciando ogni bottone del cappotto che indossava.
Presa dalla voglia seguì il suo esempio, togliendogli la sciarpa che aveva legato al collo e passando anche lei ai bottoni del cappotto. Si ritrovò, non sapeva come, contro il proprio divano, tra le mani il colletto della camicia di lui e le labbra addosso alle sue, separate solo da sospiri desiderosi di andare oltre.
Pemberley scalciò le scarpe col tacco, e con una colpì lo stipite della porta d’ingresso, facendo ridacchiare entrambi come se fossero ubriachi.
Solo poco dopo la luce del salotto si accese anche se nessuno dei due aveva premuto l’interruttore.
«Ma…»
«Naive!» si stupì di trovarla lì.
«Pem?» la voce maschile che la chiamò confusa era inconfondibile.
Sia lei che Rhys lasciarono andare i rispettivi indumenti, rimettendosi ritti e cercando di sistemare i vestiti e darsi un’aria innocente che in realtà non avevano.
«Nathan?!»
«Cosa sta succedendo?» domandò Rhys con l’orrenda sensazione che si insinuava in lui di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Pemberley sospirò, cercando di riordinare le idee prima di aprir bocca e veder svanire le sue aspettative. Non era così che si aspettava di concludere la serata, non pensava di dover rivelare in quel modo a Rhys la verità.
«Rhys, lei è Naive, mia figlia» e la indicò mentre la bambina lo salutava curiosa e incerta con la mano «Mentre lui è Nathan, suo padre».
Nate alzò un sopracciglio, non contento di quella presentazione a metà.
«Nate, Naive, lui è Rhys, un caro amico».
Lo sguardo di Nathan si fece soddisfatto.
Nonna aveva ragione: aveva trovato il modo per non farsi dimenticare più.

* * *
 

'Seeeera! mi scuso per il ritardo, avrei voluto postare domenica ma il capitolo non era pronto, mancava la parte più importante.
L'accenno a Iron Man... ammetto di saperne poco, perchè l'ho conosciuto solo nel film the avengers, sono andata a naso.
Ma bando alle ciance, no?!
Finalmente l'ultima scena vi ha svelato a quale tf faccio rifermiento. L'avete capito tutte, vero, che è Gilmore Girls o, in italiano, Una mamma per amica.
Niente, su questo non ho poi molto da dire, e preferisco tacere. Se avete voi qualcosa da dire a riguardo, ne sono felice!
Rhys è Rhys, ma Nathan anzi, Na *TA TA* thaaan! è rispuntato e ora capite a quale momento in particolare è legato il flashback del primo capitolo. La povera Naive è stata concepita in presidenza, mondieu!
Tengo a precisare che i riferimenti a Naive non sono mai stati inseriti prima per ovvii motivi. Pemberley non è una madre degenere, anzi. Io ho solo taciuto tutti i pensieri che riguardavano la bambina, o li ho scritti nei capitoli precedenti in pensieri più ampi. In questo si nomina proprio perchè alla fine viene svelata la sua identità... Spero possiate comprendere.
Ho finito. Vi lascio il link al gruppo: Love Doses,
A presto, Sbaciucchiamenti, Cris.

 

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Capitolo 4
*** Il bisogno di sapere ***




Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Capitolo 4

Il bisogno di sapere

 

«Cosa ci fai qui?». Pemberley voleva delle risposte, sapere perché la serata che aveva anelato da tempo si stava sgretolando davanti ai suoi occhi come la peggiore delle illusioni.
Era da Nathan spuntare fuori all’improvviso, ma dopo questa visita avrebbe potuto parlare del suo pessimo tempismo. Quando tornava in città, oltre che per vedere Naive qualche giorno, portava con sé altre notizie: di solito si parlava del suo lavoro.
Nathan incrociò le braccia al petto e si mosse appena, palesando il disagio che stava cercando di nascondere. «Vorrei parlatene… In privato».
Rhys, abituato a capire nel minor breve tempo possibile chi gli stava davanti per anticipare le sue mosse, colse al volo l’allusione del padre della bambina. Gli era stato presentato in quel modo, d’altronde. Non si era arrabbiato per la sua presenza e per averli trovati avvinghiati, non aveva dato in escandescenze per essere definito solo come il genitore di Naive, era evidente che i due non fossero più legati da tempo. Forse da mai.
Era ben felice di levarsi da quell’impiccio, la tensione per qualcosa d’improvviso e sconosciuto da parte di Pemberley e Nathan si era fatta palpabile, si sentiva di troppo, e lui odiava sentirsi di troppo, dato che di solito era lui a far sentire in difetto gli altri.
Essere il vertice di un triangolo non faceva per lui, lui era sempre stato l’unico punto di una retta infinita: il punto d’inizio e in cima alla riga che decideva Rhys di tracciare, gli altri erano segni che lui stesso appuntava, nulla più.
«È giunta l’ora che io vada. Domani sarà una giornata impegnativa a lavoro, meglio andare a dormire» nemmeno il tempo di finire la frase, stava già recuperando la sciarpa e sistemando i bottoni del cappotto nelle rispettive asole.
«Ti accompagno alla porta» lo inseguì lei cercando di fare mente locale sulle cose da dirgli prima di vederlo uscire di casa. Come poteva fare un riassunto delle proprie giustificazioni, scusarsi e cercare di interpretare il suo stato d’animo?
Rhys salutò Nathan e la bambina con un cenno del capo, fissando gli occhi dell’altro senza mai perdere il contatto, quasi a cercare di vincere una sfida mai lanciata.
Fu solo quando Rhys si ritrovò fuori dall’appartamento che Pemberley recuperò il coraggio di parlargli, prima però accompagnò la porta alle proprie spalle, in modo da garantire loro un po’ di riservatezza, vicini permettendo.
«Senti Rhys, mi scuso per non averti detto nulla, ma è una questione sempre difficile da affrontare…». E poi? Come continuare? Sentiva il tempo sfuggirle di mano tanto quanto le sue stesse giustificazioni. Un inutile spreco di forze in un disperato tentativo di far capire una situazione difficile in una manciata di secondi quando, per affrontarla, ci sarebbero volute un paio d’ore come minimo.
Era scocciato, si poteva capire dai tratti tirati e gli occhi più inespressivi del solito. Era incredibile come la sua bocca, di solito aperta di poco, pronta a mostrare l’ombra di un sorriso che avrebbe potuto rivelarsi da un momento all’altro, formasse un linea dritta, così severa da pensare che non potesse essere spezzata da una qualsiasi espressione.
«Ho capito benissimo, è più facile tacere certe cose, quando si ha davanti una persona influente come me». E, stranamente, lo disse come se quel prestigio e quel potere fossero stati un insulto alla sua persona, e non un motivo di vanto agli occhi altrui, com’era di solito.
«No!». Tentò di appoggiargli una mano sul braccio, ma la ritrasse prima di peggiorare la situazione. «Non te l’ho detto perché di solito gli uomini con cui sono uscita quando hanno saputo di Naive sono scappati, tu a Lione hai visto solo Pemberley, e mi è piaciuto essere trattata solo come una ragazza della mia età, mi ha ricordato cosa mi sono persa per anni».
Quella confessione lo fece impensierire un poco. Forse lui era cresciuto con la velocità che si addiceva al ruolo che in quel momento ricopriva, ma anche Pemberley aveva affrontato la stessa crescita accelerata e, al contrario suo, si era ritrovata con una bambina, non con un impero multimilionario; lei aveva una persona da mantenere e da accudire sette giorni su sette, senza mai un minuto di respiro da quella vita.
Eppure, nonostante tutto, questa osservazione non toglieva il fatto che lei avesse omesso una parte grande e importante della sua vita. Rhys era confuso, non era ancora sicuro di volere una relazione seria, ci stava soltanto provando, e dopo qualche appuntamento, quattro chiacchiere e un paio di baci si ritrovava già in una situazione ben più grande di quello che sarebbe riuscito a gestire.
Al momento gli sembrava troppo.
«Forse è meglio parlarne con calma» le disse prima di avviarsi verso le scale. «Ci sentiamo».
Calma. Pemberley ne aveva bisogno per spiegargli al meglio la situazione, Rhys doveva smaltire la collera per la sorpresa e ritrovare il raziocinio per riflettere sui motivi di lei. Quindi, quella calma, a Pemberley sembrò una situazione più che ragionevole per costruire un dialogo di lì a qualche giorno, non aveva fretta.
Solo quando sentì i suoi passi risuonare sulle scale, si rese conto di non essere riuscita nemmeno a baciarlo, e un nodo si strinse sopra la bocca dello stomaco, a promemoria di una pessima sensazione.
Passò le mani sulla faccia, stampandosi poi il miglior sorriso a cui riuscì a fare appello, Naive era felice della presenza del padre, non voleva rovinarle certo quei momenti di gioia con un muso lungo riguardante le sue aspettative più nascoste.
«Eccomi!»
«Mamma, chi era quel Rhys?». Naive sbadigliò da sopra la scimmia disegnata sul pigiama. Julius, così si chiamava, era ovunque nella vita della bambina, adorava quella marca e diceva che le regalava sempre un sorriso; in realtà Naive aveva sempre un motivo per ridere ed essere felice, e sapere di avere una bambina tanto solare riusciva sempre a scaldare il cuore di Pemberley.
«Il tuo ragazzo?». La proverbiale innocenza delle parole di una bambina assonnata.
Naive non si accorse delle reazioni dei suoi genitori, troppo presa com’era a stropicciarsi gli occhi, ma Pemberley e Nathan si guardarono con gli occhi fuori dalle orbite; soltanto che, a differenza di lei, Nate era avido della risposta.
«No amore, è solo una persona che sto conoscendo» le rispose la madre trattenendo un sorriso isterico, quella serata non poteva concludersi in modo peggiore. «Signorina, ora però è ora di tornare a letto e riprendere il discorso che hai interrotto».
Naive sbuffò, ma solo dopo aver finito di sbadigliare di nuovo.
«Forza ranocchietta, andiamo a dormire!». Lui se la posò sulle spalle tra le risa divertite e contente della bambina, sapeva sempre come renderla contenta.
Pemberley rise, ricordando il significato del soprannome, perché Nathan ne aveva uno per tutti, o quasi. Ranocchietta era nato dopo le prime visite di Nate a Naive alle elementari; era una bambina vivace, forse troppo, e quando il padre la andava a trovare lo riempiva sempre di abbracci, gridolini entusiasti e, appunto, salti. Una ranocchia in piena regola.
Nate non era mai stato molto presente a causa del lavoro: era sempre occupato e l’avevano costantemente spedito in sedi nuove in giro per l’America per avviarle nel modo migliore possibile. Eppure, quando c’era, si era rivelato un papà attento e premuroso. Forse un po’ troppo permissivo, ma Pemberley pensava fosse un atteggiamento atto a sublimare la sua mancanza nella maggior parte dell’anno.
Prima di entrare nella camera da letto con le pareti lilla, Nathan si era girato verso la sua vecchia ragazza: fece un cenno con il capo prima verso la piccola, chiuse gli occhi e poi le mimò un “arrivo appena dorme”.
«Preparo del the» sussurrò nella sua direzione.
Era strano come su di lei teina e caffeina non avessero effetto. Bere del the caldo durante la visione di un film o quando la giornata era andata male era il modo migliore per andare a dormire rilassata. Il calore della bevanda riusciva a scioglierle i nervi, le scaldava lo stomaco, rilassando così anche l’animo.
Si diresse nella cucina sita oltre  il salotto e mise sul fuoco il bollitore. Doveva smaltire gli strascichi che lo champagne aveva lasciato su di lei, anche se l’adrenalina del momento era servita a cancellare l’ebbrezza delle bollicine.
Forse aveva solo bisogno, con quello stupido quanto inutile gesto, di far sfiatare la rabbia e soffiare via il caos dovuto alla presenza di Nathan; sperava che il fischietto del bollitore sbuffasse al posto suo tutta l’inquietudine e la tensione.
Nate tornò dopo poco: Naive, dopo aver posato la testa sul cuscino, aveva ceduto di nuovo al sonno nel giro di qualche minuto; giusto il tempo di permettere a Pemberley di preparare il the nelle tazze e lasciare che si raffreddasse un po’. Poco male, non si sarebbero bruciati la lingua, almeno con il calore non si sarebbero fatti male. Le parole, spesso, ferivano molto di più, lasciando in bocca il sapore amaro di frasi che non si sarebbero mai volute pronunciare.
Pemberley si appoggiò al bordo del lavandino, non aveva voglia di sedersi, quella visita improvvisa l’aveva messa in allerta, sentiva che c’era qualcosa nell’aria, perché di solito Nate la avvisava del suo arrivo. Non era in grado di dire se fosse un bene o un male, soltanto non riusciva a rilassarsi su una sedia.
Nathan stava fissando il the all’interno della tazza, cercando nelle sue sfumature il principio del lungo discorso che fino a qualche minuto fa era stato chiaro nella sua testa. Vedere però Pemberley baciare un altro con la stessa passione con cui una volta baciava lui, lo aveva lasciato con un fastidio diffuso in tutto il corpo. «Non mi piace che Naive ti veda amoreggiare con uno sconosciuto qualunque».
L’assoluta neutralità con cui disse la frase irritò Pemberley, che rispose subito, cercando di mantenere la calma almeno in apparenza. «Ecco perché l’avevo portata dai miei genitori, per evitare spiacevoli inconvenienti».
Lasciava Naive ai suoi genitori volentieri, perché la adoravano ancora di più di quanto volessero bene a lei che era la loro unica figlia. C’era stato un periodo in cui avevano fatto fatica a rivolgerle la parola, dopo che Pemberley era rimasta incinta e aveva così disonorato la famiglia. Fortuna volle che, dopo poco il diploma, la piccola ragazza incinta che aveva portato l’onta sul cognome Voight, sparì fino al giorno del parto. Quando i genitori, preoccupati per le sue sorti dopo non aver avuto notizie a riguardo, videro la nipote, le perdonarono tutto. Sapendo che la figlia stava bene, e ancora meglio la piccola, avevano deciso di buttarsi tutto alle spalle e aiutare la figlia e la nipote come meglio avrebbero potuto, perché non potevano pensare  di non vedere più il sorriso di entrambe, poco importava che fosse una figlia nata da un’unione tra due adolescenti senza la maturità adatta per crescere una bambina. Su quel piccolo viso avevano rivisto i tratti di entrambi e un qualcosa di nuovo ed emozionante che a loro bastava.
Pemberley avrebbe voluto affidare la figlia ai nonni paterni, ma non era stato possibile: erano morti in un incidente stradale un paio d’anni dopo la nascita di Naive. Pem aveva provato a stare vicino a Nathan in quel periodo, ma lui, dopo averla ringraziata, si era concentrato ancora di più sugli studi, lasciando che i chilometri che separavano Berkeley da Princeton diventassero uno scudo sufficiente tra lui e il passato, come se bastasse a giustificare il suo silenzio riguardo la faccenda.
Eppure entrambi erano abituati ad avere a che fare con questioni irrisolte, perché loro stessi lo erano: Naive era stato solo il primo punto, mai toccato, di tutta la questione.
«Capisco. Scusa» mormorò soltanto lui, con lo stesso tono con cui le si rivolse prima, senza dare l’impressione di pentirsi davvero di quelle parole. Forse non aveva davvero gradito che un così bell’uomo girasse attorno a quella che una volta era stata l’amore della sua vita.
Pemberley tenne la tazza stretta tra le dita per tenersi occupata e non cedere a uno dei suoi soliti tic e, solo prima di portarsela alla bocca, riuscì a parlare. «Cosa fai in città, Nathan?»
«Sono venuto per Naive».
Lei ribaltò la testa all’indietro, gli occhi fissi sul soffitto. Odiava, in momenti simili, il suo essere così ermetico. E, oltre a sentirsi sollevata per la notizia, si sentì pure infastidita, punzecchiata da quella punta di presunzione che pensava che lui fosse tornato perché sentiva la sua mancanza. Ma non contava più dopo dieci anni una cosa simile, giusto?
Sapeva essere solo uno dei suoi tanti difetti, quello di sentirsi sempre al centro dell’attenzione altrui anche quando non era così; le piaceva illudersi sul fatto che, per qualcuno oltre Naive, potesse essere indispensabile o diventarlo.
Cancellò il proprio fastidio e la tensione accumulata, non doveva andare così. Di solito, quando si presentava quei due o tre giorni, con Nathan riusciva sempre ad andare d’accordo. Era semplice e naturale, non doveva sforzarsi, la sua compagnia era come una vecchia amica, era la sensazione di essere a casa. Forse l’amore non c’era più, ma questo non impediva loro di avere un buon rapporto.
Per quanto delicato, avevano mantenuto un equilibrio precario  in cui entrambi si erano sempre trovati bene; il punto tra il non dire e l’accettare le cose così, com’erano andate, senza dir nulla a riguardo.
Gli sorrise, un po’ più rasserenata e leggera. «Di solito avvisi, questa è stata una sorpresa. Avanti, cosa succede?»
Fu il turno di Nathan di prendersi del tempo per rispondere, non sapendo da dove iniziare. «Le cose sono un po’ cambiate, sul lavoro. Inoltre ho un problema con Naive. È da un po’ che ci penso, sai?»
«Cosa c’è che non va con Naive?» non riuscì a nascondere la preoccupazione, poteva deludere tutti Nate, ma non loro figlia.
Fissava la tazza mezza vuota in imbarazzo, cosa strana per lui. «Pem, io mi sento impotente con lei. Mi sembra nata l’altro ieri e ha già dieci anni. Dieci anni in cui non ci sono stato poco, mi sono perso la sua crescita, tutto. Ancora tre anni e diventerà una teen ager, e lì andrà contro noi due perché è così che va il mondo da quando ho memoria, tra sette anni andrà al college e non avrà nemmeno più bisogno di me e te, se non per pagare la retta stratosferica dell’università» la guardò preoccupato. «A proposito, dici che non riuscirà ad avere una borsa di studio?».
Le spalle di Pemberley si distesero, sentendo tutta l’agitazione svanire davanti a un padre preoccupato per la figlia. Era così tenero che non sapeva come agire. Per quanto avesse voluto ridere si trattenne, non volendo urtare la sua sensibilità.
Ma, nonostante tutto, non poteva evitare di sentirsi un po’ in colpa, essendo la causa di quel dolore.
Dopo il diploma era stata lei a fuggire e a nascondersi a New York, era stata lei ad abbandonare Nathan, il ragazzo che le aveva chiesto di sposarla appena saputo della gravidanza. Avevano ragionato insieme sul da farsi, decidendo di tenere il bambino in qualsiasi caso. Solo dopo lui era giunto alla malaugurata conclusione di sposarla, di formare una famiglia. Lei aveva temporeggiato, dicendo che avrebbero avuto tutto il tempo possibile, dopo la nascita di loro figlio.
Poi, in una mattina assolata di fine giugno, era sparita. Non aveva lasciato nemmeno un biglietto d’addio a Nate, solo il letto rifatto e sgualcito, perché aveva appoggiato sopra la valigia da riempire prima di allontanarsi da lì.
Non l’aveva fatto per cattiveria, ma sapeva quanto i genitori di Nathan fossero contrari alla gravidanza e ancor di più al matrimonio, non poteva rovinargli ulteriormente la vita.
Lei ormai doveva rivedere le proprie priorità e dire addio alla Columbia, dato che portava in grembo una bambina da accudire e crescere, ma lui no. Lui poteva salvarsi, partire per Berkeley, avere la grande occasione che aveva sempre desiderato e aveva anche l’opportunità di riscattarsi agli occhi dei suoi.
Si era fatta viva solo quando lui, durante un corso, aveva ricevuto un suo messaggio in cui gli annunciava le doglie e la rottura delle acque. Aveva preso il primo volo e aveva aspettato con lei in sala parto l’arrivo di Naive che, come ogni donna, si era fatta attendere oltre il dovuto.
Dopo Nate non aveva pensato di farsi avanti, non aveva rinnovato le sue intenzioni, l’aveva aiutata nella sua nuova casa a Princeton, in Nassau Street, poi era ripartito, dicendo che non poteva più mancare ai corsi, se voleva laurearsi in tempo.
Era così nata la loro routine, quella fatta di armonia, rospi ingoiati e l’amore incondizionato per una piccola ranocchietta che scalciava felice davanti a mamma e papà.
Una storia mai finita, ma esaurita nel silenzio dietro cui si erano chiusi. Una relazione che non aveva avuto modo di urlare le recriminazioni altrui sull’altro, si era assopita, morente, nella rabbia muta delle parole non dette e delle decisioni prese a prescindere, senza spiegazione alcuna. Non era un rapporto, ma una bomba a orologeria ben caricata e innescata, il cui equilibrio li aveva portati ad andare d’accordo come se niente fosse avvenuto prima della nascita di Naive.
Nathan, dopo aver preso per la prima volta tra le braccia la figlia, non aveva parlato della loro storia perché con la fuga aveva capito che Pemberley non lo amava più, non come lui perlomeno si era sempre aspettato; Pemberley, con quell’abbandono, sapeva di aver scatenato in lui molte più cose di quelle che aveva notato, ma aveva dimostrato quanto il suo amore fosse grande: aveva lasciato libera la persona che più aveva amato.
Finalmente riuscì a sedersi accanto a lui e, cercando di rassicurarlo, gli prese la mano tra le proprie. Gli sorrise come solo lei sapeva fare, con quel misto di sicurezza e dolcezza che riusciva a rivolgere solo a poche persone. «Per la borsa di studio io non mi preoccuperei, è brava a scuola, ce la può fare benissimo, per fortuna» e ridacchiarono di quella strana preoccupazione «Per il resto mi dispiace. È cresciuta senza  che nemmeno io lo volessi. Ha imparato a camminare e subito dopo a pensare, anche io ho paura di vederla allontanarsi troppo presto. Nate, davvero, sei un bravo padre e lei ti vuole un mondo di bene. Stravede per te»
«Ma si può sempre migliorare, non è vero?».
Pemberley annuì soltanto.
«E io voglio farlo. Io sento il bisogno di conoscerla e di passare più tempo con lei».
La determinazione in fondo al marrone dei suoi occhi così scuri era qualcosa di tangibile. Un tocco silenzioso e reale che stava sfiorando la pelle di lei facendole nascere un brivido. Era incredibile come Nathan riuscisse a dire di più con uno sguardo che con le parole; eppure si disse che era normale, dato che non sempre si apriva in lunghi discorsi esaustivi, tutt’altro.
«E con il lavoro?» una domanda posta con terrore. Le alternative a riguardo erano poche: o lui si sarebbe avvicinato a loro, o significava che aveva avuto l’intenzione di chiedere l’affidamento esclusivo di Naive. La cosa la colse di sorpresa, non si sarebbe mai aspettata, dopo anni, una simile risoluzione della questione.
Le sorrise felice, un gesto così distante dai pensieri di lei che la fece preoccupare ancora di più. Aveva paura delle parole che stava per pronunciare, sapeva che avrebbero cambiato la vita a tutti.
«Pem, dopo sei anni ce l’ho fatta. Abbandono il mio lavoro itinerante. Anzi no, a dir la verità abbandono la Syntech. Mi hanno preso alla Nike, sono il nuovo designer. O meglio: il capo del reparto design».
Era da una vita che desiderava un lavoro simile: aveva studiato per avere la migliore preparazione possibile e, dopo anni di fatica e rinunce, tra tutte Naive, era arrivato dove aveva sempre sognato.
«E dove ti hanno mandato? Più vicino rispetto a San Francisco?»
«Qui, a New York. Ho iniziato questa settimana. Ho atteso prima di presentarmi per mettere a posto un po’ le cose. Volevo che lo sapessi da me, volevo che tu fossi la prima a saperlo» e, come prima, lesse nei suoi occhi una felicità profonda e radicata, come se tutti gli anni passati fossero solo un ricordo difficile da riportare alla mente. Come se anche Nate riuscisse a sentire l’odore delle novità ancora da provare e volesse recuperare al più presto.
Pemberley gli si gettò al collo, contenta. Non solo non le avrebbe portato via la figlia, ma aveva trovato il modo di poter stare di più con lei e imparare a conoscerla. Non si sarebbe mai più perso nessuna novità che la riguardava, sapeva di non poter sperare di meglio. Inoltre aveva sempre desiderato che lui fosse più presente nella vita della piccola, avrebbe avuto un padre presente ogni ora del giorno e della notte. Avrebbe potuto vederlo più spesso, condividere un sacco di momenti con lui, renderlo partecipe di tutti gli aspetti della sua vita.
«Sono così felice, è stupendo! Ora potrai stare con Naive».
Nathan rispose al gesto, grato che Pemberley avesse preso la notizia al meglio. In quel modo non solo avrebbe potuto approfondire il rapporto con Naive, ma avrebbe potuto aiutare Pem a respirare un po’ di più, un po’ più a fondo, regalandole qualche momento tutto per sé.
«A proposito di questo, ho pensato: quando troverò casa, cosa ne dici se una volta a settimana si ferma da me a dormire? Prometto che le preparo una stanza apposta. Le farò scegliere il colore delle pareti, l’arredamento, qualche vestito da tenere nell’armadio…»
«Frena, respira!» gli toccò un braccio nel tentativo di riportarlo con i piedi per terra.
Nate la fissò con occhi colmi di paura, sapeva cosa sarebbe successo: Pemberley avrebbe detto di no, e lui non avrebbe potuto dir niente a riguardo, perché in quella famiglia occupava il posto di una grande mancanza.
«Certo che potrà stare da te, mi sembra il minimo, ma per sicurezza lo chiederemo a lei, anche se non penso ci siano problemi a riguardo».
Rilassò i tratti del viso e tornò a respirare. Invidiava Pem per un motivo ben preciso: aveva una parola buona per tutti ed era sempre positiva, raramente si faceva spaventare da qualcosa. Se lui fosse stato al suo posto, si sarebbe fatto molti più problemi, ma Nate non capiva una cosa che Pemberley ormai sapeva da tempo: l’amore per loro figlia era un bene, e non avrebbe mai negato che il padre potesse donarglielo.
Anzi, Pemberley era felice, vedeva l’opportunità concreta che tutto ciò si realizzasse, abitando vicini sarebbero stati a contatto molto più tempo, imparando a conoscersi e a volersi ancora più bene rispetto a ora, non aveva motivi di impedire una cosa simile.
«Ecco, a proposito… Ho pensato una cosa: è meglio che io non ci sia quando le verrà posta la domanda. Anzi, a dir la verità vorrei glielo domandassi tu soltanto».
La notizia lasciò Pem alquanto sorpresa, tanto che non si trattenne dal domandargli il perché di una decisione simile.
Nathan si grattò il naso importante con un certo imbarazzo. «Pem, non lo capisci? Se glielo chiedessi io si sentirebbe obbligata a rispondermi di sì, e io non voglio. Vorrei che tu le proponessi la cosa e vorrei che lei si sentisse libera di rispondere come meglio crede. Almeno se non vuole te lo dice senza mezzi termini e me ne farò una ragione».
Pemberley incrociò sul tavolo le dita con quelle di lui. Una volta sarebbe stato un gesto importante, vedendo in quelle mani un luogo in cui rifugiarsi, tanto che ci aveva lasciato il cuore, ora, invece, era diventato un contatto naturale che serviva a farle sentire vicina una persona molto importante della sua vita. Nessun batticuore strano, niente guance rosse, solo la vicinanza tra due persone che, nonostante ne avessero passate di tutti i colori, condividevano ancora un sacco di cose, oltre che una figlia.
In quel momento non stava guardando solo Nathan, ma un papà che, cresciuto da solo all’ombra dei suoi pensieri in lontananza e nella luce dei sensi di colpa, aveva capito che pensare più a ciò che voleva una figlia, piuttosto che riflettere su quello che lui desiderava davvero, era il bene più grande.
Un momento di cui Pemberley non si sarebbe dimenticata mai, perché le ricordava come mai si era innamorata di lui dieci e più anni prima e come ancora potesse giurare che se avesse voluto un padre per Naive, sarebbe stato solo e soltanto lui.
«Sta’ tranquillo Nate, andrà tutto per il verso giusto. Non può dire di no, ti ama e non avrebbe chiesto di meglio, ne sono sicura». Conosceva abbastanza Naive da prevederne la reazione.
«Facciamo così: dato che ti vedo agitato, glielo chiedo domani mattina, poi ti faccio sapere»
«Il prima possibile, però». Ecco il Nathan bambino che metteva il broncio davanti alla merenda che non voleva mai fare, perché avrebbe significato interrompere l’attività sportiva del momento.
«Appena posso»
«Anche un messaggio va bene» aggiunse apprensivo.
«Ok» rispose divertita, fingendo di pensarci su. «Anche un messaggio».
Nate fissò l’orologio al proprio polso. Odiava quegli accessori, ma da quando gli era rimasto il preferito del padre non poteva evitare di portarlo. Più che un ticchettio, sentiva il battito regolare e attutito di un cuore che per lui non aveva mai smesso di battere, quello di Roger Alcott. Lo stesso suono che da piccolo sentiva avvolto da un maglione, il petto di suo papà contro il proprio orecchio.
Nonostante sapesse che i genitori c’entravano con la decisione di Pemberley, anche se non sapeva come e in che modo, aveva sempre voluto loro un gran bene, non era mai riuscito a portar loro rancore, non alle persone che l’avevano allevato con amore e fermezza.
«Sarà meglio che io vada, è mezzanotte passata e domani devo vedere un po’ di appartamenti. Inoltre la strada non è corta…» iniziò a scusarsi come se fosse una colpa, la sua, e non un merito.
«Tranquillo, io domani lavoro ed è pure peggio».
Le regalò una di quelle sue espressioni furbe e compiaciute, quelle che tanto mettevano in risalto i suoi occhi quasi neri «In effetti hai ragione»
«’Notte. Fammi sapere dove trovi casa, mi raccomando» sorrise interessata. Era curiosa di vedere quale tipo di appartamento avrebbe scelto Nathan e, soprattutto, come l’avrebbe arredato, da quello si capivano un sacco di cose riguardo le persone, e lei avrebbe potuto scoprire quanto era cambiato.
Dopo dieci anni l’avrebbe riscoperto. Una cosa che le faceva piacere ma, soprattutto, paura. Se già conoscere una persona per la prima volta era difficile, avere a che fare dal principio con gente che significava molto era davvero un’impresa titanica.
«Allora… Ci sentiamo» disse lui raccogliendo la giacca e indossandola.
Prima di andare però si diresse verso la camera di Naive, aprì la porta e sbirciò per controllare che la figlia stesse dormendo. Si avvicinò di soppiatto per accarezzarle una guancia rilassata e depositarle un bacio sui capelli, cosa di cui Pemberley si stupì, perché non l’aveva mai visto così premuroso verso la bambina.
Una volta fuori dalla camera chiuse la zip per proteggersi dalla fredda notte che avrebbe dovuto affrontare di lì a poco, aveva iniziato a piovere e se ne era accorto solo in camera della figlia, sentendo il rumore ritmico della pioggia fare da sottofondo ai sogni della bambina.
Prima di andare riservò lo stesso trattamento a Pemberley che, stupita da quei gesti, rimase con la mano che aveva appoggiato sulla guancia di Nate a mezz’aria e sulle punte dei piedi, sospesa.
«Ciao, Velvet».
Forse riprendere ad avere Nate nella sua vita non sarebbe stato facile come pensava, non quando giocava sporco come in quel caso.
Velvet era troppo intimo, Velvet era la Pemberley che aveva amato, quella che, forse, non c’era nemmeno più.
Andò a dormire pensando a quella singola serata in cui erano successe troppe cose. Com’era possibile che solo un paio d’ore prima fosse a cena con un uomo fantastico e che ora avesse appena salutato il padre di sua figlia che, dopo dieci anni, aveva avuto l’opportunità di trasferirsi nella loro stessa città?!
Si sdraiò a letto con la testa pulsante, cercando di rimettere a posto le proprie idee.
Solo in quel momento, protetta dal caldo del piumone, si accorse di alcune cose.
Aveva sempre apprezzato la musica, Pemberley. In auto era la prima ad accendere lo stereo e a scegliere le canzoni più adatte al momento e all’umore; era inoltre convinta che i gusti musicali di una persona dicessero molto riguardo a essa.
Si era accorta che in auto di Rhys non c’era stata musica, nemmeno una canzone o la radio.
Tutto spento, regnava il silenzio riempito dai loro discorsi.
Pemberley si rese conto che Rhys era la pausa tra due note, il secondo che ti permetteva di dare un senso alla melodia e la formava, senza però dare accenni riguardo se stesso.
Rhys era il silenzio che esisteva tra le tracce di un cd, l’assenza di rumori che fluiva tra le dita e di sé non diceva nulla. Pem chiuse gli occhi è scivolò nel sonno con la sensazione di non poter cogliere altro su di lui.
L’unica cosa che avrebbe ritrovato spesso in quella stanza, come somiglianza, sarebbe stato il silenzio circondato da suoni ovattati dalla sua assenza.
 
C’erano giorni in cui era Naive a svegliarla. La piccola si alzava un po’ prima del solito per infilarsi nel lettone della mamma e dormire un po’ con lei in quel calore che la faceva addormentare di botto, facendola sentire protetta.
Quella mattina però, fu Pemberley ad alzarsi prima della figlia. Non aveva dormito bene, divisa tra il suo ruolo di madre e il suo essere una ragazza di ventisette anni. Da una parte c’era il pensiero di Nate e il discorso da affrontare con Naive a riguardo, dall’altra c’era la sensazione di aver allontanato Rhys, la persona che più le interessava in quel momento. Era come se, nei suoi modi così freddi e poco cortesi della sera prima, ci fosse stato qualcosa di definitivo.
Aveva così deciso di evitare di pensare a entrambi e si era messa a cucinare degli ottimi pancake, il modo migliore per iniziare al meglio la giornata per lei e Naive.
«Mamma, cosa succede, sei impazzita? Non è domenica» la piccola si era avvicinata con passo incerto verso la cucina da dove si spandeva un odore buono e invitante anche per lei, così scettica verso il comportamento della madre.
«Su, Naive, siediti qui, oggi è una giornata particolare» disse mentre rigirava una di quelle specie di crepes in padella.
Le altre erano impilate nel piatto al centro della tavola, circondate da latte, caffè e pane tostato. Naive non se lo fece ripetere due volte: si sedette al tavolo e, al posto di servirsi due o tre pancake, prese tutto il piatto. Se si fosse impegnata avrebbe potuto mangiarseli tutti.
Pemberley girò un po’ la testa giusto per vedere l’aria famelica con cui la figlia studiava tutta l’enorme pila. «Non ci provare!» la ammonì divertita raggiungendola al tavolo. «E vedi di non esagerare con lo sciroppo d’acero».
Fu solo quando la vide intenta a masticare un boccone della loro colazione che Pemberley si convinse a parlare del motivo per cui si erano ritrovate a tavola a mangiare con la dovuta calma e a non fare tutto di fretta come al solito «Devo parlarti di una cosa, scricciolo».
Naive si mise sull’attenti mentre si dedicava ai propri pancake. Sapeva che quando era sua madre a usare quel soprannome c’era sempre sotto qualcosa. C’erano sempre grandi notizie in ballo.
«Sai che ieri il tuo papà è venuto qui a trovarci, no?!» Naive annuì soltanto, aveva la bocca piena e sapeva che le signorine per bene non parlavano in certi momenti.
«Bene, ecco… Mi ha parlato di una cosa importante». Pem procedeva per gradi, non voleva rovesciare sulla figlia troppe informazioni in una volta. Doveva fare in modo che capisse ogni singola parola per evitare di creare equivoci.
Naive la fissò attentamente, lo sapeva che c’era qualcosa sotto. Nonostante avesse solo dieci anni era perspicace come una tredicenne, ed era risaputo che quelle di tredici anni sapessero un mucchio di cose in più rispetto a quelle di dieci, era una voce diffusa soprattutto a scuola. Questo anche perché un sacco di tredicenni baciavano i ragazzi, e Naive non aveva mai capito il gusto di quella cosa: perché sporcarsi con la bava altrui? Era però convinta che avesse il suo perché un simile gesto, dato che tutte aspettavano di ricevere e dare un bacio.
Annuì ancora, essendo a conoscenza che mancavano alcune parti a quella conversazione, in realtà stava solo asserendo a se stessa e alla propria perspicacia, ma Pemberley lo prese come un buon segno e continuò il suo discorso.
«Ha trovato lavoro»
«Uno nuovo?».
Ma quanti lavori cambiava suo papà? Cavolo, era sempre in viaggio da una parte all’altra dell’America.
«E dove?» aggiunse rivolta alla madre.
«Qui, a New York». Cercò di godersi l’effetto di quelle parole.
Vide Naive staccare gli occhi dai pancake per sgranarli nella sua direzione. Smise di mangiare offrendole così la visione del cibo masticato nella sua bocca. Si mise i lunghi capelli castani dietro l’orecchio destro, voleva dire qualcosa ma le parole vennero meno.
Era buffa e comica, e Pemberley si trattenne a fatica davanti a quell’aria sorpresa. Adorava le reazioni dei bambini, così genuine e spontanee da non poter essere replicate in alcun modo. Avrebbe voluto fare una foto e mandarla a Nathan, ma non sarebbe riuscita a catturarla in tempo. Inoltre doveva ammettere che quella era una tipica reazione alla Nate, difficile che lui stesso non la conoscesse già.
«Davvero?»
«Già, lavora alla Nike». La bambina aveva già iniziato a saltellare elettrizzata sulla sedia, ma Pemberley la interruppe per concludere quel dialogo. «E mi ha detto di chiederti una cosa. Ti dico subito che ha lasciato il compito a me perché aveva il timore che tu ti sentissi costretta a rispondere di sì per forza se te l’avesse chiesto lui»
«Avanti mamma, parla!».
Alzò gli occhi al cielo, era così simile a lei certe volte da spaventarla. «Siccome si trasferirà qui, e per questo sta cercando un appartamento, mi ha parlato della possibilità di avere una stanza anche per te, perché, se ti facesse piacere, potresti passare più tempo con lui e una volta a settimana potresti fermarti a dormire con il papà. Cosa ne dici?»
Naive fece cadere le posate nel piatto, facendolo tintinnare.
Il Signore aveva ascoltato le sue preghiere, allora andare in Chiesa ogni domenica serviva a qualcosa!
Suò papà era tornato e voleva stare con lei, voleva davvero conoscerla e dormire con lei. Non l’aveva abbandonata, il suo interesse era sincero.
Avrebbe voluto saltare, ma sapeva che sua mamma l’avrebbe sgridata e guardata male, così le regalò il sorriso più contento che potesse esistere sulla faccia delle terra, nonostante le mancasse uno degli incisivi.
«Sì! Sì! Io voglio stare anche col papà! Allora non mi ha abbandonata! Lo sapevo» aggiunse riprendendo possesso della forchetta.
«Ha detto che potrai scegliere il colore e l’arredo della nuova camera» si odiava per aver instaurato nella figlia il dubbio che il padre l’avesse abbandonata, e questo solo perché Pemberley aveva desiderato per lui un destino migliore. Era una pessima persona e una pessima madre, come aveva potuto fare questo a una bambina? Aveva tentato in tutti i modi di mettere a tacere quelle insicurezze: continuava a ripeterle che Nate le voleva bene e a parlare di lui in modo positivo, oltre che di loro al liceo, in modo che lo sentisse più vicino, ma non era riuscita a dissipare ciò che in Naive si era radicato in un angolo del cuore.
«Wow! Non vedo l’ora. Spero trovi presto una casa».
Pemberley guardò l’ora nel display del forno a microonde situato sul bancone della cucina. «Su ranocchietta, veloce a finire la colazione o dobbiamo fare tutto di corsa, come al solito».
Senza aspettare una risposta mise i piatti nel lavello, li avrebbe lavati quella sera, e poi si diresse in bagno, doveva restaurare la faccia che riportava i segni di quella notte insonne.
«Mamma?» Naive cercò di richiamare la sua attenzione nonostante la madre avesse già le mani sporche di fondotinta.
«Sì?» chiese spalmandoselo sulla faccia in modo uniforme, non poteva presentarsi a lavoro con l’aspetto di un clown, da Forbes volevano eleganza e semplicità. Infatti si rese conto di aver sbagliato: si stava truccando prima di aver indossato il dolcevita nero. Ci avrebbe pensato dopo, ormai si stava dedicando a quello e non avrebbe cambiato attività, incasinando ancora di più le cose come solo lei era brava a fare.
«Quando lo diciamo a papà?» Naive occupò il lavandino per lavarsi i denti. Ottimizzavano i tempi, almeno Pemberley sarebbe riuscita a scegliere dei vestiti decenti per la figlia, perché se no avrebbe indossato fantasie e colori che tra loro avrebbero sicuramente cozzato.
«Appena abbiamo un momento tranquillo».
E, senza quasi nemmeno respirare, si ritrovarono in auto verso la scuola, nella cittadina dei genitori di Pemberley, Woodbridge Township, esattamente a metà strada tra Princeton e New York.
«Mamma!» urlò Naive in uno dei momenti di traffico intenso in cui le auto erano totalmente ferme lungo la strada.
Pemberley strinse le mani attorno al volante, terrorizzata dal grido improvviso della figlia «Naive, tesoro, perché devi farmi venire i capelli bianchi prima del tempo?!» si massaggiò le tempie e gli occhi con la mano destra, cercando di riprendere lucidità. Non era bastato a quella piccola peste di averla fatta crescere prima del tempo? Voleva vederla anche con i capelli canuti e le rughe?
Solo più avanti avrebbe capito quanto certi spaventi fossero inutili.
«Comunque, cosa c’è?»
«Scusa mamma» rispose la piccola ridacchiando. «Possiamo chiamare papà ora? Con il tuo telefono e il vivavoce…» usò quel tono finto petulante che solo in bocca ai bambini poteva risultare un’arma letale a cui non poter dire di no. Odiava quando Naive usava incoscientemente il suo fascino innocente su di lei.
«Su, uragano, prendi il cellulare dalla mia borsa».
Non se lo fece ripetere due volte, rovistò all’interno dell’enorme borsa nera della madre ed estrasse ciò che stava cercando. La felicità di quel gesto era palese negli occhi di Naive, ed era meraviglioso agli occhi di una madre quanto anche le cose più piccole appagassero l’animo di un bambino.
Cercò il numero del padre facendo scorrere la rubrica e schiacciò la cornetta verde una volta arrivata su Nate. La comunicazione era partita, ora si trattava solo di attendere.
«Pem, hai la…» non riuscì a finire la frase, interrotto da una specie di urlo sovraumano.
«Papà, papà sono io!» stava quasi saltando sul sedile, e Pemberley rimase sorpresa da tutta quella vivacità. Era sempre stata solare Naive, ma era tutta energia composta, non eccedeva quasi mai. Nonostante fosse raggiante, non era mai stata una di quelle bambine pestifere, quello che stava mostrando era un lato nuovo, la felicità di una bambina che stava ottenendo ciò che, in segreto, aveva sempre desiderato.
«La risposta è sì! Mi piacerebbe un sacco stare da te una volta a settimana» e divenne rossa, cosa che cercò di mascherare coprendo lo zigomo più vicino alla madre con la mano affusolata, fingendo di grattarsi la faccia.
«Scricciolo, non voglio obbligarti, sei sicura?» aveva posato il pennino con cui stava disegnando sulla tavoletta grafica. Con il cuore leggero e il battito accelerato, si era appoggiato allo schienale della comoda sedia di cui l’avevano fornito. Adorava quel lavoro: dalla postazione in cui concepiva nuovi modelli alla fase creativa; era ciò che aveva sempre desiderato.
«Papà, scherzi? Io ne sono felice! Non so quanto ti fermerai, devo cogliere l’occasione al volo»
«Amore, penso di fermarmi a vita» ora che aveva ottenuto il lavoro per cui aveva sempre lottato, non l’avrebbe lasciato tanto facilmente.
La pausa di Naive fece incuriosire Pemberley che si voltò per guardare la figlia.
Aveva gli occhi sgranati, colmi di panico, l’incertezza che per dieci anni l’aveva cullata in quel momento si era riversata nel suo sguardo. Pemberley non poté non sentirsi in colpa, forse aveva sbagliato tutto, o non aveva insistito abbastanza e aveva così lasciato che la figlia fosse schiava di convinzioni sbagliate.
«Non fa niente papà, io voglio conoscerti meglio». Le difficili ammissioni di una bambina che desiderava dire certe cose, ma non davanti alla madre. Si vergognava ad aprirsi così tanto oltre il dovuto.
«Hai già trovato la casa?» domandò per cambiare discorso. «Mamma mi ha detto che posso scegliere il colore della stanza e i mobili. Sai, ho già in mente qualcosa…».
Nathan rise «Ranocchietta, con calma. Oggi vado a vedere un paio di case. Appena trovo l’appartamento sarai la prima a saperlo, prometto».
Naive sorrise più rilassata «Ci conto!»
«Ora devo tornare a lavorare, non posso mostrarmi scansafatiche i primi giorni, ma ci sentiamo prestissimo, ok?»
«Ok! Buon lavoro papà» quella parola era sempre stata così preziosa in quegli anni, che ripeterla la riempiva di adrenalina. Ora non sarebbe stato poi così difficile descrivere la sua famiglia nei temi di scuola, tutto stava diventando tangibile e a portata di mano.
«Buona scuola a te, ranocchietta»
«Ciao Nate!» urlò Pem prima che l’ex potesse chiudere la conversazione.
Naive si chiuse nel suo solito silenzio, cercando di farsi inghiottire dalle proprie spalle e il sedile, stringendo il telefono con forza, appoggiato sulle ginocchia. Era a disagio, e la madre lo sapeva bene.
«Scricciolo?!»
«Sì?»
«Sono fiera di te, non è da tutti dire quello che si pensa»
«Grazie» sorrise un po’ più convinta. «Ho pensato che avesse bisogno di sentirsi dire certe cose. Io sentivo di volergliele dire».
E, in quel momento, si rese conto che forse non aveva sbagliato del tutto con la figlia.


* * *

Buonasera!
Mi scuso per il ritardo di quasi una settimana, ma questo capitolo è stato un parto, tanto per fare compagnia a Pemberley. Il motivo è semplice: il capitolo non era pronto nella mia testa, come non lo è la storia, quindi anche in fase di scrittura è cambiato settordici mila volte. Fate conto che l'idea generale era totalmente diversa, il dialogo tra Pem e Nate doveva essere più corto e dovevano esserci più scene. Inoltre Naive dovrebbe esserci stata meno, ma è la variabile impazzita della storia e io posso solo assecondare tutto ciò.
Riguardo al capitolo non ho poi molto da dire, se non che, per come è uscito, non mi soddisfa molto, eppure so che serve per farvi capire - almeno parzialmente - la situazione che ha portato a questi momenti.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, be', lo ammetto, non penso possa arrivare prima del 2013. Inizio a lavorare a giorni dai miei fino al 31 e le ore libere si ridurranno drasticamente, ho la OS per natale (un regalo per voi che spero possiate gradire) da scrivere entro il 23 (giorno in cui ho deciso di postarla) e gli ultimi esami da preparare (ansia!) e una tesi da imbastire (prima o poi), quindi gli aggiornamenti, fino a fine gennaio, saranno rallentati e me ne dispiaccio. Spero possiate avere pazienza con me!
Niente, per ora penso sia tutto, in caso contrario vi dirò il resto nel gruppo o sotto al prossimo capitolo.
Vi ringrazio comunque per l'affetto, perchè so che questa storia è diversa da tutto ciò che ho scritto prima.
Se vi va, mi trovate nel gruppo di Facebook:
Love Doses
Inoltre, visto che non aggiornerò prima del 2013, vi auguro un BUON NATALE e un GRANDIOSO 2013! Nel caso voleste rinnoverò gli auguri sotto la OS.
A presto, sbaciucchiamenti, Cris.

 

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Capitolo 5
*** Questioni di fiducia ***




Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Capitolo 5

Questioni di fiducia

Era da una sola settimana che Nathan era tornato nella sua vita, e tutto il precario equilibrio che aveva formato in dieci anni sembrava essersi dissolto in fumo.
«Oggi per te c’è la Signorina Feller, è il tuo primo appuntamento». Lynn gestiva i programmi della giornata attribuendo ai vari incontri pianificati le rispettive addette alla vendita. «Ricorda Pemberley: è un’ottima cliente, ha un budget di novemila dollari per il vestito, però hai solo due ore di tempo. Poi hai un altro appuntamento».
Annuì distratta, non ascoltando davvero ciò che la sua superiore le aveva appena detto. Sapeva fare il suo lavoro, e quindi le domande di rito alla cliente erano due, riguardo  al tipo d’abito che cercava e il budget a disposizione: la prima regola che si imparava da Forbes era “Non far provare mai un abito troppo costoso a una sposa che non può permetterselo, ti giocherai la vendita”. La seconda regola, non meno importante, era quella di rispettare il tetto vendite mensile imposto a ogni addetta, pena il licenziamento.
Era brava Pem a intuire i gusti delle proprie clienti, ma non era sempre facile arrivare a fine mese con i conti giusti, a volte le mancavano quasi mille dollari, e per riempire quella mancanza entro l’ultimo giorno utile spesso diventava matta, riempiendosi le giornate di clienti dalle mille pretese, senza dare nulla in cambio, nemmeno la minima sicurezza. Erano le giornate peggiori, quelle dove si dedicava a più clienti in contemporanea e scompariva tra tulle bianco e organza avorio, tra corpetti con gemme scintillanti e gonne vaporose come meringhe.
Eppure amava il proprio lavoro, tanto che in dieci anni non aveva ancora perso il posto. Mai, nemmeno un solo mese, era rimasta sotto il tetto del budget minimo di vendite ad personam stabilito da Lynn e Joel, i due fratelli Forbes che portavano avanti l’atelier.
Adorava quel posto, così grande e ovattato, dai colori caldi ed eleganti, era un regno di pace il più delle volte, l’atmosfera cerimoniosa che donavano i vestiti da sposa al suo interno rendevano l’ambiente unico.
Ma la parte migliore era portare un abito alla futura sposa, farglielo indossare, e vedere qualcosa in lei cambiare: la scintilla negli occhi, il sorriso radioso che poche volte aveva colto una persona, la lacrima di gioia che, solitaria, si liberava sulla guancia.
I segni che accompagnavano la consapevolezza di aver addosso l’abito giusto, quello la ripagava di tutto il lavoro. Le corse per gli immensi corridoi dei magazzini, il rubarsi il vestito adatto tra colleghe, le svendite last minute, i saldi, tutto il putiferio che le clienti le facevano passare. Tutto era ripagato da quell’espressione di felicità e completezza che il vestito giusto donava assieme al giorno del matrimonio e del futuro marito.
Pem si sistemò la giacca nera che aveva indossato. L’abbigliamento nero era tipico delle addette alla vendita, la giacca d’obbligo. Sotto, però, si potevano indossare o magliette e pantaloni, oppure tubini. Quel giorno aveva scelto una gonna a ruota con una cintura in vita e una semplice maglia scollata e con le maniche corte, a completare la mise aveva delle semplici ballerine, sempre nere. Si sentiva la versione dark e monotona di Audrey Hepburn.
Mentre si avviava verso Brooke Feller e il loro appuntamento, si stava legando i capelli secchi e indomabili in un chignon, perché erano davvero impresentabili quella mattina, non avrebbe mai voluto sfigurare davanti a una cliente che, per di più, aveva un lauto budget.
Si ritrovò davanti la suddetta Brooke. Una ragazza lampadata, le extension finte come la tinta corvina e, probabilmente, come il seno che svettava da sotto il top fin troppo leggero per la stagione. La tipica ragazza californiana che volava fino a Forbes per avere vestiti esclusivi. Odiava quel tipo di cliente, ma la sapeva gestire al meglio, ecco perché Lynn l’aveva affidata a lei.
«Buongiorno Brooke!» la salutò entusiasta. «Benvenuta da Frobes, hai fatto bene a rivolgerti a noi, siamo il meglio se cerchi esclusività e raffinatezza».
Due concetti che persone simili non conoscevano, in particolar modo il secondo. Erano più scenografiche, un po’ come il silicone che avevano in corpo e la finta abbronzatura, ma la ragazza la accolse con un gridolino entusiasta e la lasciò continuare.
«Ho due domande per te, Brooke, prima di cominciare a giocare» sapeva che metterla su quel lato aizzava le ragazze. Adoravano fingersi principesse da vestire. «Dimmi il budget a tua disposizione e come preferiresti il vestito: se vuoi un taglio ad A con la vita stile impero, oppure con la gonna a palloncino e gonfia, piuttosto che…»
«Il taglio a sirena!» rispose emozionata e convinta Brooke.
Pemberley ci avrebbe scommesso. Era il taglio più gettonato dalle spose americane, il modello che, tra l’altro, stava male alla maggior parte di esse, che fossero grasse o magre, alte o basse.
Sorrise compiaciuta. Sapeva che quello era esattamente ciò che Brooke pensava di desiderare, alla fine sarebbe uscita dal negozio con un abito da principessa con la gonna più vaporosa di una torta  nuziale ricoperta di tulle.
Le avrebbe fatto provare il modello di Tammi Shelley, una stilista di punta riguardo gli abiti di un certo pregio, l’abito a sirena che non vestiva nessuna, se non Heidi Klum e poche altre elette. Solo alle modelle di Victoria Secret poteva stare bene, e non stava scherzando. Dopo l’iniziale batosta avrebbe proposto abiti più d’impatto, ma comunque più eleganti; il gioco sarebbe passato in mano a lei e tutto sarebbe stato più facile. Sì, in meno di due ore avrebbe concluso la vendita.
«Comunque, per il budget mia mamma mi ha imposto novemila dollari, ma penso di poter spendere qualcosa di più, mio papà mi ha lasciato l’american express all’insaputa di quella strega» e le fece l’occhiolino in tono confidenziale. «Adoro il tuo stile, sembri Audrey Hepburn! Non pensavo aveste così buon gusto anche solo per lavorare. Amo New York!».
La confessione della cliente l’aveva resa più simpatica agli occhi di Pemberley, non pensava potesse essere vero.
«Grazie». Le sorrise sincera. «Ora facciamo così, io vado a prendere qualche abito, tu intanto mettiti in lingerie, così non perdiamo tempo. E, tranquilla, a tua mamma non mostrerò i prezzi».
Fu così che, un’ora e dieci minuti dopo, Brooke Feller firmava la ricevuta della carta di credito che riportava la cifra di dodicimila dollari per un Tammi Shelley sì scenografico, ma alquanto apprezzabile. Alla fine era stata la vendita facile che Pem si era immaginata. Brooke non aveva gradito gli abiti a sirena. Non stava male, ma erano poco principeschi per i suoi gusti, troppo miseri. Aveva optato per una gonna vaporosa tutta piume color avorio, un corpetto ricamato e con lo scollo a cuore e le maniche larghe non più di otto centimetri in piume come la gonna. Le lacrime di commozione della figlia avevano intenerito anche la madre, soprattutto davanti al prezzo, ma Pem, che conosceva bene i tentennamenti delle mamme davanti al budget sforato, aggiunse il velo e lo fece rientrare nel prezzo dell’abito, avendo così la benedizione di entrambe.
«Oddio, il mio matrimonio sulla spiaggia con un gazebo di teli e arco di fiori sarà bellissimo grazie a te!» il saluto di Brooke la destabilizzò, dato che le concesse l’abbraccio più soffocante mai visto.
Ecco, un matrimonio simile Pemberley non l’avrebbe augurato nemmeno alla sua peggior nemica. Odiava la sabbia che si appiccicava ovunque e in cui sprofondavi, il vento che tirava in spiaggia avrebbe rovinato l’acconciatura, per non parlare del tempo.
No, lei sapeva cosa voleva: un vestito semplice, monospalla e dritto, magari tutto plissettato con una cintura non molto alta e colorata in vita, a ricordare il peplo greco. Al massimo si sarebbe concessa un abito in pizzo, ma dal taglio sobrio. Avrebbe raccolto i capelli in una treccia che, morbida, sarebbe ricaduta su una delle due spalle, al massimo avrebbe accettato una coda strutturata. Il trucco caldo ma non pesante, i fiori arancio o color pesca, magari esotici, una chiesa di campagna e una sessantina di invitati al massimo, i parenti stretti e gli amici suoi e dell’eventuale sposo.
Ma soprattutto, quello che più le sarebbero piaciuti, sarebbero stati i tatuaggi all’henné che avrebbe rubato alla cultura indiana. Si sarebbe fatta dipingere le mani con i loro disegni, ma non solo, anche i piedi, con un leggero disegno che sarebbe risalito fino alla coscia, ma solo una. Le piaceva come tradizione, perché tra i vari ghirigori che le donne raffiguravano sulla pelle, veniva inserita l’iniziale del futuro marito che, durante la prima notte di nozze, avrebbe dovuto cercare sul corpo della moglie.
Adorava l’idea di essere scoperta da un uomo per cercare addosso a lei un po’ di se stesso, era un gesto intimo che accendeva anche gli animi più tiepidi.
Fu così che, per la prima volta dopo una settimana, immaginò Rhys intento a esplorarle il corpo nudo ed esposto, cercando una R nascosta sapientemente tra quei maestosi motivi che raccontavano storie mai ancora vissute.
Non aveva mai pensato che Rhys potesse diventare suo marito, ma l’idea, ormai nella sua mente, non le dispiaceva affatto. Eppure era lui stesso a mettere fine a quelle fantasie, lui e il suo diniego nel cercare di vederla e parlare. Era da quando aveva visto Naive e Nate che non riusciva a parlargli, preso com’era dal suo lavoro. Al telefono era stato freddo come sempre. Inutile che si raccontasse storie diverse Pemberley, sapeva che era il suo personale modo di darle il benservito, sperava solo di sbagliarsi, di meritare di più, magari anche solo una spiegazione a riguardo.
Era da una settimana che, nonostante sul lavoro avesse ottenuto buoni risultati, con la testa era da tutt’altra parte: Rhys era diventato il pensiero costante, in special modo da quando Nathan si prendeva più cura di Naive. Avere dei momenti liberi equivaleva ad aver più tempo per pensare, ecco perché le giornate finivano sempre con il suo pessimo umore, che non sapeva nemmeno dove sfogare.
Si rifece lo chignon e si presentò alla prossima cliente con il solito sorriso cordiale che tanto amava rivolgere al mondo: le piaceva pensare che fosse un ottimo biglietto da visita. Era consapevole di non potere incantare a tutti, e neppure si affannava nell’inutile tentativo, ma non capiva perché dare un motivo per prenderla subito in antipatia non regalando un gesto che non costava alcuna fatica.
Fu solo a pranzo, durante la pausa, che nella sala relax dove a volte tra colleghe si concedevano un caffè o due chiacchiere, che Pemberley sbuffò stanca. Non era arrivata alla conclusione del suo quesito giornaliero: come smuovere la situazione con Rhys.
C’era una convinzione, in fondo al suo cuore, che manteneva acceso il desiderio di chiarire. Era la speranza. Quella che tutte le persone potevano comprendere, la stessa scaturita da quello semplice scambio di sguardi che legava due persone, anche se per un solo attimo. Il momento in cui nasceva il colpo di fulmine, il destino, o come la gente amasse chiamarlo. Era l’esatto istante in cui la persona entrava a far parte del tuo mondo, ti faceva battere il cuore e imporporare le guance; quella determinata persona cambiava qualcosa in te e non si poteva non sperare di aver influito allo stesso modo sull’altro. Ecco a cosa portava la speranza, a credere che quella magia speciale non l’avesse provata solo uno dei due.
Pemberley sapeva che doveva esserci stato qualcosa tra lei e Rhys, perché si erano incontrati in Francia, ma si frequentavano a New York, perché si erano visti e chiamati più volte, perché si erano baciati ma alla prima cena un po’ più seria lui non aveva provato a portarsela a letto, non ci aveva mai provato con intenzione, perché l’ultima volta, prima di essere interrotti, lui non l’aveva premeditato. C’era qualcosa, perché Rhys, nonostante gli impegni, aveva sempre trovato del tempo da dedicarle. Tempo che, però, non le ritagliava più.
Ester, una delle sue colleghe più attempate, era seduta sul divano in pelle mentre spiluccava un pacchetto di cracker davanti al New York Times. Aveva emesso un gemito di disappunto, per poi chiarirlo prima che le altre lì attorno chiedessero spiegazioni.
«Strano, non succede mai»
«Cosa, cara?» chiese distratta Louise, con lo sguardo fisso sul tablet e la confezione dello yogurt accanto a sé.
«I pettegolezzi sulla New York bene. L’imprenditore giovane e – nemmeno a dirlo – bello, fotografato all’uscita di un albergo di lusso in piena notte quando prima ci è entrato con una strafiga. Mai sentita una cosa simile». Alzò gli occhi al cielo, palesando il sarcasmo ben riconoscibile nel timbro della voce, infine avvicinò la foto in bianco e nero al naso per poter leggere i nomi nella didascalia. «Questa volta tocca a Rhys Hewitt e la cantante gnocca del momento, Cheryl qualcosa… Dio, ma scriverle un po’ più grandi le didascalie no, eh?».
Voltò pagina stizzita. Pemberley, sedutasi accanto a lei pochi istanti prima, si irrigidì sul posto.
Era quello il momento che l’avrebbe distrutta, perché qualcosa si era rotto.
Le era appena stato servito l’istante in cui aveva capito che quel qualcosa che era intercorso tra loro era tutto negli occhi di lei, solo in quelli di lei. Perché quella scoperta le aveva fatto comprendere che a provare qualcosa era stata solo Pemberley, che gli sguardi, il batticuore e la voglia di iniziare qualcosa di nuovo l’aveva visto solo e soltanto lei.
Perché Rhys non aveva tempo di chiarire, diceva, ma aveva tempo per non dormire e frequentare Cheryl qualcosa, la star ultra patinata del momento. La scopata facile che lei non era stata, la persona che l’indomani sarebbe partita per un’altra città e non gli avrebbe creato problemi, perché probabilmente Cheryl aveva la metà degli anni di Pemberley e non aveva nessuna figlia e un ex a carico.
E qualcosa, dopo essere giunta a quella conclusione, si era rotto davvero. La sua speranza, insieme al suo cuore.
Si guardò in giro, fissando le altre sue colleghe in pausa, cercando di capire se avessero sentito quello che stava avvenendo dentro di lei.
Si domandò così se le persone avessero mai sentito il rumore di un cuore spezzato. La risposta fu negativa, perché un cuore si frantumava in silenzio, anche se lasciava una traccia indelebile e visibile a tutti: la sofferenza di quegli occhi che tentavano di nascondere dietro loro stessi tutto il dolore della rottura.
Rimaneva solo il retrogusto amaro delle parole che non si era riusciti a dire, il sapore dei baci che non si era riusciti a dare, il tocco dell’amore che non si era riusciti a donare.
Non era innamorata di Rhys Hewitt, ma il colpo che lui le aveva inferto era stato peggiore del previsto. Rhys era stato il primo uomo dopo un decennio a interessarle davvero. Le piaceva, pensava che ci fosse qualcosa tra di loro, dato che si erano incontrati a Lione, dall’altra parte del mondo, e continuavano a vedersi a New York, dove c’era la loro vita vera, piena di impegni e di grattacapi.
Era la prima persona con cui voleva passare del tempo, voleva andare oltre e scoprirla. Si era fidata di Rhys, anche se era solo all’inizio di questo percorso, e lui aveva tradito questo: tutte le aspettative che Pemberley si era fatta su di lui, la fiducia riposta, il sentimento che, seppur flebile, provava.
«Non pranzi, Pem?». Ester la stava fissando in attesa di una risposta.
«No, mi si è chiuso lo stomaco, preferisco riposare un po’».
Si stava domandando se i suoi occhi riuscissero a mentire. Siccome si conosceva un po’, aveva deciso di fingere di riposare, almeno avrebbe nascosto alle altre una pessima bugia.
 
Quando la sala relax si svuotò, si concesse una barretta al cioccolato alla macchinetta automatica e del caffè avanzato dalle compagne di lavoro. La testa le scoppiava e aveva bisogno di Silene.
Si assicurò di essere sola, prima di dare il via a una chiamata lunga e per nulla divertente.
Appena Silene rispose, dando vita alla conversazione, Pemberley lasciò andare tutto il suo sconforto, il nodo alla gola, la delusione e le speranze infrante.
Perché più ne parlava con Silene, più capiva la realtà dei fatti: Rhys era stata la fiducia riposta nella persona sbagliata, l’opportunità svanita e quasi mai avuta.
Sarebbe stato solo un nostalgico ricordo, il silenzio tra due tracce di un cd che si inceppava, la mancanza di una persona che, di notte, veniva sostituita da una stretta al cuscino per non allacciare le braccia al petto e sentire che quelle sensazioni, quel sentimento, nascevano e morivano con lei.
«Chiamalo e digli che il suo essere così spregevole è direttamente proporzionale al suo conto in banca, al potere che esercita la Hewitt Corp o all’influenza e al prestigio che ha sulla città. Qualsiasi cosa, ma diglielo chiaro e tondo che è uno stronzo».
La frase che durante l’intera conversazione aveva più fatto ridere Pemberley, placando un po’ il senso di smarrimento che Rhys aveva lasciato; se ne era andato dalla sua vita come ne era entrato: senza preavviso.
Era quel senso di colpa che le diceva che era soltanto colpa sua e delle cose non dette che la faceva stare male, ma anche il non voler chiarire di lui, la sua posizione così netta a riguardo, a ferirla.
Silene aveva letto il giornale quella mattina, e sperava che l’amica, essendo presa dal proprio lavoro, non vedesse una simile pagina; eppure sapeva che il rischio era alto, ma Sil era sempre un’inguaribile ottimista e la parte positiva di lei sperava sempre nel meglio.
«Grazie, penso che lo farò. Lo chiamerò per chiedergli un appuntamento per dirglielo in faccia, giusto per vedere, dato che è sempre così impassibile, se davanti a un simile insulto cambia espressione!»
«Vai ragazza, così ti voglio!». La sentì parlottare con qualcuno che era riuscito a sovrastare il borbottio di sottofondo. «Pem, devo andare, l’udienza sta per iniziare. Ma tu non abbatterti, hai una figlia meravigliosa che ti riempie la vita, al momento non hai bisogno d’altro».
Naive! Quella frase le fece venire in mente che doveva chiamare Nathan per controllare che tutto fosse a posto per il pomeriggio.
Si toccò la fronte con il palmo aperto, quando urlò nell’orecchio dell’amica «Nathan!»
«No tesoro, lui non è tua figlia, è quello con cui l’hai concepita e di cui Naive ha metà corredo genetico». Rise divertita, a volte Pemberley, era così distratta.
«Lo so! Ma devo chiamarlo per accertarmi che vada a prendere Naive a scuola, oggi è il suo turno. Ciao Sil, grazie di tutto!»
Riattaccò concitata. Dio, era una madre degenere. Come poteva pensare che forse era il suo turno? O lo era, o non lo era. Eppure in quel momento di black out totale non avrebbe saputo essere certa di nulla, nemmeno del suo nome.
Si accasciò di nuovo sul comodo divano. Erano le due e dodici del pomeriggio, aveva ancora mezz’ora di pausa. Magari, dopo la telefonata con Nate, si sarebbe concessa un pranzo veloce. Lo stress le avrebbe fatto perdere i capelli, se lo sentiva, per fortuna ne aveva tanti.
«Pem? Ciao! Ti serve qualcosa?».
E sentire il suo tono insicuro e distratto, immaginarlo alla scrivania, intento a lavorare su qualche nuovo progetto, la fece rilassare un po’. A volte erano così simili, entrambi persi nei loro mondi, che riusciva a capire perché la se stessa adolescente si era innamorata di lui senza saperlo o volerlo.
Una delle poche cose che non li accomunava era il sorriso: sempre presente sul volto di Pemberley, così difficile da trovare su quello di Nathan.
Nate non era una persona infelice o scontrosa, tutt’altro; era sempre disponibile e garbato. Era anche felice, dato che aveva tutto ciò che desiderava, solo che non gli serviva condividere questo particolare con il mondo intero. Come il resto delle persone potevano fare a meno di lui, lui poteva fare lo stesso con loro.
Un sorriso avrebbe palesato a tutti il suo essere soddisfatto, ma Nathan non vedeva il motivo di farlo sapere a persone che un gesto simile non lo meritavano nemmeno.
«Ti ricordi di passare a prendere Naive a scuola tra un’ora, vero?». L’aveva chiamato proprio per quel motivo, perché sapeva che calarsi di colpo nel ruolo del padre non doveva essere facile. Avere qualcuno che potesse aiutarlo e ricordagli alcuni compiti doveva rendergli più facile la vita. Almeno, sperava di avere quest’effetto.
Sentì la sua risata attutita e divertita, infine una porta chiudersi.
«Stai scherzando, vero?»
«Ti sembra che io stia ridendo?». La vena sulla tempia di lei stava esplodendo, non poteva occuparsi di tutto, soprattutto del pessimo senso dell’umorismo di Nate, lo stress saliva ogni secondo che passava.
«Pemberley». Oh oh, pessimo inizio di frase. Quando usava il nome nella sua interezza non stava affatto scherzando. «Io devo prendere Naive a scuola venerdì…»
«Appunto!». Lo interruppe infervorata.
«Oggi è giovedì»
«Ah» e la rabbia si era smontata in una frazione infinitesimale di tempo, diventando panico.
Non poteva crederci. Nathan era in città da una settimana e lei si era già adagiata sugli allori. Aveva confuso i giorni, abbandonando così sua figlia al proprio destino. Perché lei non sarebbe uscita da Forbes prima delle cinque, e non poteva chiedere permessi, perché mancava un po’ di personale, essendo periodo di influenza per tutti.
Il cuore batteva troppo veloce e le mani erano fredde e sudate. Si sentiva in colpa verso Naive e verso un ruolo, quello di madre, in cui non si sentiva mai all’altezza, nemmeno dopo dieci anni.
«Nate, non riusciresti ad andare tu? Io sto coprendo turni di gente malata, non riesco a schiodarmi, anche perché dei soldi extra mi fanno sempre comodo. Inoltre sai che ho un budget fisso mensile da raggiungere, e questo mese sono un po’ indietro, non posso giocarmi il posto» si morsicò un labbro nervosa, attendendo la sua risposta.
«Lo farei volentieri, ma non posso. Sono appena arrivato, ho una riunione importante alle quattro e non posso mancare. Ti sto chiamando dal bagno! Sono chiuso dentro come un fuggitivo! Nemmeno io posso rischiare il posto dopo qualche giorno» aveva cercato di sdrammatizzare, sentiva il fiato corto e irregolare di lei, segno che una crisi nervosa era quasi in atto, non voleva averla sulla coscienza.
«E quindi?»
«Proviamo a chiedere a Silene...»
«È in tribunale, ha un’udienza». Era una pessima madre e nel giorno del giudizio sarebbe stato reso pubblico, se lo sentiva.
«I tuoi?»
«Non ci sono, sono fuori città. Non c’è nessuno!» si mise a piagnucolare, disperata. «Si ritroverà sul cancello della scuola sola e abbandonata, ci odierà, lo so. In più la rapiranno e la uccideranno!»
A volte diventava melodrammatica, in special modo quando si trattava di Naive, ma le paure che la assalivano quando si parlava della figlia erano sincere e, nella sua testa, fondate.
«Non hai una baby-sitter a cui ti rivolgi di solito?».
E, se la prima risposta che passò nella mente di Pemberley fu che quelle poche volte in cui usciva la sera la lasciava ai genitori, la seconda cosa che pensò le fece sistemare i tasselli che aveva a sua disposizione per mettere ordine a quel caos di conversazione.
Si misera a ridere, d’improvviso più rilassata.
«Pem, stai bene? Hai avuto la famosa crisi di nervi che pensi di covare da una decina d’anni?!» bisbigliò preoccupato mentre qualcun altro entrava nei bagni dell’ufficio.
«Cassidy» rispose senza averlo ascoltato.
«Ok, allora è vero, sei in piena crisi di nervi». E lui era in panico. Come si faceva a sistemare una cosa simile quando erano distanti, la rispettiva figlia aveva bisogno di qualcuno che la andasse a prendere all’uscita di scuola e di lì a un’ora partecipare alla riunione aziendale, il tutto senza essere licenziato?
«No Nate, chiamiamo Cassidy. Lui la andrà a prendere e la porterà al Café au Lait da Josh»
«Chi è Josh? E spero che Cassidy non sia quelCassidy che conosco anche io». No, non poteva essere Cass, era impossibile, non avrebbe mai affidato a lui Naive.
«Conosci altri Cassidy? Andiamo, è tuo fratello. Ti garantisco che adora Naive almeno quanto lei stravede per lui. Inoltre a scuola lo conoscono, perché spesso l’ho mandato a prenderla. Soltanto che di solito poi la portava dai miei, questa volta gli farò allungare la strada fino alla fine di Nassau street». Pem sospirò, sapeva di dover dare qualche spiegazione in più perché capisse. «Josh è il proprietario del Café au Lait… Naive ci passa un sacco di pomeriggi, perché Joshua le fa da baby-sitter, diciamo così».
Nathan rimase in silenzio più del dovuto. Davvero suo fratello era legato a Naive? La notizia lo rese triste. Forse la conosceva meglio di lui, ed era solo lo zio. La andava a prendere a scuola, ci aveva passato del tempo, la conosceva. E lui dov’era? A San Francisco, a Seattle o da altre parti disperso per l’America a mandare avanti i propri sogni.
Ma era veramente in grado di accudire una bambina di dieci anni? Lo stesso Cassidy che non si era mai accasato, nemmeno per sbaglio, in trentatre anni di vita? Li vedeva così diversi: Naive, piccola e –  soprattutto – innocente; Cassidy, grande e immaturo. Così libertino e irresponsabile da non essere in grado di badare a sé stesso. Eppure Pemberley gli affidava spesso e volentieri loro figlia.
Sospirò sconfitto, non era come si era immaginato: rientrare nella propria vita e riprendere tutti i rapporti lasciati sospesi, ma gli sembrava di intrufolarsi da capo in quella altrui. Forse doveva partire da zero e imparare a conoscere di nuovo chi gli stava davanti, a partire da Cassidy per arrivare a Pem e Naive.
Cassidy. Un sorriso a metà comparì sulle sue labbra. L’aveva sempre invidiato, così bravo da saper giostrare i mille appuntamenti e a imbrogliare tutti con il suo fascino, per lui era facile manipolare le persone come meglio credeva, come voleva. E, di solito, le voleva sdraiate e nude nel proprio letto, perché per lui non c’era nulla di meglio che godere appieno di ciò che le persone potevano offrirgli, almeno a livello fisico.
Era redattore in una rivista di buona tiratura nazionale, un lavoro abbastanza elastico, perfetto per uno che amava autogestirsi.
Come poteva un carattere simile amare la nipote? E Naive cosa pensava dello zio?
«Ok, suppongo non ci sia altra scelta»
«Bene. E, visto che mi sembra di capire che è da un po’ che non lo senti, lascio a te il compito di chiamarlo per dirglielo. Parlarvi vi farà bene».
Non attese risposta e riagganciò il telefono. Sapeva che era la cosa migliore per i fratelli Alcott, non avrebbe voluto sentire le lamentele di Nate a riguardo, non gli avrebbe permesso di obiettare. Se c’era una cosa in cui Pemberley era brava era sapere di cosa avevano bisogno gli altri. Per se stessa però, era un vero disastro a riguardo.
Fissò l’orologio e decise che in fondo, quegli ultimi venti minuti, potevano essere utilizzati per consumare un pranzo veloce.
E così ripartì la sua giornata frenetica, facendo in modo che dimenticasse il motivo di quello spiacevole nodo allo stomaco che non le impediva di godersi un pasto normale.
 
«Zio?!» Naive era ferma sui gradini che l’avrebbero condotta fuori dalla scuola. Strano come lei fosse immobile mentre i suoi compagni cercavano di sfrecciare lontano da quel posto e dai professori il prima possibile, era un controsenso vivente, e non faceva nulla per essere così, lei lo era e basta.
«Nipote?!» Cassidy la schernì di rimando, impossibile non concedersi un momento ridicolo con la faccia della ragazzina così sorpresa.
Naive piegò la testa di lato e sorrise contenta e divertita.
Una fitta si aprì nel cuore di Cass, quell’espressione era uguale a quella di Nathan quando cercava di scavarti dentro, di capire cosa volevi dire anche quando non usavi le parole. Gli occhi scuri, anche quelli erano di suo fratello.
Era da anni che non lo sentiva, da quando aveva iniziato a girare come un matto per lavoro, e quel giorno si era fatto vivo. Gli aveva chiesto di poter prendere la figlia a scuola, un compito che di solito gli affidava Pemberley; ma lei era furba, sapeva che con Nate in città tutto sarebbe cambiato, e Naive sarebbe stata il mezzo per farli riavvicinare. Alla fine di quella strana telefonata, intervallata da silenzio e imbarazzo, Nathan aveva espresso la sua volontà di volerlo incontrare.
“Mi manchi”, aveva ammesso triste, come se si fosse reso conto solo in quel momento dell’assoluta verità contenuta in quell’affermazione e di quanto fossero cambiate le cose in dieci anni.
Perché si volevano bene davvero i fratelli Alcott, ma alcune divergenze di compatibilità li avevano portati a vivere di una quieta indifferenza dovuta alla difficoltà di adattamento reciproco di entrambi.
Nathan era così bravo, così concentrato, così ligio al dovere che Cassidy non riusciva a non sentirsi in difetto accanto a lui, ecco perché tutte le miglia tra loro non erano diventate un problema, quanto più un’attenuante al bene comune.
I suoi genitori volevano bene a entrambi i figli, ma Nathan aveva quella luce brillante attorno a sé che di rimando faceva illuminare anche i loro occhi, Cassidy aveva il fascino dell’irrisolto e dell’incerto, e come particolare faceva scaturire solo scintille di preoccupazione coperte però da un amore immenso.
Poi era arrivata Naive che, più cresceva, più diventava come lui.
Ecco perché era diventata indispensabile, non solo perché era sua nipote.
Era una bambina fantastica: curiosa, ingenua ma sveglia come ogni bambino.
Eppure, aveva la stessa luce che aveva avvolto Nathan da sempre. Gli occhi, le espressioni. C’era Pemberley, e Cassidy non poteva non vederla, ma lui vedeva Nate. Abbracciava il fratello quando stringeva la nipote, faceva passi verso di lui. Faceva pace con lui, perché aveva imparato a mettere da parte la competizione per lasciare spazio alla malinconia della sua mancanza.
La maestra Claire lasciò a fatica la presa dalla spalla di Naive e lei, sentendosi libera, mosse un passo dietro l’altro sempre più velocemente, fino a correre addosso allo zio, quello zio così strano ma così affettuoso, simpatico ma mai banale, che aveva caratterizzato la sua infanzia con uscite sempre particolari.
La abbracciò come si faceva con un bel ricordo o una nipote altrettanto meravigliosa, e salutò Claire, la giovane carina maestra che si era fermata sull’uscio.
Lei, in risposta, gli sorrise in modo arcigno e gli rivolse un gesto gran poco cavalleresco.
Cassidy mise una mano sulla schiena di Naive per accompagnarla gentilmente verso l’auto, ma la piccola si girò

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Capitolo 6
*** Lost Child ***




Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Capitolo 6

Lost child

C’era qualcosa nella sera che la calmava. Le auto non correvano ma viaggiavano inghiottite dalla notte, i rumori si spegnevano per lasciare il posto a silenziose aspettative, i movimenti nelle case animavano una normalità costituita da momenti semplici e intimi.
Pemberley aveva bisogno della sua solita routine prima di affrontare la telefonata con Rhys. Aveva accompagnato a letto Naive, garantendole un sonno riposante e anticipato, visto l’orario in cui l’aveva spinta in  camera, fortuna volle che la giornata era stata stancante anche per la piccola.
Le piaceva accarezzarle la testa, metterle i capelli dietro le orecchie e infine spostarli dietro la schiena, erano gesti che non sapeva quando sarebbero venuti a mancare, perché Naive cresceva in fretta; nemmeno si ricordava l’ultima volta in cui l’aveva presa in braccio,  e ora era una bambina alta e di dieci anni e l’anno prossimo avrebbe iniziato le medie.
Quando avrebbe smesso di dirle tutto? Quando le avrebbe taciuto il primo bacio o la prima cotta?
Quando sarebbe diventata solo un genitore qualunque e non la persona a cui fare riferimento?
Le aveva donato i suoi anni migliori Pemberley, e ora che iniziava a sentire il peso del tempo sulle proprie spalle; Naive stava cominciando ad abbandonarla. Si sentiva persa. Arrabbiata no di certo, sapeva bene che i figli non erano fatti per stare sempre con i genitori, ma le sembrava di stare perdendo un po’ di Naive in modo costante, ogni giorno, inesorabilmente.
«Mamma, Rhys è proprio il principe azzurro». Lo disse vergognandosi, come se notare la bellezza dell’amico della madre fosse un peccato. Eppure era davvero bello, con quei capelli biondi e gli occhi chiari. La sua altezza era innegabile e il vestito faceva di lui un principe agli occhi di una bambina a cui piaceva sognare e vedere il bello in ogni cosa.
Fu Pemberley a trovarsi spiazzata davanti a una simile affermazione.
«Già, la descrizione gli calza a pennello». Almeno quella fisica.
Nel rispondere cercò di sorridere, fingendo di assecondare il parere della figlia.
Non aveva il pennacchio e la calzamaglia, era difficoltoso immaginarlo con simili indumenti e in un’immagine così ingenua e pura; il cavallo bianco nella sua mente venne subito sostituito dalla costosa macchina che aveva guidato durante la loro prima cena. Pemberley si era immaginata sempre un principe azzurro con uno sguardo sereno e cristallino, quello di Rhys era tormentato e duro, poco a che fare con le fiabe che riempivano l’infanzia. Era bello proprio perché scontante dai soliti canoni a cui ci si atteneva per lasciare che il proprio cuore restasse affascinato da una simile persona, era il tipo d’uomo per cui lei si sarebbe strutta.
Non le piacevano i principi tutti fronzoli e piume, a lei piacevano i turbamenti che rendevano vere e tormentate le persone, se no da adolescente non avrebbe mai scelto Nathan per innamorarsi di qualcuno.
«Io sono felice che tu l’abbia incontrato. Sei una principessa, un principe è quello che ti meriti». Nel suo mondo fatato la madre era la principessa del suo universo, al pari di se stessa. Non era egocentrismo quello di Naive, ma solo la visione di chi il mondo lo vedeva limitato a quello che percepiva e conosceva. Un modo infantile di rendere inebriante la propria vita, darle l’aspetto di un mondo entusiasmante, avventuroso e magico che spesso alla realtà mancava.
«Scricciolo, come sei tenera». Le accarezzò il naso con l’indice, liberando una risatina divertita, all’interno l’eco del nervosismo che l’avrebbe accompagnata fino al momento della telefonata.
Naive sorrise allegra. «Se tu sei principessa posso esserlo anche io, vero? Se no non ha senso che tu abbia un principe. Io non avrei nessun beneficio…». Perché quale senso aveva se non la carica che aveva attribuito alla madre? Se non poteva essere considerata principessina lei, perché avrebbero dovuto esserlo le altre?
Non riusciva a capirlo.
«Ho cresciuto una piccola serpe!» sgranò gli occhi, sempre più allietata dai discorsi della figlia. Forse un po’ egoistici, ma comunque acuti, per essere il frutto di una mente di dieci anni.
Naive rise, soddisfatta di aver scioccato la madre.
Pemberley le baciò una guancia, lasciandola immersa nel suo mondo di principesse e principi azzurri, un mondo fatto di certezze e poche cose brutte. «Sogni d’oro… Serpe!».
Si diresse verso la porta.
«E a te tanti principi azzurri» la schernì Naive, prima che la madre spegnesse la luce.
Era ancora in quel buio diffuso, accompagnato dal silenzio interrotto respiro regolare della figlia che stava cercando di addormentarsi, che si avviò verso la propria stanza e un cellulare che sembrava pesare più del dovuto, sempre di più, a ogni passo.
Si stese sul letto dopo aver chiuso la porta della camera, sdraiata sotto lo stilizzato ramo dipinto sulla parete dalla parte del materasso in cui dormiva, lì sotto si sentiva al sicuro, proiettata in un mondo che plasmava sulle proprie aspettative. Un universo che oltre quella porta cessava di esistere per il bene di Naive. Eppure lì dentro, sola, si immaginava solo una ragazza, come se si vedesse da fuori: la protagonista di un film a cui ancora il meglio doveva capitare. Quella che sul letto, insicura e impaurita, rigirava il cellulare che magicamente sarebbe squillato, mostrando sul display il nome della persona che aspettava. Questa le avrebbe detto di essere lì sotto, che tutto non sarebbe stato perfetto ma sarebbe andato bene perché sarebbero stati insieme. Sarebbe corsa giù per le scale, gli avrebbe gettato le braccia al collo e regalato il bacio migliore di tutti i tempi, probabilmente si sarebbe pure messo a nevicare e lei non avrebbe sentito freddo, perché l’adrenalina, l’eccitazione e il sentimento provati in quel momento le avrebbero scaldato il cuore.
Sospirò triste.
Peccato che la vita non fosse un film. Non esistevano quel tipo di uomini come non esisteva il finale perfetto, perché molte volte non era nemmeno felice. Lei aveva una figlia, era freddolosa e non regalava baci infuocati, lei baciava solo con tutta se stessa, il risultato stava agli uomini giudicarlo.
Prese il telefono e digitò il numero di Rhys, era stufa di aspettare il miracolo che non sarebbe avvenuto. Voleva delle risposte e se le avrebbe cercate alla fonte, nonostante fossero le dieci passate di sera. Sapeva bene che un uomo come Rhys a quell’ora non poteva essere a casa a dormire. Era più probabile che fosse con la Cheryl di turno a divertirsi come Pemberley non era riuscita a fare perché interrotta dalla figlia.
«Pronto?». La voce era stanca e scocciata, non cercava nemmeno di nascondere il fastidio per quella chiamata.
«Ciao, vedo che alla fine non ti sei fatto più vivo». Non si era preparata un discorso, aveva così detto la prima cosa utile che le era passata per la testa.
«Acuta» rispose con scherno e amaro in bocca.
Una situazione dove entrambi erano stati feriti dall’altra persona e ognuno pensava di avere ragione. Quella conversazione non li avrebbe portati poi molto lontano.
«Tutto qui? Sparisci con un “è meglio parlarne con calma” e invece non ti fai più sentire? È questo che fa di te il grande uomo d’affari che sei? Wow, mi aspettavo molto di più». Forse non era stato giusto rinfacciargli certe cose, voleva risposte, non l’aveva chiamato per insultarlo in modo gratuito, ma l’indifferenza e il suo fare scocciato l’avevano ferita più del dovuto.
«Pemberley, ti parlerò chiaro, ma solo perché all’inizio ti sei rivelata più intelligente delle altre, poi sei diventata arrivista come tutte loro». Prima di riprendere il discorso parlò con l’assistente di volo e allacciò la cintura di sicurezza: quello non era il momento adatto per una telefonata simile, ma non poteva più evitarla ormai. «Mi avevi colpito, eri riuscita a renderti interessante ai miei occhi. Avevo deciso di provare a vedere dove portava questa cosa tra noi due, ma non è andata. Alla prima opportunità hai mentito. Ok, non è una cosa grave, ma già faccio fatica a vivere una relazione a due normale, stavo provando a entrare nell’ottica, ma proprio di fare il padre di una bambina e il terzo incomodo in una coppia no, questo no. È troppo anche per me».
Parlò ancora con l’hostess, chiedendole di posticipare il volo di qualche minuto ancora. Lei annuì e si diresse professionale e seria verso la cabina del comandante.
«Avevi tutte le potenzialità per essere qualcosa di più, ma per me la storia è chiusa così. Troppi contro e pochi pro a tuo favore». Concluse infine, come se fosse stata la riunione della sua società sui bilanci annuali e non la telefonata che riguardava la presunta relazione tra due persone.
«Certo, e io dovrei essere uguale alle altre sciacquette che ti continui a scopare e farmi andar bene tutto quello che dici perché sei un Hewitt, giusto?». Scattò a sedere, l’adrenalina in corpo era troppa per rimanere ancora distesa e tranquilla sul letto. «Ti sbagli. Io voglio risposte, e me le devi di persona»
«Ma io non ho nulla da dirti». Come se questo potesse liquidare il discorso.
Pemberley si alzò per raggiungere la finestra e fissare la strada cercando ristoro con la fronte nel vetro trasparente, non era possibile avere a che fare con un simile elemento, non credeva che potesse essere così ottuso. Sapeva che con una persona così non sarebbe stato facile avere a che fare, ma non si sarebbe mai aspettata che fosse meschino fino a tal punto.
«Io non sono un’opzione, non sono una seconda scelta o un tentativo. Non sono nemmeno un fottutissimo contratto o un affare di cui valutare i pro e i contro. Sono una persona e come tale vado trattata. Ho sbagliato, è vero, ma tu ti stai dimostrando un vero immaturo. Sarai anche un uomo d’affari, ma il tuo essere virile è limitato a quel campo».
Non riusciva a stare lì e sentirsi sminuire per essere diventata madre, non dopo aver rinunciato a tutto ciò in cui credeva e voleva a diciassette anni. Si era ricostruita, reinventata e aveva fatto in modo che questa nuova lei potesse coincidere con il suo ruolo di madre. Nonostante non avesse seguito la strada che aveva sempre sognato, aveva trovato una buon piano B, quello che prevedeva il provare a essere felice con una figlia piccola da crescere da sola e un lavoro che le piaceva molto. Il resto sarebbe venuto dopo, passo dopo passo.
«Non parlare della mia virilità senza nemmeno conoscermi!». L’errore in cui incorrevano tutti: pensare di conoscerlo dopo averlo visto un paio di volte, la presunzione di sapere chi fosse perché conoscevano il suo cognome e la storia che dietro esso si celava. Lui era sì la HewittCorp, ma era anche altro. Nemmeno lui però sapeva cosa.
«È la stessa cosa che stai facendo tu con me!» urlò Pemberley di rimando, ricordandosi solo in un secondo momento della figlia addormentata nella stanza lì vicino.
Quel commento esasperato era riuscito dove i dialoghi di prima avevano fallito: Rhys sembrò accorgersi della verità di quelle semplici parole, sgonfiando così il petto e l’orgoglio, dovendo ammettere a se stesso che non si era comportato in modo civile. Aveva i suoi modi per discutere con la gente, ma Pemberley non meritava un simile trattamento nonostante avesse sbagliato a nascondergli una cosa così importante come la figlia.
«Senti, io sono sul un jet che mi sta per portare in Russia, ho problemi gravi da risolvere, devo proprio partire. Ti prometto che quando torno parliamo, anche se per me, per ora, il discorso è chiuso. Sono comunque disposto ad ascoltarti, lo trovo giusto».
E forse quelle parole, arrese, sincere e concesse per pietà, la ferirono ancora più del resto del discorso rabbioso affrontato fino a poco fa.
«Buon viaggio. Fatti sentire al tuo ritorno». Riattaccò senza nemmeno dargli il tempo di salutarla, se mai l’avesse desiderato, non voleva dargli minuti necessari a fargli capire il perché della voce incrinata.
Era stata trattata come uno dei tanti contratti che stipulava o rifiutava per lavoro, al pari di un affare poco promettente che non avrebbe voluto chiudere.
Si gettò sulle coperte con la faccia sprofondata nel cuscino, liberando i primi singhiozzi attutiti dal guanciale. Era stata paragonata a un foglio di carta, a un interesse, a un rischio che non andava nemmeno corso. Declassata a quelle ragazze sciocche e belle che frequentava di solito.
E lei prima gli aveva creduto, aveva creduto alla favola che lui aveva iniziato a dipingere con la timidezza di una persona che cammina con i piedi di piombo e armeggiava con pennelli ancora più pesanti. Lei aveva cominciato a intravedere i colori di sfondo, lo scenario che avrebbe contornato le loro avventure, non poteva negare di averlo visto. E ora non c’era più niente.
I pennelli avevano smesso di dipingere, i piedi avevano interrotto la loro andatura greve e la firma non era stata apposta al contratto, perché fallato. Era diventata un foglio di carta straccia, abbandonato sopra le coperte di un letto, mischiato con il pianto che del lattice avrebbe accolto per evitare che Naive si svegliasse.
Lasciò sfogare le proprie illusioni disattese finché i singhiozzi divennero sommessi e gli occhi pesanti, lasciando il posto all’orribile sensazione di addormentarsi con la faccia sul cuscino bagnato dalle proprie lacrime, con la certezza di svegliarsi con lo stesso dolore che sperava di abbandonare nel sonno.
 
«Ciao nonno!» Naive abbracciò Terrence e si diresse nel gazebo riscaldato che era stato costruito in giardino apposta per l’occasione. Era uno di quei the organizzati da Felicia per piantare le basi di un nuovo evento benefico per la Lost Children, ma sembrava più uno spuntino a Versailles, tanto era organizzato nei minimi dettagli.
«Vai piccola, gli altri bambini ti stanno aspettando!» le urlò il nonno vedendola allontanarsi contenta verso l’apposita area bimbi: anche i genitori più reticenti, in questo modo, non avevano scuse per mancare all’evento. Non se c’erano persone addette alla cura dei loro figli, niente scuse a riguardo. Felicia era una maga dell’organizzazione, una manipolatrice del tempo altrui.
«Ciao papà». Aveva davvero voglia di rivedere suo padre. In quel periodo così frenetico non aveva avuto modo di passare a salutare i genitori e passare del tempo con loro. Nonostante fosse stupido, aveva sentito la loro mancanza, i momenti passati con entrambi erano sempre piacevoli.
Gli lasciò un bacio sulla guancia, come suo solito, ma fu lui a stupirla.
«Ciao tesoro». La abbracciò non lasciandola andare. «È da un po’ che non ti fai vedere come si deve, mi sei mancata».
Era cresciuta di colpo la sua piccola. Una mattina si era svegliata grande, con le paure e le responsabilità del mondo degli adulti sulle spalle e una sola, piccola, certezza nella pancia. Quella sicurezza che le aveva stravolto la vita, come la loro.
Aveva passato troppo tempo a criticarla per quella gravidanza prematura e inaspettata, tanto da dimenticare di assisterla e infonderle un po’ di coraggio. Era l’unica figlia che aveva e con lei aveva sbagliato tutto.
Si era dimenticato del torto fatto alla famiglia e al suo nome solo quando le manine minuscole di Naive si erano posate sulla sua, gli occhi neri e vacui che cercano di focalizzarlo.
In quello sguardo aveva rivisto la figlia diciassette anni prima, la sensazione di paura e felicità che la nascita del primo figlio aveva svegliato in lui, il rendersi conto che Pemberley aveva affrontato la gravidanza lontano da tutto e tutti, soprattutto dalla persona che aveva amato.
Si era reso conto di aver perso troppo tempo a insegnarle il galateo, troppi giorni spesi a rimproverarla per non essere la migliore, aveva perso i mesi della gravidanza della figlia con il terrore di non vederla tornare.
E ora, in quel periodo che aveva seguito il Natale e aveva visto il ritorno di Nathan,  aveva desiderato averla di nuovo con sé e per sé. Donarle sicurezza e infonderle amore, rassicurarla e non vederla andare via da loro, la famiglia di lei, perché l’amore per un figlio non cessava nel momento in cui questo diventava adulto. Aumentava nel vedere che con esso si era fatto un buon lavoro, e Terrence era orgoglioso di aver cresciuto una ragazza che, forte, aveva saputo cavarsela da sola così presto e con un peso non indifferente sulle spalle. Era caparbia e risoluta, una donna di cuore, sempre pronta ad aiutare gli altri, di meglio non poteva certo aspettarsi.
Sapeva di essersi sbagliato in passato quando la spronava a fare di più, perché di meglio da Pemberley non poteva aspettarsi.
Non sarebbe mai riuscito a dirglielo, probabilmente, dato che non era nel suo carattere aprirsi a cuor leggero verso il prossimo, ma avrebbe fatto di tutto per farglielo capire e, quell’abbraccio, era un punto di partenza.
Pemberley si ritrovò a gettare la braccia attorno alla spalle del padre. Non si ricordava il tempo di regalargli un po’ d’affetto e le faceva un immenso piacere.
Quell’abbraccio sapeva di nostalgia e famiglia, richiamava l’odore di quella casa e la memoria era andata a parare sul color pesca della carta da parati di camera sua. Quelle braccia erano sicurezza e protezione, amore e tutto ciò di cui aveva bisogno. Non avrebbe mai smesso di abbracciare suo padre, perché non avrebbe mai smesso di volergli bene.
«Papà! A quest’ora già con il gin?» lo ammonì ironicamente non appena sciolto l’abbraccio vide il bicchiere pieno nella sua mano.
«Tesoro, tua madre sta facendo dannare chiunque da stamattina, dovrò pur sopportarla in qualche modo, non trovi?» e sorrise allegro. «Inoltre non è gin, ma scotch»
«È davvero così isterica oggi?» era una di quelle giornate in cui sopportarla sarebbe stata un’impresa davvero difficoltosa.
«Secondo te perché ho aperto io? Agata è stata monopolizzata dalla versione posseduta di mia moglie. Tocca a me aprire la porta e svolgere altri compiti che spetterebbero alla domestica!». Alzò gli occhi al cielo, poi si concesse un sorso del suo scotch.
Oh no. Sua madre in versione “perfetta padrona di casa” era letale. Un misto tra la perfetta casalinga di Wisteria Lane e il più spietato calcolatore strategico di Risiko: niente era lasciato al caso, nemmeno il più piccolo gesto o sorriso. Diventava inquietante, come i serial killer che si vedevano nelle varie serie Crime di cui la televisione era ormai piena.
«Oddio, sarà una lunga giornata»
«Campale, oserei dire» replicò Terrence facendole strada mentre la guidava verso il salotto dove poteva già sentire in lontananza la voce civettuola e lusinghiera di sua madre nei confronti delle amiche più strette, le menti che la sostenevano nell’associazione.
«Hai ancora un po’ di quello scotch? Penso di averne più bisogno del the per sopportare tutto questo» fece una smorfia disgustata.
«Ma certo tesoro. Andiamo nel mio studio» e senza nemmeno avvisarla cambiò direzione. Percorsero stanze immerse nel confortante silenzio prima di arrivare nel sospirato studio. «Tieni Pem cara, si vede che sei una Voight, sono fiero di te».
Fecero tintinnare i bicchieri e poi ne bevvero un po’ prima di lasciare la sensazione pacifica che aleggiava in quella stanza: sapevano entrambi che era giunto il momento di presenziare davanti agli ospiti con il loro miglior sorriso, ma non senza il loro bicchiere di scotch.
Si avviarono verso il salotto con lo stesso passo strascicato di un condannato a morte, prima però che Pemberley potesse palesarsi davanti a sua madre e alla rispettive ospiti, Felicia le comparve davanti in tutto il suo splendore.
Fasciata da un tubino verde acqua, mostrava tutta la sua eleganza nel sapersi muovere a dovere. Tutto in Felicia Voight trasudava portamento e austerità. Il taglio corto con i riflessi dorati del parrucchiere ben rappresentavano l’ordine e il rigore così insiti in lei; gli occhi, a metà tra il verde e il marrone, erano specchi impenetrabili di un animo che non lasciava sfuggire nulla, solo le rughe erano testimoni visibili del tempo e delle esperienze che la vita le aveva posto sul cammino.
Felicia era una donna abile nel persuadere la gente, esperta nel saper gestire il tempo – poco importava che fosse il proprio o quello altrui – come meglio riteneva, maestra nel portare l’opinione dalla propria parte. Ecco perché dopo l’onta portata da Pemberley con la sua gravidanza fuori da un normale matrimonio, aveva saputo ricrearsi, formando un nuovo interesse con lo stesso giro d’amicizie e ampliandolo pure, perché la beneficienza non si fermava davanti a nessuno.
Come un gatto cascava sempre in piedi; fiera e controllata in pubblico come nel privato, era la roccia su cui il marito e l’associazione contavano nei momenti più delicati da affrontare.
Educata nei migliori istituti privati del paese ed europei, ogni suo gesto era moderato e calcolato. Ogni sorriso, ogni espressione facciale – specialmente se correlata ai rapporti sociali – era studiata e controllata, così come tutti i gesti, o le parole.
Aveva provato a essere libera, tempo addietro, ma la sua libertà aveva comunque dei paletti che lei stessa si imponeva. Tutto questo perché Felicia era così, e non poteva essere diversamente.
Metodica e appassionata nell’insegnamento, aveva preso entrambe le doti e le aveva trasposte alla beneficienza. Era una donna che aveva imparato a camminare con le proprie gambe appena potuto, e aveva cercato di insegnarlo alla figlia che, a discapito dei precetti materni, era cresciuta libera da certe imposizioni.
Felicia Voight sapeva come gestire ogni tipo di situazione ma, anni prima, non aveva saputo guidare la figlia: la madre, razionale fino al midollo, sapeva valutare cos’era meglio per gli altri, per se stessa e faceva sempre collimare i due aspetti; Pemberley, invece, del parere altrui non se ne curava affatto, perché a ragionare col cuore arrivava sempre alle conclusioni migliori per sé e per le persone che la circondavano. Il mondo poteva pure andare al diavolo.
«Tesoro, sei arrivata!» le andò incontro per baciarla su una guancia prima che le amiche catturassero tutta la sua attenzione. Solo quando le fu vicina sentì l’odore di alcool.
«Prendi una mentina prima di raggiungerci, cara». Le sorrise confortante e indicò il bicchiere. «Lascia perdere i veleni di tuo padre».
Pemberley storse la bocca, sentendosi di nuovo la bambina in dovere di andare contro a tutta quella perfezione così insopportabile se paragonata alla sua misera persona. Al posto di abbandonare il bicchiere finì l’ambra sciolta contenuta in esso. «Lo farei mamma, ma per affrontare questa scocciatura avrei bisogno che pure il the fosse corretto con lo Scotch».
Felicia alzò gli occhi al cielo ma non ribatté. Pemberley era stata sempre indisponente, in particolar modo nei suoi confronti, ma in silenzio apprezzava molto la dote di tener testa a qualsiasi individuo; sapeva che, in questo modo, non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da nessuno. Se si fosse trovata al suo posto, invece, a causa della sua indole così ligia al dovere, avrebbe ascoltato le parole della figura genitoriale da cui sarebbero arrivate e si sarebbe allontanata a testa bassa, con la sensazione di non aver lottato abbastanza per quello che realmente desiderava. Ma la sua adolescenza era avvenuta in tempi diversi e l’educazione ricevuta era stata opposta a quella della figlia.
Guardava Pemberley con preoccupazione e orgoglio, lei era il motivo per cui aveva deciso di non avere altri figli. Aveva sempre la sensazione di non aver fatto abbastanza per la figlia, che al posto di fare la madre si fosse posta come un’insegnante o un’educatrice. Eppure, nonostante la gravidanza fuori programma, il frutto di quegli insegnamenti e quell’educazione erano davanti ai suoi occhi, e non erano affatto male. Il ruolo di madre l’aveva sempre spaventata, era vissuta col terrore di non essere all’altezza del compito, creando così una sorta di distacco emotivo con Pem che era andata a recuperare solo dopo l’arrivo di Naive.
Pemberley non solo non gliel’aveva mai rinfacciato, ma le aveva permesso di riaffacciarsi nella sua vita come se fosse stata la prima volta. Era felice di aver capito di essere stata utile alla figlia: quando l’aveva vista con Naive, così spontanea, attaccata a lei e vitale, aveva capito di essere stata per Pem l’esatto esempio di madre che lei mai avrebbe voluto essere.
«Io mi dileguo e torno ai miei affari» dichiarò Terrence allontanandosi, prima che la moglie potesse prenderlo sottobraccio come con la figlia per trascinarlo là dove iniziava a crearsi un certo fermento di donne e idee.
«Divertiti anche per me papà!» urlò Pemberley di rimando, strizzandogli l’occhio con fare scherzoso. «Su, andiamo a fare le donne impegnate prima che io scappi nell’area bambini e mi tuffi nelle palline colorate».
Odiava svolgere il ruolo della figlia perfetta, dato che nonostante la finzione non riusciva mai a raggiungere i livelli della madre. Non faceva per lei stare al centro dell’attenzione con quell’aria eterea e patinata, non era lei quella seduta con la schiena fin troppo dritta e la bocca serrata.
Lei era quella che metteva le mani nel colore insieme alla figlia, sporcandosi magliette e capelli, sfornava torte e si divideva in quattro per portare Naive a praticare qualche sport mentre lei era a lavoro. Lei sbagliava, rideva fin troppo, piangeva, si svegliava con gli occhi gonfie e, qualche volta, riusciva a essere davvero impacciata, più del consentito.
Ma chi era lei per rovinare la passione della madre? Erano stati anche questi eventi riguardante la Lost Children a farle legare come mai era successo prima della nascita di Naive, non aveva cuore di negarle una gioia simile.
«Palline colorate? Pem, non siamo in un centro commerciale, qui ci sono artisti che dipingono i volti dei bambini e intrecciano figure astruse nei palloncini!» la ammonì preoccupata, lei non avrebbe mai organizzato una cosa così dozzinale.
Pemberley le mise una mano sulla spalla, affiancandola. «Lo so mamma, ti stavo prendendo in giro».
Felicia le rivolse il sorrise divertito e sincero che in pochi conoscevano. Quel sorriso nuovo, nato con la nipote e sfruttato nei momenti più intimi e veri.
Eppure c’era qualcosa che riusciva a farle spegnere sul nascere quel barlume di segreta e inaspettata felicità.
Si fermò in un salottino piccolo e di passaggio, una stanza già pronta per il party ma ancora vuota delle persone che avrebbero dovuto riempirla. Si girò verso la figlia per affrontarla, la sua indole pignola e ricercatrice doveva sapere.
«Ho saputo che Nathan è tornato in città. A vivere» aggiunse l’ultima parte per sottolineare che sapeva tutta la faccenda nonostante la diretta interessata l’avesse taciuta.
Pemberley le piombò quasi addosso, data la brusca frenata. Ma quello che più la stupì fu la rivelazione della madre. «Come fai a saperlo?»
«Naive né è così felice da dirlo a tutti. Avresti dovuto insegnarle la riservatezza, se avessi voluto vederla mantenere i segreti» si interruppe il giusto per permetterle di accusare il colpo ma non proferire parola. «Perché non me l’hai detto?»
«Perché speravo di evitarmi una spiacevole conversazione con te come questa» ammise contrariata. Nathan era stato uno dei pochi argomenti in grado, in quegli anni, di mettersi tra loro.
«Pemberley» la riprese la madre in tono serio, come se la questione fosse di vitale importanza. «Sei sicura che non sia qui per mettere su famiglia?»
E Pemberley, dopo quelle parole, aveva visto chiaramente negli occhi della madre una scintilla ardere di speranza. Perché per lei la storia di Pem e Nate doveva avere una sola conclusione: doveva finire con una loro riconciliazione. Un matrimonio e un nucleo famigliare normale.
Lo desiderava per Naive, lo anelava per vedere le cose come dovevano andare già nel passato ma, soprattutto, lo voleva per far sì che, agli occhi di tutti, la questione venisse risolta nel modo più semplice possibile, seguendo cioè il corso naturale degli eventi,  con due genitori che, dopo la nascita della loro figlia, convolavano a giuste nozze.
«No, mamma. È qui per lavoro e anche per Naive. Nient’altro». Una rassicurazione per se stessa, una pena in più per Felicia.
«Eppure, se vi impegnaste entrambi, potreste provarci di nuovo…» lasciò cadere la donna, come se una cosa simile non l’avesse pensata dal primo momento in cui aveva saputo del ritorno di Nathan.
Pemberley alzò gli occhi al cielo. Troppe volte avevano affrontato quel tipo di discorso, e nessuna delle due era intenzionata ancora, dopo tempo, a muoversi dalle proprie posizioni. «Sono passati dieci anni da quando stavamo insieme. Siamo due persone diverse, non ci sono più i sentimenti di una volta. Certo, siamo legati, abbiamo una figlia e gli vorrò sempre bene, ma nulla più».
Sapeva a memoria quel breve discorso, perché era sempre lo stesso che riproponeva alla madre. A quanto pare, però, non le entrava in testa.
«Perché non pensi a quello che è giusto? Avete una figlia Pemberley, non è un giocattolo». Le labbra formavano una linea dritta. L’espressione più seria che Felicia potesse mai sfoggiare. La stessa linea dritta da cui Pem si sentiva sempre giudicata e che la metteva in soggezione ma che, col tempo, aveva imparato a combattere.
Difatti non ci stava più a essere trattata come la bambina che doveva essere messa in punizione e castigata. Aveva imparato a dar voce ai propri pensieri, e quello era il momento adatto per dare loro una forma concreta. «Penso a quello che è giusto per me, non a quello che fa felice te. Preferisco che mia figlia abbia due genitori che non stiano insieme ma che vadano d’accordo, piuttosto che una famiglia a tempo determinato e pronta a scoppiare da un momento all’altro per poi lasciarsi dietro solo rancori e pianti».
In quella parte di vita Felicia non aveva potere su di lei, ma ancora non riusciva ad accettarlo. Pemberley non voleva che mettesse il becco in affari che non la riguardavano, ma conosceva troppo bene la madre per sapere che non si sarebbe mai tirata indietro.
«Sono sicura che non sareste a tempo determinato se solo ve ne convinceste». Aveva perso il tono da insegnante che spiegava un concetto semplice a studenti svogliati assumendo quello di una madre preoccupata che sembrava vedere più in là della figlia. Forse aveva l’esperienza dalla sua, non aveva di certo certezze, ma sapeva che quello che diceva non era poi così sbagliato.
Ma Pemberley era irremovibile, preda della rabbia e della sua voglia di sentirsi grande di fronte alla donna che la faceva sentire sempre piccola e sbagliata. Non aveva capito i toni della madre, rovesciandole così addosso tutto il nervosismo accumulato in quei minuti.
«Questo è quello che ti racconti perché ti piacerebbe vederci insieme e mettere a tacere le malelingue che ti hanno costretta a cambiare casa» la voce di lei rotta dalla conoscenza di essere stata il suo più grande dispiacere. «Mi dispiace mamma di essere stata la fonte di imbarazzo di questa sontuosa famiglia, mi spiace essere stata la tua delusione più grande, ma le cose stanno così e non le posso cambiare. E dato che quello che è successo mi ha dato Naive non le vorrei cambiare di una virgola» si asciugò il paio di lacrime che erano rotolate lungo le guance senza notare lo sguardo triste di una madre che non voleva creare tutto quel dolore e concluse: «Ora è meglio tornare dagli invitati, si staranno domandando che fine tu abbia fatto».
 
Il the era diventato, come da programma, un piccolo party a tutti gli effetti. La casa era riempita dal vociare dei molteplici ospiti che riempivano i saloni e altre stanze. Se prima le donne a cui l’associazione faceva riferimento avevano parlato degli ultimi dettagli dell’evento in programma, ora dovevano vendere al meglio il loro prodotto per trovare i fondi da raccogliere in giro per tutta New York.
Pemberley vagava per la festa con il suo piattino pieno di biscotti e leccornie varie nel tentativo di evitare la gente. Il suo trucco di non fermarsi un attimo sembrava funzionare, anche se la deprimeva non poco: Naive era insieme agli altri bambini e lei era da sola a fissare facce che non riconosceva neppure.
Nathan era al corrente del party e, parlando con la madre della figlia aveva convenuto che saltarlo sarebbe stata una cosa a suo favore. Eppure, in quel momento, anche lui sarebbe stato di compagnia.
«Ciao Pem» riconobbe subito la voce, e fu grata a sua madre per quell’invito.
«Ciao Cass!». Posò il piatto su un tavolino di fortuna lì accanto e gli mise le braccia al collo in un gesto fin troppo grato. «Finalmente qualche viso amico».
Nel momento in cui Pemberley gli baciò la guancia, sua madre passò di lì e assistette alla scena.
«Pem, tesoro, è lo zio di tua figlia, non il tuo concubino. Un po’ di contegno, su».
Cassidy sorrise a quelle parole, lusingato che a ogni donna nei suoi paraggi si potesse collegare una liaison con lui, dopo però vide la faccia della sua presunta compagna, e la risata si spense nel constatare che Pemberley non l’aveva presa bene tanto quanto lui, così decise di andare in suo soccorso.
«Tranquilla Felicia, se volessi essere il suo concubino» disse avvicinandosi alla donna per poterle girare intorno mentre, con studiata lentezza e voce suadente, le accarezzava le spalle con un solo dito. «Lo sarei già. So come fare per ottenere quello che voglio».
Era un baro, un seduttore che coglieva ogni sfida che gli si presentava davanti. Felicia Voight stava stuzzicando il suo lato peggiore, e si stava divertendo a metterla in difficoltà.
«Come fai?» lo chiese più per cortesia che per curiosità. Anche se, data la situazione imbarazzante in cui si trovava, avrebbe voluto sapere da cosa difendersi. Cassidy era stato presente nella sua vita, ma non l’aveva mai capito. Se serviva a comprenderlo, avrebbe accettato ogni tipo di risposta. Inoltre sapeva che porre quella domanda avrebbe posto fine alla tortura gratuita a cui la stava sottoponendo.
«Studio la preda» iniziò facendole capire a cosa serviva girarle attorno. «La ammalio, la faccio sentire in trappola e le faccio capire che io sono la sua unica via d’uscita». Concluse piazzandosi davanti a lei, come a esplicare il concetto.
«Ma, tranquilla Felicia, le donne sposate e devote al proprio uomo non fanno al caso mio. Peccato, perché sei ancora splendida. Ora vado, ho della compagnia che mi attende assetata». Le fece un inchino, nell’allontanarsi fissò l’amica e le rivolse un sorriso complice e le strizzò l’occhio davanti alla riconoscenza che lei gli aveva sussurrato.
Felicia alzò le mani al cielo con un’espressione scossa «Dio del Cielo, quel ragazzo è un vero demonio tentatore! Su Pem, accompagnami a prendere un po’ d’aria».
Fu nel tragitto che Pemberley, distratta dagli amici della madre, finì per scontrarsi contro uno degli altri invitati.
«Mi scus…». Quando si accorse chi ebbe urtato lasciò da parte le buone maniere per sfoderare tutta la sua sorpresa: «Josh?! Cosa ci fai tu qui?»
Prima che Joshua potesse rispondere, fu Cassidy a girarsi verso di lei – attratto da quel tono allibito – e a risponderle. «L’ho portato io, è il mio accompagnatore all’evento».
La bocca tonda e gli occhi spalancati di Pemberley furono per Cassidy la migliore risposta alla sua affermazione. Si adorava ancora di più quando riusciva a sorprendere le persone a lui più care. Sapeva che nemmeno Pem avrebbe sfidato sua madre invitando un ospite dello stesso sesso con cui intratteneva un rapporto ben poco casto sotto le coperte. Lui invece aveva portato Josh presentandolo solo con il suo nome, senza dare modo a lei di pensar male, ma toccandogli la spalla spesso davanti agli altri invitati in modo di dar adito alle fantasie più scabrose.
Cassidy era così: un narcisista che adorava stare al centro di ogni attenzione, poco importava se fosse benevola o meno. Il suo ego traeva godimento dal suscitare l’interesse altrui, l’orgasmo che gli occhi di emeriti sconosciuti provocavano in lui, leggendo in essi sorpresa e sconcerto, era pari a quello che un amante gli regalava a letto.
«Sì, usciamo insieme». Precisò lui dopo quel silenzio sembrato interminabile a tutti.
Nel voltarsi verso Pemberley si scontrò con lo sguardo d’ammonizione di lei, una cosa che non si sarebbe mai aspettato.
In quel momento il telefono di Joshua squillò e, ignaro delle occhiate dei due, chiese scusa prima di allontanarsi e cercare una zona con meno brusio per il sottofondo di quella chiamata.
«Fino a quando?». Quasi non lasciò il tempo all’amico di allontanarsi abbastanza, rivolgendosi verso Cass. Lo conosceva bene, tanto da sapere che se non avesse ripreso subito il discorso lui avrebbe fatto di tutto per cambiare argomento e soprassedere, peccato che con lei non potesse permettersi un tale lusso.
Cassidy prese a camminare con lentezza tra la gente indaffarata a chiacchierare: ogni passo, una nuova parola da aggiungere al discorso. Un ritmo lento, cadenzato e silenzioso per la sinuosità dei suoi pensieri e del suo essere.
«Fino a quando non mi sarò stancato di quello che può offrirmi, ovvero quando perderà l’odore della novità». In quelle parole, dette nel tragitto che li avrebbe portati in cucina, non c’era accusa, presunzione o altro. Era soltanto Cassidy in una forma meno concreta e palpabile: quelle parole così radicate in lui da sentirle scorrere nel sangue e fluire nel mondo che lo circondava come un vero e proprio biglietto da visita.
«Non voglio sapere altro perché non lo trovo giusto, inoltre è la persona più vicina a un amico che ho, mi dispiacerebbe vederlo ferito da te». Come avrebbe potuto dividersi tra lo zio di sua figlia e quella specie di amico?
Le dispiaceva essere così negativa, ma sapeva bene che con Cassidy non sarebbe durata a lungo, perché la relazione più duratura che aveva avuto era quella con se stesso, ed era così longeva solo perché era costretto a rimanere nella propria pelle. Inoltre aveva una certa esperienza in merito: se non era durato un grande amore come il proprio, pochi altri avevano la possibilità di resistere per sempre. Forse capitava solo nelle favole.
«Tranquilla, non lo perderai e non rimarrò ferito. È solo gay, non è una donna che piagnucola su un uomo per due appuntamenti e, quindi, sull’idea che si era fatta di lui e i relativi castelli in aria». La frecciatina di Cassidy colpì il bersaglio, facendola sobbalzare.
Pemberley ringraziò di aver a portata di mano la penisola della cucina. Avrebbe dovuto dirgli che aveva fatto un passo avanti nei confronti di Rhys, avendone fatti così cento indietro. Avrebbe voluto raccontargli della telefonata per filo e per segno, ma in quel momento sentiva che il the offerto dalla madre non era abbastanza e le serviva del vino. Dell’ottimo vino con cui avrebbe tanto voluto cancellare le ultime informazioni e annegare i propri dispiaceri.
«Dov’eri finita? Ti cercavo! Tua madre stava tentando di farmi entrare nella fondazione come socia. Sono dovuta scappare». La voce squillante e briosa la distrasse dal suo rovistare negli armadietti dell’immensa cucina. Che il catering avesse fatto sparire tutto l’alcool?
«Ciao, angelo». La salutò Cassidy spogliandola con gli occhi.
Quel saluto la mise sulla difensiva, tanto che la nuova arrivata non faticò a trovare e sfoggiare la solita risposta.
«Ciao, stronzo».
Pemberley si lanciò di nuovo nell’impresa di trovare dell’alcool in quella casa. Con quei due nella stanza ne avrebbe avuto ancora più bisogno. Si domandò se qualcuno si fosse accorto di lei mentre cercava di entrare nell’ufficio del padre e finire il suo Scotch.
«Allora, quando uscirai con me?». Cass, armato di sicurezza e fascino, la fissava con uno sguardo famelico e divertito, come se prenderla in giro fosse diventata d’improvviso la sua ragione di vita, l’evento della festa.
«Mai, conoscendola. E fa bene». Pemberley si intromise, ma nessuno dei due le diede importanza, racchiusi com’erano in quella bolla creata da scherno bonario e odio ferito.
«Quando i cani saliranno al potere o quando tu concepirai il concetto di monogamia. Quindi oserei dire con una certa sicurezza: mai».
Silene Endeckis era nata con tratti gentili che si riflettevano appieno nel suo nome. Silene, una variazione di Selene che in greco designava la luna, era stata pitturata con i tratti da cui il nome stesso prendeva spunto. Greca d’origine, almeno da parte paterna, aveva la pelle bianca come la luna e gli occhi chiari come il suo lato nella penombra. Tondi come il satellite terrestre nella sua fase di pienezza, colpivano tutti per la sincerità che vi brillava all’interno.
A incorniciare le gentilezze della pelle candida e delle pozze chiare, c’erano dei capelli scuri e ribelli, ondulati come il mare Ellenico che lambiva le coste della civiltà occidentale.
Silene era lo specchio della sua terra d’origine. Era forte e taciturna, solida ed eterea, sembrava fosse sempre circondata da un’aura argentea che, agli occhi altrui, la faceva assomigliare a una dea, nonostante di donne più belle ce ne fossero molte. Era il fascino delle parole che non proferiva, il silenzio brillante che la avvolgeva.
Poi qualcosa l’aveva cambiata, rendendola sempre lei, ma un po’ meno fedele a se stessa.
«Peccato. Saresti l’unica donna con cui sarei disposto a sposarmi e a cui sarei probabilmente fedele». Il sorriso si era cancellato, lo sguardo aveva perso la malizia di prima, il tono di voce era diventato quasi serio.
Eccola lì, la Nemesi della luna. Il nero dentro cui l’argento era stato risucchiato.
Era durante il primo anno di College, quello che Cassidy aveva smesso di frequentare dopo la laurea, che Silene aveva nascosto il suo lato niveo e argenteo dietro l’ombra dell’omologazione.
Il suo anno da matricola si era concessa il lusso di aprirsi al mondo: senza Pemberley al suo fianco aveva partecipato a feste con la sua compagna di stanza, una ragazza divertente e socievole. Era a una di quelle feste che aveva rivisto Cassidy, il fratello dell’ex della sua amica, il ragazzo grande di cui a scuola aveva sempre sentito parlare con ammirazione. Il fratello che Nate doveva portarsi alle feste affinché sorvegliasse i ragazzi, lo stesso con cui lei si era sempre trovata a scambiare quattro chiacchiere e per cui, in segreto, aveva un debole.
Lui si era avvicinato con il bicchiere rosso di plastica in una mano e il suo cipiglio beffardo. Dopo averle detto di essere lì perché si trovava sempre qualcosa di interessante ai party del college, l’aveva ubriacata di parole. Silene si ricordava ancora bene come l’aveva fatta sentire: capita, meno sola ma, soprattutto, unica. Come se le altre ragazze in quella sede della confraternita fossero sciocche e prive di importanza al suo confronto, perché Cassidy aveva ammesso che lei era diversa, con quella luce così particolare e pura a circondarla.
Lei, sul vecchio dondolo sotto il porticato, l’aveva baciato, mostrando un’intraprendenza mai avuta. Aveva fatto scorrere la propria lingua tra le sue labbra, richiamando un istinto primitivo e mai sopito che aveva risposto al suo muto appello.
Cassidy le aveva stretto la mano e l’aveva portata di sopra. Separarsi, lasciare il portico calmo e romantico, aveva interrotto la magia che solo una persona che portava la luna con sé poteva provare. Aveva provato a riprendere il discorso, ma Silene non era il tipo di ragazza pronta a farlo sul letto di uno sconosciuto per far godere le orecchie e le malelingue altrui. Non era da lei concedersi con tanta leggerezza, perché le persone che vedevano la profondità del mondo la ricercavano anche nelle persone.
Aveva cercato la magnanimità di Cass, trovandola. L’aveva accompagnata fino al dormitorio e lei era riuscita a strappargli la promessa di vedersi il giorno dopo. Un appuntamento.
Si era addormentata con la gioia di aver raggiunto un briciolo della felicità prefissata, ma la vita non aspettava nessuno, e il giorno successivo ne portava le tristi prove.
Cassidy le aveva mandato un messaggio sul cellulare dove le diceva che lei era meravigliosa e si meritava di meglio di uno mediocre come lui, perché al momento non avrebbe potuto offrirle quello che lei voleva. Non era pronto a dedicarsi a una sola persona.
Seppur arrabbiata, aveva apprezzato la sincerità. Eppure la sera l’aveva visto con Cindy, e la mano sotto la maglietta di lei non lasciava presumere niente di diverso: in quel caso era riuscito a dedicarsi a quella ragazza e basta. Poi l’aveva rivisto a un’altra festa, in compagnia di Ted, uno del secondo anno. Un’altra sera con Daisy e quella dopo con Zoey. Senza tralasciare Matt.
Forse era vero, non sapeva dedicarsi a una sola persona all’infuori di se stesso, però sapeva offrirsi alla totalità del campus con una certa propensione.
Aveva pianto Silene, lacrime argentee come il suo nome e colme di odio radicato come lo era l’Olimpo nelle memorie degli uomini. Si era lasciata ingannare da parole dette per colpire, non perché sentite. Non voleva essere un’altra tacca sulla cintura di Cassidy, non voleva essere una delle tante, che fosse un Alcott o qualunque altro ragazzo. Non meritava di essere mischiata con la gente qualsiasi, lei valeva e non doveva essere lui a decidere chi lei fosse. Gli aveva creduto, e avrebbe ricordato a vita a cosa aveva portato, e cosa era successo, ad aver fiducia in Cassidy.
Fu così che l’aura di Silene un po’ si spense, o meglio, si nascose nell’oscurità del mondo che la circondava. Mostrarsi per quello che era l’aveva resa debole, e lei – debole – non lo voleva essere più.
Nemesi era ciò che l’aveva distrutta.
Cassidy era stato la sua debolezza, la parte che lei aveva nascosto con il suo lato più ingenuo e puro, quello che la invogliava a fare meglio e fare sempre di più.
«Perché vorresti farmi un simile torto?»
E forse lui era pronto a rispondere, ma non era il momento di affrontare un discorso troppo serio per un tipo così. Fortuna volle che in cucina arrivò un Joshua con gli occhi spiritati, sembrava uscito dalla lavatrice.
«Per fortuna vi ho trovati!» disse cercando di prendere aria, dato che aveva il fiatone.
«Sei scappato perché Felicia stava provando a convincerti di far parte dell’associazione o di fare una donazione?» Cassidy aveva riacquistato il buonumore davanti al suo accompagnatore. Aveva rilassato le spalle e allargato gli angoli delle labbra in un sorriso divertito, come se quello scambio con Silene non fosse mai avvenuto.
Joshua annuì concitatamente, facendo ridere i presenti.
«Ciao, noi non ci conosciamo, io sono Silene».
Una mano tesa verso quello sconosciuto che tutti sembravano conoscere, non le piaceva partire svantaggiata e voleva recuperare il tempo perso. Era un uomo che non aveva mai visto, le sembrava giusto mostrarsi una persona educata e presentarsi, specialmente se il ragazzo in questione era carino ed era una perfetta scusa per dimenticarsi di Cassidy e dell’irritazione che le aveva fatto provare, ancora una volta, con la sua sola parola e la voce profonda che gli grattava un poco la gola e rendeva la sua parlata così sensuale.
Silene si ritrovò spiazzata davanti alla reazione entusiasta del ragazzo orientale.
«Non ci posso credere, finalmente! Ho sentito così tanto parlare di te. Io sono Joshua». Davanti alla faccia poco convinta di lei, e a quei suoi occhi sorpresi e terrorizzati, anche se bellissimi, decise di presentarsi come più poteva conoscerlo. «Yoshi, quello del Café»
«Oh» si stupì ancora di più Silene in uno dei pochi momenti di ingenuità che ormai si concedeva. « Ti immaginavo vecchio e brutto».
Lui le strinse la mano, e lei ritrovò la sensazione di casa e abitudine che Pemberley sempre le aveva descritto quando parlava di Joshua. Lo stesso ricordo avvolgente e rassicurante che un caffè caldo con una spruzzata di cioccolato e caramello regalava al palato. Non poté non essere conquistata, almeno un po’, da tutto quello. Era un ragazzo affascinante.
«E invece?» la rimbeccò. Era divertito dal suo fare così trasognato. Gli piaceva essere studiato da quegli occhi chiari che sembravano anni luce da tutti gli altri occhi che aveva incontrato. Continuava a sbatterli senza volerlo, cercando di capire cosa si nascondesse dentro di lui e non per cercare di catturare la sua attenzione con fare da gatta morta. Quel continuo movimento, però, lo incuriosiva parecchio.
«Sei giovane e sexy!» decretò lei infine con una risata divertita e un’ammiccata voluta.
Era ritornata la Silene che nel mondo si era inserita come uno squalo, quella che parlava con tutti e aveva sempre la battuta pronta. La parte di sé spaurita e rovinata da un uomo come Cass l’aveva nascosta in un angolo del suo essere, tenuta a bada da un raziocinio fermo e severo.
Yoshi alzò per un secondo soltanto le sopracciglia, assecondando lo strano spettacolino che si era venuto a formare davanti al suo accompagnatore e Pemberley, non calcolandoli nemmeno.
«Mi piacciono le persone che la pensano come me» e le strizzò l’occhio con fare complice.
A creare l’elemento di disturbo in quella fittizia armonia ci pensò Naive con la sua presenza. Era sgattaiolata dalla zona bambini per concedersi un bicchiere d’acqua. Era stufa di andare al buffet per l’acqua aromatizzata e tutte quelle cose strane che offriva da bere la tavola imbandita. Lei voleva della semplicissima e banalissima acqua.
Quando si ritrovò davanti quella riunione improvvisata, composta da quattro paia d’occhi che la scrutavano quasi straniti, si sentì in dovere di spostarsi i capelli dietro l’orecchia, piegare la testa verso destra e domandare: «Di cosa state parlando?».
Pemberley, se avesse potuto, le avrebbe detto che stava cercando dell’alcool per ubriacarsi, dato che la sua vita era un totale fallimento da quando aveva diciassette anni ed era il disonore della madre e il pessimo investimento di Rhys. Decise di optare per un fastidioso silenzio che sperava di riempire con qualche idea dell’ultimo minuto.
Cass e Sil sapevano che non era il caso di dire a una bambina di dieci anni che avevano problemi a relazionarsi tra loro a causa del sesso e delle incomprensioni che la mancanza di questo aveva portato nel loro rapporto, avevano provato a rispondere in modo neutro, ma nulla era uscito dalle loro bocche.
«Di quanto sia bella l’amica della tua mamma, piccola». Yoshi aveva visto lo sguardo preoccupato di Naive davanti alle espressioni colte in fallo degli altri tre, aveva così deciso di salvare tutti, parlando e interrompendo quel fastidioso silenzio.
L’ultima frase, insieme a quella precedente, fecero scattare qualcosa in Cassidy.
«Sei bisex?!» quasi urlò nel rivolgersi al suo accompagnatore.
Intanto Pemberley aveva provato a tappare le orecchie a Naive, ma non sapeva quanto avesse ottenuto, dato che era avvenuto tutto in un attimo.
«Perché, tu no?». Una domanda retorica.
«Certo» rispose ovvio Cass. «Ma io te l’ho detto».
Joshua alzò le spalle con fare indifferente. «Io no, in fondo non era utile ai fini del nostro frequentarsi».
Talmente semplice che non faceva una piega come discorso.
Il silenzio si era fatto teso, nessuno sapeva cosa dire o fare per smuovere la situazione.
Fu la famosa ingenuità infantile a parlare per bocca di Naive.
«Mamma, cos’è bisex?» lo sguardo curioso di chi non riusciva a capire nonostante lo desiderasse con tutto il cuore e la voglia di conoscere di chi sapeva che doveva ancora scoprire molto riguardo il mondo che le stava attorno: Naive era così.
Amava la figlia per la sua sagacia, ma odiava quanto in fretta potesse apprendere e registrare il suo cervello. Non voleva farla crescere prima del tempo, voleva che si godesse un mondo popolato da unicorni, fiori e farfalle fin quando avesse potuto. Era facile volerlo abbandonare alla sua età, il voler sentirsi grandi a tutti i costi, ma era un’innocenza che – quando andava persa, con il senno di poi – si rincorreva per una vita intera da adulti, una sensazione che mai più si sarebbe provata.
«Un biscotto» rispose d’istinto la madre, cercando di salvare la situazione.
Se la sentenza fece trattenere un sorriso a Silene e Joshua, fece invece scoccare un’occhiata di rimprovero da parte di Cassidy. Aveva imparato dalla paura verso le diverse sessualità a comportarsi in quel modo sfacciato. Ostentava il sesso e le sue preferenze sessuali per irritare chi non le condivideva, perché aveva passato troppo tempo confuso e in balìa delle persone meschine che lo giudicavano senza sforzarsi di capire.
Davanti a quello sguardo ferito Pemberley sospirò arresa all’evidenza: Cassidy non gliel’avrebbe fatta passare liscia, e forse era giusto iniziare a trattare la figlia come un piccolo adulto e non come la bambina che aveva sempre visto.
Silene, capita la gravità della situazione, prese Joshua a braccetto e indicò con la testa il party che, nel frattempo, incalzava senza di loro. Quale modo migliore per dare fastidio a Cassidy se non cercare di rubargli il divertimento di turno? Josh, d’altronde, non le dispiaceva affatto; non doveva neppure sforzarsi di fingere che le interessasse, perché era incuriosita da lui in modo sincero.
Cassidy era poggiato al bancone della cucina: le braccia incrociate e negli occhi il fuoco inquisitorio di chi pretendeva che la verità venisse rivelata e fosse fatta giustizia, non intendeva cedere di un passo finché non avesse sentito Pemberley dare delle spiegazioni decenti alla figlia. E la diretta interessata sapeva di non potere sfuggire né a lui né al suo sguardo.
Non sarebbe scappata da lui, dal suo giudizio muto che sapeva di delusione, fino a quando non avrebbe spiegato a Naive come girava davvero il mondo, senza raccontare favole o frottole.
«Tesoro, avvicinati». Naive, che si stava allontanando, tornò sui suoi passi e si fermò davanti alla madre. «Bisex non è un biscotto, ma è una persona che ama sia uomini che donne».
Sperava che fosse abbastanza per Cassidy, anche se aveva storto la bocca e alzato gli occhi al cielo prima di annuire, e che lo fosse pure per Naive, perché non avrebbe retto davanti alle sue domande dirette e sincere.
Lei, dall’alto dei suoi dieci anni e delle sue conoscenze sull’amore, alzò le spalle prima di parlare. «Bello! Tutti dovrebbero amarsi, uomini e donne».
Cassidy, chiuso nel suo silenzio fatto di speranze, aveva sorriso dietro alla barba di qualche giorno, sentendo nelle parole della nipote uno spirito libero da pregiudizi, avendo la sensazione che forse, un giorno, il mondo sarebbe stato un posto migliore.
«Ma certo amore, tutti e indistintamente». Le sorrise la madre, tranquillizzata dalla sua reazione entusiasta.
Fu Naive a sorprendere i presenti, rabbuiandosi un poco. «Però io non sopporto Nancy Decker, ecco perché sono scappata dall’area gioco. Ora ci torno, ma non penso che adesso mi starà simpatica o le vorrò bene» si allontanò dallo zio e dalla madre agitando la mano. Poi, sulla soglia, si girò verso di loro «Cavoli, è difficile amare tutti».
Riprese il percorso che aveva interrotto, lasciando aleggiare tra Cassidy e Pemberley un clima disteso che fece dimenticare loro il perché si erano ritrovati in cucina.
«Ottimo lavoro» si congratulò lui, soddisfatto del discorso che Pemberley aveva fatto a Naive.
«Sei un cretino. Ti sei occupato tanto dei tuoi affari da non notare che Silene ti ha soffiato l’accompagnatore da sotto il naso».
Pemberley lo fissò mentre, preoccupato, si ributtò nella festa, lasciandola senza compagnia e senza vino.
 
«La HewittCorp è davvero molto legata alla Lost Children, se siamo qui è proprio grazie a loro…» sua mamma, menzionando le grandi società di New York, stava cercando di far colpo su quella coppia di texani appena conosciuti. D’altronde si presentava alle feste a Manhattan proprio per trovare nuovi accoliti, e quale modo migliore se non pronunciare il nome di una società rinomata in tutti gli Stati Uniti?
Un’idea improvvisa colpì Pemberley in quel momento di noia.
«Mamma, appena siamo più tranquille mi racconti la storia della famiglia Hewitt?» gliel’aveva sussurrato soltanto quando i coniugi del sud si erano distratti un attimo, spinta da quel moto di curiosità che la portava a chiedersi come mai, a due settimane dalla parte, Rhys non fosse ancora tornato.
«Con piacere tesoro, con calma ti racconterò quello che so». Lo faceva con piacere, perché vedere interessata la figlia a qualcosa che riguardava la società era un evento unico, un’occasione irripetibile che non si sarebbe fatta certo sfuggire.
Inoltre, a un po’ di pettegolezzo, non avrebbe mai detto di no.
 
Era quasi febbraio, la sera in cui era felice di essere rintanata in casa con Naive, dato che fuori imperversava un vero e proprio acquazzone.
Stesa sul divano grande, avvolta da una coperta e in compagnia della figlia – sdraiata sul divano più piccolo – si godeva la pioggia che, violenta, batteva sui vetri scivolando poi arresa sulle finestre. Il rumore aveva creato un dolce sottofondo a cui si accompagnava solo il bagliore di qualche lampo o il frangente di un paio di fari che passavano sotto casa loro.
Fu nel momento in cui sentirono picchiare alla porta con una certa forza e disperazione che si spaventarono entrambe.
«Mamma, chi è?» Naive , terrorizzata da quel colpire furioso e inaspettato, si era tirata il plaid fino al naso, come se servisse a proteggerla.
«Non lo so, vado a vedere. Tu resta qui».
La piccola non se lo fece ripetere due volte. Cercava soltanto di spiare dal divano verso la porta, in tensione.
Pemberley, con il cuore a mille, aprì l’uscio il minimo indispensabile, quello che la catena permetteva per spiare fuori casa.
Se, fino al momento prima di alzare lo sguardo, il cuore aveva accelerato i battiti, davanti a ciò che le si era presentato aveva smesso di martellare per una manciata di secondi.
Chiuse la porta per togliere la catena e poterla aprire del tutto: doveva vedere con i propri occhi che non si stava sognando la persona al di là dell’uscio.
Senza niente a separarla dalla persona fuori di casa, il cuore le sprofondò nello stomaco, ingoiato da quella stretta piacevole e dolorosa al tempo stesso.
Due occhi chiari e duri del colore della tempesta, tanto erano burrascosi, da farle paura. La pelle imperlata dalla gocce di pioggia che non l’avevano risparmiato, nonostante per molti fosse una specie di Dio sceso in terra. Ma si sapeva: la natura non faceva sconti a nessuno.
E poi Pemberley si accorse che non c’era rabbia in quello sguardo, ma solo la stessa disperazione che aveva percepito nei colpi sul legno che tanto l’avevano spaventata. Intimorita lo era ancora, perché nonostante la persona davanti a lei fosse vestita di tutto punto, quello sguardo e quella disperazione erano la nudità di ciò che aveva dentro: paura, terrore, smarrimento.
Rhys Hewitt vestiva un impermeabile fradicio di pioggia, ma era la sua anima a essere corrosa dal ticchettio della pioggia, non l’esterno che, nonostante tutto, era curato. Era vestito delle sue scuse, indossava le sue paure per la prima volta senza vergognarsene, troppo preoccupato per pensare di apparire debole o fragile, perché la vita l’aveva infine travolto.
«Ho trovato il portone aperto. Io lo so, non dovrei essere qua… Solo che…» era fermo sulla porta, incerto su quale parola mettere in fila alla precedente. «Non sapevo a chi rivolgermi»
«Cosa c’è?».
In quel momento Pemberley aveva visto i fantasmi del suo passato vorticargli attorno. Dopo aver parlato con la madre della storia degli Hewitt aveva compreso il motivo del viaggio in Russia, sapeva cosa c’era là, almeno in parte.
«Ho bisogno del tuo aiuto». Il tono supplichevole che mai gli era appartenuto in ventotto anni di vita, la richiesta che non aveva avuto bisogno di fare prima di quel momento.
Alzò le sopracciglia in un’espressione stupita, perché non riusciva a trovare le parole adatte per invitarlo a proseguire.
Voleva che lo facesse? Era lì, disperato, bisognoso del suo aiuto in quel momento, ma era la stessa persona che aveva tagliato i ponti con lei per non aver raccontato la verità. E, anche se l’avesse fatto, l’avrebbe scaricata per un esubero di responsabilità da parte sua. Era disposta a concedere aiuto a una persona simile?
Rhys fu bravo a leggere la sua incertezza. Decise così di giocare a carte scoperte almeno una volta, ne aveva bisogno.
Si girò verso la propria sinistra, invitando qualcuno a farsi avanti.
Comparì, timido e lento, un bambino sui dieci anni dai capelli incredibilmente biondi e gli occhi chiari. A dirla tutta, sembrava la copia di Rhys, o la sua versione infantile.
«Lui è Austin» disse appoggiandogli la mano sulla spalla con fare paterno.
Non le ci volle altro per capire la situazione.
Ora il viaggio in Russia aveva assunto un significato diverso, aveva compreso lo sguardo di terrore di Rhys.
«Vieni, entrate pure». Si fece da parte, liberando la via d’entrata per permette loro di accomodarsi. Aveva deciso, ancora una volta, di essere la persona buona che meglio le riusciva.
E capiva cosa l’aveva convinta ad accettare quella richiesta d’aiuto.
Gli occhi di Austin erano spaventati tanto – e come – quelli di Rhys.
Occhi di chi non sapeva dove guardare, lo sguardo di chi aveva perso tutto, soprattutto la via da seguire.
Ecco cosa l’aveva impietosita: negli occhi di Rhys aveva visto lo sguardo di un bambino sperduto.
Lo sguardo di Austin.

* * *

Buonasera! Mi scuso per il ritardo, ma il capitolo è stato ostico e io sono stata risucchiata dalla vita vera... è stato difficile far conciliare tutto. Ma alla fine ce l'ho fatta, no?
Per farmi perdonare ho scritto un capitolo più lungo del solito e, alla fine, ho sganciato la bomba. Questa parte sarà fondamentale ai fini della storia perchè "la riscriverà" ancora, nel prossimo capitolo verrà spiegato chi è Austin e perchè si trova in America.
Avete notato che non c'è stato Nathan? Cosa ne dite, meglio o peggio?
Non sarà sempre così, purtroppo per voi, perchè anche lui è un protagonista. Inutile dire che Rhys, qui, è stato uno schifo d'uomo. Riuscirà a redimersi, prima o poi?
Spero che possa esservi piaciuto!
Intanto vi ringrazio per aver continuato ad aggiungere la storia nonostante la mia latitanza prolungata.
Come avete notato ho modificato il titolo della storia. Questa parola m'è balzata in mente per sbaglio, sentendo una canzone e giocando con le parole. Ho trovato che, come titolo, fosse adatto, solo che odio cambiare i titoli alle storie in corso, così l'ho solo aggiunto. Ecco tutto.
Siccome dovrò lavorare alla tesi e studiare per gli ultimerrimi esami *w*, non so quando arriverà il prossimo capitolo. Sappiate solo una cosa: non abbandono la storia.
Nel mio gruppo fb troverete le facce dei protagonisti. Nel caso foste curiose vi lascio il link, lì aggiorno sempre anche sulla situazione del capitolo in lavorazione: Love Doses.
Ho notato una cosa: se dopo aver letto guardate la copertina della storia nel capitolo 1, capirete tutti gli elementi e tutte le foto. Gli spilli, il metro, i due bambini...
A presto, sbaciucchiamenti, Cris.

 

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Capitolo 7
*** Di principesse e di regine di cuori spezzati ***




Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Nella puntata precedente: Pemberley trova il coraggio di chiamare Rhys che, con i suoi soliti toni freddi e quasi sgarbati, le fa capire di averla scaricata tempo prima.
Pemberley partecipa a un the organizzato dalla madre. Qui Felicia le dice che sa che Nathan è tornato in città. Il the diventa una specie di cocktail party, dove Felicia cerca donatori e nuovi soci per la "Lost children", l'associazione benefica di cui fa parte.
Al party prendono parte anche Cassidy e la sua straripante bisessualità, accompagnato da Joshua. Silene conosce Josh e si scopre che il ragazzo non è gay come Cass pensava ma è bisex come lui. Dopo aver scoperto tramite un flashback che Silene era innamorata di Cassidy e tra i due non c'è un buon rapporto (almeno, per lei è così), Sil ne approfitta per avvicinarsi a Yoshi.
Una serata tranquilla tra Pemberley e Naive viene sconvolta da una presenza inaspettata. Rhys si è presentato alla loro porta con un bambino, Austin. Chi è?

 

Capitolo 7
 
Di principesse e di regine di cuori spezzati

 
Sapeva che c’erano domande a cui non si poteva rispondere in modo sincero, e se avesse dovuto scegliere la più gettonata e la più difficile, con una certa semplicità avrebbe risposto con: Come stai.
Era la domanda che riceveva meno volte la verità. Usata più spesso come forma di cortesia, metteva in difficoltà chiunque la subisse. La gente avrebbe voluto rispondere con sincerità, ma l’interlocutore non sempre era disposto a sentire l’altro aprirsi. Era più facile dire “Bene, grazie, e tu?” piuttosto che un “Sto male. Sono ferito, deluso, triste. La situazione è difficile, mi sento confuso e sto da schifo”. Non si sapeva mai se incorrere nella pietà altrui, una cosa orribile agli occhi dell’umanità, raccontando la verità, o se rispondere con il classico e fantomatico “bene” per soprassedere argomenti spinosi.
Pemberley si era sempre domandata quanti sorrisi finti le fossero stati regalati alla domanda rivolta con una certa ingenuità.
Eppure questa volta sapeva di non dover porre la domanda, perché no, Rhys non stava affatto bene e glielo si leggeva negli occhi.
Non c’era stato bisogno di domandare nulla: aveva invitato i due bambini ad andare in camera di Naive a giocare o a guardare un cartone, poi loro si erano accomodati in religioso silenzio sul divano. In quel momento nessuna parola riusciva a rendere lo strazio che albergava negli occhi chiari di lui.
Pemberley si alzò solo al fischio del bollitore che aveva messo a scaldare nell’accompagnare i due bambini nella cameretta, portando al suo ritorno due tazze di the fumanti.
«Non hai niente di più forte?» non voleva ubriacarsi Rhys, voleva solo trovare una soluzione al suo problema. Desiderava che qualcuno gli indicasse la via, perché lui non la vedeva. Era conscio che i liquori non avevano la risposta, ma forse avrebbero calmato i nervi più di un the caldo.
«Vivo in casa con una bambina di dieci anni, secondo te tengo alcoolici in casa?» era seria, ma non arrabbiata.
Avrebbe dovuto esserlo, in realtà, lo sapeva anche lei. Era stata scaricata senza grazia, come se l’avesse visto per lavoro e non per conoscerlo come persona e costruirci qualcosa, eppure la curiosità in quel momento ebbe la meglio. Voleva sapere cosa l’aveva ridotto in quello stato di shock, cosa l’aveva spinto a presentarsi lì, proprio da lei, così fragile senza che gliene importasse nulla. Proprio a lui, che odiava mostrarsi umano agli occhi del mondo.
«Be’, dovresti» concluse assente lui sorseggiando il the in mancanza d’altro.
«Quante pretese da uno che mi liquida come se fossi carta straccia che gli è capitata tra le mani».
Ma Rhys non le stava prestando attenzione, perso com’era nei suoi pensieri. Aveva lo sguardo perso nella parete davanti a sé. Pemberley avrebbe voluto essere arrabbiata con lui, ma vedere che il calore del the man mano lo calmava, la portava a chiedersi con più interesse come mai si fosse presentato lì, a casa sua, bisognoso del suo aiuto.
Gli allungò un asciugamano affinché si levasse la pioggia dai capelli, e lo osservò durante l’operazione.
Era strano come fosse a suo agio seduto su quel divano, sembrava una persona tranquilla, se a tradirlo non ci fossero stati i suoi occhi, così spalancati e spaventati da essere innaturali. Lo sguardo di un folle che Pem non aveva mai visto di persona. Era strano come a volte si girasse a guardarla ma non la vedesse davvero. Era così che doveva essere la visione del mondo di Rhys: asettica e senza partecipazione. Lui era l’osservatore che dirigeva i fili invisibili di un mondo che, ai suoi piedi, prendeva la direzione che lui più preferiva, senza mai prendervi parte davvero.
«Penso che tu conosca la storia della mia famiglia» esordì all’improvviso, lo sguardo vacuo ma la voce ferma di chi era pronto a fare un lungo discorso.
Pemberley annuì, e seppe di essere vista con la coda dell’occhio.
«Mio padre che ci abbandona per sfuggire a guai finanziari quando avevo solo dodici anni trasferendosi in Russia, la morte di mia madre qualche anno dopo… Insomma, un gran casino». Una parola che sulle sue labbra così eleganti strideva, almeno all’apparenza, perché rendeva bene lo stato in cui lui versava. «Là si era trovato una nuova moglie, un nuovo lavoro e un nuovo figlio, perché forse io non ero abbastanza. Arina, la sua seconda moglie, è morta quattro anni fa. Una malattia fulminante, ho scoperto».
«Mi dispiace…» provò ad accennare lei, ma Rhys la interruppe subito.
«Tranquilla, io non l’avevo mai vista, se non in foto. Non ho visto mio padre per sedici anni, se devo essere sincero. L’ho rivisto per la prima volta quando tu mi hai chiamato. Stavo partendo perché, dopo la sua scomparsa dalla mia vita, mi aveva chiamato per chiedermi di raggiungerlo».
Averebbe voluto provare a confortarlo un poco, ma aveva paura di incorrere nella reazione fredda di poco prima. Le parole di lui erano graffi sulla sua pelle sensibile. Si vedeva che l’avevano segnato come stavano facendo in quel momento con Pemberley, ma lui cercava di tenere i fatti lontani da sé; non aveva ancora capito che l’avevano travolto e lasciato agonizzante, era troppo invischiato e sotto shock.
«Mi ha trascinato là per salutarlo prima che se ne andasse. Sono andato per Austin».
«E perché l’hai portato con te negli Stati Uniti?». Non capiva come Austin c’entrasse in tutto quello, come salutare suo padre dopo sedici anni lo avesse portato ad avere un bambino con sé.
«Dovevo. Mio padre era malato, allo stadio terminale. È morto durante la mia visita a San Pietroburgo. Ancora una volta mi ha cercato per i suoi scopi. Austin è suo figlio» ammise rancoroso.
Era evidente, perché sembrava di vedere un piccolo Rhys, ma sentirglielo dire ad alta voce le fece un certo effetto.
«Mi dispiace per tuo padre». Un nodo le serrava la gola. Se solo avesse pensato alla morte di suo papà avrebbe potuto immaginare il dolore straziante della perdita. Poteva sentire come il grido di sofferenza avrebbe graffiato la gola per uscire e dare forma al male che l’avrebbe afflitta.
Rhys, invece, sembrava indifferente. Nel suo sguardo si leggeva solo la rabbia per la mancanza di quella figura e per tutti gli oneri che a lui, il figlio che sembrava potesse cavarsela da solo, aveva lasciato.
Alzò le spalle, liquidando la questione: «Muoiono tutti. A lui è successo come sperava: lontano da tutto ciò che non gli è mai piaciuto». L’America, i soldi corrotti che aveva lasciato, una famiglia. Lui.
«Quindi hai un fratello» cercò di cambiare discorso Pemberley.
«Fratellastro». La corresse con quel tono astioso. «Come se al momento fosse questo il problema maggiore».
Lo disse a se stesso, come a cercare di convincersi che da quel legame non derivassero solo problemi, come se la gente, dopo aver sentito la storia, riuscisse a fornire a lui la soluzione più semplice che invece non riusciva a vedere.
Lei lo fissò stupita, perché non capiva cos’altro fosse potuto succedere.
Rhys intercettò lo sguardo e, per la prima volta, alzò il viso nella sua direzione, gli occhi presenti e colmi di paura. «Mio padre ha redatto un testamento prima di morire. Mi ha dichiarato unico tutore legale di Austin. D’altronde sono l’unico famigliare che gli è rimasto».
E le parole che bruciavano le labbra avevano dato un senso alla sua rabbia. Aveva odiato due volte suo padre, una con più ferocia dell’altra. La prima era capitata durante il suo abbandono repentino e indesiderato a dodici anni, quando si rifugiò in Russia per sfuggire al carcere. Rhys era stato abbandonato dal padre senza convenevoli, né un saluto più sentito o sofferto. Era sparito come se fosse stato pronto a tornare, l’aveva fatto a cuor leggero.
La seconda volta era risalita a quel suo viaggio. Per lui Mitchell non aveva fatto nulla dopo la sua fuga. Non era tornato per la morte della ex moglie, aveva solo alzato il telefono per sentire il figlio rimasto solo. L’aveva chiamato poche altre volte, ma non era mai per assicurarsi della sua salute o perché sentiva la sua mancanza, erano sempre conversazioni legate al patrimonio o alla società. Invece per Austin aveva deciso diversamente, Hewitt Senior.
Non solo gli aveva concesso di aver un padre durante tutti quegli anni, ma gli aveva voluto così bene da voler che anche dopo la propria morte il figlio avesse comunque una persona a cui far riferimento. Ad Austin era toccato avere una nuova figura genitoriale, a Rhys un nuovo onere da parte del padre.
Spesso si era domandato cosa avesse fatto di male per meritare l’odio del proprio genitore, e non capiva perché tutti gli dicessero di non odiarlo; non riusciva a fare altro, era l’unico sentimento che riusciva a provare verso suo padre. Eppure alla sua prima richiesta d’aiuto era corso dall’altra parte del mondo, in cerca del suo affetto.
Pemberley, invece, era atterrita per quel povero bambino. Aveva perso i genitori troppo presto e si era ritrovato come unico punto di riferimento uno sconosciuto. Un fratello che non aveva mai vissuto la vita e che non si era mai assunto delle vere responsabilità, a meno che non riguardassero ingenti capitali; perché Rhys non sapeva curarsi di se stesso, era inimmaginabile che riuscisse a occuparsi di una persona all’infuori del proprio io.
In quel momento si sentì una pessima persona perché, nonostante tutto, le stava venendo da ridere. Rhys aveva perso un padre mai conosciuto e aveva trovato un fratello che aveva bisogno di una guida che lo crescesse ed educasse. Ci trovava del ridicolo, dato che lei era stata scaricata quasi un mese prima perché aveva una figlia e lui non era in grado di affrontare una situazione così grande e complicata. Non voleva assumersi una minima responsabilità, provare a frequentare una donna con prole, e ora il destino l’aveva fatto diventare una sorta di unico genitore per un ragazzino che nemmeno conosceva.
In quel momento vedeva quanto fosse immensa la solitudine di Rhys.
«E come potrei aiutarti io in tutto questo?»
«Io non so come si gestiscono queste cose, sei tu l’esperta. Sei madre!». Si mise le mani sulla testa, abbassando le spalle in segno di resa. «Ho provato a trovare una soluzione, ecco il perché della mia permanenza prolungata in Russia, ma niente è stato possibile. È come se mi appartenesse».
«Mi staresti chiedendo di fare da balia a tuo fratello?!» era sinceramente stupita. Come poteva arrivare a tanto?!
«No, a questo punto no. Ti sto chiedendo di insegnarmi a prendermi cura di lui. Non ho idea di come si faccia, da dove si parta. Non so prendermi cura di me stesso, figurarsi di una ragazzino di undici anni a me sconosciuto».
L’aveva fissata con lo sguardo perso e terrorizzato, spento. E qualcosa dentro di lei si accese di dolore, una ferita che mai si era saturata. Avrebbe voluto dirgli con tutto il cuore di arrangiarsi e lasciarlo a navigare nel suo mare come lui aveva fatto con lei scaricandola, ma conosceva fin troppo bene la sensazione di essere abbandonati a se stessi, e non l’avrebbe augurata a nessuno, neppure a Rhys.
Era successo tutto durante i sei anni di Naive.
Aveva organizzato verso fine ottobre, due giorni dopo il compleanno della figlia, una festicciola a casa tra le compagne di scuola e le rispettive madri. Un modo per far socializzare Naive e per permettere a Pem di conoscere i genitori dei compagni della scuola elementare, tutti nuovi per lei.
I palloncini riempivano il salotto, le scritte glitterate con il nome della festeggiata pendevano dal soffitto e la torta era stata glassata dalle mani della madre tutta la mattina. Aveva ridotto la cucina uno schifo ma era orgogliosa del risultato ottenuto. Non era facile essere madre, specialmente se single e giovane, ma Naive era la sua soddisfazione più grande.
La festeggiata era elettrizzata per la sua festa e per aver le amichette a casa, inoltre il padre sarebbe dovuto arrivare verso sera, un po’ dopo il taglio della torta. Era positiva e propositiva, aveva addirittura pensato a regalare piccoli gadget come cappellini e collane hawaiane alle piccole invitate.
Per sé, nonostante si sentisse ridicola, aveva comprato un cerchietto con le orecchie paillettate di Minnie, volendo essere ironica e colpire così i presenti, facendoli sentire a proprio agio o, almeno, divertirli.
Aveva sorriso a ogni bambina e alla rispettiva madre, accogliendole come meglio poteva. Anche Felicia sarebbe stata fiera di lei, ne era sicura.
Stava andando tutto per il meglio, quando si diresse in cucina per prendere altre bibite. Nel rientrare in salotto aveva colto il discorso tra due madri lì presenti.
«Dov’è il padre?»
«Non lo so. Per me non sa nemmeno chi sia, ecco perché non è presente».
A loro si unì il bisbiglio di una terza mamma, ben felice di poter gettare benzina sul fuoco: «È così giovane, secondo voi lascia a casa la figlia per andare a divertirsi? I figli illegittimi sono degni dei propri genitori»
«Sheila, che cattiva!». E risero in assenso. «Avete visto come la sta educando? La lascia libera di fare ciò che vuole, è assurdo»
«Forse perché è più occupata a pensare di trovare marito»
«Se qualcuno se la prende».
Decise di ritornare a respirare. Si asciugò gli occhi punti dal dolore e portò le bibite nella stanza, subito prese d’assalto dalle bambine assetate.
Cosa ne sapevano loro di come educava la figlia e come gestiva il suo tempo? Come si permettevano quelle puttanelle travestite da donne pie e bigotte di giudicarla senza conoscere la storia che aveva alle spalle?
Perché la gente era così cattiva?
Ma, soprattutto, dov’era Nathan?
Era convinta di non aver sbagliato tutto nella vita e in quel momento, loro, le stavano togliendo una delle poche certezze che aveva. Non sapevano cosa voleva dire vedere stravolgersi la vita senza nemmeno essere adulti, non sapevano cosa volesse dire vedere cambiare il proprio corpo senza vederlo maturo. Non avevano la minima idea, loro, di cosa volesse dire fare dei sacrifici per la propria figlia.
E non sapevano nemmeno il male che delle parole potevano infliggere.
«Mamma, dov’è papà?»
«Starà arrivando».
Decise così di stamparsi il sorriso migliore sulle labbra, di sistemarsi le orecchie da Minnie e diventare l’animatrice della festa, stando lontana da ogni madre che, comunque, si era ben guardata dall’avvicinarsi per scambiare due chiacchiere od offrire il proprio aiuto. Eppure sentiva i loro occhi come pugnalate nella schiena, le loro parole come lame che scalfivano la pelle e il cuore, ma lei era lì per la felicità di Naive, e contava solo quella.
Fu nel momento in cui aveva appena tagliato la torta che il suo cellulare le vibrò nella tasca. Approfittò della concentrazione sul dolce per allontanarsi e rispondere. Si diresse in cucina prima di schiacciare il tasto verde, l’unico luogo che quel giorno sembrava darle conforto.
«Nate, dove sei!» voleva porla come domanda, ma la disperazione di quella giornata si stava facendo sentire. L’avrebbe voluto lì  perché sarebbe stato il regalo più grande per Naive. Lo voleva presente alla festa perché aveva bisogno come non mai di un volto amico, di un sostegno a cui aggrapparsi in quel mare di odio in cui stava affogando. Voleva mettere a tacere le malelingue che le stavano lacerando la pelle. Era fondamentale per lei quanto per Naive quel giorno.
Forse, non era poi così diversa da sua mamma, rispetto al parere altrui.
«Sono ancora a San Fransisco…» provò ad aggiungere altro, ma il grido soffocato di Pemberley lo interruppe.
«Cosa? Stai scherzando?»
«Affatto. C’è stato un allarme bomba e hanno sospeso tutti i voli fino a data da destinarsi. Mi spiace Pem, ma non riesco a esserci. Forse arrivo domani. Mi dispiace mancare al compleanno di Naive».
Voleva morire. Come avrebbe potuto dire alla figlia che il padre non sarebbe arrivato? Come sarebbe uscita da quella cucina dandosi in pasto a quelle arpie senza sapere che Nathan sarebbe giunto in suo soccorso?
Non ce la faceva, semplicemente non riusciva a pensare di andare avanti a fingere, nemmeno per la figlia. «Tranquillo Nate. Anche a me dispiace, Naive ci rimarrà malissimo. Ma so che non dipende da te…»
Si appoggiò al muro, trattenendo i singhiozzi. Si sentiva morire, con il battito che veniva meno insieme alle forze. Aveva bisogno di riagganciare, di stare zitta e non pensare per un paio di minuti. Necessitava di immaginare di non essere lì, da sola, in quel momento.
«Ora sta mangiando la torta con le amiche, perché non la chiami verso cena, così riesci a salutarla e a parlarle?!». Sperava che il tono lacrimevole non avesse corrotto troppo le corde vocali che stavano cedendo al pianto, iniziando a bruciare.
«Ok, chiamo più tardi. Ti chiedo scusa, ma ho provato fino all’ultimo a trovare una soluzione. Mi dispiace tantissimo, spero di recuperare domani».
Ma era troppo tardi per recuperare, perché Pemberley stava morendo ora. Era in quel pomeriggio che lei stava pagando le cattiverie da cui la madre aveva cercato di scappare a sua volta, era in quel momento che lei si sentiva abbandonata a se stessa e al suo destino. Era lei quella data in pasto ai leoni senza essersene accorta prima.
«Lo so Nate, infatti non ce l’ho con te. Dai, a dopo. Devo tornare alla festa, serve qualcuno che tagli la torta prima che quei piccoli terremoti ci infilino le mani. Ciao». Non gli diede il tempo di rispondere, chiuse la chiamata al volo.
Scivolò lungo la parete cui era appoggiata, lasciando libere le lacrime di scorrere e ai singhiozzi di fare un minimo di rumore. Posò la testa sulle ginocchia, ignorando le orecchie di Minnie che ormai erano finite quasi sulla fronte e sfogando le sue paure e la delusione con il pianto. Era l’unica cosa che le riusciva in quel momento. Il solo mezzo per fronteggiare quel momento di panico che l’aveva paralizzata.
Quelle donne erano riuscite a farla affogare per la prima volta.
Sentì lo sguardo di Rhys bucarle il petto alla ricerca di qualche parola che potesse chiarirgli la via. Così, riscossa dalla sua vecchia vita, ritrovò il punto di partenza.
«Cos’hai pensato di fare con lui? Come pensi di gestire le vostre vite, ora?» doveva capire fino a che punto poteva conciliare la sua idea di famiglia con quella che Rhys aveva in mente; sentiva il bisogno di procedere per gradi.
Lui alzò le spalle, sconsolato e indifeso. «Non lo so. Penso lo manderò in qualche ottimo collegio estero, durante le vacanze estive una tata si occuperà di lui  e infine studierà in un’università qui, come Yale, Princeton o Harvard».
«Vorresti dirmi che sei convinto di mandare un ragazzino di undici anni, rimasto orfano e con un fratellastro sconosciuto come unico parente in un collegio straniero? Cosa ti dice il cervello?». Non poteva davvero credere di aver sentito ciò, era impossibile. Non voleva crederci. Era così cinico e senza cuore?
Rhys si sentì giudicato senza aver avuto modo di aprir bocca, cosa che lo fece mettere sulla difensiva. «Cosa dovrei fare? Io stesso sono cresciuto in questo modo! Non lo faccio per lavarmene le mani, ma perché io sono stato educato così». Giunse le mani lasciate penzolare tra le gambe. Quel fare inerme non gli si addiceva per nulla.
Non era cattiveria la sua, ma solo l’ottusità in cui era stato allevato e cresciuto.
Pemberley si sentì in dovere di provare a farlo ragionare come avrebbe fatto con Naive; ormai il suo istinto materno si riversava su chiunque. Era facile far ragionare la persona davanti a lei, anche se si trattava di Rhys, a volte era più difficile ragionare con se stessa.
«E come ti sei sentito a crescere così? Lontano da casa, dai tuoi; il dover chiedere aiuto a una tata e non a tuo padre o a tua madre…». Sperava che si ricordasse il senso di smarrimento che doveva aver provato durante la sua infanzia in uno di quei collegi sì lussuosi, ma freddi quanto il denaro con cui le laute rette venivano versate con rigida regolarità.
A lei non era mai capitata una cosa simile: aveva avuto tanti screzi con i genitori e un’educazione rigida, ma le erano sempre stati accanto, almeno come figure erano state presenze costanti, ma poteva immaginare quanto un uomo così anaffettivo fosse, in precedenza, un ragazzino ligio all’educazione impartitagli da figure esterne e non dai diretti genitori.
«Solo e abbandonato» rispose Rhys dopo averci riflettuto un po’.
Si ricordava come le stanze dei dormitori fossero ornate al meglio con le tende e gli scuri suntuosi e i mobili di ottimo legno. I letti erano a una piazza e mezza ed erano comodi, specialmente quando riempiti dai pensieri per una compagna di scuola.
Ma rimembrava alla perfezione anche la sensazione di freddo e vuoto quando serviva un consiglio, o l’abbraccio di un genitore in un momento di difficoltà. Se aveva un dubbio non poteva parlarne con i genitori se non per telefono, almeno fino a quando Mitchell era partito, così diceva la madre della sua fuga. Quando si ammalava non poteva chiedere le cure dei genitori, poteva solo agognarle nei deliri della febbre arginata dagli infermieri messi a disposizione nelle strutture.
«Vuoi che anche Austin si senta così e che cresca senza una guida, solo e senza riferimenti?!»
Voleva questo per lui? Era partito dalla Russia per arrivare negli Stati Uniti, era passato dall’avere un padre a un fratellastro molto più grande e mai visto; si meritava di fare la fine di una pallina del flipper e finire magari in Svizzera, senza l’unico punto di riferimento che doveva ancora imparare a conoscere?
Probabilmente no.
«In effetti no»
«E allora lascia perdere l’idea del collegio e della tata. Ci sono ottime scuole anche a New York, prendi una baby-sitter che lo prenda all’uscita da scuola e lo controlli quando sei a lavoro, ma dopo corri a casa. Devi diventare la cosa più vicina a un genitore che ha, non puoi sottovalutare la cosa o aggirare il problema, non esistono altre vie. Credimi, io lo so»
«È proprio per questo che mi sono rivolto a te». Provò a sorridere, ma sembrava che il peso della rivelazione di Pemberley gli avesse risucchiato le ultime energie. Era l’unica cosa che non voleva sentirsi dire, di quello ne era sicuro.
Non era pronto ad affrontare una relazione con una donna che era anche madre, e ora si ritrovava a essere padre a sua volta, il destino aveva un pessimo senso dell’umorismo, e lui non era tipo da stare al gioco. Stravolgere la propria vita per adattarsi a una nuova persona era un’esperienza nuova che non gli andava per nulla a genio.
«Peccato, pensavo fossi qui per me, non per il mio aiuto. Una donna ci spera sempre!». Ridacchiando aveva cambiato argomento, perché aveva letto la stanchezza negli occhi di lui. Forse aveva solo bisogno di sapere che le brutte notizie erano finite, quando in realtà il periodo più difficile della sua vita era appena iniziato e non aveva data di scadenza; eppure non c’era bisogno di metterlo al corrente di ciò proprio quella sera.
«Sei stato il mio primo pensiero e, credimi, non l’ho mai detto a nessun’altra» le sorrise stando al gioco ed essendole grato per aver portato a un livello più scherzoso l’atmosfera. «Spero tu possa darmi una seconda possibilità»
«L’ho fatto nel momento in cui ti ho permesso di varcare la soglia» rispose Pem un po’ più seria. «Mi auguro che ora tu non cambi di nuovo idea nei miei confronti»
«Hai altri figli?» sorrise divertito.
«Non che io sappia» poi sgranò gli occhi «Era forse una battuta? Stai migliorando!»
Sorrise compiaciuto del fatto che Pem avesse notato la sua vena ironica «È la stanchezza». Guardò l’orologio che portava al polso e si rese conto che era giunta l’ora di tornare a casa. «Meglio che vada, devo sistemare una camera degli ospiti per Austin. Suppongo di doverla riadattare alle sue esigenze e gusti»
«Bravo, mi sembra il primo passo per un’ottima convivenza». Pemberley sperava che potesse davvero funzionare. Per Rhys, perché nonostante non si sentisse tagliato per quel ruolo doveva imparare a conviverci, e per Austin, dato che era rimasto senza genitori troppo presto e aveva cambiato stato seguendo una persona a lui sconosciuta. Nessuno dei due aveva bisogno di un simile cambiamento, ma ormai era inevitabile per entrambi.
Rhys aprì la porta della camera di Naive e li trovò intenti a guardare un film di Harry Potter, mezzi addormentati. Richiamò il fratello con un certo imbarazzo, salutò la bambina e si diresse alla porta.
Lì trovò Pemberley pronta per salutarli e ricordare loro che erano i benvenuti.
E, come tempo prima, per rimandarlo al prossimo incontro, gli diede un bacio sulla guancia.
Un gesto che Rhys ritrovò con sorpresa e piacere, considerando che era così tipico di Pem da averlo quasi aspettato. Un bacio che lo aveva calmato più di qualsiasi discorso, infondendogli la fiducia che le parole non erano riuscite a dare.
«’Notte» le disse con un po’ di convinzione.
«’Notte ragazzi» rispose notando che gli occhi avevano ripreso un po’ del vigore perduto.
Naive li salutava con la mano, contenta di quel nuovo incontro. L’amico di sua mamma era un tipo a posto, specialmente se le portava nuovi amici con cui passare il tempo mentre loro parlavano di cose da grandi.
«Ciao Austin, ti aspetto per vedere il film successivo».
E la porta si intromise tra promesse di incontri a breve scadenza, ma sempre troppo lontani per due cuori troppo ottimisti.
«Mamma, Austin non è come gli altri bambini. Parla in modo strano, quando parla, e non ride mai, sembra sempre spaventato. Però mi sta simpatico, è ok»
«Vedrai che migliorerà piccola. Arriva da molto lontano e non conosce nessuno. Dagli il tempo di adattarsi e sarà ancora meglio». La spinse verso camera sua, dato l’orario. Era però convinta delle proprie parole, perché era un Hewitt, eppure era cresciuto senza le rigide imposizioni newyorkesi cui era stato sottoposto Rhys, aveva solo bisogno di tornare a vivere. «Ora su scricciolo, si va a nanna. È già tardi, domani c’è scuola».
La mise a dormire e, velocemente, indossò il pigiama: ad attenderla dopo quella giornata sfiancante c’erano le coperte calde, un richiamo a cui non riusciva a resistere.
Sapeva che doveva avercela con Rhys per essere stato così opportunista e averla cercata di nuovo nel momento del bisogno, ma c’era una parte di lei, nemmeno tanto piccola, che era semplicemente felice del suo ritorno; vederlo tornare sui suoi passi era stata per Pemberley un’immensa soddisfazione.
 
L’analisi mattutina era davvero una cosa a cui non riusciva a sfuggire ma che la demoralizzava a ogni esame.
Era strano pensare di avere ventisette anni e trovare il seno non più tonico ma provato dall’allattamento nonostante fossero passati dieci anni, non riusciva a guardarsi allo specchio e arrendersi alla forza di gravità. Come se non bastasse aveva dei capelli ingestibili che quella mattina avevano deciso di essere peggio del solito: la tinta li aveva resi aridi e ancora più crespi del normale, la ricrescita era ben visibile e i ricci che aveva cercato di domare in tutti quegli anni avevano deciso di esplodere proprio quella giornata.
Insomma, si vedeva un vero disastro, capiva perché gli uomini non la degnassero di uno sguardo.
In realtà non si era mai resa conto di far girare ben più di una testa lungo la strada, questo perché lei stessa era la prima a non prestare attenzione ai passanti; come poteva rendersi conto di chi la circondava quando il pensiero costante era stato rivolto in precedenza a Naive, e ora a Rhys e Nate?
Non c’era spazio per gli sconosciuti, quando a malapena aveva tempo per pensare agli altri oltre alla figlia, non poteva permetterselo.
Si guardò allo specchio e decise di vestirsi, fissare il proprio corpo riflesso non avrebbe donato tonicità al seno né tantomeno coperto la ricrescita scura. Lasciò che le mani passassero dal petto al reggiseno, dove sicuramente il seno avrebbe fatto una figura migliore e si pettinò i capelli con fare sbrigativo, Naive si sarebbe svegliata a momenti e avrebbe reclamato la propria colazione.
Era quasi soddisfatta del modo in cui aveva ovviato ai propri problemi, quando la figlia si palesò in cucina ancora assonnata, guidata dal profumo del pane tostato e del burro d’arachidi.
Fissò la madre con sguardo attento, tanto da farla voltare con aria scettica e un sopracciglio alzato, infine sentenziò: «Mamma, hai dei capelli orrendi oggi!».
Era tipico di Naive smontare ciò che credeva di aver fatto con un minimo di criterio, ma sapeva che i bambini erano la fonte della verità. Se una bambina era convinta che avesse i capelli orrendi, chissà cosa avrebbe potuto pensare un adulto.
«Cosa dici, mi faccio una treccia?» le chiese accigliata, vagliando ogni singola ipotesi.
«Sì mamma, stai benissimo con la treccia, sembri davvero una principessa». Morsicò un pezzo di pane imburrato e con la bocca piena continuò «La fai pure a me?»
«Solo se la smetti di parlare con la bocca piena!» la redarguì prima di sedersi a tavola con una tazza di caffè fumante davanti. La piccola annuì e sorseggiò un po’ del suo latte freddo, ottimo per accompagnare il burro d’arachidi.
Solo in bagno, mentre Pem le stava intrecciando le ciocche scure, irruppe con una frase che non si ricollegava a nessun loro discorso precedente.
«Ti ricordi che stasera sono da papà, vero? Devo finire di sistemare la camera, poi potrò dormirci, finalmente!» era così contenta di veder la propria stanza a casa del padre completa da averlo ricordato a tutti. Quella sera Pemberley sarebbe stata a cena da Nathan, orgoglioso di mostrarle l’appartamento sistemato e pronto per ospitare lui e la figlia. Era un pensiero strano, ma comunque piacevole.
«Certo scricciolo, me lo ricordo eccome, ne parli così spesso. Impossibile dimenticarlo!» la prese in giro mentre le legava l’estremità della treccia.
Poi passò alla propria chioma, rendendosi conto di avere, alla fine di quell’operazione, un aspetto umano e dignitoso che sarebbe andato bene anche a lavoro. Adorava le trecce, le ricordavano l’adolescenza e la sensazione di sentirsi la principessa coccolata che si era sempre immaginata.
 
Non avrebbe saputo dire come quella giornata fosse trascorsa senza il suo consenso, ma aveva finito il turno da Forbes e si stava preparando per andare a cena da Nathan, dove avrebbe già trovato Naive tutta eccitata per la sua nuova stanza.
Era possibile che solo quella mattina sua figlia l’avesse ripresa per i suoi capelli osceni? Ed era possibile che solo ieri sera Rhys si fosse presentato a casa sua con un bambino per chiedere il suo aiuto?
Le sembravano passati anni, non meno di ventiquattro ore, e si sentiva sempre più vecchia per questa percezione del tempo così alterata.
Ora, vestita con un paio di semplici jeans, una maglietta e con la treccia fresca di rifacimento si sentiva una persona a modo, pronta per passare una serata tranquilla. Aveva suonato all’indirizzo che Nathan le aveva mandato in un messaggio sul cellulare, e aveva suonato alla vista della targhetta Alcott.
«Ottavo piano» rispose Nate al citofono, con strani rumori di sottofondo.
Prese l’ascensore e raggiunse l’appartamento designato in poco tempo. Aspettò un poco prima di aprire la porta ed entrare, perché quell’atrio le piaceva, era pulito e silenzioso, le donava una certa calma e tranquillità. Dava l’impressione che nel mondo nessuno potesse vivere di corsa, perché nessuno che avesse avuto fretta sarebbe potuto passare di lì e non notare il clima sereno che quel corridoio donava.
«Entra». La invitò Nathan aprendo la porta di sorpresa. «Benvenuta nella nostra umile dimora».
Pemberley rise, perché aveva notato solo dopo aver varcato la soglia che il padre di sua figlia aveva uno straccio poggiato sulla spalla, una macchia di sugo sullo zigomo e una sul braccio, mentre in una mano reggeva una pentola e con l’altra mescolava il contenuto.
«Stai cucinando? Davvero? Vuoi forse farci morire tutti?!» non si sarebbe mai aspettata una cosa simile, dato che era abituata a vederlo servito e riverito dai suoi, quando andavano a scuola. La mattina mangiava le sue adorate uova fritte con il pane tostato, per poi passare ai pranzi in mensa, dove riusciva a ingurgitare quantità considerevoli di cibo che aveva lo stesso sapore nonostante i diversi ingredienti e si arrivava alla cena, dove sua madre cucinava pasti che partivano dall’antipasto per arrivare al dolce, e Nathan – ovviamente – gradiva sempre tutto. Gli aveva sempre invidiato il metabolismo veloce. Lei era sportiva, ma non poteva mangiare come se non ci fosse stato un domani, non smaltiva alla velocità del suo ragazzo.
«Ehi, così mi offendi! Vivo da solo da quando ho diciotto anni. Prima ho imparato a sopravvivere, ora so cucinare in modo decente. Credimi, Naive ha testato la mia cucina e, oltre a rimanere viva, l’ha pure gradita» disse orgoglioso, senza accorgersi che il pomodoro nella pentola continuava a creare macchie sulla sua maglietta, dato che lo mescolava sovrappensiero.
«Sì, esatto» indicò con il mestolo alla tacita domanda che Pemberley gli rivolse, cercando di capire se l’attaccapanni era nascosto nel mobile all’ingresso.
«Ranocchietta!» urlò lui ricordandosi della cena sui fornelli «È arrivata tua madre, vieni a salutarla e a mostrarle casa, io sto finendo di preparare la cena!». Si tolse il sugo dallo zigomo con lo straccio, poi si rivolse di nuovo a Pem. «Il tempo di infornare la pasta e giuro che arrivo, intanto inizia con Naive a visitare l’appartamento».
Era rimasta lì da sola, nell’attesa della figlia, in balìa della sue sensazioni.
Quella casa sapeva di Nathan ed era perfetta per lui. Nell’aria, oltre che aleggiare l’odore invitante della cena, c’era la leggera scia del suo profumo di sempre. Inoltre c’era odore di detersivo e profumi per ambiente, quelli che rendevano le case famigliari e meno impersonali. Aveva sbirciato il salotto, nei paraggi dell’entrata, e l’aveva apprezzato per i toni chiari e neutri con cui era stato dipinto. C’erano stampe di città straniere a riempire le pareti e un mobile pieno di film e libri, oltre a un vaso pieno di steli verdi che colmava un vuoto di un angolo. Sul divano blu c’erano dei cuscini e delle coperte.
Quella parte di casa era in ordine ma non perfetta, e lei aveva adorato quella cosa perché rispecchiava Nathan nella sua essenza: un casino ordinato. Vissuto e con esperienza senza avere l’aspetto disordinato che ci si immaginava potesse avere una persona che sconvolgeva le vite altrui.
Non era l’appartamento di uno scapolo incallito che puntava a stupire le proprie prede, ma di un uomo single che teneva alla propria indipendenza e che apprezzava avere la casa in ordine, sapendo che almeno quella poteva essere gestita, al contrario della vita. Era bello vedere che Naive sarebbe stata in un ambiente per nulla pretenzioso ma comunque curato, pensato apposta per accoglierla e soddisfare i bisogni di entrambi.
«Ciao mamma!» la salutò da dietro, facendola spaventare come se l’avesse sorpresa a ficcare il naso in affari che non la riguardavano. «Hai visto? Non è bellissima? Se vieni con me ti mostro le altre stanze, ma per ultima lascio la mia perché è la più bella di tutte!»
La prese per mano e la condusse per il resto della casa come se fosse stata lì da sempre. Pemberley aveva il sorriso stampato in faccia: non solo l’entusiasmo della figlia era contagioso, ma il sentirla parlare così bene le faceva pensare che gli insegnamenti di pedagogia che aveva ricevuto non erano sbagliati. Ricordava sempre quando la sua professoressa, ai tempi, diceva alla classe: “Parlate bene ai bambini, perché impareranno ciò che sanno da voi. Non dite mai ‘stammi davanti’, ma usate la parola ‘precedimi’. Più parole conoscono, più scelte avranno per essere educati in futuro”.
Era vero. E quel ‘mostrare’ uscito dalla labbra di Naive con una certa naturalezza la rendeva fiera di quello che in dieci anni aveva fatto.
In ordine le aveva mostrato la camera di Nathan, il bagno e ora era pronta per vedere la camera della figlia, raggiunte anche dal padrone di casa.
Era l’opposto della stanza che l’aveva accolta per dieci anni. Non c’erano peluches a riposare sul letto, le pareti non erano lilla e non avevano arcobaleni glitterati come stencil. Era nei toni del verde acqua con una greca a metà parete per separare delle linee verticali bianche e della stessa tonalità della parte superiore. Era bella, ordinata e calma. Il letto era a una piazza e mezza, e un grande specchio campeggiava in un angolo della stanza, accanto all’armadio, mentre la scrivania era accomodata sotto la finestra che dava su uno spazio verde dietro il palazzo.
Il rendersi conto di quanto sua figlia non fosse più una bambina, ma iniziasse a vedere le cose come una ragazzina con i propri gusti e i propri pensieri, la atterrò. Le sembrava di averla sempre tenuta vincolata al passato, fatto di bambole di pezza, abbracci e denti caduti. Invece Naive aveva gli occhi profondi di chi stava crescendo e facendosi domande sul resto del mondo, sui ragazzi e sul futuro, e lei non se n’era mai accorta.
«Allora, come ti sembra mamma?» la figlia era entusiasta, seduta sulle lenzuola sobrie, di un color lavanda con i pois bianchi. Strideva con la maglietta dai colori accesi e un cuore immenso che campeggiava sul petto.
«È magnifica scricciolo, davvero». Un nodo di frustrazione le serrava la gola. Come aveva potuto essere così cieca?
«Ranocchietta, perché non vai a vedere se la pasta è pronta?». Nathan aveva notato la tristezza nello sguardo di Pemberley, la conosceva abbastanza da capire che qualcosa non andava.
La piccola non se lo fece ripetere due volte e corse verso la cucina, contenta di aver avuto l’approvazione della mamma.
«Ehi, Velvet, cosa c’è?» le si avvicinò dandole un leggero colpo con la spalla, palesando la sua presenza.
Gli dispiaceva vederla incupita di colpo, sperava che quella potesse essere una tranquilla serata nella loro idea singolare di famiglia.
«È bellissima la camera Nate, solo che mi sono resa conto che la sto trattando ancora come se fosse la bambina di sempre, ma Naive sta crescendo» si mise le mani sulla faccia a nascondere il tono piagnucolante e il bruciore agli occhi. «Sono vecchia».
Lui allargò le braccia ridacchiando «Un’adulta che si sente vecchia e piange come una bambina nella camera di una bambina che sta diventando grande».
Il gesto la spinse a prendersi il calore di quell’abbraccio tra le braccia di lui, trovando la familiarità di una gioventù andata persa troppo presto e sentendosi di nuovo giovane e con mille prospettive davanti.
«Non prendermi in giro» e gli diede un pugno sul petto, senza fargli male. Era difficile scalfire la corazza alimentata da un cuore spezzato e da un buon allenamento in palestra.
«Non ti prenderei mai in giro» sorrise Nate prima di stringerla e depositarle un bacio sulla fronte.
Era facile stare lì, fermi, in mezzo al silenzio totale e al nulla, come se il resto del mondo non esistesse. Pemberley si sentiva di nuovo la ragazzina che tra quelle braccia si sentiva sicura e protetta. La tranquillità che Nate riusciva a donarle non l’aveva dimenticata, ma l’aveva accantonata in una parte lontana di sé, confinata insieme a tutti i sogni irrealizzati e alle parole non dette in passato. L’angolo dei rimpianti e del mondo da scoprire, dove lui era l’unica certezza in un mare insicurezze.
«Mamma, papà, c’è pronto!» Naive, con il tempismo ereditato da entrambi, ricordò loro che il mondo non aspettava nessuno, com’era successo a entrambi quando avevano scoperto di aspettarla.
Nathan la lasciò andare, regalandole un buffetto affettuoso sulla guancia. «Andiamo di là prima che provi a tirar fuori la pasta dal forno e si scotti».
Rimase colpita da quel pensiero così altruista, non era da Nathan. Sapeva quanto fosse difficile per lui pensare una cosa simile, dato che non era abituato ad avere a che fare ininterrottamente con una bambina, fu felice di questa cosa. Ricordava come Nathan, al liceo, riusciva a mettere se stesso al primo posto. Era l’ambizione a fare del suo meglio – soprattutto nello sport – a portarlo avanti e a fargli guadagnare poi la borsa di studio cui aveva aspirato da sempre. Subito dopo veniva Pemberley, ma a lei andava bene. Si completavano, ma ognuno aveva i propri spazi. Non erano stati come le coppie di comuni adolescenti che passavano le ore a consumarsi le lingue e a infilare le mani sotto le magliette; loro si conoscevano e contavano sull’alchimia per ridere e sopportarsi. Non erano solo amanti, ma anche amici, e questo faceva una gran differenza.
«Grazie scricciolo, ora ci penso io» disse Nate entrando in cucina per indossare i guanti ed estrarre la teglia dal forno mentre Naive e Pem lo fissavano concentrate, come se potessero vedere la loro cena andare persa da un momento all’altro.
Posò la pasta al centro del tavolo del soggiorno, poi invitò le due donne a prendere posto e le servì riempiendo loro i piatti.
«Giuro che se mi avessero detto che un giorno avresti cucinato per me, avrei riso in faccia a chiunque avesse pronunciato certe parole!» Pemberley scosse la testa divertita, mentre agitava la forchetta vicino al piatto pieno e invitante.
«Anche a me sembra strano. Non sapevo gli uomini cucinassero» detto quello, Naive soffiò sulla pasta e l’assaggiò senza pensarci due volte. Spalancò gli occhi e fece di tutto per inghiottire il più in fretta possibile. «E pure bene. Papà, è meglio di quella dell’altra volta. Sei bravissimo!»
«Davvero!» aggiunse la madre con la bocca mezza piena, non seguendo l’esempio della piccola «È squisita»
«Siete due malfidenti». Le ammonì Nate divertito e soddisfatto della riuscita del suo piatto. «Ma vi perdono perché il vostro scetticismo era comprensibile».
Il cibo aveva zittito tutti, in modo da vedere il fondo dei piatti in poco tempo. Solo tra il primo e il secondo Naive si concesse di guardare i genitori con fare attento e quasi invasivo, tanto che entrambi, al suo sospiro, furono attratti da quello sguardo così concentrato e quasi fastidioso.
«Cosa c’è?» il padre era curioso. Ogni gesto della bambina era per lui nuovo e rappresentava un segreto da scoprire. Non sapeva che nemmeno Pemberley non era a conoscenza di cosa passava nella testa della figlia ma poteva solo dire che stava pensando qualcosa, dato che la testa era inclinata verso la spalla e il mento protratto un po’ in avanti. Conosceva le espressioni di Naive e la curiosità che celavano, ma non ciò che dietro essi si nascondeva davvero.
«È strano essere qui tutti insieme». Sospirò di nuovo. «Ci è già capitato di cenare insieme e ridere quando venivi a farci visita, ma accadeva in un ristorante. Invece ora siamo qui, a casa tua, e hai cucinato, e non siamo di fretta perché nessuno perde voli o treni. Sembriamo davvero una famiglia» abbassò lo sguardo, imbarazzata per ciò che aveva detto.
Naive aveva gli occhi di una persona che sognava più di giorno che di notte, con la speranza che il mondo in cui viveva fosse all’altezza delle aspettative di quello che si immaginava.
«In effetti… È strano che tu non debba andartene da un momento all’altro. Sei tu che ci stai ospitando, e non il contrario» sorrise Pemberley sorpresa dalle sue stesse parole, non ci aveva mai riflettuto prima.
Si rese conto di quanto la situazione dovesse essere strana per la figlia, e una fitta le attraversò il cuore. Quando aveva scoperto di essere incinta aveva pensato al bene di Nathan, non pensando a se stessa, era inoltre sicura che la bambina sarebbe cresciuta nell’amore più totale; e così era stato. Aveva cercato di darle una famiglia il più normale possibile: Nathan l’aveva riconosciuta, difatti Naive era una Alcott a tutti gli effetti, e appena aveva potuto aveva sempre bussato alla loro porta per abbracciare la figlia e preoccuparsi delle due donne che, in un modo o nell’altro, facevano parte della sua vita. Non erano una vera famiglia, ma erano la cosa che più ci si poteva avvicinare. Il padre era stato distante, ma tenuto lontano da lei solo dalle miglia, perché si era dimostrato sempre presente, a modo suo. E ora Naive stava crescendo e faceva capire quanto il senso di famiglia le fosse mancato. Avrebbe iniziato a fare domande riguardo la sua decisione? Quando avrebbe cominciato a odiarla?
«Ma ora sarà tutto diverso. Io sono qui e non ho intenzione di andarmene… Non finché la Nike non mi licenzierà, almeno!» cercò di sdrammatizzare, perché gli sguardi delle altre due gli facevano stringere il cuore.
Naive era imbarazzata, l’aver confessato un pensiero così intimo doveva farla sentire esposta, perché non era mai facile raccontare le storie delle proprie ferite. Nathan ne sapeva qualcosa, perché lui stesso non amava parlare delle cicatrici che l’avevano segnato e costretto al silenzio, soprattutto se riguardavano Pemberley e la figlia; i segni più evidenti della sua battaglia persa.
Pemberley era triste, invece, e sapeva che a destare la sua preoccupazione erano state le parole della bambina. Sperava solo di aver distolto l’attenzione di entrambe da quel discorso troppo difficile per essere affrontato tra un primo e un secondo.
«A proposito di Nike…» si intromise Naive «Quand’è che me ne porti un paio personalizzate?» alzò un sopracciglio, in quell’espressione interessata e sfrontata che aveva ereditato dal padre, una smorfia che la rendeva più piccola e innocente. Dio, ancora qualche anno e avrebbe fatto innamorare qualcuno senza nemmeno saperlo.
«Ci sto lavorando scricciolo, e sul tuo modello preferito. Arrivano presto, te lo prometto» sorrise mentre la guardava finire il secondo e chiedere il permesso per congedarsi dopo il dolce.
Salutò i genitori e si chiuse in camera per vedere il suo telefilm preferito, aveva detto che in quella puntata veniva rivelato qualcosa di importante, qualcosa che in tutta la stagione in corso era rimasta celata e non poteva proprio perderla.
Pemberley stava ancora ridendo, mentre con il cucchiaino puliva il piatto del dolce e con l’altra mano scostava la treccia dietro la schiena, odiava avere la sua massa di capelli vicino al cibo, perché rischiava di sporcarsela. Da sbadata qual era, avrebbe anche potuto intingere le punte nel piatto, e sapeva non sarebbe stata una cosa carina.
Quando Nathan notò il gesto di Pem sorrise e si lasciò andare in un respiro stanco, pieno di nostalgia.
«Mi è sempre piaciuto vedere i tuoi capelli legati in una treccia che cadeva sulla spalla» ammise con lo sguardo acceso, come se fosse pronto a rivelare un segreto scabroso.
«Come mai?» lei era curiosa. Aveva imparato che le rivelazioni di Nate non avvenivano a cuor leggero, custodiva le frasi collezionate negli anni nella propria memoria, piccole perle di una collana che formava la sua vita, il suo primo amore.
«Perché mi davi la scusa per attirarti a me tirandoti per i capelli. Mi sembrava un gesto così possessivo e intimo… Inoltre la tua treccia era così bella che invogliava a toccarla» chiuse la mano a pugno e si accarezzò il palmo, quasi avesse tra le mani ancora i capelli e potesse sentire la stessa sensazione.
Pemberley ricordava quanto le piaceva essere attirata così a lui. Sapeva che il bacio che sarebbe seguito era un bisogno impellente, il barlume della disperazione che provava anche lei quando Nate era lontano. Era assuefatta a lui e alla sua presenza, a quell’odore di sport e divise pulite che solo lui riusciva a emanare. Lo stesso odore che aleggiava in casa e che, nonostante i lunghi anni trascorsi, la faceva sentire al sicuro, protetta nello stesso ricordo di Nate di ogni bacio che si erano scambiati.
Lo aiutò a sistemare il tavolo e i piatti sporchi nonostante le sue lamentele continue. Fu solo quando gli sbadigli di Pemberley si infilarono con troppa assiduità nella loro conversazione che Nate la invitò a tornare a casa prima di schiantarsi di in auto sulla strada del ritorno. Non era pronto a fare il padre single.
«Se vuoi puoi rimanere qui, il divano più piccolo diventa un letto matrimoniale… Be’, quasi». Sghignazzò indicandolo.
«No, grazie, preferisco il mio letto. Quello vero. Giuro che non mi addormenterò al volante. So quando riesco a guidare o meno, ma apprezzo comunque l’offerta». Voleva solo andare a casa e addormentarsi al centro del letto. Sarebbe stato strano senza Naive, ma doveva abituarsi, come Nate doveva fare l'abitudine alla presenza della figlia in casa senza che lei fosse nei dintorni.
«Quando vorrai c’è un posto anche per te. Mi casa es tu casa!» e le regalò quella smorfia stralunata che la faceva sempre ridere di cuore.
Lo salutò e lo stesso fece con Naive, ricordandole di non andare a dormire troppo tardi perché se no il giorno successivo non sarebbe stata abbastanza attenta per seguire le lezioni.
Si congedò con la certezza di aver lasciato la figlia in ottime mani e, per la prima volta, li lasciò davvero soli, pronti a conoscersi davvero.
 
Nathan uscì dalla cucina solo dopo averla sistemata. Aveva lasciato la figlia in salotto, intenta a guardare la televisione e sperava che avesse trovato un buon film da vedere insieme. Non sapeva quali gusti avesse la figlia, ma sapeva di dovercisi adattare per passare del tempo con lei e provare a conoscerla. La cosa lo elettrizzava e lo atterriva, era combattuto a riguardo.
Quando entrò nella stanza la trovò seduta per terra, intenta a fissare la grande parete piena di film e libri accomodati senza un preciso ordine, per lui l’importante era stato averli con sé e a disposizione, non era importante che fossero divisi per nome o per tipologia, non era quel tipo di persona a cui piaceva gestire ogni aspetto della propria vita, anche il più insulso.
«Tesoro, cosa stai facendo? Non c’è niente in tv?» le si sedette accanto. Avrebbe gradito la comodità e la morbidezza del sofà, ma se Naive era seduta sul pavimento c’era un motivo, e lui voleva capirlo. Si trovava patetico e divertito, era da anni che non gli capitava di sedersi a gambe incrociate come un ragazzino. Era come sentirsi vecchio e ringiovanire tutto d’un colpo.
«Stavo guardando…» non finì la frase appena sussurrata, e indicò la costa di un volume non molto alto, di color mattone.
Nathan lo riconobbe subito, era l’annuario dell’ultimo anno di liceo. In quella foto era stato immortalato un futuro padre, e Pemberley era incinta e la pancia iniziava a vedersi. Ricordava come il suo viso iniziasse a essere più pieno, ma ancora più bello per lui, se possibile.
«E perché non l’hai preso? Non mangia!» lo fece lui sotto lo sguardo intimorito della figlia. Si girò a guardarla con un sorriso e l’annuario cadde a terra con un tonfo, facendo sobbalzare entrambi.
Naive rise. «Succede spesso anche a me».
Era contenta di poter cambiare discorso, perché non voleva rivelare al padre il perché di quel mancato coraggio. Voleva conoscere i genitori, in particolare desiderava vederli quando stavano insieme e l’avevano concepita. Era una fantasia morbosa, per lei.
Aveva sempre visto i genitori separati ma affiatati, si vedeva anche dall’esterno che si volevano ancora bene e andare d’accordo non era una forzatura. Preferiva avere dei genitori separati e in armonia che litigiosi e uniti sotto lo stesso tetto come molti dei suoi compagni. Non li aveva mai sentiti litigare e non aveva mai pianto a causa delle loro urla, come era successo a Mandy, per esempio. C’era quel però che voleva sapere di più, capire cosa li aveva portati a concepirla, vedere se avevano provato davvero l’amore che vedeva nei film e leggeva nei libri che aveva per casa.
Assomigliava di più a sua mamma da giovane per via dei capelli lunghi e scuri o gli occhi marroni la rendevano più simile al padre? Non sapeva dirlo, e un po’ la torturava quel pensiero.
Vederli uniti e giovani, forse l’avrebbe aiutata a vedere quel senso di famiglia che sbirciava nei compagni di scuola e che non trovava nella propria vita. Le mancava un po’ l’unità di un tetto unico e due figure che cooperavano per uno scopo comune, ma per i suoi genitori non una grande mancanza perché facevano il loro meglio per farla sentire amata e seguita, difatti non aveva nulla da appuntare loro. Al massimo, la presenza di un cucciolo in casa.
Insieme scorsero le pagine ingiallite con le foto di club e studenti, e Nathan si perdeva in racconti divertenti e nostalgici riguardanti l’ultimo anno del liceo, racconti che riguardavano anche Pem e che rendevano il cuore di Naive colmo di gioia per quelle scoperte inaspettate e inebrianti.
Poi Nate girò di nuovo il foglio e si fermò. Lì, sorridente e più paffuta del solito, c’era la faccia solare e splendida di Pemberley, impressa con il suo sorriso dolce ed educato, mai troppo esplicito per comunicare la sua felicità.
«Bisogna capire: capire è il primo passo per accettare, e solo accettando si può guarire». Ricordava di aver già letto una simile frase, ma non sapeva dove. Di certo rileggerla alla luce di quei fatti assumeva un significato dal retrogusto amaro e un oscuro presagio, peccato che ai tempi fosse solo un ragazzo di diciassette anni e non riuscisse a vedere molto lontano, al contrario di Pemberley.
Naive mosse un piede e un nuovo rumore attirò la loro attenzione. Raccolse da terra una striscia di carta lunga e sottile. La mostrò al padre, che rimase senza parole.
La prese dalle mani della figlia e la analizzò da vicino. La carta era ingiallita, ma le immagini erano ancora nitide. Non si ricordava nemmeno di avere quelle foto nell’annuario o di essersi prestato davanti all’obiettivo, ma in quel momento il passato lo colpì con una forza inaspettata.
Era una giornata di fine giugno, qualche giorno dopo i diplomi e poco prima della scomparsa silenziosa e lacerante che Pemberley stava meditando nelle mura della sua testa. La sua pancia era di quattro mesi e iniziava a fare capolino dai vestiti, tanto che i jeans non le entravano più. L’aveva pregato di accompagnarla al centro commerciale e, anche se non era affatto dell’idea di sottoporsi a una simile tortura, decise di accettare.
Pem sosteneva con fervore di dover comprare vestiti più larghi, magari premaman, ma aveva deciso poi di comprare solo indumenti di una taglia più larga, perché i capi per donne incinte erano orrendi, o così aveva detto. Tra un giro per un negozio e l’altro ci aveva infilato il suo frappé al latte vanigliato preferito, perché il loro bambino non poteva nascere con qualche voglia. In quel momento Nate stava avendo il ricordo di un bagliore triste negli occhi: lei stava già decidendo di fuggire, e lui era all’oscuro di tutto.
Prima di entrare nell’ennesimo negozio alla ricerca di un vestito carino che non segnasse sulla pancia, si fermarono per ridere di una loro battuta proprio davanti a una cabina per le fotografie. Senza dire una parola Pemberley la indicò con la testa, non perse tempo e ci trascinò Nathan con inaspettata forza.
Lesse le istruzioni mentre lui prendeva posto sullo sgabello scomodo che quel cubicolo offriva. Quattro scatti che venivano stampati in verticale, uno di seguito all’altro. Il timer era attivato ogni volta da loro e scattava dopo dieci secondi. Tutto chiaro.
Appena lei si sedette sulle sue ginocchia lui schiacciò il pulsante a tradimento: così, senza concordarsi sulle pose, la foto li immortalò mentre si guardavano ridendo, timidi e impacciati colti alla sorpresa dallo scattare della macchina.
La seconda li ritraeva con gli sguardi rivolti verso l’obiettivo, le smorfie ironiche con le lingue di fuori e un braccio di lei attorno al collo di lui, come a volerlo strozzare.
Nella successiva Pemberley l’aveva preso per il collo della maglietta e tirato a sé, Nathan invece le stava accarezzando la guancia e lo sguardo che si stavano scambiando era così intimo da far sentire in imbarazzo anche lui dopo tutti quegli anni. Era possessione e amore come non aveva mai conosciuto poi.
L’ultimo immortalava un abbraccio. Pem nascosta dietro il viso di Nate affondato tra i suoi folti capelli e le braccia di lei al collo. Un groviglio che ben li rappresentava come quel miscuglio che per anni li aveva resi una cosa sola.
«Papà, ci sei?» Naive lo riportò alla realtà accarezzandogli una spalla. Quel tocco fu gradito, non adorava perdersi nel rimorso di quello che era stato e non c’era più, aveva troppe domande a riguardo e troppo poco coraggio per porle. A volte conoscere la verità non era un bene.
Le accarezzò la testa, rivolgendole tutta la sua attenzione. «Scusa, ma questa foto mi ha fatto pensare ai vecchi tempi» e poi le cinse le spalle con un braccio «Sai, qui tua madre ti aveva nella pancia».
E in quel momento stava capendo perché Naive lo spaventava così tanto. Era strano vedere il frutto di qualcosa che era andato perso, constatare ogni momento quanto la figlia fosse simile a Pemberley ogni giorno di più, con alcuni tratti che la rimandavano a lui, come la pelle e gli occhi più scuri.
«Sei uguale a lei» e le diede un bacio tra i capelli più simili ai suoi. Erano scuri e dritti, non gonfi e ricci come quelli di Pem.
«Io più ti guardo e più penso di assomigliarti» disse la piccola fissandolo attentamente negli occhi, cercando di trovare in essi la stessa sfumatura dei propri; cosa che, a un occhio esterno, non sarebbe stato difficile da individuare, ma forse Naive cercava qualcosa di più profondo e indelebile, un qualcosa che potevano capire solo loro.
«Diciamo che sei un buon miscuglio di entrambi» rise nel vederla così allegra dopo quell’affermazione. Era strano come bastasse poco a un bambino per essere felice.
«Posso farti una domanda?» domandò poi lei, torturando il labbro con i denti.
«Certo, ma solo se ci sediamo sul divano. Ho una certa età ormai e queste posizioni sono un po’ scomode!»
Non si ricordava che suo papà fosse così ironico, o forse non lo sapeva. Annuì e gli regalò un altro sorriso, poi lo vide alzarsi e lo seguì sul divano sempre con l’annuario e le foto tra le mani. In effetti lì era molto più comoda anche lei.
«Pensi che la mamma sia una principessa?» non attese nemmeno che si fossero sistemati meglio.
Nate si girò di scatto con gli occhi stralunati. Che razza di domanda era? Era frutto della mente della figlia o era la madre degenere a metterle in testa strane idee?
«Stasera con quella lunga treccia sembrava Raperonzolo» disse Naive rapita, la voce densa del senso d’ammirazione che provava per la mamma. «Anche se stamattina era spaventosa. Aveva dei capelli terribili. Sono stata io a dirle di fare qualcosa!»
Si indicò fiera il petto, facendolo ridere divertito.
Ora capiva tutto: per Naive la madre era una persona magnifica, il modello a cui ispirarsi per crescere con un punto di riferimento. Era contento che la prescelta fosse Pemberley, nella sua singolare sregolatezza affettiva, e non Courtney Love o qualche icona famosa ma poco raccomandabile.
«Scricciolo, tua madre non è un principessa, ma una regina». Era stata la regina del suo cuore, colei che l’aveva spezzato ed era rimasta così senza casa, perché in esso albergava, anche se non poteva immaginarlo con certezza.
«Quindi non pensi che abbia bisogno di un principe?». La piccola era rimasta colpita da quella risposta, e la visione di Rhys con il cavallo bianco e la casacca azzurra, in quel momento, strideva con l’appellativo che il padre le aveva appena fornito. Era limitativo.
«No, non le spetta nientemeno che un re. Cosa ne dici, ci guardiamo l’ultimo Step Up?» voleva cambiare argomento. Parlare con Naive di Pemberley non era affatto facile, era come aprire il proprio cuore alla diretta interessata e si era giurato di non farlo mai più dopo la loro rottura. Non sapeva dove la figlia volesse andare a parare, e non voleva dire cose che non avrebbe potuto capire o, peggio, travisare.
Step Up, quindi, sembrava un ottimo compromesso per entrambi.
Naive annuì, e decise che nella sua vita non doveva limitarsi a trovare un principe azzurro; anche lei, come sua mamma, voleva la presenza di un re, un giorno.
Eppure in quel momento aveva capito che il padre sarebbe stato il primo sovrano del suo cuore, dandole le risposte che cercava e stupendola con parola che non pensava di sentirsi dire riguardo la madre.
«Sono felice di essere qui» gli rivelò assopita mentre il film correva sullo schermo.
Quelle parole avevano reso un re un semplice papà alle prime armi.

* * *

Con immensa vergogna mi ripresento al vostro cospetto.
Vi chiedo scusa per avervi fatto attendere due mesi, quasi, ma il tempo è poco, l'ispirazione non c'è sempre, la storia è complicata e i casini si moltiplicano come era successo a Gesù con il pane e i pesci (non ho sbagliato, vero? AIUTO!).
Prima di tutto vi linko come mi immagino Pem alla festa dei sei anni di Naive: Pemberley con le orecchie da Minnie.
Riguardo il capitolo in realtà  non ho molto da dire: si scopre chi è Austin e che ruolo ha. Si vede come Nate voglia recuperare il rapporto con Naive e invece come Rhys, nella sua stessa situazione, debba fare i conti con questa nuova prospettiva di vita.
Una precisazione: so di aver fatto una carneficina/sterminio di massa della figura genitoriale, ma serviva ai fini della storia. inoltre, anche a fini narrativi, perchè sarebbe stato impossibile seguire tutti i genitori, anche in modo superficiale.
Quindi, ricapitolando, ho ammazzato ancora prima di farveli conoscere: i genitori di Nate e Cassidy, la mamma di Rhys, il papà di Rhys e Austin e la madre di Austin.
Io comunque spero vi sia piaciuto e farò di tutto per aggiornare il prima possibile.
Ringrazio chi continua ad aggiungere la storia e chi la legge, e un grazie immenso a chi rende palese il suo parere con una recensione. Siete tutte preziose, grazie mille!
Vi ricordo che per spoiler, avvisi, chiacchierate e foto dei personaggi c'è il gruppo facebook: Love Doses.
Scusatemi ancora per l'immenso ritardo...
A presto, sbaciucchiamenti, Cris.

 

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Capitolo 8
*** Conflitti d'interesse ***




Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Nella puntata precedente: Rhys si era presentato a casa di Pemberley di sorpresa con Austin, un ragazzino taciturno e spaventato. Il nostro protagonista racconta a Pem che questo bambino è il fratellastro, unico parente rimastogli dopo che il padre è morto. Il suo viaggio in Russia era dovuto a questo. Rhys è ormai il tutore legale di Austin, anche contro la sua volontà.
Si presenta da Pemberley per chiederle una mano, dato che lei di bambini se ne intende. Lei vorrebbe odiarlo e dirgli di cavarsela da solo, ma è felice che Rhys sia corso da lei non appena ne ha avuto bisogno e, intenerita dalla storia del povero bambino, accetta di aiutarlo, non senza piazzare una morale all’uomo di ghiaccio.
La sera successiva Pem è invitata a cenare nella nuova casa di Nathan, dove Naive ha una stanza tutta per sé. È trano per le donne di Nathan trovarsi lì, abituate com’erano a incontrarlo in ristoranti e per poco tempo. Dopo un siparietto famigliare attorno alla tavola e alla cena, è il turno di Nate e Naive di rimanere da soli e conoscersi un po’, anche tramite il passato.


Capitolo 8

Conflitti d'interesse

All’inizio l’aveva ritenuto orribile, ora che il momento era passato era riuscito a metabolizzarlo e a ridurlo a quello che era: la sua prima esperienza come figura genitoriale.
Il giorno dopo essere stato da Pemberley, Rhys si era informato per iscrivere Austin presso una scuola media privata davvero esclusiva, ma prima aveva rivolto la parola al fratello per capire quanto conoscesse l’inglese; non voleva che facesse fare brutta figura agli Hewitt, rischiando di diventare lo zimbello della classe a causa delle sue lacune. Aveva constatato che Austin aveva un pronuncia fortemente contaminata dal russo e dalla sua cadenza rigida, ma conosceva bene la lingua inglese. Dopo molte reticenze  il bambino aveva confidato al fratello maggiore che, nonostante nella vita il russo fosse la sua lingua madre, a casa, con loro papà, parlava inglese; anche se – e gli costò precisarlo – non amava molto aprirsi con Mitchell perché gli faceva paura, non che lui ci tenesse a parlare con il figlio.
Davanti a una simile dichiarazione Rhys si fermò a guardarlo e per la prima volta riuscì a provare pena per quel bambino che così presto aveva perso tutto senza nemmeno possederlo davvero, ritrovandocisi un po’, perché non solo Austin gli assomigliava in maniera quasi paurosa – specialmente se si paragonava a quando aveva la stessa età – ma soprattutto perché anche lui aveva sempre provato soggezione e timore nei confronti del padre. Si domandò perché, data la sua protratta freddezza, si fosse ostinato a mettere al mondo figli da spaventare e non da amare, chiedendosi infine perché Mitchell avesse riservato lo stesso infausto destino a lui, che non sapeva amare altri che se stesso, e lo faceva pure male.
Dunque si era deciso a portare Austin, dopo aver dato la precedenza al proprio lavoro – così pieno di variabili ma sempre più gestibile della sua vita privata – in un negozio di giocattoli nel centro di Manhattan. Voleva che il fratello scegliesse qualcosa con cui distrarsi, in modo da non ricorrere a lui per ogni cosa.
«Puoi scegliere tre giochi a tuo piacimento da comprare». Gli aveva detto con tono austero che doveva coprire il panico che lo pervadeva.
Suo padre non gli avrebbe mai permesso di comprare così tanti giocattoli in una volta sola senza alcun merito, e la scelta lo fece sentire uno smidollato. Poi una rabbia cieca si impossessò di lui. Rhys non voleva essere come il padre. Non riusciva a vedere con affetto Austin, nemmeno con interesse, per lui era quell’impiccio capitato tra capo e collo di cui, però, non poteva liberarsi; forse non si sarebbe curato di lui come un genitore avrebbe fatto, e nemmeno come di una persona a lui cara, ma una cosa era certa: non si sarebbe comportato come Mitchell.
E mentre Austin sceglieva un castello magico da costruire con dei mattoncini colorati e una consolle da collegare allo schermo al plasma, Rhys giunse alla conclusione che non l’avrebbe viziato, non era nella sua indole, ma avrebbe colmato la loro distanza riempiendo la sua vita con interessi ed esperienza, cosa che Mitchell non si era premurato di fare, forse nemmeno di immaginare.
Guardò gli occhi commossi di Austin mentre fissava le sue scelte in coda alla cassa, e qualcosa gli stava dicendo che il fratello poteva essere il bambino che lui non era mai stato prima di diventare l’uomo che lui stesso era divenuto.
«Grazie mille» sussurrò il ragazzino una volta fuori dal negozio.
Si vedeva che voleva aggiungere altro per dimostrare quanto fosse riconoscente per quei regali, oggetti che pensava potessero avvicinarli al posto di allontanarli, ma il gene che li accomunava era forte e non aggiunse altre parole, perché era di famiglia non parlare a vanvera.
«Cosa c’è? Sei triste?»  Rhys era deluso, si aspettava da Austin la stessa felicità che vedeva dipinta sul volto di ogni bambino che usciva dal negozio di giocattoli, ma per lui non era così. La poca soddisfazione negli occhi del fratello lo insultava nel profondo, era come sbagliare una partnership a lavoro. «Non ti piacciono?»
«No! Sono bellissimi, davvero!». Si affrettò a rispondere il bambino, impaurito per essere stato scoperto in fallo «Solo che…»
«Cosa?»
Austin abbassò le spalle, arreso all’insistenza del fratello. «Vorrei leggere al momento. Ho in mente una saga su un mago, la stessa storia del castello che ho scelto» e indicò il sacchetto che reggeva tra le dita. «O altri libri… Sai, gli dei greci nell’epoca moderna. L’olimpo sull’Empire state building. Mi piace la magia, e nei libri ce n’è un sacco». Fu una rivelazione che gli costò, ma lo alleggerì al contempo, era da troppo che desiderava dedicarsi a certi libri.
«La magia? È stupida, non esiste!» come poteva piacere la magia? Era una cosa totalmente senza senso ai suoi occhi così pratici. Non riusciva a credere che potesse davvero interessarsi a cose simili.
«Anche papà diceva così, ecco perché non mi ha mai preso determinati libri».
Lui non era Mitchell. Rimembrava la sua infanzia colma di solitudine e poca fantasia con cui riempire quel vuoto, perché l’avevano istruito a dedicarsi a cose ben più materiali dei sogni. Ricordare quei momenti gli dava fastidio, immaginarsi piccolo e inadeguato lo faceva sentire a disagio, come se potesse ancora essere in torto allo stesso modo di quando era bambino e innocente. No, non gli era mai piaciuto.
Ma perché seguire le orme del padre e negare a un intelletto comunque sveglio e attivo come quello di Austin di svilupparsi e negargli un periodo sì difficile ma a cui lui si era adattato bene come l’infanzia?
Non riuscì a trovare le giuste motivazioni davanti a quella domanda, se non che i libri per ragazzi erano un buon modo per un bambino di undici anni di approcciarsi alla lettura. Insomma: oggi Percy Jackson e domani il Finacial Times.
«Austin, oggi è il tuo giorno fortunato. Andiamo in libreria prima che me ne penta».
Sconfitto, sbuffò e lo condusse verso il primo negozio utile.
Rhys non credeva nella magia, era un concetto troppo astruso e poco concreto per i suoi gusti, ma la scintilla che animò gli occhi di Austin era un qualcosa che aveva messo a dura prova il suo credo di sempre, perché aveva qualcosa di soprannaturale quella felicità. Forse perché lui una soddisfazione simile non l’aveva mai provata.
Non riusciva a capire se Austin fosse stato fortunato nella sua disgrazia. Era uscito con entrambe le saghe nei sacchetti, e a chi comprava il cofanetto della storia del mago veniva regalata una bacchetta magica. Era uscito dal negozio in uno stato di completa felicità, tanto che faticò a parlare al ritorno. Sulla limousine era stato intento a sfogliare le pagine dei vari libri, sgranando gli occhi davanti a determinate parole lette per sbaglio.
Ripensarci in quell’istante, ora che l’aveva davanti mentre, da solo, costruiva il castello con i mattoncini colorati cercando di spostarli a suon di incantesimi e movimenti di bacchetta, Rhys non poteva credere di aver fatto davvero una simile esperienza ed essere sopravvissuto.
Ed era solo l’inizio, perché ormai l’aveva capito.
Era strano per lui essere appoggiato allo stipite del salotto e fissare un ciuffo biondo appartenente a un bambino che si agitava in quell’ambiente così ordinato e freddo fino al giorno prima. Nel suo caos quei movimenti erano quasi rilassanti.
Nel vederlo Austin si bloccò. Lasciò il braccio sospeso a metà e gli riservò l’ombra di un timido sorriso. «Ciao»
«Ciao. Tutto bene?» era noto che cercare un dialogo era un buon metodo per creare determinati rapporti, soprattutto tra parenti; aveva così deciso di provarci e vedere come andava.
Il bambino serrò le labbra, spaventato e concentrato. Avrebbe dovuto dirgli che i compagni, quella mattina, l’avevano preso in giro per il suo strano modo di parlare e quindi aveva deciso di rimanere in silenzio e intervenire solo lo stretto necessario? Forse no, dato che dopo Ester e Luke si erano avvicinati e avevano iniziato a fare amicizia, anche se lui pensava alla scuola di magia da costruire che lo aspettava a casa.
«Sì, grazie. Tu pensi di tornare sempre così tardi?» e, dopo aver posto quella domanda, tornò a comporre le mura con i mattoncini grigi. Era stata un’impertinenza ma, preda del gioco, non se ne era accorto.
Rhys scostò il polsino della camicia per controllare l’ora, erano le sette meno dieci, per lui era fin troppo presto per rincasare. Era abituato ad avere cene di lavoro con i rispettivi clienti la sera, non a tornare a casa e ad aspettare che la domestica preparasse la cena quando prima aveva badato ad Austin. Per fortuna aveva concordato con Josie di aumentare le ore e farle svolgere anche il ruolo di baby-sitter.
Jospehine, di origini francesi, era al servizio della famiglia da trent’anni circa. Aveva marito e figli, ma erano tutti più che indipendenti e potevano cavarsela senza di lei, al contrario di Rhys.
«Non è tardi. Comunque sì, di solito è l’orario in cui rientro dopo lavoro».
Austin sorrise, almeno sapeva che dalle sei e mezza poteva aspettare una persona con trepidazione, l’unica persona che gli era rimasta e che voleva sforzarsi di non vedere più come un’estranea.
«Vuoi costruire con me il castello magico?» gli occhi chiari ancora tradivano l’emozione che quelli del fratello maggiore avevano imparato a tacere, sommersi da bocconi amari digeriti con dignità anche nell’età più tenera.
Rhys rimase colpito da quella domanda. Aveva comprato i giochi e i libri affinché Austin fosse occupato con le proprie faccende da lasciare lui in pace, invece il bambino aveva trovato il modo di coinvolgerlo e cercare un contatto. L’odio verso il padre e quel fratellastro che tanto lo legava a lui si riaccese con facilità, perché ricordava sempre quanto fosse costretto a subire le volontà di colui che non si era mai curato del suo primo figlio e perché non era pronto per assumersi un tale fardello.
«No» rispose glaciale come solo Rhys sapeva fare, senza sfoderare la sua solita affettata cortesia che di norma lo spingeva a ringraziare per l’invito.
Poi, vedere lo sguardo rotto da quella sillaba, gli fece sentire il sapore di fiele tra le labbra. Il gusto della sconfitta davanti a due occhi che avevano perso un po’ della loro magia e felicità. Perché Austin non sapeva nascondere le proprie emozioni e nemmeno la delusione dietro l’azzurro così simile a quello del fratello, tanto che quella tristezza raggiunse anche il cuore infreddolito di quest’ultimo.
Era lui la fonte di quello sconforto, lui e il suo non dialogo, il suo no scortese e asettico; probabilmente, il suo essere così crudelmente simile al padre che condividevano ma che non avevano mai conosciuto davvero.
Si sentì in dovere di rettificare, così iniziò a schiarirsi la voce per scacciare il tono incerto chiuso dal nodo alla gola.
«Dobbiamo cenare tra poco. Magari dopo aver mangiato».
Non era da lui mentire, ligio al dovere e alla correttezza com’era, ma sapeva che poi Austin avrebbe trovato altro da fare dopo cena e lui sarebbe stato salvo. L’importante era aver riacceso la speranza in quegli occhi così vivi come lui stesso al tempo non aveva avuto.
Il fratello minore si alzò dal tappeto chiaro del salotto ben più contento, dopo quella risposta, per correre da Josie in cucina e chiederle cosa avrebbe cucinato e se le fosse servita una mano.
Per la prima volta Rhys si sentì indifeso davanti alla carica emotiva di un bambino, perché non c’era libro o gioco che tenesse in confronto all’affetto, una cosa di cui lui aveva sentito parlare come se fosse una leggenda o, al massimo, come un’imposizione di buone maniere.
Perché sapeva di avergli dato tutto, tranne quello di cui aveva bisogno.
 
Il campanello la rese eccitata e felice: il primo ospite sarebbe arrivato di lì a poco, e lei avrebbe dovuto impersonare, senza troppo sforzo, la perfetta padrona di casa.
Era l’undici marzo e dato che non aveva ancora avuto occasione di incontrare Nathan, aveva deciso di organizzare una festicciola di compleanno in suo onore. Aveva invitato, oltre che la figlia e la nipote, anche Silene e Cassidy, perché non conosceva altre persone amiche di Nathan.
Aveva pensato che, essendo senza genitori, sarebbe stato un buon modo per farlo sentire a casa e, perché no, per studiarlo a dovere. Due o tre semplici domande sul suo ritorno non avrebbero ucciso nessuno; forse scatenato la silenziosa ira di Pemberley, cosa a cui era abituata fin dall’adolescenza, dato che la guardava con odio ogni volta che provava a insegnarle le buone maniere o i modi di vivere di persone con un certo tenore di vita.
Felicia si sistemò i capelli e lasciò che Olga continuasse a finire di preparare la tavola in modo perfetto, così da permettere che fosse lei stessa ad aprire la porta.
«Silene, cara! Entra, dammi la giacca» era felice di vedere l’amica della figlia, era una persona così a modo ai suoi occhi, pronta a stemperare i modi a volte troppo vivaci di Pemberley. Era l’evidente prova che Felicia si fidava troppo delle prime impressioni.
«Olga non c’è?» il fatto che ad aprirle fosse stata Feelie, come la chiamavano in famiglia, l’aveva sorpresa; di solito non si abbassava mai a svolgere i compiti della cameriera.
«Oh sì, è di là. Siccome è affaccendata a rifinire la tavola e la cena ho pensato di non farla uscire di testa». Ecco perché Silene l’ammirava tanto: era una donna ferma e decisa, forse troppo puntigliosa, ma sotto quello strato di ghiaccio era umana, pure più degli altri; solo che non le piaceva mostrarlo.
«Vieni, accomodati» continuò guidandola verso il salotto per farla accomodare.
«Sono la prima?» Sil doveva aspettarselo. Era lei quella puntuale, tra tutti.
«Sì. Come al solito Pemberley è in ritardo…»
«… Non che Cassidy sia da meno».
Dopo averlo detto si morsicò la lingua, lei non doveva sapere certe cose; conoscere le abitudini di Cassidy come e anche di più di quelle degli altri, era stato un suo difetto. Aveva studiato il suo nemico fin troppo bene, cercando di trovare un punto debole e attaccarlo senza pietà, ma non aveva trovato crepe nel muro costruito dall’assenza di pregiudizi, morale e regole dietro cui lui si era barricato.
Felicia stava per sedersi di fronte alla propria ospite, ma il campanello suonò di nuovo. Come se avesse subìto una scossa, scatto di nuovo in piedi, si scusò con Silene e si diresse alla porta con uno dei sorrisi più compiaciuti di sempre. Adorava quando la casa veniva popolata da ospiti, che fossero cento o solo sette.
Era bello per due anziani avere a che fare con un po’ di vita. Era come se il vuoto lasciato da Pem venisse riempito da questi sprazzi festaioli.
Davanti a Silene comparve Terrence vestito di tutto punto nel suo completo blu coordinato alla cravatta lunga e stretta. Sembrava un vero Sir.
«Buonasera Silene» la salutò cordiale e allegro. Ai suoi occhi era una ragazza seria e posata, era contento che fosse sempre stata al fianco della figlia durante tutti quegli anni. Un’amicizia sana su cui entrambe potevano contare, e Terry sapeva che non c’era altro a cui poter aspirare a riguardo.
«Ti offrirei un sigaro, ma è un passatempo per noi uomini» disse indicando la scatola tra le mani. «Quindi mi limito a farti aspettare ancora un attimo, vado da Olga a dire di portare qualche stuzzichino per l’aperitivo, così diamo il via alla festa e faccio arrabbiare Feelie per non averle lasciato questo privilegio».
Le fece l’occhiolino, la lasciò in compagnia della propria risata, ma non davvero sola, perché la voce di Felicia si faceva sempre più vicina, ed era in compagnia.
«Non sono il primo?» e chi fra tutti poteva essere arrivato?
«No, c’è Silene» rispose Felicia.
«Sempre ad aspettarmi, piccola Luna» esordì così, con quella piccola verità che fece sanguinare il cuore di Sil, troppo colpita sul vivo per muovere la lingua e articolare la cattiveria che risiedeva sulla punta di questa.
Cercò di non dare a vedere lo sgomento momentaneo, facendo violenza su se stessa e la propria lingua.
Felicia, avvertendo la tensione nell’aria, decise di raggiungere Olga per comunicarle decisioni improvvise.
«Veramente stavo aspettando che il karma facesse il suo lavoro e mi portasse il tuo cadavere, ma vedo che non è ancora arrivato il momento. Purtroppo». Aggiunse un sorriso minimo e tirato, giusto per rimarcare il sarcasmo.
Cassidy ignorò la battuta e le baciò una mano, presa contro la sua volontà. Solo dopo aggiunse in un sibilo, guardandola dritta negli occhi in modo da inchiodarla sul posto ed essere sentito solo da lei, nel caso Felicia tornasse da un momento all’altro. «Penso di aver fottuto anche il karma, Sil. Però mi fa piacere vedere che ti urto ancora così tanto, vuol dire che non mi hai dimenticato»
«Dimenticare una ferita è impossibile Cass, sei la cicatrice che vedo sempre e sempre mi ricorda il male che mi hai fatto. Però posso essere la vendetta che non ti aspetti» e, nel dirlo, sorrise arrogante, tanto da spaventare l’interessato cui la smorfia era rivolta.
Feelie tornò in salotto, con un sorriso teso, nella speranza che la vibrazione tra i due fosse cessata.
Il campanello suonò e colse l’occasione per lasciarli soli di nuovo.
«Pem, tesoro! Finalmente!» l’abbracciò cordiale, felice di vederla arrivare in un momento in cui non sapeva gestire i propri ospiti, e odiava simili cose, perché non le capitavano spesso.
«Ciao amore» alla nipote riservò un sorriso e le diede un bacio veloce sulla testa, era sempre bello averla intorno, le dava serenità.
«Scusa mamma, ma ero in ritardo e abbiamo trovato traffico in autostrada»
«Non preoccuparti. Ma se proprio vuoi farti perdonare, separa i tuoi amici, per favore»
«Chi c’è? Nate è già qui?» era preoccupata. Aveva fatto tutto di corsa per non tardare poi molto, non voleva lasciare Nathan nelle grinfie di sua mamma. Non aveva voglia di litigare con lei, non ancora.
Sapeva che quella di Felicia non poteva essere gentilezza fine a se stessa, perché non aveva senso per lei organizzare una festicciola per il compleanno di Nathan. Pemberley la conosceva abbastanza da sapere che voleva rivederlo dopo il suo ritorno in città, dato che lei non aveva creato l’occasione in cui i due si rivedessero. Di sicuro l’avrebbe sottoposto a qualche strana domanda da cui lei avrebbe tratto sempre le conclusioni che più la aggradavano, travisando le vere parole di Nate.
«Pem, tesoro, al festeggiato ho dato un altro orario, in modo che tutti gli invitati fossero già qui. È lui che deve arrivare per ultimo, non i semplici ospiti» e nel dirlo guardò la nipote allontanarsi verso il salotto, contenta che la sua sola presenza potesse sedare gli animi di Silene e Cassidy.
Quella risposta era riuscita a calmarla e a farle riprendere fiato. Nate sarebbe stato così furbo da non farsi incastrare da delle domande sagaci e di sicuro non si sarebbe fermato oltre il dovuto, conosceva Felicia e avrebbe fatto ogni cosa pur di evitare un dialogo approfondito con lei.
«Zio, cosa hai regalato a papà?» era entrata in salotto quasi correndo, con la domanda che le era sfuggita dalla labbra dalla troppa felicità: era strano ritrovarsi con i nonni, entrambi i genitori, lo zio e la cosa più vicino a una zia che avesse, sotto lo stesso tetto.
«Niente scricciolo, ha già tutto. L’unica cosa che non posso regalargli è una donna: quella se la deve cercare da solo!» disse alla nipote accarezzandole una guancia.
«Ti sembrano cose da dire a una bambina?!» lo ammonì Silene, tirandola piano verso di sé e lasciandole un bacio sulla guancia tra le risate divertite di Naive. «Sei veramente un pessimo esempio»
«Sil, sei bellissima stasera» le aveva detto la figlia dell’amica, ammirandola apertamente come faceva ogni volta. Stimava la ragazza con tutta se stessa: da grande avrebbe voluto essere forte come lei.
Felicia stava per seguire i propri ospiti, intrattenuti ormai dal marito e dagli stuzzichini di un ottimo aperitivo, quando il campanello si mise a suonare per l’ultima volta: il festeggiato era arrivato. La festa poteva iniziare.
«Ranocchietta, ragazzi!» esordì Nathan sorpreso: era convinto di ritrovarsi davanti solo la figlia, Pemberley e quelli che considerava come dei suoceri. Trovare suo fratello e Silene pronti per festeggiare con lui era un bel regalo inaspettato.
«Tanti auguri!» Naive, euforica, cinse la vita del padre e gli sorrise come a volergli trasmettere la propria felicità.
«Grazie» le accarezzò la testa, scompigliandole i capelli, poi salutò Terrence, dato che con Feelie aveva già scambiato qualche convenevole appena entrato in casa. «Terry, grazie dell’invito. È da un sacco che non ci vediamo».
Sorrise riconoscente, perché il padre di Pem era sempre stato una persona affabile nei suoi confronti, di sicuro più tenero della moglie.
Terrence, dopo averlo accolto con fare cameratesco, gli assestò una poderosa pacca sulla spalla, allungandogli con l’altra mano un bicchiere di vino. « Tanti auguri Nate. Prendi, questo ti servirà. Te ne serviranno tanti bicchieri quanti gli anni in cui non ci siamo visti. Sai che non scapperai dalle grinfie di Feelie tanto facilmente, vero?»
No, sapeva che sarebbe stata una lunga serata.
Pemberley, dal canto suo, avrebbe fatto di tutto pur di alleggerirgli l’invasiva presenza della madre, tanto che, mentre si diressero a tavola, fermò Cassidy per chiedere aiuto.
«Farai qualsiasi cosa per aiutarmi a distrarre mia mamma da Nate, vero?»
Lui sorrise, enigmatico «Tutto, qualsiasi cosa»
«Promettimelo» non era contenta di quella risposta così ironica.
«Ne sei sicura?»
Pemberley annuì.
«Lo prometto. Ma poi non rinfacciarmelo».
 
La cena era deliziosa. Il primo aveva ammutolito tutti, e nella pausa tra questo e il secondo i commensali si stavano intrattenendo tra loro. Silene stava parlando delle novità dello studio in cui lavorava, perché Terrence veniva da un ambiente simile e gli faceva piacere ascoltare i pettegolezzi di un ufficio somigliante a quello dove lui stesso aveva lavorato. Cassidy stava prendendo in giro Pemberley e Nathan era intento a sistemare il tovagliolo a Naive mentre Felicia osservava tutti compiaciuta.
Pem mise in bocca un pezzo di pane alle noci, il suo preferito, e fu in quel momento che Feelie sentì di poter iniziare a sfoderare il suo personale attacco.
«Nathan, com’è tornare a casa dopo anni in giro per l’America?»
Felicia aveva visto Pemberley irrigidirsi, ma la figlia si stava impegnando per non intromettersi nella discussione, anche se era chiaro che stava ascoltando ogni parola. Aveva davvero paura che lei potesse mettere in imbarazzo Nathan o era solo una scusa per conoscere le risposte di quello che una volta era stato il suo primo amore?
«È bellissimo. È il lavoro che ho sempre rincorso, in più sono vicino a Naive. Ora posso conoscerla e passare del tempo con lei». Nate sorrise, perché sapeva che vertere su Naive l’avrebbe fatto parlare molto, facendogli così sperare di deviarla dal suo vero intento. «Ho un appartamento a Brooklyn, e Naive ha la sua cameretta. Una volta a settimana si ferma a dormire da me, ed è una cosa bellissima».
Felicia era soddisfatta di vederlo così attento alla figlia che avevano messo al mondo per sbaglio; passò il tovagliolo sulle labbra per rimetterlo poi sulle ginocchia, accostò gli avambracci al bordo del tavolo e, con il sorriso più famigliare possibile si rivolse di nuovo a Nate «Oh, certo, non ho dubbi. Inoltre sei anche vicino a Pemberley…»
Sapeva che sarebbe arrivato quel momento. Felicia era una cacciatrice: studiava la preda fino a chiuderla in un angolo, la attaccava solo quando sembrava che il pericolo fosse passato, senza lasciare possibilità di fuga.
E lui, in quel momento, era così: senza via d’uscita.
«Certo, anche Pemberley. È la madre di mia figlia, non posso certo dimenticarla…»
«Direi di no» rispose sempre più soddisfatta Felicia.
«Mamma» la interruppe Pem sempre più preoccupata «Sai che Cassidy è un bisessuale molto libertino?! Hai presente Joshua, il mio amico orientale della caffetteria? Beh, ecco, al momento esce con lui, però tenta da una vita di infilarsi negli slip di Silene».
Sperava di aver fatto abbastanza per distrarre la madre dal suo vero intento. Di sicuro era riuscita a catturare l’attenzione dell’intera tavola. Tutti erano ammutoliti davanti a quella dichiarazione e, con un sospiro di sollievo, si accorse che Nate aveva tappato in tempo le orecchie di Naive, che li guardava interessata e smarrita senza capire cosa fosse successo.
«Oddio la bambina!» urlò Felicia sconvolta «Pemberley!» la redarguì dopo aver constatato che Nathan l’aveva estraniata dal contesto. «Bisex? Ma cosa stai dicendo?»
Era troppo per lei, non ci stava capendo nulla.
«Tesoro, vai a fare un giro in cucina…» intervenne deciso Nate sulla figlia.
«Ma papà…»
«Ho detto di andare. Torna tra poco» non era stato cattivo, ma fermo e sicuro nell’allontanarla da quella situazione tesa e surreale. Non erano discorsi adatti per una bambina.
«Ok. Odio essere piccola, mi perdo tutto il divertimento». Si alzò dal tavolo con il broncio e tutti la fissarono. I bambini avevano uno strano concetto di divertimento, davanti a parenti sull’orlo di una crisi di nervi.
«Pem, sei pazza a dire le cose così?». I due fratelli le si rivolsero nello stesso momento e tono.
«Bisessuale? Ci puoi spiegare meglio la cosa?!» Terrence, con il suo solito aplomb pacifico, aveva appoggiato un gomito sul tavolo e posato la guancia sul pugno chiuso, in attesa di delucidazioni.
«E, tengo a precisare, nei miei slip non ci entrerà mai. MAI». Quelle frasi simultanee stavano diventando surreali.
«Davanti ai minori!» continuò scioccata Felicia, concludendo il giro di espressioni senza connessione.
Calò un silenzio assurdo, dove ognuno si guardò in faccia per capire cosa era stato detto.
«Ok, riportiamo l’ordine. Pemberley, sei stata più infantile di tua figlia, mi hai delusa». Prese in mano la situazione la padrona di casa, piena di cose da dire. «Silene, cara, quello che fai con le tue parti intime dovrebbe rimanere tra te e il tuo partner, sono comunque contenta che tu abbia un certo criterio e che tu indossi la biancheria. Visti i giovani d’oggi, è un bel passo avanti» le confidò rassicurata con una mano sul petto. «Nate, ho apprezzato il tuo modo di saper gestire Naive senza essere crudele. Ho gradito anche come hai rimproverato quella sciagurata di mia figlia» e nel dirlo gli aveva messo una mano sul braccio, grata.
«Cassidy, ma sei davvero bisessuale?»
Ecco il vero punto della questione.
Pemberley sorrise trionfante sotto lo sguardo truce dell’amico, era riuscita a distrarre la madre a dovere.
Finì di bere il vino e rispose amabile e ammaliatore come solo lui sapeva essere: «Perché prendere i difetti di uno, quando posso avere i pregi di entrambi?!»
«Coinciso, chiaro. In due righe hai sintetizzato i benefici della tua scelta. Bravo ragazzo, mi piaci» Terry era soddisfatto della risposta.
«La finiamo qui?» Felicia era sfiancata da quella conversazione.
Annuirono tutti.
«Richiamiamo la piccola e facciamo portare il secondo, è meglio».
«Vado io» si offrì Nathan. Un buon modo per non ricordare a Feelie che avrebbe potuto riprendere il discorso dato che la bomba era stata sganciata e il clima si era disteso nuovamente.
«Sicuri che posso tornare?» era strano sentire il tono di Naive piccato, in particolare per Nathan, dato che fino a quel momento l’aveva vissuta nel suo lato migliore, la parte allegra e sempre sorridente. Il tono recriminatorio strideva con gli occhi brillanti e le fossette ai lati delle guance.
Ognuno annuì a modo proprio mentre Naive riprendeva il suo posto a tavola, accomodandosi il tovagliolo sulle ginocchia come solo una persona educata poteva fare.
Olga nel frattempo aveva portato il secondo ancora caldo, riempiendo i piatti di ogni commensale e ravvivando l’acquolina in bocca di ogni persona al tavolo.
Nonostante si fossero dedicati all’arrosto, il silenzio che regnava era teso e imbarazzante.
«Quindi esci con Joshua?» cominciò Felicia, interessata e cauta.
Non si capiva se fosse davvero affascinata dal discorso o volesse riempire l’assenza troppo assordante calata tra di loro.
«Sì, da un po’. Però ci esce anche Silene» e la indicò con il coltello mentre parlava con la bocca mezza piena.
«Dio mio ragazzi» posò la forchetta sul piatto, indignata «Ma dove avete lasciato la morale?»
«Su un dondolo il primo anno di università, insieme alla mia dignità» fu la risposta pronta di Silene, all’apparenza calma e padrona di se stessa ma con una scintilla cupa d’ira ad adombrarle lo sguardo chiaro, una frazione infinitesimale che solo chi la conosceva davvero poteva aver notato con un certo timore.
Cassidy si schiarì la gola, in difficoltà, riprendendo in mano la situazione per non occorrere in altri errori.
O per salvare Nathan dalle grinfie di Felicia.
E un sorriso di vendetta si allargò sul suo volto.
«Pem, tu che ci dici? Esci ancora con quel Ryan?»
Era ufficiale: mai più, a una cena, avrebbe osato masticare alcun boccone. Non era cibo quello, ma il modo più semplice per dare spazio agli altri di colpirla.
Cercò di deglutire a fatica, notando come gli altri fossero avidi di quella risposta. Nathan era sorpreso tanto quanto i genitori, dato che non si aspettava che lo vedesse ancora. Silene era stupita dalla rivelazione, mentre Cassidy sorrideva soddisfatto di averle tornato il favore di prima.
«Rhys zio, non Ryan! Oh diglielo mamma quanto è bello»
«Lo stesso Rhys che ho conosciuto io quella sera?!» intervenne senza dare modo a Pemberley di rispondere o intervenire. Dire che era stupito era minimizzare la cosa.
Non sapeva perché, ma era stato sicuro che dopo quell’incontro finito male non si fossero più visti. Pemberley non gliene aveva mai più parlato, quindi aveva dato per scontato che non fosse stato importante.
Ma perché avrebbe dovuto parlarne a lui, dopotutto?
E lo disturbava il fatto che Naive non solo lo sapesse, ma stravedesse per quel tizio dall’aria arcigna e strafottente; lo si notava dal tono entusiastico della bambina nel parlare di lui.
Aveva conquistato entrambe le sue donne senza nemmeno chiedergli il permesso; e se su Pem non aveva diritto, riguardo a Naive non poteva proprio accettarlo.
Era lui il padre. Un padre che stava iniziando ora a conoscere la figlia, una bambina che poteva confondersi facilmente davanti a un’altra figura maschile di dubbia origine. Come si era permessa Pemberley di portare quel tipo nella vita di Naive con una tale leggerezza?
Dopo così poco tempo non si poteva certo definire la durata e l’importanza di un rapporto; d’altro canto anche loro due ai tempi sembravano destinati a stare insieme per sempre, invece al momento erano poco più di due conoscenti accomunati soltanto da una figlia.
Forse, a ferirlo davvero, non era stato tanto l’essere considerato per ultimo e come la parte meno importante della faccenda, quanto il fatto che Pemberley fosse riuscita per la prima volta a costruirsi una relazione normale, che andasse oltre il rapporto fisico, con una persona che non fosse Nathan, quando lui, che di letti ne aveva fatti passare diversi, ancora non aveva pensato alla reale opportunità di legarsi a qualcuna.
Perso nei suoi pensieri non aveva quasi badato al timido e colpevole annuire della sua ex ragazza, ormai vittima dell’interrogatorio della madre.
«Pemberley, tesoro, tu trovi qualcuno disposto a sopportarti di nuovo e non dici nulla ai tuoi genitori? Minimo dovremmo mettere un annuncio sulla sesta pagina del New York Times» Terrence era riuscito a infilarsi tra una frase stupita e l’altra della moglie, riportando alto il livello di ilarità attorno al tavolo.
«E com’è? Racconta» Felicia era ormai curiosa di conoscere il ragazzo. Voleva sapere di più dell’uomo che si era intromesso tra i suoi piani che, alla fine, vedevano riuniti i genitori della nipote.
Ma Pemberley non sapeva da dove iniziare. Avrebbe dovuto dire di essere stata scaricata per poi essere ripresa come un semplice supporto, ma non era pronta ad ammettere così tanto con la propria famiglia, men che meno ad aprirsi su Rhys in quel modo, la vede come una parte troppo intima di lei, che lei stessa non riusciva ancora a capire.
Quel suo risistemare le idee le costò parecchio, perché a prendere parola fu di nuovo Naive, che in quella conversazione si sentiva coinvolta, dato che Rhys gli aveva portato il suo nuovo amico di giochi e dispetti Austin.
«Nonna, è così bello!» e si mise una mano sulla guancia, quasi a voler trattenere l’emozione. «È altissimo, biondo, con gli occhi celesti. Sembra un principe!»
«E trasuda soldi da ogni indumento che indossa» continuò Nate scocciato, bevendo tutto il vino rosso nel calice che aveva riempito in attesa dell’arrosto.
«E, se non erro, è a capo di una grande società qui a New York» concluse Cassidy soddisfatto dell’attenzione sollevata. D’altronde era stata Pemberley a chiedere il suo aiuto nel tentativo di evitare che sua madre non facesse un terzo grado a Nathan, no?
Lei avrebbe voluto dire qualcosa, ma gli altri avevano detto tutto al posto suo, anche più del dovuto.
«Sembra interessante» disse Felicia dopo aver inumidito le labbra con un po’ d’acqua. «Mi ha fatto tornare alla mente Rhys Hewitt, l’unico con lo stesso nome di mia conoscenza. Curioso come lo ricordi anche nella sua descrizione» lo aggiunse sovrappensiero, immaginando  che un tipo simile per la figlia non sarebbe stato poi così male.
La figlia in questione, colta in fallo, non aveva avuto il coraggio di alzare la testa per incrociare lo sguardo distratto della madre che, non appena l’avrebbe guardata avrebbe capito tutto. Un conto era omettere certi dettagli – come, per esempio, il ritorno di Nathan – un altro era mentire sapendo di farlo, e non era da lei.
Eppure lo sguardo della madre non tardò ad arrivare, attratta da quel prolungato silenzio; la studiò a fondo, facendole sollevare gli occhi a furia di guardarla e incrociò infine uno sguardo colpevole e delle labbra morsicate dal rimorso.
«Rhys Hewitt?». Appoggiò di nuovo le posate ai bordi del piatto, sempre più esasperata. «Buon Dio, questa cena si sta rivelando tutto, tranne una celebrazione»
«Bel colpo ragazza!» suo padre sollevò un po’ il pugno in un gesto trionfante, approvando il soggetto cui si faceva riferimento.
Felicia, per la prima volta in vita sua, era rimasta senza parole.
Si aspettava che sua figlia prima o poi avrebbe trovato qualcuno diverso da Nathan con cui provare a costruire qualcosa, un uomo contro cui lei avrebbe combattuto con tutte le forze e i mezzi, per aprirle gli occhi al momento opportuno e indirizzarla sulla giusta via. D’altronde era una stratega e non l’aveva mai nascosto a nessuno.
Ma era difficile combattere contro Rhys Hewitt, lo stesso tipo d’uomo che, se non ci fosse stato Nathan nella vita di Pemberley, avrebbe desiderato per la figlia.
Di ottima famiglia, con un’ancora migliore posizione sociale ed economica, bello e acculturato, Felicia non avrebbe chiesto di meglio per lei; ecco perché quando aveva scoperto la gravidanza l’aveva presa male, sapeva che si sarebbe preclusa il meglio, dovendo sempre far riferimento anche al passato con Nathan.
Eppure sembrava che in quel momento le preghiere di una madre preoccupata fossero state esaudite.
Una situazione simile era troppo per lei, e ben più grande. Era arrivato il momento di deporre le armi, almeno per un breve periodo.
«Bene, sai come di solito la penso a riguardo Pem. Questa volta c’è inoltre un conflitto di interessi notevole per me, quindi voglio rimanerne fuori. Mi auguro solo che non influisca sulla Lost Children» concluse più severa di quel che avrebbe voluto essere.
«Tranquilla mamma, non influenzerà sull’associazione. Per il resto non preoccuparti: sono sempre stata dell’idea che la mia vita sentimentale non fosse affar tuo». Non voleva essere cattiva, ma odiava che sua madre le desse la concessione di frequentare Rhys piuttosto che un altro. Aveva smesso di decidere per lei da molto tempo, dato che si era fatta mettere incinta senza il suo consenso. La società, in quella sottospecie di rapporto che intratteneva con Rhys, non c’entrava proprio nulla.
«Facciamo portare il dolce, sarà meglio arrivare alla fine di questa cena, prima che mi venga un infarto».
«O la rabbia» sussurrò Pemberley tra sé, senza essere sentita da nessuno ma fissando Cassidy con ostilità.
«Te l’avevo preannunciato: non rinfacciarmelo. Io ti ho dato solo il mio aiuto» furono le parole bisbigliate che lui le rivolse quando fece finta di raccogliere il tovagliolo caduto a terra.
Mai più avrebbe chiesto aiuto a terze persone, avrebbe fatto tutto da sola.
 
Era surreale il pensiero che a dividerli ci fosse solo una parete, e che Rhys stesse controllando i bambini. O forse a sorprenderla era il fatto che quasi due settimane prima lui l’avesse baciata e non avesse ancora smesso.
Era diventata una dolce quanto inaspettata regolarità. Non erano più i baci affamati delle prime volte, quelli che dovevano dimostrarle che la voleva ma a comandare era lui. Erano baci di una persona stanca e spaventata, conditi da una tenerezza che nemmeno Rhys sapeva di avere. Arrivavano sempre nei momenti più inaspettati, quando, ad esempio, i bambini correvano in un’altra stanza o andavano davanti a un’altra ricostruzione di dinosauro al museo di scienze naturali; erano le brecce nel muro di una persona all’apparenza rigida, che rivelava con piccoli gesti quanto si sentisse fragile in realtà, e Pemberley adorava queste debolezze per più motivi. Constatare che anche lui era umano e sbagliava tanto quanto lei la tranquillizzava, e adorava il fatto che, inconsciamente, quel ragazzo sempre così freddo si stesse aprendo nei suoi confronti.
Si era stesa sul letto esausta: quel sabato sera Austin e Naive erano stati instancabili. Avevano giocato con qualche gioco in scatola, poi al gioco dei mimi e, non ancora senza forze, Rhys e Pemberley li avevano rilegati in camera della piccola per vedere qualche film per ragazzi, Austin voleva vederne uno tratto dai libri che si era fatto comprare settimane prima.
Nel frattempo lei aveva iniziato a riordinare la tavola ancora apparecchiata mentre Rhys, in imbarazzo per quella quotidianità a lui mancata da sempre, la osservava stranito senza saper dove mettere le mani.
Si era seduto su una sedia e l’aveva osservata finché lei non aveva ripulito tutto, facendole strane domande riguardo l’economia domestica che l’avevano fatta ridere di cuore.
Avevano guardato un film nel buio del salotto, un misto tra baci e commenti senza senso di Rhys, che non era abituato a uno schermo così piccolo.
«Meglio controllare i ragazzi, non li sento da un po’» aveva detto lei dopo i titoli di coda, alzandosi e stiracchiandosi stanca.
«Vado io, tu sei stanca» le aveva detto, come se per lui la cosa non fosse stata valida.
Si era offerto perché ormai era diventato il suo mantra fare l’esatto opposto di quello che Mitchell avrebbe fatto al suo posto. Era stata una forzatura, come ogni contatto con Austin, ma sperava che, prima o poi, sarebbe divenuta per lui una cosa normale.
Pem era finita così distesa sul proprio letto, in attesa di ricevere notizie dei piccoli.
Rhys apparve poco dopo, sfinito dopo la giornata al planetario e al parco. Al posto di parlarle dalla porta come faceva di solito, si buttò accanto a Pem sul letto, sul lato sinistro, lasciato libero come se dovesse essere occupato da qualcuno, ma in realtà doveva solo essere l’abitudine. Anche lui, d’altronde, odiava occupare il centro del letto: era come levare a esso l’equilibrio che le due parti, delimitate dai cuscini, avevano.
Uno sbuffo afflitto gli uscì dalle labbra.
«Tutto ok?» Pem continuava a fissare il soffitto, incantata e impossibilitata a spostare lo sguardo, anche se avrebbe voluto osservare i tratti gentili ma decisi di Rhys nella semioscurità della sera. C’era una bella luna a illuminare un po’ la stanza, quel chiarore pallido che rendeva tutto più calmo e surreale.
Annuì.
«Sono profondamente addormentati. Un po’ mi dispiace svegliare Austin per tornare a casa, ma è meglio che vada, dato che anche io sono stanco e devo affrontare la strada del ritorno» sospirò, doveva solo trovare la forza per alzarsi e arrivare fino all’auto. E percorre le cinquanta e più miglia che li separavano da Manhattan.
«Fermati qui. Fermatevi qui» aggiunse subito Pemberley per cercare di non farlo sentire in trappola, sapeva che anche una sola parola sbagliata poteva farlo scappare a una velocità che nemmeno lei avrebbe saputo giudicare, e lei di fughe se ne intendeva.
«Qui?» e indicò il morbido materasso che già stava pretendendo il pedaggio in sogni da un tipo che riposava soltanto come lui.
«Austin sta già dormendo con Naive, tu sei già sdraiato sul letto. Di sicuro è la soluzione più comoda per entrambi. Almeno non rischi di schiantarti quando torni a casa… E io sarei più tranquilla» alzò le spalle in quella finta indifferenza che aveva imparato a utilizzare davanti a lui.
«Sei sicura non ti dispiaccia?» era davvero stanco, ed essere sdraiato e con un paffuto cuscino sotto la testa non aiutava la sua forza di volontà ad avere la meglio. Cosa ne aveva fatto la vita di lui, sempre così pronto a fare ciò che era più giusto?
«No, se no non te l’avrei chiesto»
«Come fai a sopportare tutto questo?» domandò Rhys indicando la camera dei bambini, dopo aver sbadigliato con una mano davanti alla bocca. «È così degradante»
Pemberley sorrise. Era capitato in quella situazione per sbaglio, e non si era ancora abituato. Si percepiva da come ne parlava che la trovava una circostanza a tempo determinato, ma così purtroppo non era. Prima se ne sarebbe convinto, prima avrebbe potuto convivere con tutto quello e far pace con la propria vita.
Sorrise cortese e divertita, quel suo lato così palesemente cieco la interessava sempre, era come parlare con Naive, doveva spiegare tutto da capo. Era strano però farlo con un adulto.
«Non è degradante, ma è faticoso, quello sì. E non smetterà mai di esserlo».
Rhys si mise sul fianco, voltato verso il suo profilo che, nonostante tutta quella fatica millantata nel discorso, non portava i segni degli anni di esperienza a riguardo, ma gli mostrava il volto di una ragazza arruffata e imperfetta che lui aveva imparato ad apprezzare un po’ meno in superficialità dei suoi soliti standard.
Pemberley, convinta da quello sguardo liquido e insistente, aveva fatto lo stesso, rigirandosi in modo da avere il volto davanti a quello di lui. Aveva sistemato il cuscino sotto la testa e aveva preso a fissarlo con la stessa tenacia che Rhys le aveva riservato.
Era stato facile, per lui, allungare una mano e accarezzarle una guancia, nonostante fosse stato impacciato nel gesto. La stanchezza, che gli segnava il contorno degli occhi, giocava brutti scherzi alle sue sinapsi: l’avevano reso più incline a dare ascolto alle emozioni che alle ragioni. E lui aveva condotto una vita sempre guidata dal cervello e mai dal cuore, era ormai convinto di non possederlo nemmeno più.
Eppure, in quel momento così debole ma che lo faceva sentire partecipe del mondo per la prima volta, i loro respiri che si mischiavano e si infrangevano sulle loro pelli erano la cosa più inebriante che potesse succedere nella penombra della stanza. Era inutile tentare di combattere, quando le proprie labbra si erano avvicinate a quelle di lei ancora prima che Rhys potesse elaborare il pensiero di volerlo fare.
Era stato bello essere accolto con un trasporto sincero e sentito, così diverso da quello vorace e vuoto che Addison gli riservava convinta che a lui potesse piacere. Non cercava sentimento in quell’arrivista, ma solo lo sfogo del proprio corpo. Si stava rendendo conto che con Pemberley, invece, era diverso. Percepiva il desiderio di Pem e cercava di accrescerlo con ogni bacio, carezza o gesto.
Era stato bello attirarla con forza verso il proprio corpo, ma ancora migliore era stato il momento in cui lei si era incastrata con il suo, ricoprendolo con una gamba per avvicinare i bacini di entrambi, e i baci si erano fatti meno casti.
Lei aveva iniziato a sfilare il semplice maglione che Rhys indossava, così diverso e morbido dal suo solito completo, una sensazione nuova che lo faceva sentire a disagio nella sua semplicità. L’aveva aiutata sollevando il petto; steso ormai sulla schiena dove l’aveva spostata sopra di sé, per poterla liberare allo stesso modo di quella camicetta che al momento non le serviva affatto.
La voleva da tanto tempo e non si sarebbe fatto sfuggire il momento, non sarebbe intervenuto nessun Nathan a interromperli e non avrebbe permesso a Pemberley di cambiare idea. Dopotutto era pur sempre Rhys Hewitt, e se decideva di avere una donna non poteva fare altrimenti.
Forse doveva solo dimostrare a se stesso di non aver perso tutto il potere e l’autorità che aveva avuto fin da bambino. Facile però esercitare queste doti su una persona consenziente e trasportata quanto lui.
«Non dobbiamo fare rumore» accennò Pemberley tra un respiro affannoso e l’altro, più nuda che vestita, indicando con la testa la camera dove i bambini dormivano, tornando poi a succhiare un labbro dell’uomo.
Rhys si alzò subito a chiudere la porta, come scottato dall’idea di essere interrotto da dei ragazzini che poi avrebbero preteso imbarazzanti spiegazioni. No, meglio stroncare ogni tentativo di rivolta sul nascere e chiudere la porta a chiave, la soluzione più facile per serrare fuori dalla stanza la possibilità di offrire un dialogo serio con Austin.
Pemberley approfittò del momento per togliersi i pantaloni e scostare le coperte sotto cui rifugiarsi subito dopo per paura che quello che aveva da offrirgli non fosse all’altezza delle donne cui lui era abituato.
Rhys abbandonò i pantaloni sul pavimento insieme al proprio intimo recuperando dalla tasca le dovute precauzioni.
Riprese a baciarla con foga, con la paura malcelata che quello che aveva iniziato a provare prima potesse fuggire da un momento all’altro. Le tolse di dosso il lenzuolo e la osservò con la dovuta calma, accarezzando il profilo del suo corpo nudo con l’indice, scendendo a baciare ogni parte che aveva guardato, dichiarando così il suo tacito apprezzamento.
Il tempo era divenuto avido dei loro sospiri, ladro di quell’istinto che li guidava l’uno verso l’altra in un vortice che di secondo in secondo li logorava, facendo perdere loro pezzi di coscienza e lucidità.
Era stato bello per Rhys catturare con la propria bocca i gemiti che a Pemberley non dovevano sfuggire, ma lui riusciva a strapparglieli lo stesso, gli era piaciuto plasmarla al proprio volere, rigirandola come un foglio di carta crespa tra le proprie mani. Non era bello soltanto vedere il controllo che aveva assunto nella situazione, ma constatare quanto lei glielo lasciasse prendere, era stato così inebriante da fargli apprezzare la leggera pressione delle unghie nella schiena quando Pemberley aveva trovato il punto di fusione con qualcosa di più profondo del semplice corpo di Rhys.
Si addormentarono ognuno nel proprio lato del letto dopo un breve bacio sulla guancia, ma con entrambi un accenno di sorriso sulle labbra che non avrebbero saputo spiegare, soprattutto lui.
Forse, il giorno dopo, avrebbe dovuto chiarire ad Austin come mai avevano dormito lì, e forse, per la prima volta, si sentiva in dovere di dargli delle spiegazioni.
Ma quello non era ancora il momento, era l’ora di riposare perché la notte non aspettava nessuno.

 

* * *

Buonasera a tutte. Mi devo scusare, lo so.
So che vi ho detto che non ci sarebbe stata certezza sulla data del prossimo aggiornamento, ma MAI avrei immaginato di lasciar correre più di due mesi. Santo cielo, che vergogna!
Spero solo che questo capitolo vi sia piaciuto, non mi dilungo più di tanto a riguardo.
Posso solo giustificarmi dicendo che le ripetizioni erano diventate un vero e proprio lavoro, lo studio e la pallavolo occupavano il tempo, il resto era preso da una persona che aveva occupato anche i miei pensieri, ma che da poco ha deciso di andarsene da me. Nemmeno a farlo apposta, questo ha permesso la conclusione del capitolo. Era difficile scrivere quando pensavo di essere felice o soddisfatta, molto più facile ora che mi serve ogni cosa per non pensare.
Baideuei, non ho davvero molto da dire a riguardo, perché penso che sia tutto scritto.
L’ultima scena è solo accennata, lo so. Di rosse ne ho scritte in passato, o così ho sempre pensato, ma non penso di esserne assolutamente in grado e, a mio avviso, questa storia non ne ha affatto bisogno.
Vi posso dire che in questi mesi ho scritto una shottina (è piccina, giuro) su una mamma per amica, su Dean in particolare. Qui: Stars Hollow non fa per me.
Ora, per l’estate (inteso come periodo personale di cazzeggio), dopo l’esame di lunedì per dirla tutta, mi dedicherò a una shot che avevo in mente e che ho iscritto a un contest, dato che era troppo adatta.
La sfida più grande è finirla entro il 21, dato che in quella data parto per il mare una settimana.
Alle recensioni inizio a rispondere stasera, o comunque appena possibile.
Ringrazio di cuore le persone che, nonostante gli aggiornamenti biblici, continuano ad aggiungere tric e ad aspettare i capitoli. Grazie davvero!
Se volete saperne di più riguardo il futuro capitolo o la OS in questione o i personaggi delle mie storie in generale questo è il link al gruppo: Love Doses.
A presto (spero), sbaciucchiamenti, Cris.

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Capitolo 9
*** Life is a dangerous game to play ***



Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Nella puntata precedente (una cosa come eoni fa, lo so): Rhys cerca di fronteggiare il problema fratellastro. Tenta di distrarlo con regali che colmano il senso di colpa e la distanza tra loro, ma non funziona molto: Austin sa che il fratellastro è l'unica persona che gli è rimasta e vuole averlo vicino. Rhys, che lo vede come un problema, cerca di eludere le sue attenzioni.
Passiamo poi alla cena a casa Voight per festeggiare il compleanno di Nathan. Cena interessante, dove Felicia cerca di capire le ragioni del ritorno di Nate perchè, da amante del torbido e delle congiure quale è, pensa che dietro ci sia altro oltre al lavoro e la figlia. Pem, per evitare all'ex un brutto quarto d'ora (ma anche di più), rivela ai genitori che Cassidy è bisessuale, sviando così l'attenzione da Nathan, dato che i genitori sono alquanto... tradizionalisti.
quest'ultimo però si vendica dicendo a tutti che Pemberley frequenta un uomo, che si viene a scoprire che è Rhys, cosa che sconvolge la madre, dato che lui è socio della sua fondazione benefica. Non sa più quindi se sperare che la figlia ritorni con il padre della propria nipote, o se preferisce che stia con Rhys, la tipologia d'uomo che ha sempre sognato per Pemberley.
Il capitolo si chiude con i due bambini addormentati a casa di Pem e lei e Rhys che, nel silenzio della casa, riescono a consumare la loro prima volta.



Capitolo 9
 
Life is a dangerous game to play


 
Erano le dieci e mezza ed era steso nella parte destra del letto, quella più vicino alla finestra protetta dagli scuri pesanti, e più lontana dalla porta. Rhys fissava lo spiraglio di luna che si rifletteva sul soffitto bianco, non riusciva a prendere sonno; non era da lui essere già a casa, nonostante non fosse il fine settimana.
Era abituato a ben altro, fino a poco tempo prima. Cenava fuori con donne avvenenti quanto vuote, lì con lui solo per avere attenzioni e sperare di diversificarsi dalle altre che prima erano passate da quello stesso posto, facili come le illusioni che si potevano leggere nei loro occhi; qualche volta erano il contorno perfetto per futuri clienti, più spesso il dessert che si sceglieva Rhys per concludere al meglio una giornata di lavoro, il metodo migliore per sfogare le tensioni. Era convinto di sentirsi appagato così, con quelle azioni abituali, automatiche e asettiche che lo caratterizzavano.
In quella notte, dopo aver cenato a casa come ogni sera con pietanze cucinate da Josie, si era ritrovato nel letto da solo. Da quando Austin era entrato nella sua vita tutto era cambiato, stravolto dalla sua sola presenza: doveva dargli l’apparenza che quello che avesse guadagnato nel seguirlo a New York fosse la cosa più vicina a una famiglia che il bambino potesse trovare, ma non sapeva come ci si comportava con un famigliare, lui era sempre stato solo, di quella solitudine dove gli altri interagivano con te, ci vivevano ma non entravano dentro, perché non si aveva interesse a farli entrare, a conoscerli e farsi conoscere.
Odiava avere la porta aperta della propria camera da letto, ma era sempre stato abituato così, fino all’arrivo di Austin. Avrebbe voluto chiuderla, far finta che il ragazzino non esistesse e vedere la vita come era prima, come doveva essere per lui, ma aveva notato che il fratellastro lo controllava, spiava ogni sua mossa. Lo sguardo chiaro e triste, così simile al suo, parlava più di mille parole; e Rhys sapeva che era inutile infierire ulteriormente su di lui, perché non avrebbe giovato molto sul loro già inesistente rapporto, né tantomeno sulla persona che Austin sarebbe diventata. Era pur sempre un Hewitt, un vincente nato, e un giorno – forse – avrebbero dovuto fare squadra, non poteva dunque educarlo come un perdente.
Aveva comunque capito che c’era una cosa che gli adulti potevano esercitare sui più piccoli senza che loro capissero davvero cosa stava succedendo: usava l’autorità conferitagli dal proprio ruolo per tenerlo a distanza, non era dunque una porta a fare la differenza, ma l’abisso che lui stesso aveva costruito tra di loro, formato dal disinteresse più totale e sincero che potesse riversare nel fratellastro, solo per il semplice fatto che lui era così, ed era troppo tardi perché imparasse a comportarsi in modo diverso.
L’unica cosa che adorava di quella situazione era il silenzio che aleggiava nell’appartamento, in perfetta linea con lo stile pulito, moderno e asettico che lo caratterizzava. Un silenzio fittizio, certo, dato che a popolare le mura c’era un ragazzino di undici anni, ma l’assenza di suoni gli permetteva di evadere da lì dentro e pensare che, in fondo, nulla era poi cambiato; l’impressione di avere ancora il controllo su ciò che lo circondava.
Fu per questo che quel baccano repentino lo irritò a morte, tanto da costringerlo fuori dal letto. Erano rumori convulsi, Austin stava tossendo con fervore.
Rhys mise la faccia in corridoio, lo sguardo serio pronto a riprendere il fratello con occhi severi, senza dire una parola, come piaceva a lui.
Lo vide in corridoio, appoggiato alla parete, mentre si stringeva le mani sullo stomaco.
«Stai bene?» era pallido e sudaticcio, aveva tutto tranne che un aspetto sano, ma Rhys non sapeva come gestire la situazione, quindi decise di essere diretto come suo solito e accertarsi delle condizioni di lui con una semplice domanda.
Austin, sempre con meno forze, annuì con la testa ciondolante e gli occhi chiusi e gonfi, concentrati a mantenere sotto controllo il dolore che provava.
Al suo consenso, Rhys aveva deciso di ritornare in camera propria ed evitare di disturbarlo, convinto che se avesse avuto qualcosa in mente non lo avrebbe voluto tra i piedi; o così si raccontò per mettere a tacere la coscienza.
Non fece però in tempo a girarsi, che un rumore assai poco gradevole colpì le sue orecchie: tornò a guardare il fratello e vide ai suoi piedi una chiazza di vomito che riproponeva la cena. Era arrabbiato nel vedere tutta la sua casa messa in subbuglio dal malessere di un ragazzino, ma si spaventò quando lo vide scivolare piano a terra, mentre perdeva i sensi. Aggirò la pozza e lo colse al volo, pronto a portarlo in bagno dove il bambino si riebbe solo per rigettare ancora.
Con lo stomaco libero e senza forze si sedette accanto alla tazza, come gli aveva intimato nel panico Rhys.
«Torno subito, non muoverti. E se ti viene da vomitare, qui dentro» e indicò la ceramica cui Austin era aggrappato con tutte le sue forze.
Cosa doveva fare? In quel bagno non c’era abbastanza aria per pensare. Lui non stava male da… Non si ricordava nemmeno da quanto.
Dov’era il telefono quando serviva?
Senza tanti preamboli cercò in rubrica il nome dell’unica persona che poteva aiutarlo.
Intanto un nuovo conato giunse al suo orecchio, facendogli provare un brivido di disagio lungo la schiena.
«Pronto» era talmente assonnata da non riuscire a porre la domanda in modo corretto.
Aveva risposto dopo molti squilli, nella speranza che chiunque ci fosse dall’altra parte della cornetta desistesse dal suo intento.
«Pemberley, sono Rhys».  La voce senza il timbro sicuro la mise in allarme, facendole aprire gli occhi per concentrarsi sulle sue parole. «Austin sta male, continua a vomitare, a dire che ha i crampi allo stomaco. È bollente ed è svenuto un paio di volte. Non so che fare!»
«Stai calmo. Hai chiamato il pediatra?»
Si girò verso il bagno per controllare la situazione. «No, ora lo chiamo. Dio, non so cosa fare».
Il self control era stato accantonato per un più sano attaccato di panico. Pemberley avrebbe giurato che Rhys non sapesse nemmeno cos’era, un pediatra.
Sbuffò ormai sveglia e schiacciò il tasto per illuminare il display della sveglia, erano da poco passate le dieci e mezza.
«Senti, io ora parto e vengo a casa tua. Tu, mentre io arrivo, cerchi il numero di un dottore e lo costringi ad alzare il culo per visitarlo. Naive ed io arriviamo il prima possibile»
«Grazie» e a quelle parole si sentì davvero rinfrancato. «Grazie infinite».
Pemberley riattaccò senza aggiungere altro, irritata per essere stata svegliata poco dopo essere riuscita a prendere sonno. Preparò un borsone con dentro il cambio per il giorno dopo, il necessario per una buona igiene e alcuni vestiti della figlia, poi andò a buttarla giù dal letto.
«Sveglia scricciolo, andiamo in gita»
«In gita?» domandò Naive tra uno sbadiglio e l’altro, ripetendo le parole che avevano catturato la sua totale attenzione nel giro di pochi secondi.
«Oh sì, il tuo amichetto non sta molto bene. Il bambino ha bisogno di aiuto» e, nel dirlo, non aveva pensato certo ad Austin.
 
Arrivò a casa di Rhys poco meno di un’ora dopo la telefonata. Decise di non dare peso al senso di inadeguatezza che aveva provato davanti a quel palazzo, o davanti al custode quando, dopo averle chiesto le proprie formalità, l’aveva guardata come si fissavano i senzatetto vicino alle stazioni dei pullman: con un misto di disapprovazione e disgusto. Aveva cercato pure di ignorare la strana sensazione di smarrimento nell’entrare così per la prima volta nell’appartamento di Rhys: in pigiama e con la figlia.
«Davvero? In pigiama?» un tono di disappunto nella voce, lo sconcerto negli occhi. A volte Pemberley era tale e quale a tutti gli altri americani medi, ma su di lei quell’essere così qualunque – normale – era tremendamente affascinante ai suoi occhi.
Fece indicare il bagno a Naive, dato che doveva espletare le proprie funzioni vitali dopo il tragitto, poi gli rispose piccata.
«Ti stupisci? Sono stata svegliata e tirata fuori dal mio letto, pretendevi che venissi in tuo soccorso con il tubino nero e le Louboutin che non ho? Mi dispiace» e si fece sotto, un diavolo per capello e l’indice puntato contro il suo petto. Poteva essere ricco, potente, bello e famoso, ma Pemberley non si lasciava impressionare dalle apparenze, non quando veniva criticata per essere corsa in suo aiuto. «Ma il tipo di donna che speravi varcasse la soglia è la stessa donna che non avrebbe risposto alla tua chiamata o che ti avrebbe riso in faccia dopo averti sentito in difficoltà. Spiacente, sono fatta così. E tu non puoi avere tutto, non da me».
Lo oltrepassò muovendosi alla cieca per casa, voleva trovare Austin e vedere come stava.
Rhys era rimasto colpito dal discorso infervorato della ragazza. Il suo cuore batté di orgoglio ferito quando lei nominò il soccorso che era arrivata a prestargli, odiava dipendere dagli altri, non gli era più capitato dopo la morte della madre, forse anche prima.
Ma la collera si sgonfiò poco dopo, quando si accorse che tutto ciò che Pemberley aveva detto era vero. Se avesse chiamato Addison gli avrebbe risposto ubriaca o fatta, e sarebbe corsa molto più volentieri per una scopata che per un bambino in preda ai conati di vomito; e lo stesso si poteva dire delle sue ex compagne o le molte conquiste che avevano intervallato la relazioni un po’ più durature.
«Scusa, ero stanco ed essere ancora sveglio mi ha irritato parecchio» ammise dopo averla raggiunta. Le fece strada verso la camera di Austin. «Grazie davvero per essere qui».
Ringraziare qualcuno per il proprio aiuto non era poi difficile come pensava, bastava solo non farci l’abitudine.
«Ma… La sacca all’ingresso?» aveva paura di aver capito, e non frainteso, le intenzioni di lei.
Pemberley si girò con lo sguardo lampeggiante d’ira. Aveva sonno, era arrabbiata e non aveva voglia di essere redarguita da una persona che al primo sentore di complicazione la chiamava al telefono come se nulla fosse.
«Pensi davvero che, avendomi svegliata nel cuore della notte e lavorando io in una delle vie principali di New York, torni a casa dopo essere venuta qui per i tuoi comodi?» stava perdendo la pazienza, anche se si era ripromessa di evitare scene davanti ai ragazzi.
«In effetti hai ragione, non ci aveva pensato». Non che la cosa la stupisse.
«Senti, non preoccuparti, posso chiamare Nathan e stare da lui. Troverò un angolo di casa sua dove dormire». Si girò nel mormorare quella frase, voleva vedere se giocare con lui – anche se il momento era il meno opportuno – l’avrebbe portato a tirar fuori un po’ di coraggio.
L’idea lo atterrì un po’. Cosa c’entrava Nathan in tutto quello? Si stava parlando di aiuto, di un bambino che stava male e i coinvolti, in quell’istante, erano solo loro. Possibile che per lei la soluzione ai suoi mali fosse il suo ex?
Era vero che tra loro le cose non erano definite, ma lui stava facendo un enorme sforzo per cercare di spostarsi verso un’ottica del tutto diversa da quella che aveva adottato per una vita intera. Pemberley gli piaceva, anche se non sapeva in quali termini esatti, e non era disposto a dividerla con il fantasma del passato di lei. Poteva accettare che lui fosse il padre di Naive e che facesse parte della sua vita, ma Nathan doveva limitarsi a quello: essere un padre per la bambina, non un appiglio per la madre.
«No, rimani qui. Ho delle camere degli ospiti molto confortevoli, tu e Naive potreste sistemarvi lì, mi farebbe piacere».
Pem fu stupita dalla sua richiesta esplicita. Forse Nathan era stato per lui un punto difficile da toccare, la molla che aveva fatto scattare qualcosa nel suo orgoglio. Alzò solo un angolo della bocca per aver capito di avere un po’ di potere su di lui.
«Meglio così, grazie mille».
La ragazza si fece dire dove fosse la camera di Austin, ma non vi trovarono né il malato né la figlia, sentirono però dei rumori provenire dal bagno e decisero così di seguire le tracce lasciate dai bambini.
«Mamma, sta male». Naive aveva gli occhi lucidi e l’espressione tesa. Il suo amico aveva un aspetto orribile e lei, oltre che accompagnarlo e sorreggerlo fino al bagno, non sapeva cos’altro fare.
«Cosa ti ha detto il dottore?» la giovane mamma si rivolse a Rhys mentre andava a prestare assistenza al bambino che, con la faccia nella tazza, stava finendo di rimettere quella che ormai era solo bile. I conati erano deboli e distanti, segno che non c’era poi molto da rigurgitare; era sfiancato.
Rhys, dal canto suo, decise di rimanere fuori dal bagno troppo affollato e le rispose nervoso: «Ha parlato di un’influenza intestinale molto forte, gli ha iniettato un calmante per il vomito e ha detto di dargli un antipiretico».
«Su Austin, aggrappati a me, ti porto a letto». Gli sussurrò lei dolce e comprensiva. Il bambino non se lo fece ripetere due volte, abbandonò il debole braccio dietro il collo della donna e si fece trasportare nel proprio letto.
Prima di rimboccargli le coperte e somministrargli l’antipiretico decise di cambiare i vestiti sudati, gli mise una maglietta a maniche corte e dei pantaloncini leggeri per permettergli di stare ancora più comodo, perché quando il medicinale avesse fatto effetto il sudore sarebbe tornato a imperlare la sua pelle.
«Stai tranquillo, il peggio è passato. Ora riposati e se c’è qualcosa che non va mi trovi…»  guardò Rhys, dubbiosa.
«La trovi nella stanza degli ospiti qui accanto» disse lui con lo sguardo serio, cercando di memorizzare ogni movimento di Pem nel caso avesse dovuto bissare l’esperienza, odiava farsi trovare impreparato.
Austin annuì appena, in quello che doveva essergli costato molto come sforzo. Lei gli depositò un bacio sulla fronte, poi intimò alla figlia di salutarlo e andare a dormire nella stanza dove Rhys aveva depositato il bagaglio che si erano portate.
Si ritrovarono così i due adulti in corridoio: Pemberley preoccupata per la situazione e Rhys in imbarazzo per non aver saputo gestire gli eventi e per la difficoltà che provava nel esprimerle la propria gratitudine.
«Non so come ringraziarti, davvero» gli sembrò di aver fatto un bel passo avanti, ma la reazione di lei lo stupì.
Pemberley si avvicinò in modo da averlo a portata di mano, e nonostante la superasse di venti centimetri buoni gli prese il viso tra il pollice e l’indice, assicurandosi che gli occhi di lui fossero puntati nei propri, infine sibilò a denti stretti: «Apri bene le orecchie: prima capirai che il tuo non è un ruolo a tempo determinato, prima la smetterai di rovinare la vita a te stesso e a un bambino che non ha nessuna colpa. Ormai è responsabilità tua, non potrai lavartene le mani per sempre. Scendi a patti con questa cosa e mettiti l’anima in pace».
Era inviperito. Nessuno si era mai permesso di sgridarlo come se fosse un bambino, nessuno doveva osare, era lui ad aver sempre il controllo della situazione e a incutere timore. Eppure sembrava che Pemberley non fosse assoggettata da lui come gli altri, non aveva paura di imporsi quando serviva; Rhys sapeva che lei era conscia di aver a che fare con un personaggio con un carattere forte e che sarebbero potute esserci conseguenze, ma se ne fregava. Se Pem doveva dirgli una cosa non si faceva scrupolo, diventava più grande di lui, maestosa nella sua convinzione tanto da renderlo piccolo, e gli faceva intendere al meglio come era la situazione, che lui lo volesse o meno.
Forse aveva bisogno di una cosa simile.
Di sicuro sapeva che Pemberley gli piaceva per quel suo lato così deciso.
Si stropicciò gli occhi, stanco e frastornato. «Penso tu abbia ragione, solo che non è per nulla facile».
Prima di Austin, ma soprattutto prima di Pemberley, aveva adorato la sua vita, da quando quei due avevano fatto irruzione nella sua quotidianità aveva capito che qualcosa gli mancava, un qualcosa che cozzava con fare prepotente con lo stile sostenuto fino a poco prima.
Doveva capire cosa valeva di più per lui.
«Non è facile e non lo diventerà mai»  rispose Pemberley ammorbidita dal tono spaventato di Rhys. «Ma prima accetti la situazione, prima finirai di distruggerti, o di autocastigarti» gli si legò alla vita, d’improvviso più dolce, la stanchezza piombata su di lei d’un tratto.
Rhys si lasciò abbracciare, anche se era strano per lui un gesto simile, non si ricordava il momento di averne ricevuto uno. Era bello però sentirsi confortato dalle braccia esili di una ragazza che gli arrivava alle spalle, si stupì della forza e della tranquillità che riuscì a comunicargli.
«Vuoi dormire con me?» lo chiese quasi a forza, sarebbe stata la prima volta in cui avrebbe diviso il letto con una donna che si sarebbe svegliata poi nello stesso. Le parole erano uscite prima di pensarle davvero, e l’idea lo soffocò, un altro passo verso la resa cui doveva cedere, il rendersi conto che la sua strada doveva per forza prendere una deviazione.
Pemberley non si aspettava una simile proposta.
«No, grazie. Preferisco non confondere le idee a Naive» era vero. Dormire in casa di un amico nel suo stesso letto non avrebbe fatto altro che complicare le cose. Inoltre l’aveva vista agitata, voleva coccolarla un po’ e assicurarsi che si addormentasse senza difficoltà.
Lo baciò sulla bocca e accolse così un sospirò che nemmeno lei seppe interpretare, un gesto a cui anche lei avrebbe voluto lasciarsi andare.
«Buonanotte» le sussurrò elegante e di nuovo padrone di sé.
«’Notte» sorrise più distesa Pem, aveva la tacita consapevolezza di essere arrivata dove le altre avevano fallito, perché Rhys Hewitt non mostrava le proprie debolezze a chiunque, nemmeno nel momento del bisogno.
Lei era diventata l’eccezione che confermava la regola.
Si mise nel letto stanca, nonostante fosse passata da poco la mezzanotte, Naive ad attenderla con lo gli occhi spalancati.
«Cosa c’è ranocchietta?» sperava che quel nomignolo, di solito usata da Nate, potesse aiutarla a rilassarsi un po’.
Naive si avvicinò alla madre, accoccolandosi accanto al suo cuore. «Questo posto mette i brividi. È davvero una casa? Come ci si può vivere?»
Pemberley la accarezzò, sentendo che di lì a poco sua figlia, ormai ragazzina, non gliel’avrebbe più permesso. «Tesoro, è un appartamento molto bello, ma è freddo. Non preoccuparti però, sono convinta che Austin saprà renderlo più umano».
La bambina annuì in preda al sonno, gli occhi chiusi per dimenticare la sensazione di disagio percepita fino a poco prima. Voleva cancellare il freddo che sembrava circondarla oltre all’oscurità della notte.
Fu solo dopo una manciata di minuti che Pemberley, non ancora del tutto addormentata, percepì un timido schiarirsi di voce proveniente dall’uscio e, dopo aver aperto gli occhi vide la figura esile e debilitata di Austin appoggiato allo stipite della porta, le spalle ricurve per la vergogna.
«Piccolo, cosa c’è? Ti senti male di nuovo? Ti serve qualcosa?» era già pronta ad alzarsi, per il dispiacere di Naive che aveva appena preso sonno su di lei, tanto che si girò di schiena scocciata, continuando a dormire.
«No» si affrettò a dire lui, sentendosi colpevole per averla messa in allarme. Perché riusciva a scomodare tutti? Lo faceva sentire a disagio. «Però, ecco… Faccio fatica a dormire».
Alzò le spalle come a voler scrollare da esse quella sensazione di essere sempre sbagliato, cercando di darsi il contegno che Rhys si sarebbe aspettato da lui.
«Cosa ne dici ci venire qui? Male di sicuro non ti fa, e almeno stai in compagnia». A Pemberley si strinse il cuore. Non aveva soltanto bisogno di una figura paterna, a mancargli più di tutto era una madre che si prendesse cura delle sue necessità di cui nemmeno lui pensava di avere.
Annuì felice di quella proposta, non se lo fece ripetere due volte e si infilò nel grande letto matrimoniale tra Naive e Pemberley, dove questa lo accolse tra le proprie braccia.
Austin si accoccolò al suo petto, sentendosi per la prima volta protetto e al sicuro da quando era arrivato in America. La donna lo avvolse con le proprie braccia, cullandolo appena per cercare di calmare i brividi che ancora lo scuotevano, anche se non avrebbe saputo dire se a causa dell’influenza o della paura che quella nuova vita gli aveva deliberatamente insinuato nelle viscere.
«Grazie» le sussurrò, e dopo poco sentì il respiro del ragazzino farsi più pesante accanto al proprio collo bagnato da una singola lacrima rilasciata dall’occhio ormai rilassato dal contatto con lei.
Una lacrima che le aveva spezzato il cuore, facendole percepire quanto fosse grande la desolazione nel cuore di quel bambino, una lacrima che non le avrebbe permesso di addormentarsi, né di regolare il respiro intervallato dal proprio pianto.
 
Nonostante fosse riuscita a prendere sonno era a pezzi. Aveva dormito poco, e i pensieri che le affollavano la mente non erano stati i più rincuoranti della sua vita. Dopo aver saggiato sulla propria pelle la tristezza di Austin si era sentita amareggiata come quando aveva deciso di crescere Naive, sola e contro il mondo, soprattutto contro i suoi genitori e Nathan, nonostante non ci fosse nessuna battaglia da combattere.
«Tutto ok?» anche Rhys sembrava più tranquillo. Si era affacciato in camera richiamato dal rumore della piccola sveglia sul comodino. Le parve che il sonno l’avesse disteso, facendogli vedere a mente fredda la notte vissuta, dandogli il giusto distacco per affrontarla.
«Cosa fai in giro?» gli domandò curiosa, alzandosi senza svegliare i bambini.
«Cercavo Austin per vedere come stava, quando non l’ho visto nel suo letto mi sono preoccupato e sono venuto a cercarlo».
Senza preavviso gli mise le mani dietro il collo per attirarlo a sé e baciarlo. Era la prima frase da persona matura che gli aveva sentito dire e l’aveva resa orgogliosa. Forse a forza di imbeccate e strigliate iniziava a capire quale fosse il suo ruolo.
Era struccata, con i capelli spettinati, nessuno dei due si era lavato i denti, Pemberley inoltre indossava un pigiama ridicolo con degli unicorni e degli orsi con la pancia a cuore, ma quel momento sarebbe stato il migliore di tutta la giornata. Niente avrebbe battuto la tenerezza e la passione di quel gesto.
Anche Rhys era certo che nella prossima settimana nulla di meglio sarebbe potuto accadere. Era lì che voleva essere, sulle labbra di lei. Era così che avrebbe voluto essere svegliato ogni giorno, con lo stesso bisogno e la stessa urgenza.
«Bleah, che schifo» disse Austin dando di gomito all’amica, ancora assonnata.
«Parli tu che hai vomitato tutta sera? Sono così belli» rispose sognante Naive. «Su, andate avanti. Potrei guardarvi per ore».
E, per rimarcare il concetto, appoggiò la faccia sui palmi delle mani mentre i gomiti erano retti dalle ginocchia, le gambe incrociate sotto le lenzuola.
«Avanti, pesti! Fuori dal letto» disse Pemberley colta in flagrante e con le guance rosse.
«Andate da Josie, vi starà aspettando per la colazione» riprese Rhys con uno di quei rari sorrisi che facevano capolino sulle sue labbra.
«Chi è Josie?» domandò Naive ad Austin, curiosa e ormai completamente sveglia.
«Josephine è la donna che cucina e pulisce la casa» rispose pronto il bambino, ancora troppo pallido e malfermo sulle gambe lunghe e magre. «Vieni, te la presento. È simpatica».
Naive si fece trascinare volentieri in cucina, ma fu solo davanti alla madre e a Rhys che si fermò, lo sguardo compiaciuto: «E comunque io l’avevo capito da tempo che vi baciavate, ogni volta che rimanevate soli poi eravate spettinati».
Lo disse con il fare di chi era sicuro di avere la verità in pugno.
Pemberley si scusò e seguirono i più piccoli in cucina, dove una graziosa donna con un’elegante coda bassa li attendeva mentre cucinava frittelle e toast per tutti, tranne che per Austin. A lui era destinata una dieta più leggera.
«Oh, buongiorno» li salutò cortese, come se fosse normale vedere due estranee che si aggiravano per casa in pigiama, e una inoltre ampiamente minorenne.
«Salve» la salutò con la stesse gentilezza Pemberley, condita però da una punta di imbarazzo.
«Josie, lei è…» prese coraggio. «La mia ragazza».
Non ne avevano mai parlato, non ne era nemmeno sicuro, ma lui era un tipo che doveva sapere quello che faceva e, soprattutto, si prendeva sempre quello che voleva. Aveva pensato che mettere in chiaro la situazione l’avrebbe fatta sentire impegnata e che quindi il proprio ruolo sarebbe stato definito anche agli occhi di Nathan, nel caso gli fossero venute in mente strane idee.
«Oh, che bella novità, finalmente ha messo la testa a posto!» convenne felice mentre servì la colazione a tutti.
«Ma io vado a scuola?» domandò preoccupato Austin, che raggiunse una gradazione ancora più chiara del bianco a cui si era votato dalla notte. Era anche sudato, probabilmente aveva ancora la febbre.
«Certo che no» rispose pronto Rhys. «Josie, puoi prenderti cura di lui?»
«Certo, con molto piacere» rispose pronta la domestica mentre passava accanto al tavolo per accarezzare i capelli chiari del bambino.
Naive lo guardò con invidia. «Beato te, io devo correre se non voglio sentirmi sgridare dalla maestra Solomon».
D’improvviso il pancake non era così buono, l’atmosfera da brunch domenicale aveva abbandonato la tavola, ricordando a tutti che c’erano degli obblighi da rispettare.
«Ho già chiamato la preside, ho avvertito che saresti arrivata in ritardo»
«Wow» continuò sarcastica. «Che soddisfazione!»
Si prepararono, Rhys nel bagno personale che aveva adiacente alla camera, Pemberley e Naive in quello degli ospiti, tutti intenti a rendersi presentabili per i propri impegni.
Pemberley, mentre si contemplava allo specchio, vide un bagliore strano negli occhi, un’eccitazione che si ripercuoteva sulle sue stesse guance. Quella mattina, davanti alla sua domestica, Rhys l’aveva descritta come la sua… ragazza.
La frase l’aveva colpita parecchio, ma era felice di constatare i passi avanti fatti dall’uomo. Era mesi che si frequentavano, ma le sembrava che solo dopo la strigliata della notte precedente avesse deciso di prendersi le proprie responsabilità.
Lasciò Naive nella camera degli ospiti a vestirsi e sgusciò di soppiatto nella camera del padrone di casa, spinta dal bisogno di salutarlo con più calma, come avrebbe voluto fare ogni mattina con l’uomo con cui avrebbe deciso di dividere la propria vita.
Bussò più per annunciarsi che chiedere il permesso di entrare, visto come si erano messe le cose quella mattina, era troppo tardi. Troppo tardi per lasciarla fuori o chiedere se poteva addentrarsi, almeno nella sua vita.
Lui si girò in tempo per vederla avvicinarsi con passo quasi sinuoso, lo sguardo sicuro e acceso di malizia.
Lo aiutò a stringere il nodo alla cravatta e percorse il profilo delle labbra di lui con la lingua, con tutta l’intenzione di comunicargli che l’avrebbe svestito più che volentieri, nonostante il lavoro incombesse su di loro e la casa fosse fin troppo popolata per i suoi gusti.
Rhys approfondì quel contatto schiudendo la bocca e, al tempo stesso, facendosi spazio in quella di lei. Le strinse i fianchi con possessione, circondati da un solo braccio dato che l’altra mano era corsa tra i capelli arruffati per evitare che il viso si spostasse dal proprio.
A Pemberley sfuggì un lamento di piacere quasi insoddisfatto, e Rhys fece scontrare i bacini per farle sentire quanto la desiderava. Con la mano, dai fianchi scese sulla coscia e la sollevò con fare possessivo, quasi pronto per prenderla in braccio e continuare il discorso.
«Mamma, dove è…» furono interrotti dalle grida di Naive. «Ah no, trovato. Niente!».
«Volevo darti il buongiorno» soffiò accaldata e con la voce roca sulle labbra di lui.
Era quella trasformazione che l’aveva tanto colpito e lo affascinava. All’apparenza Pemberley era l’acqua cheta, la brava ragazza che tutti si aspettavano da una persona che si presentava in quel modo calmo, eppure le bastava un barlume di spontaneità più profondo – o un semplice imput – e si trasformava, diventando una donna capace di prendersi quello che voleva senza mai perdere classe e dignità.
Riusciva a essere madre senza dover rinunciare a essere femminile, e lo eccitava tantissimo il suo carattere così premuroso e passionale in ogni aspetto che la riguardasse.
«Mai mettere piede nella tana del lupo» disse scendendo verso il collo. «Potrebbe non resistere alla tentazione di mangiarti». Le lasciò un morbido morso tra la mascella e l’orecchio dopo aver percorso con la punta del naso ogni lembo di pelle già marchiato dalle labbra bollenti.
«Stai forse cercando di dirmi che, come saluto, è stato di tuo gradimento?» domandò molto più padrona di sé, le urla della figlia l’avevano fatta rientrare nel suo pieno ruolo di persona responsabile in quanto madre.
«Molto». Continuò imperterrito lui, perso nello scoprire il corpo che gli si offriva davanti. Scese con le mani sul sedere di Pem, stringendo la presa.
«Ma sto anche…» si fermò per leccarsi le labbra alla ricerca della parola giusta, anche se in realtà si era interrotto per vedere quanto quel gesto avesse potere su di lei. Dopotutto era un maniaco del controllo, la situazione doveva averla in mano lui. Ristabilito l’ordine, riprese a parlare. «Aggiungendo che mi piacerebbe vederti stasera, magari per riprendere il discorso di questo buongiorno lasciato così in sospeso. Hai Naive a casa?»
«N-no, è da Nathan» balbettò Pemberley preda dell’eccitazione che non se ne era mai andata. «Ma Austin?»
«Posso pagare la baby-sitter, però poi dovrò tornare. Te la senti?»
 Se la sentiva? Le dispiaceva che lasciasse Austin solo, ma era anche vero che non avevano molto tempo da ritagliare per loro due. Per una volta cedette, il suo essere donna venne prima dell’essere madre.
Lo baciò con trasporto, nella speranza di comunicargli quanto lo desiderasse.
«Lo prendo come un sì» riprese lui più lucido.
«Devi» e poi, improvvisa, le venne un’idea.
«Senti… Cosa ne dici di un week end ad Aspen? I miei partono per una settimana, la prima di Aprile, e noi andiamo con loro. Tu potresti raggiungerci con Austin il fine settimana cosa ne dici?»
D’un tratto il nodo alla cravatta era diventato un cappio. Era davvero così stretto?
Forse Pemberley aveva mal interpretato le sue intenzioni della mattina, correndo troppo con la fantasia. Era stato affrettato a dare un nome al loro legame? Avrebbe recuperato in qualche modo alla gaffe?
«Non posso assicurarti nulla». Sorrise più incerto e distaccato, il Rhys che – come al solito – mostrava la sua faccia imperturbabile per non mostrare debolezze a chi gli stava davanti. «Ma vedrò di fare il possibile. Ora devo andare, o rischio di arrivare tardi alla HewittCorp, e non sarebbe da me».
Lasciò quella frase aleggiare tra loro, come se la fine di quel dialogo dovesse mettere a tacere ogni discorso iniziato poco prima.
 
Silene era eccitata. Dopo mesi era riuscita ad arrivare a casa di Joshua dopo una cena e una serata con i controfiocchi.
Le sue orecchie erano deliziate dal rumore dei loro baci sempre più impazienti, mentre la pelle si beava delle dita di lui che, per la prima volta, spogliavano il suo corpo. Erano quelle le sensazioni che amava, i ricordi da incidere nella memoria come eccitanti, piccoli momenti fuggevoli che prima o poi non ci sarebbero stati più.
Un vibrare sommesso li interruppe, facendoli ridacchiare come due adolescenti colti in flagrante.
«Devo controllare almeno chi è, potrebbe essere importante» gli disse prima di mordersi il labbro inferiore, colpevole. Josh annuì sereno e divertito, non avevano fretta, aveva tutta l’intenzione di prendersi il tempo necessario per far sì che quella serata diventasse una di quelle da ricordare in eterno.
Ciao piccolo fiore di luna, quando ci vediamo?” sbuffò.
Davvero Cassidy, a miglia di distanza, riusciva a infilarsi tra di loro e a rovinare quello che stava per succedere? Non riusciva a capacitarsi di come fosse in grado di rovinarle la vita nonostante i suoi piani, irritarla a morte e farle sentire una morsa allo stomaco a cui non avrebbe mai dato un nome, almeno per amor proprio; non poteva permettergli di avere potere su di lei, non poteva essere tanto patetica.
Digitò subito una risposta, furiosa. “Se tutto va secondo i miei piani, MAI.
Appoggiò il telefono sul tavolo di vetro accanto al divano, poi riprese da dove aveva lasciato il tutto, ovvero dalla bocca di Yoshi, il quale – paziente – la osservava curioso e calmo.
Un’altra vibrazione.
«Scusa» mormorò imbarazzata e rossa in viso per la rabbia.
«Chi è?» Josh era divertito.
«Cass» rispose con fare disinvolto Silene, non voleva dimostrare quanto le premesse sapere dove l’altro uomo volesse andare a parare.
«Posso leggere?» visto il delicato triangolo di cui lui stesso faceva parte, si sentiva coinvolto in quello scambio di messaggi, anche se l’assenza di Cassidy nel suo, di telefono, valeva più di ogni altro gesto.
Non hai voglia di vedermi? Fiore bugiardo…
Dopo che entrambi ebbero letto il contenuto del messaggio, si guardarono sbigottiti. Era sempre e solo il suo ego a farla da padrone, non era mai veramente interessato, doveva dimostrare a se stesso di essere in grado di ammaliare tutti.
La mia voglia di vederti è proporzionale a quella di farmi suora. Ora ti pregherei di lasciarmi in pace, ho di meglio da fare. Niente a che vedere con cose da suore però. Ho intenzione di mettermi in ginocchio, e non per pregare.
Ridacchiò divertita dal suo stesso messaggio, poi si dedicò famelica alla camicia del ragazzo che era sopra di lei, lo sguardo avido di chi sapeva cosa stava per succedere e non attendeva altro.
«Quindi vuoi metterti in ginocchio e non per pregare?» le chiese eccitato mentre con decisione faceva scorrere verso il basso la zip dei pantaloni di lei, dopo di che iniziò ad accarezzare la pelle vicino all’elastico degli slip.
Sospirò compiaciuta, avrebbe voluto tutto e subito, ma era anche bello morire di voglia nell’attesa.
Furono i jeans di Joshua a vibrare questa volta, e il primo a sorprendersene fu lui.
Ciao occhi a mandorla, come stai? Stasera sei impegnato. Con me, ovvio. Preparati a una serata indimenticabile…
Josh fissò lo schermò sbigottito mentre Silene sgranò gli occhi, allibita da tanta faccia tosta.
Fu il turno del ragazzo di indignarsi e rispondergli per le rime: “Ciao a te piccolo fiore opportunista, stasera sono impegnato sì, ma con Sil. Ora penso che lo faremo qui, sul divano. Questa sarà la parte indimenticabile della serata, non tu. Brucia che io possa avere ciò che tu non hai mai avuto? Mi dispiace, non sono la seconda scelta di nessuno. Non cercarmi più, non mi meriti.
Spense il cellulare e, con decisione mista a urgenza e rabbia, oltrepassò l’ostacolo degli slip di Silene per andare a scoprire quella carne che non era in attesa di altri che lui, strappandole il primo di tanti gemiti soddisfatti.
 
«E Rhys?» Scones, avido e agitato, si allentò la cravatta. Era sera e alla HewittCorp non c’era anima viva in giro, eccezion fatta per lui e Colton.
«Lo vedi?» sorrise arido quest’ultimo indicando l’edificio in cui erano con entrambi le braccia. «È con la sua fidanzatina modello del momento, probabilmente se la starà scopando proprio ora».
Ed era vero, in quel momento, dopo una giornata di lavoro, era corso da Pemberley per gratificarsi dei suoi sospiri. Gli piaceva scoprire come potesse dedicarsi al corpo di una donna e, al tempo stesso, provare piacere personale, prima non era mai stato così.
«E quindi vuoi che io ritocchi i bilanci del trimestre passato? Ancora una volta».
«Ancora una volta» annuì Colton.
Si sentiva furbo, e lo era. Se no Rhys non l’avrebbe scelto come direttore degli affari interni della corporation, e nemmeno gli avrebbe lasciato gestire i nuovi clienti e i futuri soci. Se c’era una cosa che aveva imparato, era che il suo amico si fidava di lui. Rhys, da buon titolare, ci metteva i capitali, e lui, da buon braccio destro, li faceva fruttare, almeno per se stesso. Giusto un po’.
«Spiegami» Scones, capo della squadra della contabilità della HewittCorp, era bravo a far deviare cinquecentomila dollari come se fossero stati pochi spiccioli, voleva solo capirne il perché. «Perché Rhys non dovrebbe accorgersene»
«Semplice» Colton si accomodò sulla sedia posta davanti alla scrivania del contabile. Il buio della sera e le luci soffuse della stanza – le stesse che conferivano quel tono così cameratesco e importante all’incontro – gli davano sicurezza. «Lui si fida del suo capo della contabilità e del direttore a cui affida tutto. Se loro dichiarano che i bilanci non hanno pecche, lui saprà che è così. Inoltre sappiamo entrambi che sei in grado di mostrare bilanci in cui spariscono cinquecentomila dollari senza che qualcuno se ne accorga».
Scones si appoggiò allo schienale della poltrona in pelle, doveva pensare un attimo a come coprire un ammanco simile.
«Non è la prima volta che lo fai»
«Non è la prima volta che ci guadagni» lo guardò eloquente Colton, piegandosi sul legno lucido e costoso che li separava. «È solo un… profitto personale esentasse, dopotutto».
Il contabile si accarezzò il mento tanto quanto la sua mente coccolava l’idea instillata da Colton.
«Su, ho visto i vantaggi degli ultimi piccoli prelievi. L’auto, le cene, le modelle. Noi ci capiamo, siamo uguali» gli disse con fare confidenziale. Scones aveva un addome che iniziava a essere pronunciato e l’attaccatura dei capelli continuava a spostarsi, lasciando scoperti sempre più ampi spazi di cranio. Colton, invece, aveva i capelli neri, un fisico curato dalla palestra e un sorriso strafottente che invogliava le donne a voler curare la sua allergia ai rapporti duraturi. Non vedeva tutte queste somiglianze. «Ci piace mantenere un certo tenore di vita, e per farlo dobbiamo prenderci delle piccole libertà che, tutto sommato, ci appartengono. Siamo quelli che qua dentro hanno più responsabilità e si fanno il culo, non credi?»
Era furbo, e sapeva di esserlo. Ecco perché era convinto di restare impunito, perché la sua astuzia gli era sempre servita per sopravvivere. La sua era una vera e propria arte.
«Il tuo ragionamento, in effetti, non fa una piega».
Diamine, capiva perché fosse lui a gestire le relazioni con i pezzi grossi. Li faceva sentire importanti, necessari e non si poneva al di sopra di nessuno, anche se era chiaro che a muovere i fili fosse lui, eppure lasciava credere che fossero gli altri a decidere.
«Ottimo» disse Colton soddisfatto per poi estrarre dalla tasca interna della propria giacca di alta sartoria un foglietto con delle coordinate bancarie del suo conto offshore. «Addebitali pure qui, e tu tieniti pure il venti percento, te lo meriti».
Gli strizzò l’occhio prima di uscire dall’ufficio, doveva incontrarsi con una modella di Victoria’s Secret che non vedeva l’ora di mostrargli la nuova collezione in anteprima e in uno show assolutamente privato.
«E sta’ tranquillo, Rhys non se ne accorgerà mai».
 
Erano i primi di aprile, eppure ad Aspen sembrava gennaio inoltrato. Nonostante di giorno la temperatura fosse fredda ma gradevole, di notte si scendeva ancora abbondantemente sotto lo zero, costringendo le persone a stare rintanate nei loro chalet forniti di ogni comfort.
La neve cadeva e impediva a tutti di sciare, difatti le piste erano inaccessibili e Naive si limitava a estenuanti discese con lo slittino, istigate sempre da Nathan che, instancabile, le correva appresso come se le forze non potessero venire meno.
Pemberley sperava solo che il tempo decidesse di stabilizzarsi, aveva davvero voglia di usare lo snowboard, nonostante non amasse così tanto la montagna. Per lei voleva dire giri in paese, camino, cioccolata calda e coccole, il resto era un divertimento bello ma superfluo.
«Papà, ancora!» urlò Naive dalla pista di pattinaggio, era sul ghiaccio con Nathan che la faceva girare come una trottola.
Pemberley non si era presa nemmeno la briga di infilare i pattini: non solo non era capace a pattinare, ma aveva la fluidità di un tronco e, soprattutto, aveva paura di finire per terra e di vedere le proprie dita tagliate dalla lama dei pattini di qualcun altro.
Un brivido le percorse la schiena.
«Papà?» chiese Rhys dall’altro capo del telefono, confuso.
Pemberley si morse il labbro, colpevole. «Sì, c’è Nathan con noi»
«Ah» rispose asciutto l’uomo in collegamento da New York. Quel tono così freddo che riusciva a essere più pungente del clima di Aspen. L’inflessione che, Pem lo sapeva, usava per le accuse velate verso le cose che lo infastidivano.
«Tu hai detto di no, così i miei hanno pensato di chiederlo a lui, che invece ha accettato» aggiunse con la voce petulante a mo’ di scusa.
«Capisco. Sono facilmente rimpiazzabile, vedo» ammise a denti stretti lui. Si odiava per quella dichiarazione, una volta una simile debolezza non gli sarebbe sfuggita di bocca.
Lo sguardo di lei si accese. «A me sembri più facilmente… Geloso». Una punta di soddisfazione in quelle parole.
«Geloso? Io? Ti prego, mi hai visto? Sono solo contrariato perché Nathan di questi tempi ti sta troppo intorno. Non è normale». Gli piaceva ricordarle che tra loro il legame era diventato esclusivo, d’altronde l’aveva fatto per evitare simili quanto spiacevoli eventi.
Lei sorrise, lo stomaco che intrappolava moltissime farfalle. «Rhys, è il padre di mia figlia e sta imparando a conoscerla. Farà sempre parte della mia vita, non posso negarlo. Ma non come tu intendi»
«Mi fa piacere saperlo» rispose secco. «Vorrei fosse chiaro anche a lui.     E comunque» riprese stizzito, ma cercando di controllare il fastidio «Io non ho detto che non sarei venuto, ho dichiarato che difficilmente sarei riuscito a venire»
«E dove sarebbe la differenza?» iniziava a stufarsi dei suoi messaggi sibillini, aveva solo bisogno di chiarezza, e Rhys in quello aveva ancora molti deficit.
«Sto cercando di liberarmi» rispose di getto, inventandosi la risposta al momento. Dopotutto non era una così brutta idea passare il fine settimana ad Aspen con Austin. Non gli sembrava più una cosa abominevole, non da quando aveva saputo che Nathan si era aggiunto all’allegra brigata.
Era Rhys Hewitt, non si sarebbe fatto soffiare la ragazza da un tizio qualunque che approfittava dei suoi vecchi legami e del suo attuale status di padre per riaverla con sé. Lui la sua possibilità l’aveva avuta e l’aveva sprecata. Aveva scelto la persona sbagliata a cui pestare i piedi.
Appoggiò il braccio con cui reggeva la cornetta sulla lucida scrivania, mentre con l’altra mano si grattò energicamente gli occhi. Da quando era diventato umano e cedeva alle pulsioni più basse e becere?
Lui non era così, era sempre caratterizzato da un certo self control misto a un aplombe impeccabile.
Si era rammollito. E non capiva se fosse colpa di Pemberley o di Austin.
«Se riesco a liberarmi o ad anticipare alcuni appuntamenti importanti che ho nel fine settimana, vi raggiungo»
Quel dubbio che gli dava la sicurezza di non aver promesso nulla, ma che gli conferiva la possibilità di scegliere il da farsi all’ultimo.
«Questa sì che è una notizia!» commentò con troppa enfasi Pemberley, tanto che Nathan alzò lo sguardo su di lei, preoccupato e curioso.
Lo liquidò con un gesto della mano per rassicurarlo, poi voltò le spalle alla pista e si allontanò ancora un po’.
«Fammi sapere assolutamente se ci riesci! Io ti aspetto». Per fortuna non poteva vedere le sue guance rosse.
«Ma certo, cara. Ora devo andare, il lavoro mi chiama. Salutami la tua famiglia. E anche Nathan» rispose affabile, anche se era sicuro che non gliel’avrebbe mai detto. Quale donna non avrebbe amato una sorpresa?
Sarebbe arrivato come il migliore dei principi azzurri a salvare la bella principessa dal terribile orco, che in quel caso aveva i capelli scuri e un fisico sportivo. Ma d’altronde c’era bisogno di adattarsi, i tempi erano cambiati.
Riattaccò senza aspettare una risposta, doveva vedere se riusciva ad anticipare alcuni appuntamenti, così Austin e lui avrebbero potuto prendere il jet e volare venerdì pomeriggio verso le vette innevate di Aspen.
 
Era il tardo pomeriggio di venerdì ed erano riusciti a sciare per un pelo. La neve verso le tre aveva ricominciato a scendere fitta, vorticando davanti alle loro facce creando scenari inimmaginabili.
Li aveva costretti di nuovo nella baita con somma gioia di Naive, aveva deciso che la montagna le piaceva, ma non quegli sport così… Spavaldi. Lei preferiva comunque il mare.
Lo chalet dei Voight si trovava leggermente fuori dal paese. Oltre il chiasso della strada, la poltiglia dell’asfalto battuto, il chiacchiericcio degli sciatori che tornavano dalla loro attività quotidiana, lì si annidava il loro piccolo regno. La cittadina piena di luci e di vita ai piedi, tutta la montagna alle spalle.
La casa, tutta in legno dalla tonalità calda che dava un tocco intimo e famigliare, godeva del paesaggio sottostante dominando con eleganza e semplicità le altre abitazioni. Le finestre emanavano sempre una luce ovattata, il camino fumava in abbondanza e le persone all’interno saettavano da una stanza all’altra con un sorriso sereno dipinto sul volto. Lo chalet era diviso su due piani: di sotto c’erano gli spazi comuni, una cucina, un salotto con un camino in pietra, un soggiorno e un piccolo bagno per gli ospiti. Lì si svolgevano tutte le attività che accomunavano la strana famiglia; di sopra, invece, c’era la zona relax, composta da quattro stanze da letto e due bagni.
Dopo essere ricorsi alle docce per scaldarsi e levarsi la stanchezza, Naive si concesse una cioccolata calda – a suo avviso meritatissima, visto lo sforzo sullo snowboard – che fece venire l’acquolina in bocca a tutti, facendo cedere anche i più grandi.
Così, con la figlia e Nathan seduti sul divano a prendersi in giro davanti a un programma TV e le tazze fumanti in mano, Pemberley aveva gli occhi fissi sulle luci del paese, dato che stava diventando scuro, e la testa altrove, a miglia di distanza. La cioccolata fumava nella tazza davanti a lei, la neve che distorceva il paesaggio rendendolo – se possibile – ancora più bello e malinconico.
Si strinse nelle braccia nel tentativo di allontanare la sensazione di disagio che il silenzio da cui erano circondati le dava, le pareva opprimente, al posto di tranquillizzarla. Nonostante lo chalet fosse corollato da luci che davano un’atmosfera vivace, la neve ovattava ogni suono, con la sensazione di essere emarginati da tutto il resto. Almeno così si sentiva Pemberley, le mancava New York e soprattutto chi la controllava.
Sbuffò e si girò verso sinistra per osservare il fuoco e il divano lì davanti che ospitava suo figlia a Nathan. Sua madre si stava concedendo un bagno rilassante, mentre Terrence stava smanettando sul computer nella privacy di camera sua. Comportamento bizzarro da parte loro, ma decise di essere grata per quei momenti di respiro che le concedevano: non sapeva dove volessero andare a parare, ma senza loro nei paraggi si sentiva libera di agire come meno discrezione, una linea d’azione più conforme alla sua età.
«Mamma, vieni qui con me e papà!» Naive aveva intercettato il suo sguardo perso e l’aveva invitata sul divano, le mani che battevano sulla seduta vicino a loro.
Pemberley diede le spalle alle finestra.
Nathan la fissava in attesa di una risposta, il suo sguardo così deciso la metteva a disagio. Aveva smesso di ridere e fare qualunque cosa stesse facendo per guardarla. Era come se ci fosse… Speranza in quello sguardo, e le stava bruciando sulla pelle, scavava nell’interno tanto le faceva male.
E Naive, quella bambina non più così piccola, aveva gli occhi colmi di sogni. «Tutti insieme» aggiunse speranzosa.
Ecco perché quegli sguardi le facevano paura, perché avevano un sacco di significati.
Era felice che Nathan fosse entrato a gamba tesa nella vita di Naive, lei aveva un padre e lui voleva esserlo, avrebbe sempre voluto esserlo, e ora stava diventando una realtà concreta e percepibile anche da una bambina di dieci anni e mezzo.
A spaventare Pemberley erano le conseguenze: quel posto vuoto, accanto a loro, voleva dire completezza.
La famiglia che vedeva riflessa negli occhi di Naive e che le faceva paura. Cosa voleva dire, per lei?
Unità e coesione tra tre elementi distinti, o un padre e una madre che dovevano dividere più di una figlia?
Fissò Nathan con nostalgia.
Era stato facile innamorarsi di lui, e altrettanto difficile sfuggire per potergli permettere di realizzare i suoi sogni senza essere d’intralcio. Ma se non fosse fuggita sarebbero stati ancora lì, insieme? Non solo per Naive?
Erano domande ardue a cui non avrebbe mai saputo dare risposta.
Una donna avrebbe potuto innamorarsi di Nathan, ma lei?
Era una persona che aveva imparato a conoscere in passato, eppure non poteva dire lo stesso del presente. Erano cambiati essendo sempre gli stessi. Nathan non conosceva la Pemberley odierna e Pem non conosceva Nate. Cosa avrebbero potuto scoprire di nuovo nell’altro?
Non riusciva a concepirlo.
Sceglierlo ancora sarebbe stata la scelta più facile per lei, se ne rendeva conto: era il padre di sua figlia e non si sarebbe affidata a un estraneo, ma questo non lo rendeva per forza la scelta giusta, anzi.
Guardò gli occhi imploranti di Naive.
Non le avrebbe fatto male avere una sicurezza data dai due genitori vicini a lei, non l’avrebbe ferita o fatta illudere, anche perché sapeva come stavano le cose, e nel quadro generale c’era Rhys, nonostante non l’avesse raggiunta e non avesse speso una parola a riguardo.
Fece un paio di passi verso il divano – incerta – verso due visi che si distendevano di più alla sua vicinanza, quando l’attenzione di Pemberley venne catturata da due fari che, per un momento, abbagliarono l’interno della casa, passando proprio dalla finestra davanti cui era rimasta per tutto quel tempo.
«Ma chi diavolo…?»
La macchina si fermò nei pressi del piccolo spazio adibito a parcheggio dei Voight.
La prima persona a scendere dall’abitacolo aveva la testa bionda e non era molto alta. Austin alzò il viso e sorrise, come se in quel clima così rigido ritrovasse una sensazione famigliare.
Rhys lo seguì a ruota, poco dopo, per prendere i borsoni dal baule.
«Oddio» mugugnò Pemberley sorpresa con una mano sopra la bocca.
«Cosa c’è?» Nate era preoccupato, sembrava sconvolta.
Lei non rispose, corse verso la porta e uscì solo dopo aver infilato ai piedi degli stivali, giusto per non camminare scalza nella neve.
Non gli diede il tempo di fare altro che gli saltò al collo, contenta di vederlo lì, nessuna distanza a separarli.
«Austin!» urlò dopo poco Naive dall’uscio, entusiasta. Il bambino sorrise felice e quando lei gli fece cenno con la mano di entrare, lui  colse al volo l’occasione per allontanarsi da quelle smancerie. Non capiva come potessero fare simili cose, quei due. Ci si comportava così da grandi tra amici? Non pensava proprio.
Ma forse non erano solo amici.
«Ce l’hai fatta, sei venuto!» gli sussurrò.
«Volevo farti una sorpresa»
«Ci sei riuscito!» e accarezzò una sua guancia fredda e liscia. «Forza, entriamo».
Dentro casa Nate e Rhys si fissarono per poi salutarsi come un cenno, una gara silenziosa a chi avrebbe abbassato lo sguardo per ultimo e avrebbe gonfiato il petto di più.
«Dove lo sistemi Pem?» chiese con aria innocente il padre di sua figlia. «Non ci sono abbastanza camere».
«Austin può dormire con Naive e, beh, Rhys con me» sorrise imbarazzata, mentre Rhys osservava il viso di Nathan tirarsi.
«Vado a chiamare i tuoi, li avviso che ci sono ospiti» disse cortese Nate, una maschera dietro cui nascondere la rabbia. «Vi lascio soli per un po’».
Strizzò l’occhio alla sua ex, ritrovando il buonumore perduto.
Salì le scale di corsa, sentendosi terribilmente solo, anche la figlia aveva un qualcuno con cui condividere il suo tempo e rimpiazzarlo in quei giorni. Era lui contro tutti gli altri, una bolla perfetta di armonia e amore che si scontrava con la sua solitudine formata perlopiù da rancore.
Pemberley non era cambiata poi molto in tutti quegli anni: per quanto cercasse di fare come voleva lei, si ritrovava ad assecondare il volere altrui, e Rhys ne era la prova lampante.
Estrasse il cellulare dalla tasca, forse era arrivato il momento di accettare l’invito a bere qualcosa dopo lavoro di Cynthia. Non aveva nulla da perdere e il tempo stringeva.
Pemberley non aveva più bisogno di lui?
Bene, lui non avrebbe avuto bisogno di lei.
«Nate?» di colpo New York era diventato il suo rifugio sicuro, più di quello chalet.
«Cynthia, ciao. Senti, stavo pensando… Cosa ne dici di andare a bere quel famoso cocktail quando torno in città? Ho già la gola secca». Perché anche lui era capace ad essere affascinante, bastava solo ricordare come si faceva.

 




Non so nemmeno io come iniziare, se non con scusa.
Come vi avevo accennato nelle note precedenti, le cose non giravano bene. Senza contare che, a fine luglio, sono peggiorate di molto. Fino a fine ottrobre ero talmente a pezzi da aver perso la voglia di leggere e, soprattutto, quella di scrivere.
In questo caso un concerto è stato provvidenziale. Il concerto dei Thirty Seconds To Mars del 2 novembre a Milano. Mi stavo riprendendo, anche se a rilento, e loro mi hanno dato forza, carica e positività. Mi hanno ricordato come ci si rialza. Il processo è stato lungo, e ora posso dire che tutto è passato.
Il mio excursus su EFP è stato lungo, e facendo anche un po' il Giorgio Mastrota della situazione, ve lo illustro. Ho ripreso a scrivere e l'ho fatto proprio nel fandom dei mars, a metà novembre. Ho iniziato con una OS introspettiva su Jared (The triad in him), per poi continuare con una minilong "comica" su di lui (Trenta secondi da Marte, anni luce da Venere), infine sono arrivata a un'altra shot introspettiva su Shannon (The secret is out). Siccome scrivere di loro è terribilmente facile, ho deciso di fare lo spin off della mini long, incentrato su Shannon. Si sa mai che tra voi si nasconda qualche Echelon.
Prima però di arrivare a questo aggiornamento sono tornata alle originali con una OS fluff e da carie nata sabato notte: La ricetta della felicità.
Infine sono arrivata qui. Sono prolifica, ma non so quanto durerà. Intanto io cerco di sfruttare la cosa quanto posso.

Cosa dire di questo capitolo? Ho iniziato a settembre a scriverlo, e spero che non si senta troppo. Il problema di questa storia è sempre stata la sua imprevedibilità, perchè non avevo una scaletta. Fatta quella, sono riuscita a concludere il capitolo con una certà facilità. Spero sia sempre così. Per la cronaca: la storia sarà composta da 15 capitoli in tutto, sedici se mi dilungo su alcuni punti, devo ancora vedere.
Il nome del capitolo - nemmeno a dirlo - è la frase di una canzone dei Mars. Ho solo sostituito Love con Life.
Ci tengo molto a ringraziare le persone che, nonostante il mio mutismo, hanno aspettato, commentato e inserito la storia tra le proprie, se sono qui è anche merito vostro.
Spero ci sia ancora qualcuno interessato un minimo a questa storia...
Se volete mi trovate nel gruppo, almeno potete ingannare le lunghe attese a cui vi costringo: Love Doses.
Alla prossima, sbaciucchiamenti, Cris.

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Capitolo 10
*** Affogare in se stessi ***




Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Nella puntata precedente: Austin si sente male durante la notte e Rhys, nel panico, chiama Pemberley che si precipita da loro con Naive. Qui la ragazza striglia Rhys perché deve imparare a cavarsela da solo: è lui il tutore di Austin, lei non potrà correre per lui appena ne avrà bisogno, anche perchè ha una figlia a cui badare, le basta e le avanza.
Silene e Joshua riescono a concludere la loro serata come si avevano desiderato da tempo ma, all'inizio, vengono interrotti da Cassidy, che disturba prima Silene e poi usa Joshua come un ripiego dopo il rifiuto della ragazza. Cassidy viene scaricato da entrambi tramite sms e accendegli animi dei due.
Colton, amico e collaboratore di Rhys, confabula con il capo della contabilità della società di Rhys per fare qualcosa di losco.
I Voight più Nathan al seguito partono per una settimana a casa ad Aspen nella loro casa. Rhys si rivela geloso di Nathan perché Pemberley non gli aveva detto della sua presenza, decisa in realtà all'ultimo dai genitori di lei.
Le cose vanno bene in montagna, e tutti ne sono felici, ma Rhys fa una sorpresa a Pemberley e si presenta con Austin per passare più tempo in compagnia della ragazza. Nathan, contrariato dalla presenza di una persona che reputa uno sbruffone, si chiude in camera e decide di guardare avanti, chiedendo a una sua collega di uscire una volta tornato a New York.



Capitolo 10
 

Affogare in se stessi
 

Tornare alla primavera di New York dopo il freddo di Aspen era stato come risvegliarsi da un sogno, uscire da un torpore ovattato in cui tutti i sensi venivano stimolati come se fosse la prima volta.
I colori della città erano più vividi e a capo di questa tavolozza c’era Central Park con i suoi fiori, seppur timidi, sempre pronti – accompagnati da una brezza gentile – a diffondere il proprio profumo per le vie della città in tumulto. Il cielo era terso e ricordava la tranquillità estiva, i giorni si allungavano ogni pomeriggio un po’ e la calma che aleggiava sulla città sembrava quasi insolita per i suoi abitanti.
Tutto scorreva con i tempi dilatati di chi aveva tanto ancora da vivere in quei giorni, come se fossero ancora in vacanza. Era così bello da essere innaturale agli occhi di chi – come Pemberley e Rhys – era abituato a ben altri ritmi.
Il primo contatto con la realtà, per Pem, avvenne tramite Silene. Una chiamata concitata dieci giorni dopo il suo ritorno, accompagnata dall’invito per un pranzo il sabato seguente, era bastato a far cadere la flebile illusione che tutto in quel mondo fosse perfetto.
La verità era che non vivevano nei cartoni Disney, gli uccellini non cinguettavano al passaggio delle persone e nemmeno si appoggiavano sulle loro dita o spalle con fare amichevole, figurarsi se un principe era pronto a trarre la donzella in salvo; Silene sembrava lì apposta per ricordarglielo, come se Pemberley non fosse già conscia che l’unica creatura che era uscita dalle fiabe per mettersi sul suo percorso erano draghi capaci di distruggere con un solo colpo di coda ogni aspettativa che si era creata.
«Allora, a cosa devo questo pranzo?» le sorrise incoraggiante.
Era facile constatare che Silene avesse un aspetto orribile, ma era la prima volta dopo mesi che riuscivano a vedersi nelle loro giornate libere, voleva cercare di rendere quel pranzo gradevole e cercare di rinfrancare l’amica come meglio poteva.
«Levati quel sorriso felice dalla faccia, sei irritante». La mora prese a giocare con le posate senza degnare l’altra di uno sguardo, non fingendo nemmeno di prestare attenzione al menù aperto sul tavolo apparecchiato.
Perché a Silene non serviva guardarla per conoscere l’espressione estasiata di Pemberley, la percepiva dalla sue parole traboccanti gioia e soddisfazione. Era felice per lei, perché dopo Nathan non l’aveva più vista sorridere a causa di un uomo che non fosse il padre di sua figlia, ma ora non riusciva a sopportarlo.
Aveva bisogno di sfogarsi, di sentire qualcuno di arrabbiato quanto lei, non voleva persone che le ricordassero che solo a lei – puntualmente – la parte amorosa della vita andava a rotoli.
«Stavo cercando di rendere questa conversazione più piacevole». Si giustificò Pemberley senza farsi intimorire mentre buttava un occhio ai primi.
«Tentativo inutile». Sbuffò Silene con un broncio degno di un bambino di cinque anni. In effetti ricordava proprio Naive i primi giorni di scuola, quando la madre la portava contro la sua volontà.
«Avanti, cosa succede?» una domanda generica, ma che sapeva avrebbe permesso all’amica di sfogarsi al meglio. Quando era intrattabile aveva bisogno di scoppiare ed esternare il proprio disagio.
Non era solita aprirsi spesso, ma era brava a parlare, complice anche il tipo di lavoro che conduceva, quindi a mettere in allarme Pemberley fu il suo silenzio prolungato accompagnato da uno sguardo che non voleva saperne di alzarsi dal tavolo, trovando molto più interessante guardare le dita giocare con le poche briciole che sonnecchiavano sulla tovaglia immacolata.
«Silene parla, sai che con me puoi aprirti se c’è qualcosa che non va. Siamo amiche proprio perché riusciamo a parlare di tutto». Tranne dei segreti più profondi, quelli che attanagliavano il cuore nei momenti di buio e non lo lasciavano battere a dovere. Quei pensieri così privati da far soffocare per la loro sincerità inespressa, così intimi da risultare inadeguati se accarezzati dalle labbra e resi sotto forma di parole che ne avrebbero limitato l’importanza.
Eccolo il punto di rottura di Silene, la debolezza che la caratterizzava in quel momento come tanti anni prima su un dondolo bianco in legno: cedere davanti al fallimento.
«Joshua» sussurrò incerta, come se il solo nome riuscisse a spiegare tutti i motivi che l’avevano portata – ancora una volta – a sbagliare tutto.
Come era arrivata a essere ancora in balìa di se stessa?
«Ti ha fatto del male?» a Pemberley si era seccata la bocca per l’ansia. Si sentiva preda di una doccia fredda che, al posto di distendere i nervi, la stava rendendo agitata, punta da spilli invisibili pronti a punzecchiare i suoi sensi di colpa: in fondo se Joshua era entrato nella vita dell’amica era colpa sua. E di Cassidy.
Silene scosse la testa quasi offesa. «Non gliel’avrei permesso, lo sai».
Eppure lo sguardo chiaro aveva perso convinzione.
Per Pemberley era sempre stato difficile interpretare ciò che la sicurezza di quegli occhi azzurri celava, ma al loro interno vedeva sempre brillare un barlume di orgoglio che poche volte l’aveva abbandonata. In quel momento tutta la parvenza solita di Silene era sparita, lasciando posto all’insicurezza e a una ben più radicata tristezza.
Sembrava una bambola di porcellana con l’espressione spezzata, il giocattolo rotto con cui un bambino troppo crudele e superficiale aveva giocato fino a farlo cadere in pezzi. Un bambino troppo concentrato sui propri capricci che non si accorgeva di essere uscito da un sacco di tempo dall’infanzia.
Silene scosse la testa per darsi un contegno e riconquistare un briciolo di dignità, non era abituata a mostrare il lato più profondo di sé. Però – per quanto tuttavia non le facesse piacere – doveva sfogarsi con qualcuno, sentirsi dire che tutto sarebbe andato bene e che non c’era nulla di sbagliato in lei.
Inspirò a fondo e poi iniziò a parlare.
«Più o meno quando tu eri ad Aspen con i tuoi, il tuo concubino e il padre di tua figlia» a Pemberley scappò una smorfia di disapprovazione, Silene adorava insinuare in lei il dubbio che quella situazione le si sarebbe ritorta contro prima o poi. «Josh e io siamo riusciti a concludere. Sì, insomma… Dopo tanto tempo abbiamo fatto sesso»
«O mio Dio, era ora!» esclamò sollevata la bionda, una mano sul cuore quasi volesse assicurarsi di aver ristabilito un battito normale.
Poi si concentrò sul silenzio dell’amica, sempre più sospetto.
«Ha fatto così schifo?» azzardò incerta, non sapendo come interpretare la sua mancanza di parole.
«No! Certo che no!» si difese oltraggiata. «Non sarò una pornostar, ma non sono da buttare. Conosco anche io i miei trucchetti».
In realtà non era poi così vero, però i ragazzi con cui era stata le avevano detto che ci sapeva parecchio fare, e Silene era convinta che un fondo di verità in quelle parole ci fosse, perché altrimenti avrebbero potuto semplicemente restare in silenzio.
«Sil, non intendevo questo. Mi riferivo più a lui, o al fatto che tra di voi potesse non esserci la giusta alchimia». Pemberley non intendeva affatto insultare l’amica o – peggio – le sue doti amatorie, ma voleva concentrarsi più sulla chimica tra le due persone coinvolte. Come avrebbe potuto però parlare apertamente della scintilla che vedeva tra l’altra e Cassidy senza infliggerle una ferita in modo deliberato? Era meglio tacere e parlare per estremi. Silene era una ragazza intelligente e avrebbe capito, dalle sue nuove precisazioni, dove volesse andare a parare in realtà.
«Credimi è andata più che bene. È andata così bene che quella sera è capitato una seconda volta. E anche il mattino dopo».
Pem si ritrovò a sospirare, questa volta con una punta di invidia nei confronti dell’amica. Lei, con Rhys, era arrivata dopo tempo all’agognata intimità, ma era ancora strano tra loro. Per la giovane mamma erano passati anni dall’ultima volta, nemmeno così memorabile, e Rhys riusciva a soddisfarla come mai si era aspettata. Aveva scoperto nuovi modi di conoscere se stessa attraverso il corpo di un altro, eppure Rhys non riusciva a lasciarsi andare del tutto, lei lo percepiva. Doveva sempre avere il controllo della situazione, non cedere mai del tutto alla passione come chiunque altro avrebbe fatto, quasi avesse voluto ricordare a lei più che a se stesso che non era come gli altri uomini.
«E allora dov’è il problema?!»
«Il problema è che mi ha scaricata tre giorni dopo».
Ecco il punto focale di tutta la questione, il vero motivo per cui l’aveva chiamata. Era una muta richiesta di conforto atto a garantirle che l’errore non era suo, ma negli uomini che non capivano nulla. E su quello, Pemberley, avrebbe messo una mano sul fuoco.
La invitò a continuare, voleva che l’amica finisse il racconto prima di esporre il proprio giudizio. Non poteva dirle quello che pensava se non era a conoscenza di tutti i fatti, anche se riguardo Silene aveva sempre avuto una teoria ben precisa.
«Ha detto che voleva vedermi e, quando ci siamo incontrati, mi ha detto che non se la sentiva di continuare». Lo ammise scoraggiata, con la voce rotta di chi dentro era ormai arreso da tempo. «Questo perché non è pronto a impegnarsi, e nemmeno io, dice. Cosa ne sa lui? Inoltre aggiunge che in me non ha trovato quello che sperava, che non sono disposta ad aprirmi verso un’altra persona come lui meriterebbe. Ha concluso dicendo che un giorno forse riuscirò a capire appieno il suo discorso. Molto poco pretenzioso il ragazzo, vero?» concluse con amara ironia.
Peccato che Pemberley si fosse focalizzata su altre parole precedenti al finale. Joshua, che stupido non era, forse aveva visto più lontano di lei. Aveva avuto a che fare con Silene e Cassidy, conosceva i caratteri di entrambi almeno quanto i loro precedenti, con un po’ di arguzia era riuscito a fare i calcoli giusti per giungere alla conclusione che i due interessati non avrebbero voluto sentire, almeno da parte di Silene.
«E tu cosa hai fatto?»
Possibile che avesse accettato la scelta dell’amico senza farsi valere? Difficile, considerato il carattere di lei. Eppure non era quello a preoccupare Pemberley, quanto più l’insicurezza di Silene – passata dal silenzio a un fiume di parole pronta a travolgerla – che assomigliava molto alla sua debolezza più grande, quella di non essere più andata avanti da un punto preciso nel passato. La vulnerabilità che incrinava lo scudo, un piccolo riflesso che negli occhi chiari brillava con meno convinzione perché intaccato da quello che aveva all’interno di se stessa, la paura che sospettava le si potesse leggere anche in superficie.
«Ho cercato di fargli cambiare idea e approfondire il discorso, ma era convinto della sua scelta. È stato un buco nell’acqua. Così…» si morsicò un labbro, indecisa se continuare o meno.
Permberley rimase sconvolta da quel gesto, non gliel’aveva più visto fare dai tempi del college, quando Silene era uscita da un’aula dopo un test e non era sicura di un paio di risposte, un tentennamento che non si era più voluta concedere nell’arco della vita; integerrima, cinica e risoluta come si era sempre dimostrata.
«Così ho chiamato Cassidy». La giovane mamma la guardò male, sapeva che         quel nome, prima o poi, sarebbe uscito dalle sue labbra, perché era direttamente collegato ai timori più profondi di Silene, nonché coinvolto a fondo in quel triangolo che aveva portato i tre vertici a ferirsi l’un l’altro. «Dovevo pur prendermela con qualcuno!»
Una giustificazione frettolosa e poco convinta, come se riuscisse a persuadere la bionda della correttezza della sua azione con quelle scarne parole, vuote come l’eco che risuonava fievole tra loro.
«Ho pensato che potesse c’entrare con la decisione di Joshua, ma mi ha detto che anche lui è stato scaricato. In realtà lo sapevo, perché è successo in mia presenza tramite sms, però pensavo fosse una lite passeggera. Invece Josh ha tagliato i ponti anche con lui».
Ecco l’errore di Silene. Sapeva che Cassidy non c’entrava in tutto quello, ma l’aveva trascinato nel mezzo della questione solo per il gusto di prendersela con qualcuno. O meglio, con lui; ora come anni addietro.
Era lì perché sapeva di avere sbagliato, ne era pienamente consapevole in quanto donna, ma voleva sentirsi dire che non era così, voleva sentirsi capita. Cosa che a Pemberley non andò giù.
«E ti domandi perché Yoshi sia scappato?»
«Certo».
Entrambe erano sorprese: Silene per la domanda quasi retorica dell’amica, Pemberley per la risposta sincera di lei, come se non avesse capito dove sarebbe andata a parare con quel discorso.
«Perché la prima persona che cerchi sempre è Cassidy».
Pemberley era pronta a esternare il proprio pensiero senza paura di ferire Silene, forse perché pensava che fosse giunto il momento di metterla davanti alla realtà dei fatti che lei cercava di evitare dai tempi del college. Un comportamento non del tutto edificante visto che tentava in ogni modo di lasciarsi quell’episodio alle spalle.
«L’ho cercato perché lo ritenevo responsabile della rottura della mia relazione» rispose sulla difensiva. Solo lei, per fortuna, sentiva il battito accelerato della menzogna, perché se Cassidy si era infilato tra se stessa e un’altra persona era colpa sua, perché l’aveva permesso.
Lo sapeva, ma non era pronta ad ammettere una simile cose a renderla vera; significava ammettere di aver sbagliato per tutto quel tempo e non era certo il momento. Era corsa da Pemberley per sentirsi compresa, non perché le venisse rinfacciato ciò che di sbagliato aveva fatto nella sua vita, non lo accettava, soprattutto da una persona che – secondo lei – agiva nello stesso identico modo. A differenza sua, però, non ne era cosciente.
«Tu lo ritieni responsabile di ogni tuo fallimento in amore». Un’accusa senza cattiveria, una constatazione arida che feriva più di un’insinuazione rabbiosa, perché aveva il retrogusto della consapevolezza; era come se Pemberley fosse sempre stata a conoscenza della cosa, ma fosse sbottata in quel momento senza un vero perché.
«Forse, ma questo cosa c’entra?» concesse Silene meno accattivante rispetto a prima. Se non riusciva a frenare l’amica come avrebbe potuto fermare se stessa davanti alla verità?
«Non vorrei ferirti, ma sarò estremamente sincera: le relazioni in cui ti imbarchi naufragano a causa tua. Sei tu a mettere Cassidy tra te e loro».
Non altre persone nel corso degli anni, ma sempre e solo Cassidy. L’unica costante oltre alla fine che aveva accompagnato ogni rapporto. Non era stupida, sapeva bene pure lei che le cose andavano di pari passo. Eppure l’eccessiva sicurezza di Pemberley nei suoi confronti l’aveva ferita: sperava di trovare un porto sicuro, non un muro contro cui andare a sbattere.
Così assunse i panni da avvocato con la sua migliore amica per la prima volta in dieci anni. Aveva imparato proprio in aula che il miglior modo per difendersi era attaccare e che, per salvaguardarsi, era meglio cambiare discorso.
Ecco perché si ritrovò a sputare dura: «Non provare a fare la persona sapiente ed equilibrata in materia Pem, non ti si addice. Non hai il diritto di parlare tu che giochi a salvare un uomo che non ha voglia di cambiare mentre fai gli occhi dolci al padre di tua figlia».
Odiava aver detto una cosa simile, si era tradita di nuovo: vittima del momento aveva espresso il proprio pensiero senza filtri. Ferire Pemberley, in quel frangente, sembrava l’unico modo per metterla sul suo stesso livello, cosa che le dimostrava quanto l’amica avesse ragione e lei non avesse argomenti validi dietro cui nascondersi oltre.
«Cosa stai dicendo? Nate è tornato per Naive, e andiamo d’accordo per lei prima che per noi. Senti, so che quello che ti ho detto è una verità scomoda…»
«Altrettanto». La interruppe acida prima che potesse concludere la frase.
Pemberley ignorò il commento e continuò, nonostante il comportamento dell’amica l’avesse delusa: «Ma dovresti fare un po’ di chiarezza riguardo i tuoi sentimenti, perdonarti per essere umana e capire cosa vuoi davvero. O meglio, chi».
Si alzò da quel tavolo dopo aver lasciato quaranta dollari sulla tovaglia per pagare la propria parte del pranzo e della mancia, irritata dalle accuse implicite che l’amica le aveva rivolto. Era la prima volta che le capitava di litigare con Silene e non le piaceva per nulla, come non gradiva il fatto che, per difendersi, dovesse trascinare nei propri casini pure lei, come se la sua vita non fosse già abbastanza caotica.
Pemberley era conscia di vivere in equilibrio precario, non le serviva certo una persona che, nonostante non fosse pronta ad accettare i propri errori, non esitasse a farle notare i suoi, non era disposta ad accettarlo.
«Sentiamoci quando avrai fatto pace con il mondo, non ho voglia di sentirmi offendere in modo gratuito solo per alleviare le tue pene».
La salutò così, senza cattiveria ma con la stanchezza che quel diverbio aveva portato con sé.
Silene rimase seduta in silenzio, impassibile nel caos che la attanagliava.
Aveva sbagliato tutto: pur di non ammettere un suo errore, uno sbaglio commesso anni prima e che continuava a trascinarsi dietro, aveva litigato con la sua migliore amica.
Si mise le mani davanti la faccia, scoraggiata. Ancora una volta l’orgoglio aveva avuto la meglio sul resto, lasciandola come anni prima il college l’aveva resa: arida e l’ombra di se stessa.
Sbuffò. C’era solo un modo per riprendersi quella che era, e aveva capito anche come fare per ritrovare la vera sé: ripercorrere la strada da dove l’aveva interrotta.
Ci aveva messo dieci anni per arrivare a quel passaggio, e ci avrebbe messo altro tempo per scendere a patti con la propria coscienza per accettare la scelta, ma ringraziò Pemberley per averla messa davanti alla realtà dei fatti.
Con un po’ di pazienza sarebbe arrivata ad ammettere quello che in una decade aveva rifiutato con tutta se stessa, doveva soltanto rimettere insieme i cocci della sua coscienza in cui si era specchiata e che pensava di non essere in grado di ricomporre. Ritrovarsi e ricomporsi era il primo passo verso l’accettazione della Silene più vera.
Un po’ di tempo e sarebbe riuscita ad accettarlo. E, quel giorno, avrebbe chiesto scusa a Pemberley, ringraziandola per essere stata così cruda con lei nel momento in cui non pensava di averne bisogno.
 
Era un sabato pomeriggio e Pemberley e Rhys erano sul divano di casa di lei a parlare e guardare ciò che la televisione poteva offrire mentre, con fatica, avevano relegato i ragazzi in camera a guardare un film d’animazione. Loro volevano andare al cinema a vedere il nuovo cartone della Disney, invece gli adulti avevano preferito rimanere in casa a rilassarsi.
Ecco cosa voleva dire delle avere responsabilità: provare stanchezza alla fine della settimana, cosa che i figli, o comunque i parenti, non potevano capire finché non la sperimentavano sulla propria pelle.
Ed era con quella che Pemberley si era avvicinata a Rhys, quasi inavvertitamente, sfiorando la sua gamba con finta indifferenza, cosa che gli fece sollevare un sopracciglio.
Non era abituato a oziare in casa – soprattutto in quella d’altri – e con un abbigliamento così casual per i suoi gusti, avvezzo com’era a mascherarsi d’impassibilità in un completo che non mostrava nemmeno un difetto, proprio come lui; eppure non trovava nulla di male in quello, per quanto gli fosse estraneo.
Forse era proprio così che si sentiva: estraneo. A se stesso, a quella situazione, a un rapporto.
Come se fossero abiti che non era assuefatto a portare, un qualcosa a cui non era in grado di adattarsi del tutto.
Fu distratto dal proprio senso di inadeguatezza da Pemberley che, con calma, si era appoggiata al corpo di lui, che si girò per guardarla con un sopracciglio alzato, quasi quell’espressione potesse sostituire una domanda riguardo il suo atteggiamento.
Pem non attese altro tempo e lo baciò con decisione, avida di quel contatto. Era sì stanca del lavoro, ma non di ciò che la vita aveva da offrirle e, in quel momento, la voglia di entrare a contatto con Rhys prevaleva su tutto il resto.
Lui rispose, all’inizio incerto: se da una parte il desiderio di stendersi sul divano e approfondire il contatto era forte, l’altra del suo cervello – quella più razionale – gli ricordava che oltre la porta della camera di Naive c’erano due ragazzini a cui loro dovevano dare il buon esempio e quello, lo sapeva bene, non rientrava in nessun tipo di buona educazione.
Mise da parte l’indecisione, cosa che odiava perché non lo rappresentava affatto, e decise di rispondere all’irruenza di Pemberley. In fondo non si trattava di assecondare un istinto, ma di lasciare che prendesse il sopravvento il compromesso che permettesse loro di non superare il limite, ma che soddisfacesse la loro voglia di scoprirsi.
Peccato che a Rhys l’adattarsi non andasse poi molto a genio. Era un territorio a lui nuovo – ostico – in cui non si era mai mosso. Non era sua abitudine tirare il freno a mano, le mezze misure per lui erano adatte a coloro che non sapevano come gestire la situazione e vivere la vita al meglio. Invece lui era solito intraprendere le strade del tutto o del niente, e di solito si concedeva tutto. Lampi brevi ma intensi che illuminavano a sprazzi i giorni del suo successo.
Era conscio, però, che da quando Austin era entrato nella sua vita la visione di questa andasse ridimensionata, per quanto accontentarsi non gli piacesse particolarmente.
Pemberley non era un compromesso, ma non poterla vivere come lui aveva sempre fatto nella sua intera esistenza era limitante. Eppure non dipendeva da lei.
Quei secondi persi a ragionare sul da farsi gli costarono cari: stava iniziando a godersi il contatto con Pemberley e il suo corpo quando il campanello vibrò nell’aria, la scheggia di realtà che aveva rotto la bolla in cui si erano chiusi, dove erano soli e potevano fare quello che meglio credevano, almeno per qualche minuto. Era l’illusione di avere ancora potere sugli eventi, cosa che non gli apparteneva più.
«Aspetti qualcuno?» le chiese confuso e contrariato, aveva tutta l’intenzione di riprendere il discorso da dove era stato interrotto, e sapere che di sotto c’era qualcuno che cercava una persona all’interno della casa non contribuiva alla cosa.
«No» rispose Pemberley nell’alzarsi mentre si sistemava i vestiti nel tentativo di eliminare ogni traccia del passaggio delle mani di Rhys. Nonostante non fossero molte le persone in grado di andarla a trovare, preferiva di gran lunga fare bella figura e presentarsi in modo adeguato. In fondo tutta l’educazione impartita dai genitori non era andata persa, e se fossero stati loro ne avrebbero avuto la prova.
«Chi è?» domandò nel microfono del citofono.
Quando le giunse risposta si girò con aria confusa e un sopracciglio alzato verso Rhys.
«Chi è, dunque?» l’espressione di lei non gli piaceva nemmeno un po’.
«È Nathan». Gli si rivolse sempre più dubbiosa.
Rhys sbuffò. Ormai essere interrotti da Nathan era diventata una costante. Poco importava che fosse al telefono, con un messaggio o in qualche altro modo, come se non bastasse la presenza di due minorenni a tenerli a debita distanza, ora ci si metteva anche di persona.
La verità era che non lo sopportava per molti motivi. Il legame che aveva avuto con Pemberley e che, a causa di una figlia in comune, continuava a vederli interagire in buoni rapporti, per giunta, senza tralasciare il fatto che Nathan fosse una presenza invadente tra loro due, qualunque cosa stessero cercando di costruire, e si divertiva un mondo a infilarsi tra loro perché, ingenua come era, Pemberley gli teneva sempre la parte, giustificandolo con la scusa del “È il padre di mia figlia. Tra noi non c’è più niente”.
Due cose su cui lui aveva le idee chiare, ma sembrava che il secondo concetto non fosse chiaro al paparino che si divertiva a improvvisarsi. Era arrivato da qualche mese e si atteggiava come se fosse stato accanto alla figlia da una vita, quasi fosse la cosa più facile del mondo. Forse, in segreto, Rhys gli invidiava la spontaneità con cui si era avvicinato a Naive, cosa che a lui non riusciva con Austin, nemmeno se costretto.
«Ciao!» entrò Nathan senza prestare attenzione agli ospiti in casa. «Dove è la mia ranocchietta?»
Solo allora si voltò verso il salotto e vide Pemberley con un’aria sorpresa e Rhys con un’espressione scocciata. Almeno di una delle due poteva ritenersi soddisfatto.
«Nate? Cosa ci fai qui?» il tono isterico e incredulo di Pem lo irritò, ma decise di non assecondare la sua vena melodrammatica. Voleva dimostrarle di essere maturato e non darle modo di attaccarlo in modo deliberato.
«Sono venuto a prendere Naive. Sabato alle tre, come ci eravamo messi d’accordo. Sono le tre di sabato, dunque…» concluse con fare ovvio, più rilassato dopo quella spiegazione.
«Nathan…» lo apostrofò esasperata Pemberley. «Avevo detto le cinque, non le quindici».
Era sabato e, di solito, Naive lo passava da lui due volte al mese, e quello era uno dei fine settimana prestabiliti.
«Ah». La sicurezza dell’interessato venne meno, tanto che non seppe come giustificarsi. «Sicura? Magari ho confuso, sai, sono pieno di cose da fare ed è possibile che io mi sia sbagliato».
«Tranquillo, niente di preoccupante». Cercò di minimizzare Pemberley mentre tentava di venire a capo di quella situazione imbarazzante. Non era sciocca, si era accorta che tra i due non scorreva buon sangue, due galli nello stesso pollaio portavano solo guai, quindi doveva trovare una soluzione al più presto.
Nathan fissò Rhys, spaparanzato sul divano, e lo vide mormorare chiaramente le parole: “Che coglione”.
Lo detestava e, al contrario di come si era comportato per una vita intera, non faceva nulla per nasconderlo o per essere gentile con lui.
Non riusciva a capire cosa Pemberley vedesse in un tipo così stronzo e cinico, a cui non importava niente di nessuno. Inoltre detestava che frequentasse la casa in cui viveva Naive con assiduità, perché la figlia ne parlava spesso e con discorsi atti a lodarlo. Austin e Rhys di qua, Rhys e Austin di là.
Odiava tutta quella situazione, perché lui era il padre e non gli andava giù che Pemberley non avesse affrontato con lui un argomento così delicato: aveva introdotto nella vita della figlia uno sconosciuto con cui non era nemmeno certa di avere una relazione stabile, e Nathan in tutto quello non era stato interpellato. Certo, sapeva di essere arrivato da poco e – da quel punto di vista – avere poca voce in capitolo, ma era pur sempre il padre, un padre che si stava facendo in quattro per rimediare alla propria mancanza degli anni precedenti e che faceva conciliare tutto quello con un lavoro nuovo che, per quanto stimolante e bello fosse, era veramente stressante.
E – come se non bastasse – Rhys, con la sua faccia di bronzo, si permetteva di giudicarlo mentre lui tentava di essere all’altezza delle illusioni che Pemberley aveva sempre avuto su di lui fin dall’adolescenza. Deluderla e distruggere l’alta considerazione che aveva di lui era, per Nathan, un pensiero inconcepibile, non era pronto a perdere il suo appoggio incondizionato o, peggio, la sua fiducia.
«Scricciolo» urlò Pemberley dopo aver intercettato i ringhi impercettibili che i due uomini si stavano scambiando. «vieni a salutare tuo papà?»
Naive si precipitò il prima possibile fuori dalla stanza spalancando la porta, seguita a ruota da un taciturno Austin.
«Papà!» urlò prima di saltargli tra le braccia tese, atterrando sui piedi di Nathan con i propri. Forse era grande per quel genere di effusioni, ma era felice di vederlo e, in più, era una cosa che gli era mancata durante tutti quegli anni. “Meglio farlo a dieci che a venti”, le aveva detto lui una volta in cui avevano affrontato la questione.
«Ranocchietta!» la apostrofò prima di baciarle i capelli.
«Austin». Lo salutò con un sorriso.
«Ciao» rispose il ragazzino con un gesto simile, anche se più impacciato. Ecco, quello era un Hewitt a modo e che gli piaceva. Non parlava a sproposito, per quanto avesse fatto dei passi da gigante con l’inglese in quei mesi.
«Cosa ci fai qui? Non dovevi venire alle cinque?»
Nahtan alzò gli occhi al cielo, anche sua figlia riusciva a redarguirlo.
«Ho confuso gli orari». Le fece l’occhiolino. «Ma la verità è che avevo voglia di vederti».
«Quindi cosa facciamo ora?»
La domanda che tutti gli adulti si stavano ponendo, ma che solo Naive ebbe il coraggio di fare.
«Cinema!» urlò Pemberley dopo essersi isolata per minuti interi dal contesto per trovare una soluzione adatta.
Lo urlò con fare così esasperato e un tono di voce così alto che tutti la guardarono come se fosse pazza.
Si schiarì la voce e cercò di assumere l’autocontrollo che in realtà non aveva: «Mi spiego meglio. Voi due non volevate andare al cinema a vedere quel nuovo film d’animazione?»
I più piccoli di casa risposero con entusiasmo a quella proposta, creando più scompiglio di quanto gli altri si fossero aspettati.
«Nate, cosa dici?» Pemberley gli rivolse un sorriso così luminoso che rimase stordito per qualche secondo.
Beh, un paio d’ore al cinema non avrebbero fatto male a nessuno, specialmente se serviva a tenere lontana Pemberley da Rhys, dato che i vestiti sgualciti e i capelli in disordine parlavano per loro. Non gli piaceva l’idea che passassero del tempo avvinghiati nella casa in cui Naive dormiva ed era cresciuta, lo trovava disgustoso.
«Per me va bene»
«Perfetto» rispose Pem prima di mettergli in mano la giacca che si era tolto nell’entrare in casa. «Vi conviene avviarvi se non volete perdere lo spettacolo».
«Eh? E voi, scusa?» forse gli era sfuggito un perso della questione.
«Noi…» Pemberley si morse un labbro. Brutto segno,  constatò Nathan, sapeva che lo faceva quando era in difficoltà.
«Abbiamo delle cose da fare» concluse Rhys ambiguo e soddisfatto, un ghigno sarcastico stampato sulle labbra.
Nathan lo fissò con odio, se non ci fossero stati dei minori l’avrebbe preso a pugni senza rimpianti.
«Delle cose che non potete rimandare?» chiese tagliente.
«Deve… aiutarmi con delle scartoffie burocratiche» esalò lei spossata da quella conversazione. «Abbiamo sempre poco tempo durante la settimana, ne approfittiamo del week-end. E poi tu sei qui per vedere Naive, io mi sto solo togliendo dai piedi»
«Sì, certo». La ammonì con lo sguardo mentre i ragazzi si infilavano le scarpe e prendevano il necessario.
Era passato dall’essere padre a un misero baby-sitter solo per garantire alla propria ex ragazza del liceo una scopata, era chiaro. Il problema era che non gli andava giù, per niente, anche perché se Pemberley non fosse stata influenzata da quell’idiota di Rhys non si sarebbe mai comportata così, ed era quello a bruciargli.
Lui stava facendo di tutto per rispecchiare al meglio l’idea che Pem aveva di lui, ma lei non faceva niente per mantenersi all’altezza del ricordo della persona che aveva amato. Scoprire che la Pemberley di una volta si stava scolorendo tra le grinfie di un uomo senza sfumature lo faceva indignare.
Forse soffrire.
«Ci vediamo per cena». Lo rassicurò. «Veniamo a prendere Austin, tanto saremo a Manhattan».
«Perfetto» rispose dopo essersi infilato la giacca leggera. «La mia parcella da baby-sitter la concordiamo dopo?»
Una domanda sarcastica che non passò inosservata a Pemberley, cosa che la fece sentire un po’ più in colpa, anche se aveva cercato di nasconderlo.
«Ti ridarò i soldi del biglietto di mio fratello» rispose Rhys divertito.
«Ti prego, ad Austin posso offrire tutto con piacere, non è un problema». Sottolineò con rabbia crescente. «È il mio disturbo che non so come potrete ripagare».
Si avviò alla porta con la testa che ronzava a causa dei ragionamenti veloci che in essa si rincorrevano, prima di dare tempo agli altri due di rispondere in alcun modo aggiunse: «Ragazzi, prendete tutto l’occorrente, io vi aspetto in auto con il motore accesso, non abbiamo tempo da perdere».
Si chiuse il pannello alle spalle con veemenza, senza salutare.
Volevano giocare sporco, senza tenere conto di lui?
Bene, avrebbe fatto lo stesso: si sarebbe dimenticato della loro esistenza e avrebbe agito come se non avesse dovuto rendere conto a nessuno delle proprie azioni personali. Tutti attorno a lui facevano così d’altronde, non capiva perché rispettare gli altri quando questi erano i primi a fregarsene di tutto.
Mentre saliva in auto estrasse il cellulare e compose il numero.
«Ehi ciao!» una voce sollevata dall’altra parte, un tono così caldo e sincero che riuscì a fargli nascere un sorriso spontaneo sulle labbra.
«Domanda dell’ultimo minuto: hai qualcosa da fare oggi?» era da un mese ormai che frequentava Cynthia, e si sentiva bene. Era una persona piacevole che riusciva a fargli dimenticare con facilità cosa ci fosse di sbagliato nella sua vita, a partire dal passato. Era fresca e riempiva la sue giornate con naturalezza.
Con il tempo era diventato normale cercarla e passare sempre più sere con lei, perché nonostante si fossero conosciuti sul lavoro, era una persona che distendeva i suoi nervi e non gli ricordava affatto gli uffici in cui passava gran parte delle sue giornate.
«Il manuale di seduzione per imbranati mi suggerisce di rifiutare ogni tuo invito per non dimostrarmi troppo disponibile e accrescere così il tuo desiderio nei miei confronti». Esordì con finta sicurezza, concludendo con una risata. «Ma io non sono molto brava a seguire le regole, quindi posso dirti che non ho nulla da fare, cosa volevi propormi?»
Cynthia era simpatica, ironica e intelligente. Aveva i capelli corti e gli occhi nocciola, tratti quasi orientali e la carnagione leggermente olivastra. Sapeva il fatto suo e riusciva a dosare la serietà e la spensieratezza con fare invidiabile.
Era un qualcosa di totalmente opposto alle sue scelte passate.
Cynthia era diversa, e a Nathan bastava per poter pensare di ripartire di nuovo.
«Cosa ne dici ci passare il pomeriggio con me, Naive e un suo amico?» si girò a fissare la porta, sperava di concludere la chiamata prima che la figlia arrivasse, le domande avrebbero potuto affrontarle quella sera a casa, nella calma delle quattro mura che aveva comprato per stare accanto a lei e proteggerla, non gli piaceva l’idea di subire il terzo grado della figlia davanti all’amichetto che, per quanto buono risultasse, era una persona esterna alla faccenda, non voleva renderlo partecipe di cose che non lo riguardavano.
Specialmente se poi avesse riferito tutto a Rhys.
«Nate…» sospirò, sorpresa e allarmata. «Non è… presto? È una cosa importante quella che mi proponi, e usciamo da un mese circa»
«Lo so, ma ci tengo che ti conosca. Siete parti della mia vita, anche se in due misure diverse. Non voglio che ti ignori, non più». Nathan doveva solo abituarsi a quella cosa, si era detto sentendo una fitta di senso di colpa allo stomaco. Non stava giocando, ne era conscio perché non era da lui, ma aveva accelerato le cose per fare i propri comodi, e non era giusto.
Si stava comportando come Rhys e la cosa lo disgustava, ma scacciò anche la nausea.
«Ti presenterò come una mia amica. Avrò il diritto di avere amici anche io in una città nuova, no?» sorrise più tranquillo, parte della sua sincerità – con quell’ultima frase – era ritornata a galla.
«E cosa avevi in mente?» domandò più serena dopo quella precisazione. Ora sembrava che l’offerta la allettasse e la lusingasse. Normale, dato che era da mesi che tentava di diventare importante per Nathan e, finalmente, c’era riuscita.
Era come se il mondo, dopo tempo, avesse ripreso a girare nel verso giusto, con il sole che sorgeva a est e tramontava a ovest.
«Un bel film d’animazione. Penso parli di draghi e cose simili. Noi però potremmo dedicarci ai popcorn e alle bibite gassate e ipercaloriche. Come ti sembra come programma?»
Sentì il portoncino del palazzo aprirsi.
Sapeva di avere poco tempo anche se i ragazzi ancora non si vedevano.
Questione di secondi per capire se essere un perdente o un uomo spregevole ma, a decretarlo, sarebbe stata Cynthia.
«Accetto solo se i popcorn sono dolci» rispose lei allegra, a cuor leggero.
Nate sospirò di sollievo, avrebbe avuto tempo per pensare ai sensi di colpa di quella scelta.
«Ti lascio libera di scegliere, che non so dica che non sono un gentiluomo»
«Allora non posso rifiutare, anche perché amo i draghi». Concluse Cynthia mentre i ragazzi uscivano dalla porta per avviarsi verso l’auto. «Dove ci vediamo?»
«Al Village East Cinema, sulla Second Avenue. Conosci?»
«Certo, sono di New York, io». Lo prese in giro. «Ci vediamo là tra quarantacinque minuti?!»
Sentì le portiere aprirsi e le espressioni entusiaste di Naive e Austin invadere l’abitacolo.
«Ottimo, a tra poco».
E, prima che questi due potessero prestare attenzione alla chiamata appena avvenuta, riattaccò arrabbiato per essere diventato almeno un po’ l’uomo che non avrebbe mai voluto essere. L’uomo che, forse, con gli stessi modi piaceva a Pemberley.
Era convinto di essere andato a New York per non scendere a compromessi, ma al momento non era così convinto di quella certezza.
 
Era un sabato pomeriggio di inizio maggio e il clima concedeva lunghe passeggiate per la città con giacche leggere e abbigliamento altrettanto clemente per gustarsi la città senza la fretta di correre al riparo in qualche locale caldo e una bevanda bollente al seguito.
Fu così che Pemberley propose a Rhys due passi per Central Park. L’uomo, tempo addietro, le aveva confessato che non si era mai concesso una visita approfondita del polmone verde di New York che, oltretutto, campeggiava vicino a casa sua.
Permberley, sconvolta, aveva colto il loro vedersi per portare Naive e Austin a fare un giro trascinando tutti nel parco cittadino più famoso per un’escursione approfondita.
Avevano esplorato le rive del lago centrale, ammirato cigni e barche, proposte di matrimonio e liti. Poi erano passati sopra dei ponti e avevano goduto di paesaggi mozzafiato e angoli nascosti quasi selvaggi. Una piccola cascata, un tunnel di pietra. E poi cani, scoiattoli e l’attraversamento dei campi da gioco piuttosto che le aree per bambini attrezzate con ogni gioco adatto a farli svagare.
Innamorati intenti a gustarsi intimi pic-nic, timidi approcci di studenti insicuri e amici che si concedevano un paio di ore libere per un pranzo a contatto con la natura.
La città stava sbocciando dall’inverno rigido che si era protratto più a lungo del dovuto, e Pemberley si sentiva parte di tutto ciò, e il merito era di Rhys. Per quanto non fosse la sua indole lasciarsi andare riusciva a seguirla nelle sue iniziative più scarne come la passeggiata in un parco in compagnia dei ragazzi; per lei era una cosa importante e lui non si negava più, riempiendola di gioia.
Si era irrigidito quando, in lontananza, aveva riconosciuto alcuni paparazzi del New York Times intenti a fotografarli, ma Pemberley l’aveva tranquillizzato. Potevano scrivere e mettere tutte le foto che volevano, ma solo loro sapevano di cosa era composto il rapporto, quelle foto non avevano alcun valore. Si disse quasi più preoccupata per Naive e Austin che, nonostante la giovane età, avrebbero ritrovato le proprie facce su un quotidiano.
«Rhys». Naive si girò di scatto verso lui e Pemberley che stavano parlando di riservatezza mentre lei aveva smesso di inseguire Austin, rosso in volto e felice per quella libertà così genuina, uno dei pochi momenti che si era ritrovato a vivere con il fratellastro. Era la cosa che più l’aveva fatto sentire a casa in quei mesi, ma non l’avrebbe detto a nessuno.
«Sì?» distolse gli occhi da Pemberley e li rivolse alla ragazzina. Fu incuriosito da quel richiamo perché, per quanto si frequentassero da tempo, non riusciva a ricordare altri momenti in cui gli si fosse rivolta in modo diretto.
«Perché non prendi la mamma per mano?» per sottolineare la cosa corse verso l’amico e imitò il gesto, indicando poi altre coppie che, come loro, si prendevano del tempo per stare insieme.
Naive aveva visto un sacco di persone cedere a quell’eccesso di intimità in pubblico, a partire da sua padre, e voleva sapere perché sua madre e il suo ragazzo non lo facevano mai.
Rhys rimase spiazzato da quella domanda, non aveva una risposta sensata a riguardo. Non era come rispondere a una domanda sulla finanza perché non c’era un postulato adatto. Non c’era un perché, e la cosa lo spaventava parecchio. Sapeva che non era questione di raziocinio, e lui oltre alla ragionevolezza non sapeva andare.
«Non ne capisco il motivo» rispose sincero e sulla difensiva.
Ricordava che da piccolo aveva stretto più volte la mano di una tata fuori dai propri istituti che quella della madre nell’intimità della propria casa o nel bel mezzo di eventi pubblici, perché gli aveva insegnato che soprattutto davanti alle persone non era buona cosa mostrarsi impauriti, era meglio far vedere di essere in grado di muoversi con le proprie gambe, senza appiglio. Di qualunque tipo esso fosse.
Pemberley gli sorrise indulgente: «Non hai mai provato l’emozione di prendere una persona per mano?»
Le piaceva poter essere lei la prima a cui rivolgeva certe attenzioni, in qualche modo sarebbe stata sempre importante. Inoltre la rendeva necessaria nella vita di un uomo che non era abituato a contare sugli altri, e il fatto che Rhys di lei si fidasse al punto da seguirla la lusingava parecchio.
«Perché, suscita emozioni?»
Odiava addentrarsi in terreni a lui sconosciuti, ma accettare di dividere la propria vita con una donna portava a doversi aprire, almeno in parte, di quello ne era consapevole. Aveva avuto altre storie importanti, seppur poche, e ricordava quanto fosse rilevante la condivisione. Ecco perché erano finite: Rhys aveva deciso che certe cose non facevano per lui.
E non capiva cosa ci fosse di tanto speciale in due mani che si univano.
Pemberley si fermò e gli tese una mano.
«Non lo so, dimmelo tu».
Il momento della verità.
Accattare, stringere la mano e buttarsi nell’ignoto, o rifiutare e far cadere le basi di una situazione che poggiava su un precario equilibrio. Da una parte avrebbe sperimentato qualcosa di nuovo e solidificato un qualcosa che gli sarebbe tornato utile, dall’altra avrebbe buttato all’aria mesi di esili progressi che ormai formavano la sua nuova stabilità, mai così duramente ricercata.
Strinse la dita tra quelle di Pemberley con insicurezza, adattandosi tra gli spazi più facilmente del previsto.
Un contatto di pelle che andava molto oltre la superficie, una cosa che sentì vibrare nel sangue quando Pemberley intrecciò la propria mano attorno a quella di lui.
«Allora, come ti sembra?»
Le fissò incuriosito e spaventato. «Meglio del previsto».
Ripresero a camminare con lo sguardo dei due ragazzini su di loro. Naive era soddisfatta mentre Austin – da buon maschio – era disgustato, tanto che lasciò la presa dell’amica per dirigersi verso una zona con varie attrazioni, tra cui le funi su cui arrampicarsi.
«È piacevole».
Ed era vero, perché il calore di quel contatto lo rassicurava, lo faceva sentire protetto per la prima volta. Affidarsi alle cure di un’altra persona era spiazzante e alleggeriva l’anima, e Rhys riusciva a percepire quanto la cosa lo facesse sentire bene.
Eppure non riusciva a ignorare la sensazione pesante che a ogni passo gli impediva di respirare a dovere.
Era il panico. Maggiore di quello provato alla vista dei fotografi che li immortalavano insieme, decretandoli agli occhi del mondo quello che lui non riusciva ad accettare quasi in privato: una coppia.
Più del buttarsi in qualcosa che lui non conosceva bene, come una relazione, il condividere qualcosa di serio con una donna o prendersi cura di un parente come se fosse il suo genitore.
Quella mano diventava incandescente a ogni centimetro mosso in avanti, perché lo stava portando lontano da qualcosa che non poteva più avere: il Rhys che era sempre stato e che non gli era mai dispiaciuto, anzi.
Era quella la sensazione che più lo faceva soffocare, l’essere conscio di abbandonare quello che era destinato a essere, quello che era sempre stato, per scendere a compromessi e diventare un qualcuno che non aveva mai voluto. Un compagno, una specie di padre.
Forse un giorno, ma non in quel modo, non tutto insieme. Non contro la sua volontà che era riuscita a schiacciare per anni quella altrui, tanto da permettergli di costruire un impero e far piegare New York ai propri piedi.
Era Rhys che doveva piegarsi in quel momento per sopravvivere, e non era sicuro di essere pronto per farlo.
Si sentiva come se, per quanto piccola e delicata, la mano di Pemberley fosse sulla sua gola, pronta a togliergli il respiro. Un passo in più e la pressione aumentava. Era come la corrente marittima che portava la propria vittima verso il fondo, un progressivo annegare nel mare della propria consapevolezza, travolto dall’onda che lo spingeva verso un futuro che non aveva costruito con le sue mani e che spazzava via il passato come se fosse stato d’aria e non fonte di sacrifici e sudore. Un’onda così potente da farti piegare, anche se non ti faceva respirare. Non come tu avevi fatto fino a poco prima che ti travolgesse.
«State bene insieme». Decretò contenta Naive, osservandoli mentre li precedeva, camminando a ritroso per farlo.
«Ed è una cosa che mi piace da vedere. Un po’ come per papà a Cynthia»
Il sorriso di Pemberley si tirò, come se fosse stato punto all’improvviso dal gelo dell’inverno appena passato.
«Scricciolo… chi è Cynthia?»
«La nuova ragazza di papà, quella che a volte tiene per mano come fate ora voi».
Si girò e raggiunse Austin, pronta a sfidarlo sulla propria abilità.
Se la notizia fece distendere le spalle di Rhys, rincuorato dalla superficialità attribuita a quel gesto, Pemberley si tese ancora di più.
Nathan le aveva nascosto di avere ripreso la propria vita, di aver aggiunto un tassello importante che in quegli anni era sempre mancato a entrambi, ma Naive la conosceva, e sapeva il ruolo che ricopriva questa donna nella vita del padre.
Si sentiva ferita e rimpiazzata, quasi avessero creato una dimensione solo loro in cui Pemberley non era compresa.
Quelle dita intrecciate, se prima le avevano dato la parvenza di un’ancora di salvezza, ora le sembravano la zavorra che la attirava verso il fondo, annegandola sempre più. Era come osservare un gesto avventato e compiuto con troppa leggerezza e ammirarne poi i disastrosi risultati.
Guardò Rhys con paura, e vide riflesso nel suo sguardo lo stesso sentimento.
Sorrise incerta e lo vide rispondere allo stesso modo, con una sincerità che la rincuorò e sorprese allo stesso tempo.
Forse, da quello tsunami, nessuno ne sarebbe uscito come prima, ma avrebbero potuto provare a salvarsi, insieme.

 


 
Buonasera. Chi non muore si rivede, vero?
Lo so, mi dispiace immensamente. Non ho scuse.
La storia forse è troppo per me, ma non ho intenzione di abbandonarla.
La verità è che la storia è sempre la stessa e io sono cambiata tanto, soprattutto nell'ultimo anno, ma c'è sempre stata, e nel percorso mi ha accompagnata, nonostante tutto.
A dire il vero è stata la scena iniziale a crearmi problemi, ma non ho avuto il coraggio di eliminarla: le amiche litigano, e l'ho trovata veritiera come cosa. Sono riuscita anche a collegarla con il continuo della storia, cosa che mi preoccupava. Ma tanto ho perso i vecchi appunti e ho dovuto rimettere per iscritto le trame dei singoli capitoli. Anche se ho mantenuti i fatti come li avevo sempre pensati ho apportato qualche aggiunta, ma almeno ho tutto nero su bianco.
Questo capitolo è di passaggio forse, ma mi è servito per svelare le carte - ovvero i sentimenti - di tutti. Chi si affaccia su qualcosa di nuovo, chi è geloso, chi è insicuro nonostante tutto.
Dal prossimo capitolo queste carte saranno rimescolate perchè è giunto il momento e perchè doveva andare così. I prossimi 6/7 capitoli, gli ULTIMI 6/7 di questa storia, saranno quelli più densi di avvenimenti, perchè ho portato la situazione ai limite, soprattutto per alcuni.
Spero di cuore che il capitolo vi sia piaciuto.
Ringrazio chi in questi mesi c'è stata, mi ha spronata, ha aggiunto la storia e, magari, ha lasciato il proprio parere.
Ho usato una nuova impaginazione per la storia, spero che non abbiate problemi con essa... In caso ditemelo che mi muovo per trovare soluzioni!
Facciamo così: vi dico che ritorno per le feste di Natale, almeno so di essermi presa l'impegno. Inoltre avere una storia a cui pensare tra un capitolo e l'altro della tesi mi consola.
Se volete leggere una mini long che ho scritto questa estate la trovate qui: The other side of Hollywood.
Qui invece il link al mio gruppo facebook: Love Doses.
Non vi annoio oltre, XO, Cris.

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