Mr. Moonlight

di verystrange_pennylane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 1



Un filosofo una volta si chiese: "Siamo umani perché osserviamo le stelle o le osserviamo perché siamo umani?" Quesito sterile.
Le stelle poi osservano noi? Questa sì che è una domanda! Ma sto correndo troppo.
La nostra storia ha avuto inizio qui, 150 anni fa, presso un paesino di nome Liverpool, in Inghilterra.
Nessuno, vedendo da fuori quella cittadina, avrebbe immaginato le misteriose vicende di cui sarebbe stata protagonista.
In realtà, nemmeno i suoi abitanti lo sospettavano. Vivevano tranquillamente la loro routine, facendo tutte quelle altre cose che gli essere umani tendono a considerare scontate, ma che forse esistono solo per celare meglio lo Straordinario che affianca, come una sorta di universo parallelo, la nostra quotidianità.
Ma di nuovo, vi sto rovinando la sorpresa. Ordunque, diamo tempo al tempo, e torniamo indietro di qualche giorno.
A quando il giovane John Lennon incontrò una stella.


John Lennon non era mai stato un ragazzo come tutti gli altri.
Che fosse diverso lo sapevano già molto bene i suoi genitori, prima di scomparire prematuramente, e lo sapeva molto bene la zia Mimi, una donna burbera di mezza età, a cui John era stato affidato sin dai primi anni di vita.
Già prima di iniziare ad andare a scuola, aveva dimostrato una particolare propensione a suonare qualsiasi cosa gli capitasse sotto mano, creando gli strumenti più strampalati, e a disegnare rubando piccoli carboncini dal camino della zia. In seguito, preferiva di gran lunga scappare a guardare le nuvole o a rotolare per i prati, piuttosto di restare imprigionato dentro una classe, e anche quando riuscivano a farlo stare a lezione, lui sembrava non stare mai fermo, sempre agitato da un movimento interiore impossibile da quietare.
Gli anni erano passati velocemente, e il nostro eroe era sopravvissuto, nonostante la critica situazione famigliare, alla scuola dell’obbligo, e ne era uscito con grande sollievo da parte di tutti, soprattutto di insegnanti  e preside; e quando, poco più tardi, aveva iniziato a cercare dei piccoli lavori, l’unico talento di cui si parlava era l’immensa sensibilità artistica del ragazzo. E sapevano già tutti dove ciò avrebbero portato.
Lo sapevano così bene, che durante tutta l’adolescenza del ragazzo, il paese si divertiva a scommettere sul suo futuro ogni volta che passava davanti alle taverne.
Non che fosse l’unico del paese a non aver eccelso a scuola, anzi era tra i pochi eletti che potevano permettersi di andarci; o ad aver dimostrato talenti particolari, è che John sembrava davvero diverso agli occhi delle persone ordinarie. Aveva, a loro avviso, un problema che gli altri ragazzi della sua età non avevano e che, anziché migliorare, sembrava peggiorare col tempo: era un dannato sognatore. E in una città industriale e povera come Liverpool, essere sognatori era un lusso per pochi.
Insomma, John era cresciuto sapendo perfettamente di essere condannato a fare ben poco della sua vita e si era rassegnato così bene da non porsi alcun tipo di problema sul suo futuro.
Ecco perché a diciotto anni lavorava come garzone presso la drogheria della zia, l’unico posto da cui non l’avessero ancora licenziato, e sembrava preoccuparsi solo di trovare il tempo e l’occasione per sgattaiolare fuori dalla finestra della sua camera, spesso tra gli urli di Mimi, per andare lontano da tutto e tutti, sotto il suo albero preferito a scrivere poesie e a guardare stelle. Davanti a quello spettacolo aveva inventato parecchie canzoni d’amore, tutte senza musica. L’unica parvenza di melodia che avevano, era quella che fingeva di suonare sulle sue gambe, strimpellando un pianoforte invisibile, fatto di brezza notturna.
Naturalmente, uno spirito libero come lui, nonostante scrivesse d’amore quasi tutte le notti, preferiva passare di gonna in gonna e lasciare cuori infranti, piuttosto che ad innamorarsi.
Almeno, finché Cynthia non entrò nella sua vita.
 
Era una splendida domenica mattina, e John fumava una sigaretta dietro il negozio, approfittando del fatto che Mimi fosse in chiesa per la messa.
Aveva appena gettato a terra il mozzicone quando la vide passare per la via. E fu come incontrare il proprio destino.
Non riusciva bene a spiegarselo, a Liverpool le ragazze belle non mancavano, e non per vantarsi, aveva corteggiato parecchie di loro; ma i lunghissimi capelli biondi e mossi dal vento e la scia di profumo che quella sconosciuta emanava lo catturarono e lo inchiodarono lì.
Non era usuale vedere una ragazza con i capelli sciolti che vagava da sola, e il suo sguardo fiero e indipendente era sembrato a John bellissimo.
Riuscì a svegliarsi dall’incanto solo pochi istanti dopo, quando la ragazza era già a qualche metro da lui.
Per i giorni successivi non sembrava riuscire a pensare ad altro, alzando lo sguardo di scatto ogni volta che vedeva una chioma bionda, ma niente, della misteriosa nuova arrivata neanche l’ombra.
Poi finalmente, il venerdì la vide di nuovo. E una cosa lo colpì particolarmente: stringeva sotto braccio un albo da disegno.
Non poteva farsela scappare anche stavolta, e abbandonò a sé stessa una povera cliente per lanciarsi fuori sulla strada. Poteva sentire lo sguardo indagatore della zia seguirlo, e già si immaginava la lavata di capo che gli avrebbe fatto al suo ritorno, ma al momento non gliene importava granché. Voleva solo parlare con quella ragazza.
“Scusi, signorina!” gridò alla fine, con grande sfacciataggine.
La giovane voltò lo sguardo, sorpresa, come se non potesse credere che stessero davvero gridando a lei.
“Parla a me?” disse, appoggiando la mano sul petto, come per tranquillizzarsi.
John annuì, in preda al panico. In tutti quei giorni non aveva nemmeno pensato a cosa dirle, che stupido!
“Sì, Miss! Posso chiederle il suo nome, se non sono troppo sfacciato?”
La ragazza sgranò gli occhi e alla fine scoppiò a ridere, in un modo così genuino che John non sapeva se interpretarlo in modo positivo o negativo.
“Da me non saprà nulla, lei è davvero un gran maleducato! E non si è nemmeno presentato!”
Il ragazzo si avvicinò cautamente, sorridendo, e fece un profondo inchino, facendola sorridere di nuovo.
“Sono il signor Lennon, John Lennon.” 
La reazione della giovane donna fu strana, perché sembrò riconoscere il nome di quella persona, e arrossendo vistosamente, si girò di scatto dall’altra parte.
Neanche il tempo di dire un “Piacere di conoscerla” di circostanza che fu subito raggiunta da una signora anziana, che la strinse per il polso e la guardò con severità. Pochi istanti dopo si stavano entrambe allontanando da John a grandi passi.
Il ragazzo sospirò. Dannate donne.
Quest’ultimo pensiero si accentuò ancora di più nella sua testa non appena si voltò e vide la zia che lo aspettava sul ciglio della porta, tamburellando le dita sullo stipite in modo nervoso.
Già, dannatissime donne.

Alla fine scoprì che la ragazza passava davanti al negozio, stringendo il suo albo tra le mani, ogni due giorni.
Ipotizzò dovesse frequentare, da brava signorina educata, un corso di acquerello in una villetta lì vicina.
Questo gli diede un’idea.
Erano passate due settimana dal loro primo incontro e poteva vedere gli sguardi veloci e imbarazzati che la ragazza lanciava dentro al suo negozio, quindi si sentiva motivato. Non poteva essergli proprio indifferente!
John dunque si lisciò i capelli specchiandosi in un cucchiaio, e si rassettò i vestiti. Il negozio era vuoto, e zia Mimi era nel retro bottega a fare i conti del mese.
Finalmente il destino gli sorrideva: era il momento giusto, le avrebbe riparlato!
Non appena la vide passare, si lanciò fuori, ma stavolta aveva un piano d’azione più scaltro, e le si affiancò nella passeggiata.
“Le dispiace, mia cara, se facciamo un pezzo di strada assieme? Vede, devo andare nella sua stessa direzione.”
La ragazza sussultò all’inizio, ma poi arrossì e con il dorso della mano, timidamente, coprì un sorriso. Il giovane ammirò quei biondi capelli danzare al sole mentre scuoteva il capo alla sua domanda.
“Non credo sia raccomandabile, per me, essere vista a passeggiare con lei, signor Lennon.”
“E per quale motivo, se posso saperlo?”
“Innanzitutto perché la mia accompagnatrice, là dietro, non approverebbe. E soprattutto perché, anche se sono a Liverpool solo da pochi mesi, conosco già la sua fama di rubacuori, signor Lennon, e le posso dire che non mi piace affatto.”
John si girò di scatto e riconobbe la donna anziana del loro primo incontro. Accidenti, un conto era corteggiare una ragazza del suo stesso ceto sociale, o cercare di andare sotto la gonna di una donzella dai facili costumi, ma questa era davvero fuori dalla portata di John. Eppure non poteva ignorare il tamburellare veloce del suo cuore, mentre pensava di voler davvero conquistare quel misterioso angelo biondo.
“Va bene, però non è giusto. Voi pensate di conoscere già tutto di me e io non so nemmeno come vi chiamate. Vi prego, ditemi solo il vostro nome e vi lascerò in pace per sempre.”
La ragazza lo guardò nervosamente, mordendosi il labbro. John trovò quel gesto nervoso assolutamente adorabile e si ritrovò a sorridere come un babbeo.
“Mi chiamo Cynthia, Cynthia Powell. Ora, se volete scusarmi-”
E detto questo, accelerò il passo.
John rimase immobile lì, facendosi superare anche dall’accompagnatrice, che gli rivolse un profondo sguardo di rimprovero.
Proprio di una Powell si doveva infatuare, dannazione a lui?! La ricca famiglia di Newcastle, trasferitasi a Liverpool da pochi mesi per affari?
Come poteva anche solo sperare di corteggiare una ragazza così bella, così educata e così ricca?
Per un istante, un lunghissimo istante, si pentì di essere nato John Lennon. Avrebbe barattato tutto l’oro del mondo per essere un'altra persona, una persona su cui il paese non scommetteva per vedere quanto fallito sarebbe stato , una persona capace di avere successo in qualcosa che non fosse l’amore dozzinale. Una persona che non fosse un sognatore. Insomma, una persona che non fosse lui.

Quella sera sentiva il bisogno di schiarirsi un po’ le idee e decise di non tornare a casa, dopo la solita bevuta al pub con gli amici. Prese sotto mano il blocco, il carboncino, e andò sotto il suo albero preferito a disegnare un po’. Peccato che non sembrasse riuscire a riprodurre fedelmente il bellissimo volto di Cynthia, e questo lo faceva sentire ancora più depresso.
Perché non riusciva a rassegnarsi? Sarebbe bastato scrollare le spalle e puntare più in basso, trovare una donna più adatta a lui, se proprio si sentiva così solo.
Sì, perché la verità è che John si sentiva solo, dannatamente solo, e forse era stata proprio Cynthia a farglielo capire. Sentire la sua vita riempita dai pensieri di una donna che non fosse Julia – sua madre, scomparsa troppi anni prima – o Mimi, era stata una sensazione bellissima.
Nessun’altra persona, nella sua giovane età, aveva mai raggiunto la sua mente come lei, e in quelle settimane sentiva come una nuova scossa di ispirazione ogni volta che scriveva. Doveva essere un segno del destino quello, Cynthia era la sua anima gemella!
Sospirò, fissando le stelle.
“Oh, se solo bastasse esprimere un desiderio.” Disse infine, sorridendo a se stesso.
E dato che lui era un sognatore, continuò a sognare ad occhi aperti, fissando il cielo, finché, come se gli leggesse nella mente, o come se fosse il destino in movimento per fare il suo corso, vide una stella cadente.
“Aiutami, piccola stella cadente, a rendere possibile il mio vero amore.”
Si sentiva un po’ stupido e infantile, ma d’altronde non c’era nessuno a giudicarlo lì attorno.
Neanche il tempo di distogliere lo sguardo, che cadde un’altra stella, stavolta diversa: la scia era più vistosa e illuminò il cielo quasi a giorno, e, questo pensiero spaventò il ragazzo, sembrò cadere a pochi kilometri da lui, dentro il fitto bosco di Mollington, a qualche miglia da Liverpool.
Certo, era impossibile.. vero? E se invece, dopo anni di desideri, il suo fosse stato ascoltato, finalmente, e quella stella fosse il suo tramite per Cynthia?
Ma certo!
Avrebbe trovato la stella, l’avrebbe raccolta – d’altronde, quanto poteva essere grande?  - e sarebbe diventato famoso! Forse l’avrebbe venduta a qualche straniero e sarebbe pure diventato ricco!
“Già leggo i titoli dei giornali: John Lennon è davvero capace di far qualcosa!”
Più o meno.
Certo, dubitava che i giornalisti avrebbero davvero scritto così, ma erano inutili dettagli.
La cosa più importante era che sarebbe diventato ricco e famoso e avrebbe potuto corteggiare Cynthia!
Ma ora cosa doveva fare? Il viaggio era lungo, se avesse aspettato troppo forse qualche cacciatore avrebbe potuto trovare la stella prima di lui.
Doveva ragionare in fretta.
Abbandonò il suo piccolo giaciglio e si fiondò a casa, giusto in tempo per prendere la sacca in cui mettere la stella, racimolare qualche piccola scorta di cibo, una giacca per coprirsi e una lanterna per il viaggio. Si ricordò anche di scrivere un biglietto a Mimi, non voleva farla morire di crepacuore pensando fosse scappato chissà dove.
Cosa avrebbe potuto inventare?
“Fidati di me, torno presto, non ti preoccupare. Nessun guaio, promesso. John”
Non sapeva se avrebbe funzionato, ma sarebbe tornato di lì a due giorni al massimo. E con una stella tra le mani, la zia l’avrebbe perdonato e tutti l’avrebbero idolatrato. Cosa poteva andare storto?
Passò anche da quella che sapeva essere la dimora dei Powell,  fissò l’abitazione lussuosa e lanciò un bacio verso le finestre chiuse.
“Vado a prenderti una stella, Cynthia. Aspettami.”




Angolo dell'autrice:

Bene bene, alla fine ci ho preso gusto a pubblicare in questo fandom! E addirittura con una long! 
Questo capitolo iniziale era soprattutto introduttivo al personaggio di John, dal prossimo le cose inizieranno a movimentarsi un po'. Ecco perché il capitolo 2 sarà pubblicato a breve rispetto agli altri, che invece avranno cadenza settimanale.
Spero vi sia piaciuta~
Ora, i ringraziamenti sono di dovere. *si inchina*
Un grazie a tutti quelli che hanno letto questa fanfiction e la mia OS "touching is good".
Un grazie speciale a chi l'ha anche recensita e magari recensirà pure questa (dai su, fatelo, scrivetemi un parere, vi do un biscottino)
Un grazie immenso a Kia85, meravigliosa autrice su efp, e bellissima persona irl che si è sacrific emh, offerta per betare questa fanfiction, riempiendomi di consigli preziosissimi.
Detto questo, ci vediamo per il prossimo capitolo 
Anya
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 2


John camminava canticchiando da un paio di ore, un po’ per tenersi compagnia, un po’ per stemperare il nervosismo. Non era il massimo camminare da solo in un bosco fitto, in piena notte, illuminato solamente da una piccola lanterna. Non che fosse un codardo, sia chiaro, aveva affrontato quella parte di Liverpool parecchi anni fa, ma sempre da ubriaco per vincere prove di coraggio contro i suoi compagni di bevute. Inoltre, dopo aver perso adrenalina ed entusiasmo durante la camminata, aveva realizzato che non aveva la più pallida idea di cosa si sarebbe trovato davanti.
E se la stella fosse stata di fuoco? Come avrebbe potuto spegnerla? E se fosse stata più grande della sua sacca? Si fermò, quasi ridendo dei suoi stessi pensieri.
Che sciocchezze, le stelle erano dei puntini in cielo, non poteva essere più grande della sua testa!
In ogni caso camminava da quasi tutta la notte e sapeva che ormai doveva essere vicino al punto in cui era caduta. Cominciò infatti a notare che gli alberi si facevano sempre più radi e alcuni avevano i tronchi rovinati, forse dall’impatto.
Proseguì per altri metri, fin quando non trovò un gigantesco cratere: la terra era tutta bruciata e spianata, mentre la vegetazione era completamente ridotta in cenere.
Ne faceva di confusione, una piccola stella!
Fortuna volle che il cielo cominciasse a schiarirsi e ad albeggiare, già le altre stelle e la luna si stavano nascondendo per lasciare spazio al giorno, permettendo così a John di cercare meglio.
Al primo raggio di sole che curioso, filtrò nel bosco, John vide una cosa che non si sarebbe mai aspettato: un ragazzo vestito con un lungo cappotto bianco. Era rannicchiato al centro del cratere, completamente immobile.
E se fosse morto? La stella poteva averlo colpito e ferito!
Corse immediatamente a controllare da vicino cos’era successo, e a verificare che non fosse semplicemente troppo tardi. Il giovanotto davanti a lui sembrava avere una bellezza straordinaria, per essere un maschio.
Scostò le mani che si coprivano il viso come protezione e vide la bocca del ragazzo, delicata e rosa come una pesca, contratta a causa dei pesanti respiri affannati. Stava chiaramente soffrendo!
Non che ne capisse qualcosa di medicina, sia chiaro, ma sentiva il bisogno di aiutarlo e aveva imparato le nozioni basi di pronto soccorso qualche anno prima, quando lo zio George si ammalò.
Scosse la testa violentemente, non aveva bisogno dei brutti ricordi, non in quel momento.
Come per distrarsi, John cominciò a muovere il corpo gracile del ragazzo per posizionarlo in modo migliore e per poter analizzare le ferite.
Questi si lamentò rumorosamente mentre veniva sdraiato a pancia in su e finalmente, dopo tutti quei movimenti, aprì gli occhi, trovandosi John a pochi centimetri dal suo volto.
Gridò disperato, liberandosi dalla presa e alzandosi in piedi, mettendo qualche metro tra lui e John, che invece stava ancora seduto a terra, completamente sconvolto.
“Ma che cazzo stavi facendo?! Chi cazzo sei?! Cazzo.”  Esclamò il trovatello, tappandosi poi la bocca con entrambe le mani. Il suo petto si muoveva velocemente seguendo il respiro accelerato e il battito violento del suo cuore.
John a sua volta appoggiò una mano sulla sua fronte, come per calmarsi. Temeva di morire di spavento.
“Credevo che stessi male, stavo controllando che non fossi ferito.. pensavo ti avesse colpito la stella.”
“E tu controlli che uno stia morendo così? Chi te l’ha insegnato?”
“Scusi, signor dottore, se non sono uno studioso di medicina! Ma che ingrato, Cristo! Dovevo solo continuare a cercare la mia stella lasciandoti morire qui?”
“Non stavo morendo, stavo dormendo! E’ pieno giorno, quando dovrei dormire sennò?!” gli domandò con un tono saccente, incrociando le braccia e guardandolo con superiorità.
“Scusa?! Beh senti, non ho tempo per te e le tue stupidaggini, ho da fare. ” disse infine John, scuotendo il capo sconsolato e si alzò a fatica in piedi, sempre tenendo una buona distanza tra lui e lo psicopatico sconosciuto.
Aspettò per qualche istante che il tizio si scusasse o che almeno se ne andasse a dormire da un’altra parte, ma questo non lo faceva. Stava fermo lì, e lo fissava.
Che volesse anche lui la stella? Ma certo, che sciocco era stato! Era lì per il suo stesso motivo.
All’improvviso il suo stato d’animo cambiò.
“Vattene, ragazzino.” John aveva alzato il tono della voce per intimorirlo, in fondo l’altro era sì più alto, ma era smilzo, mentre lui aveva due braccia forti e una corporatura più robusta, grazie al lavoro in drogheria.
“E perché dovrei? Vattene tu.” Rispose l’altro, con un tono molto poco autoritario e lo sguardo basso.
“Senti, coso, so che vuoi anche tu la mia stella, ma l’ho vista prima io, ok? E mi serve. E’ mia.”
“La tua cos-?” il ragazzino alzò lo sguardo da terra, sgranando gli occhi.
La mia stella.”
Non poteva permettere che l’unica sua occasione di essere qualcuno, di dimostrare qualcosa alla gente di Liverpool svanisse per colpa di un pappamolle che dormiva nei boschi.
La risposta dell’altro lo lasciò perplesso, perché scoppiò a ridere e non sembrava nemmeno riuscire a smettere.
“Cercala pure la tua stella, caro mio! Non la troverai sai? E soprattutto, dove pensi di metterla? Nel tuo zainetto?” disse, continuando a ridere, ormai piegato in due.
“Ce l’hai tu? L’hai già presa?” John sentiva la rabbia montare dentro di lui, e in due passi coprì la distanza che lo separava dal ragazzino, andandogli vicino e facendogli passare la voglia di ridere, all’improvviso.
Aveva ottenuto l’effetto sperato, ma la risposta che l’altro gli diede non era quella che si aspettava.
“Non l’ho presa, sono io, la tua dannatissima stella.”

John sgranò gli occhi, incerto se picchiare il tizio, ridergli in faccia, insultarlo o semplicemente ignorarlo e proseguire nella sua ricerca della stella. Alla fine, optò per l’ultima opzione.
“Seh, e io sono la regina Vittoria.”
“Oh piacere! No aspetta, io sono davvero la tua stella! Tu invece non sei affatto la regina, mi prendevi in giro! Questo non è affatto simpatico da parte tua!”
“Perché prendermi per il culo per rubarmi la stella invece cos’è?”
“Io non ti prendevo affatto per il cul- oh cielo devo smetterla di dire tutte queste brutte parole così tipiche di voi umani. Non mi sono mai piaciute.” Disse, appoggiando le mani sui fianchi e gonfiando leggermente le guance, già rosse a causa della discussione.
“Senti, coso, io mi sono davvero rotto di avere a che fare con te. Lasciami in pace.”
“No devi ascoltarmi! Non ti mentivo, è vero, mi hanno fatto cadere dal cielo per.. per un motivo che al momento non ricordo, ma sono io la tua stella. Quella che cerchi.”
John sospirò, strofinandosi gli occhi in preda alla frustrazione. Era così stanco di quello psicopatico, che decise di liberarsene una volta per tutte. Avrebbe potuto ricorrere alla violenza, ma diciamocelo, non avrebbe mai fatto del male ad una mosca.
“Allora, mettiamo che per un istante io consideri davvero  che tu possa essere la mia stella.. dimostramelo. Ho bisogno di una prova.”
Il ragazzino aggrottò le sopracciglia e si rabbuiò per un secondo, come se non sapesse come poterlo dimostrare. Fu una piccola vittoria per John, perché era certo che sarebbe finita così. E invece, dopo pochi istanti, il giovane parlò.
“Ma sì, ora ricordo! Sono caduto per colpa tua, perché ti abbiamo visto guardare il cielo sospirando così tante volte, in cerca di un miracolo, con il tuo blocco da disegno sempre in mano. E alla fine ieri sera hai espresso un desiderio, un desiderio  che chiedeva di rendere possibile il vero amore..”
Ecco, questa fu una risposta che John non si aspettava minimamente. Come diavolo faceva a conoscere le sue abitudini? Certo, il suo poteva essere un desiderio banale, ma aveva usato le sue stesse precise parole, parole che prima non aveva mai detto a nessuno.
“Ma.. che diavolo.”
“Convinto ora? Sono la tua stella!” esclamò, aprendo le braccia e sorridendogli speranzoso.
“Ok, ok, ragazzino.”
“Non mi chiamo ragazzino, sono Paul. Dovremo presentarci!” 
Oh questo era il colmo. Il tizio-stella aveva un nome e voleva pure sapere il suo.
“Sì va beh.. Paul, sono John, John Lennon. E mettiamo che ti creda, per il momento. Cosa me ne faccio di uno smilzo come te? Io avevo bisogno della mia pietra per conquistare Cynthia.”
“Ah questo non lo so, Joe. Io sono solo qui per te. Di più non so!”
“Non è Joe, è John.”
“Stessa cosa.”
No, avrebbe voluto rispondere John, non era la stessa cosa, ma preferì scuotere le spalle, sorvolando sulla faccenda del nome.
Si trovava in una fase di stallo e non sapeva come uscirne. Lui pensava di essere già sulla strada del ritorno, con la sua stella tra le mani, pronto a conquistare il cuore di Cynthia. E invece era ancora nel bel mezzo del bosco, con una stella umana (Dio, questo era assurdo anche solo a pensarlo) che doveva aiutarlo e non sapeva nemmeno cosa fare.
Fantastico.
Sospirò pesantemente, e alla fine accettò la realtà dei fatti. John Lennon era destinato a non saper fare niente e a restare un fallito, tanto valeva tornare a casa e dimenticarsi di tutto. Non che fosse tipo da arrendersi facilmente, ma quella situazione era davvero troppo, avrebbe ucciso la motivazione di chiunque. Figuriamoci di uno che da diciotto anni viene bollato come inetto.
Avrebbe potuto continuare a vedere Cynthia comunque, mentre passava dal negozio e..
“Ehi, Jules! Che stai facendo?”
Al richiamo di Paul si svegliò dalla trance in cui era caduto, e si rese conto che aveva già percorso parecchi metri senza rendersene conto.
“E’ John, ragazzino, John. Non è difficile, cazzo. E comunque torno a casa, cosa vuoi che faccia?”
Paul lo raggiunse in fretta, facendo lunghi passi. Aveva davvero delle gambe longilinee ed eleganti, che ricordavano proprio la scia di una.. stella.
“Non ci pensare nemmeno cocco, sono sceso giù dal cielo per te, non mi mollerai qui in mezzo al nulla dopo che ho fatto tutta quella strada! Sai quanto è doloroso cadere?! Beh, tanto!” John non si era reso davvero conto di aver smesso di ascoltarlo, ma lo vedeva parlare al vento senza davvero percepire tutte quelle parole che gli vomitava addosso senza tregua.
Alla fine decise di interromperlo.
“Ma le stelle sono tutte rompicoglioni come te?”
Paul arrossì e batté gli occhioni per qualche istante.
“No. Più o meno. Ecco, sono solo molto molto molto appassionato, io. Ma insomma, sono sceso dal cielo per te.”
“E questo l’hai già ripetuto parecchie volte. Forse troppe.”
Il rossore sulle guance della stella si fece ancora più intenso.
“Beh, senti, basta parlare di me. Pensiamo a cosa fare, ma insieme.”
Ecco, questa gli sembrava una buona idea. Si sedettero su un grande masso, e stettero in silenzio per qualche istante. Iniziò a pensare di chiedere consiglio ad alcuni amici di Liverpool, ma a chi? C’era Stu, forse gli avrebbe creduto, Pete invece l’avrebbe mandato ai pazzi. Il suo lungo pensiero fu interrotto all’improvviso da un rumoroso brontolio.
Si girò verso Paul, che si guardava i piedi in evidente imbarazzo.
“Scusa, ho fame. Non mangio della polvere di meteorite da troppo tempo!”
Questa affermazione fece sorridere John. Prese dalla sacca un sandwich al formaggio e lo divise in due parti uguali.
“Toh, stellina, non so cosa sia quella polvere che ti mangi, io ho solo il top della cucina di Liverpool e Manchester.”
E proprio mentre masticava controvoglia quel pezzo di pane raffermo, evidentemente molto diverso dal cibo a cui era abituato, a Paul venne un’illuminazione.
“Senti, mi hai appena fatto ricordare di una cosa! Qualche anno fa, quando ero una stella minore, un mio compagno si innamorò di un’umana e si fece spedire giù sulla terra. Vivono a Man..manch..mancaster? Mangiastor? Quella lì! Possiamo andare a cercarli e chiedere a loro, è qua vicino, no?”
“A Manchester? C’è un’altra cazzo di stella a Manchester? Mi stai pigliando per il culo!” quasi gli andò di traverso il sandwich. L’altro scosse il capo, e gli confermò che era così, e che anzi, parecchie stelle erano scese dal cielo e vivevano sulla terra.
Non era possibile, era solo un sogno. Anzi, era chiaramente un incubo. Si sarebbe svegliato, Mimi l’avrebbe rimproverato perché era in ritardo per il lavoro e tutto sarebbe stato banale e scontato come al solito.
Di scatto si pizzicò la faccia, le mani, le braccia, per svegliarsi. Ma niente, era sempre lì, sempre con i due occhioni di Paul che lo fissavano. 
Se non fossero stati nocciola, John avrebbe giurato di averli visti brillare.
E incredibile, gli dicevano di fidarsi, di credere al fatto che avesse davvero una cavolo di stella davanti a sé.
Doveva essere andato fuori di testa, ma sentì di voler essere fiducioso, per una volta nella sua vita.
“Ho capito, ho capito. Andiamo a Manchester. Intanto usciamo da questo bosco, o impazzisco.”
“Evviva, torno a casa! Cielo, aspettami! Paul torna presto!” esclamò, con le mani protese verso l’alto e lo sguardo luminoso rivolto verso il sole.
E, davanti quell’immagine, per la prima volta dopo troppe ore, John rise.






Angolo dell'autrice:

Buonasera a tutti.
Come promesso, questo capitolo si è fatto attendere poco, solo tre giorni!
La storia a grandi linee è già scritta, in totale saranno otto capitoli, pagina più, pagina meno; il prossimo capitolo sarà pubblicato tra una settimana, circa.
Volevo approfittarne per ringraziare i lettori che hanno seguito il primo capitolo, chi ha recensito e Santa Kia85 da Liverpool che ha betato queste pagine e mi ha supportato nelle mie serate di scarsa autostima!
Ora che finalmente è apparso Paulie, mi piacerebbe avere qualche parere in più riguardo la storia, quindi recensite, o contattatemi in privato, o mandatemi piccioni viaggiatori.. ma fatemi sapere! <3 
Grazie dell'attenzione, alla prossima
Penny

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 3

Il programma di John e di Paul prevedeva di raggiungere la piccola cittadina di Chester, che distava solo una decina di kilometri dal bosco. Da lì sarebbero arrivati o a piedi, o con qualche mezzo di fortuna, a Manchester, coprendo dunque quelle trenta miglia in due giorni di viaggio.
Tutto questo sembrava funzionare perfettamente, nella testa di John.
In pratica invece erano in cammino da qualche ora, e il sole di luglio, ormai alto in cielo, rendeva parecchio difficile proseguire lungo la strada sterrata. John in realtà era abituato al clima umido della sua città e in generale a lavorare d’estate, ma la stella al suo fianco non era propriamente dello stesso parere.
Finché le temperature erano state più favorevoli, avevano scambiato qualche parola di circostanza.
John aveva così scoperto che Paul aveva “soltanto" un centinaio di anni, il che lo rendeva praticamente un giovanotto, un principiante nei desideri da realizzare.
La sua solita fortuna, insomma.
Invece, più mezzogiorno si avvicinava, e si cominciava a sentire la totale assenza di acqua, più i dialoghi si erano fatti radi, ed erano principalmente composti da lamentele di Paul. E suonavano tutte più o meno uguali.
“Io odio la Terra. Odio questo insulso pianeta. Ma dico io, è formato al 70% da acqua e noi stiamo morendo di sete. E ho sonno, un sonno terribile, e tu continui a trascinarmi in giro per questo dannato pianeta. L’ho già detto che odio la Terra?”
Ora, la natura aveva dato scarse riserve di pazienza ai Lennon in generale. Le litanie di una stella potevano rischiare di esaurire quelle riserve anche per gli anni a venire. Ecco perché John si sentì in dovere di intervenire prima che ciò succedesse. 
Fortunatamente per Paul il destino decise di precederlo, con un rumore di zoccoli e ruote in lontananza, il che poteva significare soltanto una cosa: una carrozza. Una meravigliosa, bellissima carrozza che avrebbe potuto dar loro un passaggio. Forse.
Va bene, definirla bellissima era stato veramente esagerato, ma insomma, era già qualcosa. Senza considerare che quella visione aveva persino zittito Paul per qualche istante.
Per John quello era un miracolo!
Si piazzò immediatamente in mezzo alla strada, per impedire alla loro unica speranza di proseguire fingendo di non vederli, come avevano già fatto in precedenza un paio di altre carrozze private. Questa però sembrava diversa da quelle incontrate prima, e più si avvicinava, più John si chiedeva se fosse davvero una buona idea farla fermare.
Le sue domande furono in ogni caso inutili: ormai era troppo tardi.
I cavalli frenarono, sollevando un gran polverone, e per qualche minuto tutto rimase immobile: John con le mani in avanti, Paul ben nascosto dietro di lui e la carrozza ferma e silenziosa. Non sembrava esserci un cocchiere alla guida, e i due ragazzi furono colpiti da un misto di paura e curiosità, ma entrambi non dissero nulla e aspettarono che succedesse qualcosa.
Alla fine, una piccola figura uscì con un balzo.
Era magro e più basso dei due ragazzi di almeno una decina di centimetri. Il viso era adornato da due grandi baffi e dai capelli scuri e disordinati, lisciati in fretta e furia da due mani tozze e ricoperte di anelli. Indossava dei pantaloni arancione brillante, più grandi di almeno un paio di taglie ed erano stati chiaramente infilati alla bell’e meglio, forse durante la frenata improvvisa. Il tutto era coronato da un cappotto sui toni dell’azzurro, un colore molto simile a quello dei suoi occhi. Alla fine, dopo qualche gesto teatrale di sgomento e rabbia, si schiarì la voce e parlò:
“Chi sono i due vagabondi che osano interrompere il nostro meraviglioso viaggio lungo la terra d’Albione?”
“Cosa?” disse alla fine John, cercando di restare il più serio e concentrato possibile, mentre Paul alle sue spalle stava già ridendo sotto i baffi.
“Hai capito bene, contadinotto. Tu, con le tue sudicie mani, hai interrotto il dolce trotto dei nostri due unicorni. Ora, a causa tua e del tuo ‘amico’ là dietro, arriveremo in ritardo nella grandiosa Ledes, o, come la chiamate voi contemporanei, Leeds.”
Alla fine Paul, asciugandosi le lacrime, si fece coraggio e uscì allo scoperto, facendo un profondo inchino:
“Vi chiediamo umilmente perdono per l’offesa arrecata. Vede, avevamo soltanto bisogno di un passaggio verso Mamucium, o, come il mio amico contadinotto preferisce chiamarla, Manchester.”
Cosa?” ripeté di nuovo John, stavolta più forte. Che diavolo stava succedendo? Che fosse ancora parte del sogno da cui non riusciva a svegliarsi? Che fosse colpa del sole che batteva violento sulle loro teste?
Soprattutto, perché quell’ imbecille di Paul sembrava aver problemi a ricordarsi le cose più semplici, come il suo nome, e poi riusciva a fare discorsi simili?
“Reggimi il gioco, Jacob. ” Ecco appunto.  Stupida, stupida stella.
Alla fine, lo strano tizio sembrava molto colpito dalle parole appena sentite, e si toccava il mento, perplesso. Così Paul si inchinò nuovamente e invitò John a fare lo stesso, prima di ricominciare a parlare.
“Non volevamo recarvi danno alcuno, volevamo solo usufruire della vostra immensa bontà, ma solo se v’aggrada, e solo nel caso non affatichi i vostri preziosi unicorni.” e, alzando la testa solo per ammiccare a quel signore, concluse, “La vostra benevolenza sarà ben ripagata, è chiaro.”
John alzò lo sguardo, sconvolto ancora una volta dalle parole dell’altro.
Con uno scatto, gli prese il braccio, come per rimproverarlo dell’aver parlato di una ricompensa che non potevano dare. Non aveva neanche un centesimo con sé! Ma Paul continuò ad ignorarlo e si divincolò in fretta, preferendo studiare la persona davanti a loro e le sue reazioni.
Lo sconosciuto si lisciò i baffi, e cominciò a girargli attorno: studiò il loro abbigliamento, e decise che il cappotto bianco brillante del giovane più alto sarebbe stata una ricompensa meravigliosa. Dunque, accettò.
John era da un lato felice di non dover camminare ancora con quella stella molesta, ma dall’altro lato era seriamente spaventato da cosa gli sarebbe potuto accadere in un viaggio simile. D’altronde, lui non era mai uscito al di fuori di Liverpool, e persone come quella non erano ben volute nel giro che frequentava lui.
Non gli piaceva nemmeno il circo, figuriamoci se pensava di mescolarsi con simili presenze!
Come ad interrompere il suo flusso di pensieri negativi, Paul manifestò il suo entusiasmo, battendo le mani e sprizzando contentezza da tutti i pori.
“Non se ne pentirà, signor..?”
Lo strampalato tizio davanti a loro sembrò come ricevere una frustrata, a quella domanda.
“Cielo cielo cielo, che maleducato. Non è da me! Rimediamo subito!” e, con un colpo di bastone alla carrozza, fece srotolare un grande pannello colorato che recitava così: Rory Storm and the Hurricanes, ora in tournée!
“Quindi lei è il signor Rory?” chiese John, ma la sua domanda sembrò infastidire profondamente il suo interlocutore. Questi dunque scrollò le spalle e si girò, come a non volergli dare troppa confidenza.
“Certo che no, come potrei essere Rory Storm IO? Ma dove avete vissuto fino ad adesso? Oh povero me, io sono il signor Ringo Starr!”
“E gli Hurricanes…?”
Anche stavolta, la domanda di John non fu ben accolta, e come risposta il tizio batté di nuovo con un colpo la carrozza. Da dietro il pannello uscirono due persone, una donna bellissima ed un ragazzo.
“Tutto qua?”
“Senti giovanotto, io non prendo cani e porci alla mia corte, sia chiaro. E se hai un’altra domanda impertinente come questa, sappi che per me puoi arrivarci a piedi alla tua stramaledetta Manchester.”
Il tono della voce si era alzato di qualche decibel, ed era immediatamente intervenuta la donna a calmarlo, accarezzandogli la schiena e sussurrandogli qualcosa all’orecchio.
Paul si voltò, e rivolse a John uno sguardo di rimprovero.
“Piantala, Jack!” gli disse, dandogli un leggero pugno sul braccio e avvicinandosi allo strano trio.
John si morse il labbro, di nuovo profondamente dubbioso e preoccupato da quella scelta. Ma insomma, se Paul era davvero una stella (lo era?) doveva avere una specie di sesto senso, no? Se fosse stato pericoloso l’avrebbe percepito?
In ogni caso decise che per Cynthia e per il suo riscatto qualche rischio andava pur corso.
E fu così che salì, con passo incerto, sulla carrozza.

Già dopo poche ore di viaggio scoprirono che “Hurricanes” era solo un altro nome per definire una famiglia di musicisti di strada che sbarcava il lunario girando l’Inghilterra. Ringo, sua moglie Maureen e il figlio Zak vagabondavano ormai da parecchi anni. La loro carrozza era stata comprata, o forse era meglio dire rubata, al “famoso” Rory Storm, un vecchio musicista ormai ridotto in miseria a causa dei problemi con l’alcool.
I due unicorni, come li chiamava Ringo, erano in realtà due cavalli vecchi e stanchi, che avevano bisogno di parecchie pause nel tragitto, e macinavano ben poche miglia all’ora. Fu così che i passeggeri passavano più tempo a sgranchirsi le gambe nella campagna inglese che effettivamente sulla carrozza, in movimento. Dopo un’ora di viaggio, Chester ancora non si vedeva. Eppure, secondo i calcoli di John, doveva essere molto più vicina. Fu così che si azzardò a chiedere alla giovane donna, Maureen, spiegazioni a riguardo. Lei non fece nemmeno in tempo ad aprire bocca che intervenne immediatamente il marito a parlare al posto suo.
“Caro mio, voi eravate ormai in prossimità di Buckley, e per raggiungere Chester ci vuole almeno un’altra ora di carrozza!”
“Buckley?”
Quasi gli andò di traverso l’acqua che stava bevendo.
“Sì, dovete aver preso la strada sbagliata parecchie miglia fa! Non avete letto la segnaletica?”
Davanti allo sguardo indagatore di Ringo e di Paul, John arrossì vistosamente.
Non che non avesse davvero visto la segnaletica, è che aveva qualche piccolo, piccolissimo problema di miopia. Certo, non sarebbe andato a gridarlo ai quattro venti o ad ammetterlo davanti a tutta quella gente, ma era costretto da qualche anno a portare dei grossi fondi di bottiglia. Non che si potessero davvero chiamare occhiali, quelli, andiamo! 
In ogni caso, da allora aveva continuamente negato l'evidenza. La verità è che li detestava e faceva di tutto per dimenticarli in giro o per non metterli. Zia Mimi soprattutto non sembrava capire quanto fossero imbarazzanti per John e quanto diminuissero le sue chances con le ragazze.
Ecco perché, durante quella sua avventura, li aveva semplicemente lasciati a casa, pensando che non gli servissero affatto.
Dunque scosse il capo violentemente a quel rimprovero celato, e si divertì ad incolpare l’inutilità della segnaletica e quanto il governo inglese poco curasse quei dannati cartelli. Le scritte dovevano essere state coperte o rovinate dal tempo, era chiaro!
Ecco perché si erano allontanati da Manchester per una decina di kilometri anziché avvicinarsi.
“Cambia poco, arriveremo comunque al massimo prima di notte a Chester, non c’è da preoccuparsi!” e poi, rivolgendosi a Paul, ammiccando, “così hai avuto occasione di ammirare la campagna inglese! Nulla di meglio per lo spirito!”
“Nulla di meglio? Mi hai quasi fatto morire di sete!” gli rispose l’altro, incrociando le braccia, tutto indispettito.
“Oh andiamo, lo sanno tutti che non si muore per così poco! E poi è colpa tua che sei una stella da strapazzo! Se solo tu sapessi fare il tuo lavoro, ora io sarei già tra le braccia di Cynthia!”
“Ah, adesso sarebbe colpa mia!!” e così dicendo, Paul mise il broncio e gonfiò le guance.
“Ovvio! E soprattutto, visto che sei tanto bravo, perché non l’hai letto tu il cartello?”
“Perché non la capisco la vostra stupida lingua terrestre!!”
“Ah però quando è ora di parlare per niente, la capisci eccome!” gli rispose John, facendo arrossire l’altro fino alle orecchie.
Continuarono a battibeccare davanti al famiglia Starr per qualche minuto, sotto i loro sguardi divertiti e preoccupati allo stesso tempo.
“Questi qua mi sa che sono più strambi di noi.” Concluse alla fine Zak, scrollando le spalle.

Era già tramontato il sole quando finalmente arrivarono a Chester e una tiepida brezza estiva li rinfrescò, mentre si accampavano poco fuori la cittadina.
Il trio Starr aveva in programma uno spettacolo in pieno centro, e chiesero ai nuovi arrivati di accompagnarli, per aiutali a racimolare qualche spicciolo in più.
Per questo anche ai due ragazzi fu assegnato uno strumento musicale. Non che dovessero suonarlo davvero, ma secondo Ringo aiutava a fare scena e a costruire un’immagine più esotica. A John fu dato in mano un banjo, un nuovo strumento che il ragazzo non aveva mai visto prima e che proveniva dall’Africa; mentre a Paul fu affidata una delle tante chitarre inutilizzate e scassate.
John si sentiva a disagio. Finora aveva visto solo i gitani suonare quegli strumenti, ma allo stesso tempo era terribilmente attratto dalla possibilità di imparare a suonarli, finalmente, dopo anni di curiosità. La verità è che non credeva che sarebbe mai arrivato a fare musica con qualcosa che non fosse un clavicembalo o un pianoforte.
Non che zia Mimi approvasse un tipo di educazione musicale, la trovava una passione da zingari o da signorine nobili e nullafacenti. In entrambi i casi non era necessaria a portare il pane in tavola, e quindi fu subito esclusa per John la possibilità di imparare a suonare qualcosa.
Ecco perché, mentre aspettava che la famiglia Starr si preparasse indossando i costumi di scena, strimpellò incuriosito, pizzicando le corde del suo banjo con risultati imbarazzanti.
Paul si avvicinò a lui, con la chitarra ben salda nella mano sinistra. John lo fissò per qualche istante senza dire nulla, ma poi fu più forte di lui commentare la scena.
“Si può sapere come diavolo la tieni quella?” 
La stella scosse le spalle, infastidita dall’osservazione.
“Io uso questa mano, non mi trovo bene con la destra, come tutti voi.”
“Non lo sai che è la mano del diavolo?” disse John, ridendo sotto i baffi. Sentirsi ripetere quella frase gli fece pensare a cosa avrebbe detto Zia Mimi se fosse stata lì.
“Che stupide superstizioni che avete voi umani. Noi stelle non pensiamo a queste cose, e forse dovreste cominciare anche voi altri!”
John arrossì, preso in contropiede, ma la sua risposta fu subito interrotta dall’uscita degli Hurricanes, visione che lo lasciò stordito. Se quel pomeriggio aveva trovato sfarzoso l’abbigliamento di Ringo, beh, doveva ricredersi: tutti e tre, insieme, potevano fare di peggio.
L’arcobaleno di colori che indossavano quasi lo accecò, e ringraziò l’oscurità per attenuarli.
Insieme, tra il profondo imbarazzo di John e Paul, si avviarono verso il centro del paese, una meravigliosa piazzetta in puro stile inglese, con eleganti palazzi bianchi e neri.
La vista spiazzò i due ragazzi, che si trovarono a pensare la stessa cosa: se il paradiso fosse stato nel Regno Unito, avrebbe sicuramente trovato la sua capitale a Chester.
Lì, trovato un piccolo spiazzo tra una caffetteria e una libreria, si posizionarono e cominciarono a suonare.
Il compito di John era quello di girovagare tra gli spettatori con la chitarra e con un piccolo cappello per chiedere qualche spicciolo; mentre quello di Paul di attirare, con il suo stile garbato, la gente ad assistere al concertino.
Dopo un’ora l’arrivo dei vigilanti li fece dirottare verso un altro spiazzo, da cui furono comunque cacciati solo dopo pochi minuti.
La serata lavorativa si era dunque conclusa, e si avviarono nuovamente verso il loro piccolo accampamento, stanchi e frustrati. Il bottino era stato misero rispetto alle aspettative del trio famigliare.
“Vorrà dire che punteremo alla grande Manchester! Avremo bisogno di un cappello più grande, miei cari Hurricanes, perché faremo faville e i soldi ci ricopriranno come polvere di stelle!” li motivò Ringo, stringendo a sé la moglie e il figlio e brindando con una bottiglia di vino scadente.
John sorrise a quella scena, trangugiando il suo bicchiere di vino, e si perse ad ammirare il legame affettivo tra quei tre. Erano stravaganti, forse un po’ pazzi, ma si dovevano amare tutti molto per sopportare una vita del genere, fatta anche di stenti.
“Chissà come fanno!” disse alla fine della sua riflessione, sospirando.
“Oh, tu dovresti saperlo, Jeremy! E’ l’amore che muove tutte le cose, non il denaro!” gli rispose Paul, un po’ allegro a causa dell’alcool, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
Ma John a quella affermazione si rabbuiò e si scostò leggermente dall’altro. Tutta la voglia di scherzare e battibeccare era scomparsa all’improvviso. Forse era colpa della stanchezza, forse dei cattivi pensieri, non lo sapeva con esattezza, ma sentì il bisogno di stare da solo all’improvviso. Dunque, congedandosi da tutti e ignorando lo sguardo di Paul fisso su di sé, prese una delle coperte e si buttò a dormire fuori dalla tenda, sotto le stelle.
Dopo alcune ore non sapeva se si fosse svegliato per colpa del freddo, o per colpa del rumore di chitarra che proveniva da lì vicino. Si alzò, sia per scaldarsi che per sgranchirsi le gambe. Chi l’avrebbe mai detto che dormire su un prato fosse così scomodo?
Fu così che vide Paul, seduto sulla carrozza, tutto intento a studiare la chitarra.
“La tieni ancora storta.” Lo interruppe John, prendendolo di sorpresa.
“E tu sei ancora un gran rompiscatole, nonostante la dormita.” Lo punzecchiò l’altro, dopo essere trasalito dallo spavento.
“Lo chiami dormire questo?! E tu non ci provi nemmeno?” John si grattò la testa, e si sedette accanto alla stella.
“No, noi dormiamo di giorno, mi sembra di avertelo già detto questo! Non riesco proprio a prendere sonno, quando in cielo c’è sveglio il mio mondo!” rispose l’altro, allargando le braccia e ridendo timidamente.
“Ma sai che ti dico? Che forse è meglio così. Quando mai ci capiterà di vivere un’avventura simile?” per un po’ John decise di lasciarsi contagiare dal suo buonumore.
Passarono qualche minuto in silenzio, ognuno preso dai propri pensieri, dopodiché Paul ricominciò a pizzicare le corde della chitarra.
“Allora, come fai a saperla suonare?”
“Mh, non mi ricordavo che noi stelle, all’evenienza, abbiamo dei talenti utili al fine di realizzare il desiderio. Prima ho parlato al Signor Ringo con un linguaggio forbito per avere il passaggio; ora i miei ‘superiori’ devono pensare che mi serva suonare la chitarra. Chissà! Sta di fatto che mi piace, sai? Suonare. Mi piace molto, mi fa stare bene!” disse, grattandosi il naso per dissimulare l’imbarazzo.
“Non so se è merito loro o tuo, ma la suoni bene, anche da storta! Per quel che me ne intendo io sei bravo. Se non fossi una stella, forse saresti un musicista.” John notò subito come le sue parole colpissero a fondo l’altro, e gli diede una piccola pacca sul braccio per sdrammatizzare il discorso.
“Oh, non esagerare, ruffiano.” Paul arrossì ancora di più, mentre rispondeva.
“No, dico davvero! Mi piace sentirti suonare! Continua, per favore.”  John si fece serio per rendere le sue parole più credibili.
Stette così, a fissarlo negli occhi, per qualche lungo, lunghissimo istante. Era sicuro, come qualche ora prima, di vederci le stelle, i pianeti, gli universi in quei dannati occhi enormi. E una volta che cominciava a guardarli, difficilmente riusciva a staccarsi, non importava se vedesse l’altro arrossire di nuovo sotto il suo sguardo.
Alla fine si costrinse a pensare ad altro, e la cosa sembrò funzionare, perché gli venne un’idea.
“Ma certo Paul! Sai perché ci serve? Perché probabilmente mi aiuterà a conquistare Cynthia! Ti prego, insegnami!”
“Ma non posso insegnarti a suonare uno strumento in una notte! E’ impossibile, anche per una stella!”
“Proviamoci, in fondo cos’hai da perdere? E poi l’hai detto tu stesso, la sai suonare per me.” e mentre diceva queste parole arrossì a sua volta, “quindi forse significa proprio che mi devi insegnare!”
Paul fu preso in contropiede da quelle parole e dal modo accalorato con cui le diceva e, alla fine, non poté non cedere.
John afferrò dunque la chitarra di Zak e, attento a non danneggiarla, la appoggiò sulle gambe. Sentiva dentro di sé un entusiasmo che non credeva di avere, si sentiva vivo!
“Bene, cominciamo, maestro!”

A svegliare Zak non fu l’arrivo dell’alba, il freddo o le zanzare – erano tutte cose a cui era abituato – ma il rumore di risate e accordi di chitarra stonati che venivano da fuori la loro tenda.  Si rinfrescò la faccia con dell’acqua gelida e si decise ad uscire.
La scena che si trovò davanti era bizzarra: Paul e John erano seduti sulla loro carrozza e provavano e riprovavano tutta la scala musicale sulla sua chitarra, con l’entusiasmo di due bambini.
Il risultato, soprattutto nel caso di John, era discutibile, ma Zak capì immediatamente che dovesse essere la prima volta che toccava uno strumento e non si soffermò troppo sulla tecnica.
Fu subito raggiunto dal padre, evidentemente svegliato dallo stesso rumore.
“Che cosa sta succedendo?” Il figlio lo zittì immediatamente.
“Papà, sembra solo a me, o quel tizio.. Paul, è luminoso? Sta brillando, Cristo.”
E Ringo, ammutolito, non poté fare a meno di annuire.




Angolo dell'autrice:

Ma salve, miei cari lettori! 
Eccoci qua col terzo capitolo! So che dovevo pubblicare più tardi, ma con mia grande sorpresa domani partirò per Firenze e starò là tre giorni. Non potevo lasciarvi fino a Giovedì senza capitolo ;) Inoltre vi dico che sono stata costretta a cambiare il nickname, qualcuno si è divertito a segnalarmi quello vecchio, evviva.
Tornando alla storia... il percorso fatto dai protagonisti è un percorso che ho fatto anch'io parecchi anni fa, quindi per me sono "luoghi conosciuti". Ma non tutti sono dei vagabondi come la sottoscritta, e dunque ecco a voi una cartina esplicativa, abilmente fatta a Paint da me: cartina

Sono entrati nuovi personaggi, e mi auguro che vi siano piaciuti! Il nome del gruppo chiaramente prende ispirazione dalla band in cui suonava Ringo prima dei Beatles, ma che ve lo dico a fà? Inoltre non potevo non far suonare John e Paul... in qualsiasi mondo si trovino, la musica non può mancare <3
Spero siate soddisfatti, e spero di ricevere altri commenti, sono curiosa di sapere cosa ne pensate!
Intanto ringrazio, come al solito, la mia beta preferita, Kia, che mi aiuta e segue con pazienza e amore.
Poi ci tengo a citare altre due persone speciali che hanno recensito l'ultimo capitolo, riempiendomi anche di complimenti: Paulmccartneyismylove e Astoria McCartney, grazie mille!
Al prossimo capitolo,
Penny

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 4


Ringo Starr continuava a fissare i due stranieri che si portavano appresso, e non riusciva a razionalizzare quello che aveva visto quella mattina stessa.
Certo, poteva essere stato uno scherzo del sonno o del sole che cominciava a sorgere, ma il fatto che anche Zak l’avesse visto non aiutava a concretizzare il pensiero.
Paul quella mattina stava brillando.
Cazzo.
Non che brillasse molto, sia chiaro. Ma la sua pelle, già abbastanza pallida, si era fatta quasi perlata, ed aveva emanato una fioca luce. Poi, era uscita anche Maureen dalla tenda, aveva gridato il buongiorno, e Paul, distratto dalla loro presenza, era tornato normale.
Possibile che John non l’avesse minimamente notato? Eppure era lì a pochi centimetri da lui!
Stupido contadinotto, cosa ci si poteva aspettare da uno che non legge nemmeno le indicazioni stradali!
Alla fine Ringo scosse il capo, bevve l’ultimo sorso di tè, e si alzò in piedi, annunciando l’ennesima pausa degli unicorni.
Aveva bisogno di aria fresca e di un buon pasto caldo. E di liberarsi il più in fretta possibile di quei due stramboidi. Per il bene della sua sanità mentale.

Decisero di fare la pausa pranzo a Nortwich, una cittadina abbastanza grande dove trovare una locanda accogliente e un buon boccale di birra. Il piano iniziale prevedeva un piccolo spettacolo anche lì, ma lo stato d’animo di Ringo non era dei migliori, e la famiglia decise di posticipare il lavoro a Manchester.
John ne fu sollevato, non voleva subire altre umiliazioni gratuite.
Aveva fatto tutto il tragitto seduto da solo, al posto del cocchiere, a farsi accarezzare dalla brezza estiva esercitandosi con la chitarra sgangherata. Ad ogni corda che pizzicava, sentiva sempre più di aver trovato il suo posto nel mondo.
Dunque, preso com’era dai suoi pensieri, fu sorpreso di sentire la giovane stella sedersi al suo fianco, mentre entravano nella cittadina.
“Tutto bene Joan?”
“Sì, grazie. Avevo bisogno di stare da solo per riordinare un po’ di pensieri, e la chitarra mi aiuta molto. Mi sento felice, mentre strimpello questi stupidi accordi.. anche se non hanno senso tra di loro! E’ sciocca come cosa, vero?”
Paul maturò quelle informazioni dentro di sé per qualche istante. Poi, all’improvviso, sentì la rivelazione bruciargli nel petto.. ma certo! Che stupido!
Lui sapeva suonare la chitarra non per Cynthia, ma per John. Per farlo stare bene, per renderlo felice. Si sentì arrossire, mentre cercava di non sorridere senza un apparente motivo.
“Non lo trovo affatto sciocco, è bellissimo. La musica è una delle cose più incredibili che ci siano.”
“Anche in cielo c’è musica?” Dio, John si sentì un perfetto imbecille, e non sapeva spiegare bene perché. Forse perché aprirsi e parlare di sentimenti, di musica e di stelle era una cosa da donnicciole o da checche. La sola parola gli faceva ribrezzo.
La verità era che Paul gli suscitava un misto di sensazioni che non sapeva bene spiegare, e che sicuramente avevano a che fare coi suoi numerosi e misteriosi poteri.
“Sì, ma non è la musica come la facciamo qui, con questa chitarrina.. è una melodia che solo in pochi riescono a comprendere e percepire. E’ una cosa per noi stelle, e per la luna. E per gli angeli.”
“Davvero?”
“No, ti stavo prendendo in giro!” E detto questo scoppiò a ridere.
“Fanculo, stellina! Ti faccio vedere io!” esclamò, fingendo di buttarlo giù dalla piccola seduta del cocchiere, senza riuscire a smettere di ridere a sua volta.

Dopo essersi riempiti la pancia a Nortwich e dopo un’altra breve pausa nel bel mezzo della campagna inglese, finalmente si stavano avvicinando a Manchester. Ringo e Maureen li avvisarono che avrebbero raggiunto il centro città nel pomeriggio.
E mentre il sole era ancora alto, un cartello annunciò loro che solo un miglio li separava dalla loro meta.
John era quasi dispiaciuto di questa notizia, perché per lui significava abbandonare i suoi esercizi con la chitarra. Non che sapesse fare grandi cose, ma nelle ultime ore lui e Paul stavano provando nuovi accordi e si stava divertendo davvero troppo, più di quanto volesse ammettere.
Tuttavia, Manchester significava essere a metà del loro viaggio, e se da una parte era preoccupato per la ricerca della stella, dall’altra era elettrizzato: avrebbero scoperto come esaudire il suo desiderio, finalmente!
Paul, invece, da quando fu avvistato il segnale non riusciva a smettere di mordersi il labbro e di mangiucchiarsi le unghie, sentendosi a disagio, sentendosi troppo umano.
La verità è che aveva dato per scontato che una volta sulla strada per Manchester avrebbe avuto un’illuminazione, un lampo di genio, qualsiasi cosa e che avrebbe capito subito dove fosse George, il suo amico-stella. E invece niente, vuoto totale, tabula rasa.
Gli scappò l’ennesimo sospiro, e stavolta John si fece coraggio: mise da parte la chitarra, si avvicinò e gli parlò.
“Non sai dov’è il tuo amico, vero?”
Era inutile fingere o tergiversare.
“Come fai a saperlo, Jess?”
“Perché non sei mai stato zitto per così tanto tempo di fila da quando ti ho conosciuto. E alcuni potrebbero dire che è solo poco più di un giorno, ma per me sono state parecchie ore di chiacchere continue!” concluse, ridacchiando sotto i baffi.
Alla fine John si era abituato facilmente al suo vociare continuo, perché quando non era con lui, aveva trovato modo di parlare con tutti e tre gli Starr. La cosa che lo sorprendeva di più era l’insaziabile sete di domande.
Ma l’erba è sempre così smeraldo? Ma le nuvole sono sempre così brutte, viste da quaggiù? Ma voi inglesi bevete tè di continuo? Ma il fumo esce dalle sigarette per magia? Ma? Ma?
Un continuo punto interrogativo, come un bambino.
E ora niente, non voleva sapere niente di Manchester, dei camini delle fabbriche già ben visibili, del grigiore del cielo? Doveva per forza nascondere qualcosa.
“Mi spiace.” Si limitò a dire Paul, nascondendo il viso nel bavero del cappotto. Era un dannato fallimento.
La mano di John lo prese dalle spalle e lo avvicinò di più a sé.
“Non ti preoccupare, stellina petulante. Un modo lo troveremo! Basta che la smetti di sospirare e ricominci a rompere un po’ le scatole, o mi deprimo anch’io!”
Ecco, neanche il tempo di pensare a quanto fossero fastidiosi i sentimenti umani che una piccola, deliziosa scarica di calore gli riscaldò il petto. E all’improvviso tutto, per Paul, divenne un po’ più semplice e un po’ più bello.
E con la mente sgombra dal pessimismo, un’immagine gli si fece largo nella testa.
“Didsbury! E’ a Didsbury!”
Si voltò verso John, che sorrideva sciogliendo quell’abbraccio impacciato.
“Visto, Paulie? Qualche magia ogni tanto la so fare anch’io!”

Era l’ora del tè quando arrivarono a Didsbury, fermandosi nella via principale, a pochi metri dalla torre orologio, monumento simbolo della cittadina.
Il congedo con gli Starr fu strano, era come se nessuno volesse ammettere di essere dispiaciuto, sebbene si conoscessero solo dal giorno prima.
Ringo quasi si commosse, mentre abbracciava Paul, ma si limitò a salutare con una stretta di mano lo “stupido contadinotto”.
La stella cedette a malincuore il suo cappotto, restando così in pantaloni, camicia e gilet, sempre bianchi.
 “Lo so che è il nostro pagamento per voi, per l’aiuto che ci avete dato, ma vorrei comunque avanzare due pretese, se possibile. La prima è che questo cappotto lo metta Zak, quando sarà abbastanza alto per indossarlo a dovere. La seconda è che ci regaliate la vostra chitarra scassata, per allietare il nostro viaggio di ritorno e per portare un vostro ricordo con noi.”
Inutile dire che le reazioni furono diverse. Zak, con il quale Paul aveva avuto modo di parlare molto durante il viaggio, si emozionò a quel pensiero e annuiva già riconoscente. Suo padre non era dello stesso avviso e, indignandosi, voltò le spalle ai due ragazzi.
“Non ci penso nemmeno, miei cari. Una promessa è una promessa, e il cappotto era solo per il viaggio..”
Ma stavolta fu Maureen ad intervenire e a sovrastare il marito.
“Se non gliela regali tu, lo farò io, mio caro.”
Tutti si voltarono e la fissarono allibiti.
“Cosa stai dicendo, Maureen?”
“Quello che hai capito. I due ragazzi avranno la chitarra. Noi non la usiamo, e, come hai già detto tu, a breve saremo ricchi a sufficienza da comprarne una nuova e più bella. Che si portino un po’ di Hurricanes a Liverpool.” Concluse, ammiccando in direzione di John e Paul.
Ringo, mostrando rispetto per la moglie, si costrinse a cedere.
John non riusciva a credere ai suoi occhi. Si trattenne dal piangere davanti a tutta quella gente, e con mani tremanti si caricò la chitarra sulle spalle.
“Grazie Hurricanes, non vi dimenticheremo mai.”
Ringo sbatté i tacchi e si inchinò platealmente, invitando la famiglia a fare lo stesso.
“Grazie a voi, giovani avventurieri.  Se le cose dovessero andare in modo inaspettato, ricordatevi che gli Starr vi aspettano. Che sia a Leeds, in Scozia o dall’altro capo del mondo, magari troveremo il modo di rivedervi e di ospitarvi di nuovo. La prossima volta però ci aspettiamo che lavoriate!”
Si riabbracciarono tutti di nuovo, e si salutarono definitivamente.
Una volta sparita la stravagante carrozza dalla loro vista, John si girò verso il suo compagno, sorridendogli commosso.
“Grazie Paulie.”
“Non c’è di che, Joe. Te la dovevo. E ora, all’opera.” E prendendolo sottobraccio, lo trascinò in una delle stradine della cittadina.

“Me la sento, questa è quella buona.” Esclamò Paul, percorrendo l’ennesimo viale fitto di case tutte uguali, leggendo i nomi sulle cassette della posta e sui campanelli.
John incrociò le braccia e sbuffò rumorosamente, senza muoversi di un centimetro. Erano due ore che vagavano per le strade tutte uguali di Didsbury, era stanco morto!
Avevano persino chiesto informazioni ad alcuni irlandesi, che dovevano essere parte di una comunità molto numerosa, da quel che gli era stato dato di vedere.  Peccato che non avessero ottenuto niente se non qualche frase con un accento indecifrabile, che suonavano tutte come un “Non posso conoscere tutti gli abitanti di Didsbury, arrangiatevi.” Sempre i soliti!
Ormai si stava facendo buio e John, stanco e frustrato, dopo essersi trascinato per qualche metro, si era seduto sugli scalini di una casa disabitata per strimpellare la chitarra.
Non che il pizzicare delle corde coprisse i brontolii della sua pancia, ma lo tratteneva dal picchiare Paul ed era già qualcosa.
Maledetta quella volta che aveva intrapreso quell’avventura!
La fame rendeva tutto difficile, e più passava il tempo, più la stella iniziò a rallentare anche il suo ritmo di ricerca, camminando faticosamente e sospirando di frequente.
“Senti, è chiaro che stasera non troveremo niente. Facciamo in modo di procacciarci qualcosa di commestibile e poi cercheremo un buco dove dormire. Sono esausto!” gli disse alla fine John, mettendo via la chitarra e guardandolo con occhi imploranti.
Paul si fermò e ponderò per qualche minuto la proposta dell’altro, grattandosi la testa con perplessità. Alla fine un rumoroso brontolio della sua pancia rispose al posto suo.

Era nato tutto per scherzo.
Avevano cercato di barattare un po’ di lavoro con qualcosa da mangiare, ma non avevano ottenuto niente, se non rifiuti su rifiuti. A quanto pareva la loro brutta cera non aveva impietosito nessuno. Così, avevano passato un’ora buona su una panchina, cercando di non pensare al cibo, nonostante i profumi che uscivano dai pub e dai ristoranti. E, proprio mentre si imponeva di concentrarsi su qualcosa che non fosse commestibile, a John era venuta un’idea.
“Potresti strimpellare un po’ la chitarra, fare della musica in centro paese e tirare su qualche moneta! Così ti rendi utile!”
La stella aveva sbuffato, si era offeso e gli aveva fatto la linguaccia. Si era persino ripromesso di smettere di parlargli per qualche minuto, ma alla fine aveva ceduto. La fame era troppa.
E ora si trovava lì, a suonare una melodia latineggiante, attorniato da una folla che gli lanciava monetine e lo applaudiva. La gente aumentava a vista d’occhio, canzone dopo canzone, attirata come uno sciame d’api dal miele, e si lasciava coinvolgere dalla musica in modo sorprendente.
John sentiva puzza di magia a distanza di miglia.
Ma, a sua volta, nonostante il suo compito fosse quello di raccogliere le monete a terra, non poteva non perdersi a guardare Paul suonare, dannazione pure a lui! Era una visione bellissima e ipnotica.
Lo faceva solo perché lo invidiava, o per colpa dei suoi poteri inutili da stupida stella, era chiaro. Lo catturavano come catturavano tutti gli altri, non poteva esserne immune.
Cavolo, con le guance arrossate, gli occhi fissi sulla chitarra e le mani che si muovevano veloci, la stella era così attraente. E non lo stava pensando solo John, bastava osservare gli sguardi lussuriosi delle donne tra la folla per vedere che anche loro avrebbero concordato con lui. Se si fosse sentito abbastanza ardito o ubriaco da ammetterlo, ovviamente.
Ad interrompere il suo flusso di pensieri imbarazzati intervenne una bambina, che si avvicinò a passo incerto, e si aggrappò alle sue gambe. L’età era difficile da individuare: era piccola e magrolina, ma aveva già i capelli lunghi e biondi e uno sguardo curioso. Non poteva avere più di quattro anni.
John si abbassò subito alla sua altezza, rannicchiandosi il più possibile, e le sorrise fiducioso.
“Cosa c’è, piccolina?”
La bimba gli porse la grande moneta d’oro da cinque sterline, e il ragazzo quasi cadde dalla sua scomoda posizione. Un conto erano gli scellini, forse erano riusciti a raccattare anche qualche sovrana, ma addirittura c’era chi era disposto a pagare così tanto per un numero di chitarra per strada?
Immediatamente gli venne da alzare lo sguardo, alla ricerca della mamma della piccola bambina. A pochi metri da loro, una donna dai lunghi capelli color miele invitò la bimba a tornare subito vicino a lei.
John decise di avvicinarsi, per poter chiedere spiegazioni di una mancia così alta, ed eventualmente per ridarle quei soldi che non si meritavano.
“Bravissima la mia Heather!” esclamò entusiasta la donna, prendendo in braccio la bambina e facendola piroettare a ritmo di musica.
A John dispiaceva interrompere quella scena così dolce, ma era stanco ed affamato, voleva solo poter andare in una taverna, riempirsi lo stomaco e dormire.. diciamo per un anno o due. Così, con un colpo di tosse leggero, si decise a richiamare la loro attenzione.
“Scusi signora-“
“Linda Eastman, prego. Con chi ho il piacere di parlare?” e guardandolo fisso negli occhi, gli tese la mano.
“Sono John Lennon.” La sua stretta suonava incerta, sotto le dita forti di quella donna.
“Piacere, signor Lennon. Ha ricevuto le cinque sterline?”
“Sì, a tal proposito signora Eastman, io le chiedo scusa, ma non possiamo accettarle. Non ce le meritiamo, sono troppe.” E così dicendo, con lo sguardo basso a causa dell’imbarazzo, le porse i soldi.
“Oh, no, non sono troppi. Il suo amico ha una bellezza straordinaria, ed è molto talentuoso. Inoltre, vi ho dato così tanto perché volevo commissionarvi una canzone. La canzone mia e del signor Eastman, per la piccola Heather.” E la donna, così dicendo, sorrise divertita e allontanò la mano con il denaro.
“Una richiesta?”
“Sì. Cantata però, non solo suonata. Voglio che quel bel ragazzo canti per me e per la mia bambina.”
“Cantare?” John sgranò gli occhi. La sua voce doveva essersi alzata di qualche tonalità, perché le persone accanto a lui si voltarono a guardarlo, infastidite.
“Sì, cantare. E ora prego, si sta facendo tardi e noi dobbiamo tornare a casa, non abbiamo tutta la notte.”
Aveva continuato a sorridere, ma il suo tono si era inasprito. Chiaramente, non doveva essere una donna abituata a ricevere rifiuti. John deglutì rumorosamente, e si diresse a lunghi passi verso Paul.
“Stella, abbiamo un problema. Un grosso, grosso problema.”

“Non lo farò.”
Era la quinta volta che lo ripeteva, il tempo stringeva e la signora Eastman si stava chiaramente spazientendo.
“Te lo dico un’ultima volta. Sai chi è quella? E’ una Eastman. Possiede alcune tra le fabbriche più fruttuose del Regno Unito; ha soldi per comprarsi mezza Inghilterra, cazzo! Ci ha dato cinque sterline per una canzone. Cinque sterline Paul! Sei capace, conosci il testo, cosa ti costa cantare?”
“Mi vergogno! Abbiamo guadagnato abbastanza soldi per stasera, ridaglieli e lasciami in pace!” sbuffò la stella, in preda al panico più totale. Un conto era suonare, ma cantare? Oh no, non avrebbe ceduto.
“Non possiamo ridarglieli, non accetta un rifiuto quella! E poi andiamo, ci fanno comodo, dobbiamo tornare a Liverpool, amico!”
Paul gonfiò le guance, arrossendo. Se solo non ci fosse stata tutta quella gente, sarebbe stato più semplice.
Alla fine John sospirò.
“Senti stella, facciamo così. Canto anche io, all’inizio. Solo la prima strofa, per aiutarti con l’ansia da prestazione. Poi vedrai che sarà tutto più facile e finirai la dannatissima canzone da solo. Va bene?”
“Davvero lo faresti?” gli chiese Paul, sgranando i suoi occhioni color nocciola. E John desiderò che non l’avesse mai fatto. Perché non era il momento adatto per perdersi dentro quell’universo, maledizione.
“Sì, lo faccio! Basta che ci diamo una mossa!” esclamò alla fine, distogliendo subito lo sguardo dal ragazzo davanti a lui.
“Grazie Jowy! Grazie mille!” e così dicendo, senza pensarci troppo, Paul gli si buttò addosso, abbracciandolo.
Ci volle parecchio coraggio da parte di John per scrollarselo di dosso. La sua faccia era già di una sfumatura di rosso imbarazzante, così decise di dare una pacca amichevole sulla spalla della stella e di sciogliere l’abbraccio dopo pochi istanti. Il calore dell’altro però gli rimase addosso, e nonostante l’ansia da prestazione, si sentiva scombussolato da ben altri sentimenti.
In ogni caso, al momento non aveva il tempo di pensarci troppo. Infatti, neanche il tempo di recuperare lucidità, che le prime note partirono dalla chitarra sgangherata.
E merda, aveva mancato il primo attacco.
Paul gli fece un piccolo cenno, e John capì subito che avrebbe ripetuto la intro per permettergli di iniziare a cantare. Aspettò qualche secondo, fece un profondo sospiro, e partì.
It was down by the Sally Gardens, my love and I did meet. 
He crossed the Sally Gardens with little snow-white feet. 
He bid me take love easy, as the leaves grow on the tree, 
But I was young and foolish, and with him did not agree.”
 
La prima strofa la fece tutta da solo, all’inizio con voce tremante ed incerta, poi con sempre maggior sicurezza. Le guance gli bruciavano dall’emozione, e si ritenne fortunato a non avere gli occhiali: c’erano parecchie persone a guardarli.
In a field down by the river, my love and I did stand 
And on my leaning shoulder, he laid his snow-white hand. 
He bid me take life easy, as the grass grows on the weirs 
But I was young and foolish, and now am full of tears.”
 
Alla seconda strofa, Paul attaccò e cominciò a cantare con lui. John pensò che le gambe gli cedessero non appena lo sentì. Quella stella aveva una voce meravigliosa!
Gli venne da chiedersi se fosse merito di un qualche potere straordinario, o se fosse così di natura.
Alla fine, alla terza strofa, le loro voci erano così melodiose e perfette assieme, che gettò all’aria tutte le sue supposizioni e si lasciò travolgere dall’emozione.
Down by the Sally Gardens, my love and I did meet. 
He crossed the Sally Gardens with little snow-white feet..”

Fanculo tutti, i suoi pregiudizi, la sua rabbia, i suoi sogni.. lui aveva trovato il suo posto nel mondo.
“He bid me take love easy, as the leaves grow on the tree..”
Gli bastava una chitarra, un cappello, Paul e..
“But I was young and foolish, and with him did not agree.”
La fine fu come una doccia fredda. L’entusiasmo della gente lo travolse, facendogli dimenticare ciò a cui stava pensando. Gli irlandesi della comunità cantavano e brindavano, dopo aver sentito quella versione di una delle loro canzoni tradizionali più amate. Li inclusero persino in un abbraccio di gruppo impacciato ed emozionato. A John rimase solo un fortissimo calore al cuore e un senso di felicità così intenso da fargli formicolare le mani e i piedi.
Era successa una magia, lì in quella piazza. E, cosa più importante, la magia aveva contagiato tutta la folla.
 Signora Eastman inclusa, che batteva le mani e saltellava con la figlia, in mezzo a tutte le altre persone.
“Che strani questi ricconi!” Pensò divertito John, prima di spostare lo sguardo su Paul, che si beava di tutti gli applausi, e faceva profondi inchini.
Sì, era davvero successa una magia, perché Paul stava brillando.


“Grazie Josh, è stato bellissimo!” disse la stella alla fine, strofinandosi gli occhi, forse per dissimulare la commozione o la stanchezza.
“Figurati, sono felice di aver insistito! Siamo ricchi ora!” rispose l’altro, ridendo soddisfatto.
La folla era calata, ormai erano rimasti solo alcuni ubriachi che cantavano qualche strofa senza senso, e l’orologio segnava le undici in punto.
Stavano contando i soldi che avevano raccattato in una sola serata di lavoro, e avevano un piccolo gruzzoletto: ben 10 sterline. John continuava a mescolarli, un po’ per realizzare davvero cosa avevano fatto, un po’ per non pensare a quello che aveva visto. Paul solo pochi minuti prima stava brillando!
Doveva trovare il coraggio e chiedergli spiegazioni.
“Senti ragazzino..”
Ma non riuscì a proseguire, faticava a mettere in fila le parole, e venne subito interrotto da un’altra persona.
“Paul? Paul sei tu?”
Entrambi si voltarono nello stesso momento.
“Oddio, George?”



Angolo dell'autrice:

Buonasera a tutti.
Oggi non volevo pubblicare niente, non mi sembrava giusto, per rispetto della scomparsa di John. Mi sono limitata a rebloggare su tumblr foto tristi tutto il giorno, lo ammetto. Però, insomma, vedere Efp così vuoto in questo giorno di lutto mi ha spronato a pubblicare il capitolo... Risolleviamoci con un po' di fluff <3
Finalmente i nostri due protagonisti iniziano ad avvicinarsi un po'... e, dopo aver salutato alcuni personaggi, ne vediamo uno nuovo che sta per fare il suo ingresso! Ohoh.
A tal proposito, mi è stato chiesto in privato che outfit avevo pensato per Paul, dato che qui si scopre il look total white, e devo ammettere che anche se, nella mia testa, la loro faccia è giovane e pulita come quella degli inizi dei Beatles (d'altronde, hanno 18 anni), l'abbigliamento è molto molto simile a quello di "Your mother should know",
Due cose importanti: qui trovate informazioni su Didsbury, mentre il duetto che cantano John e Paulie è questo. Dateci un'ascolto, anche perché è la versione femminile di quella che avete appena letto. Io personalmente lo adoro, ma sono curiosa di sapere anche il vostro parere.
Detto questo, ringrazio uno ad uno chi ha letto i capitoli precedenti e li ha recensiti, menzione specialissima -ruffiana- per le mie due preferite: Astoria McCartney & Paulmccartneyismylove. Inoltre, come al solito, un abbraccio e un ringraziamento speciale a Kia85, la mia beta, che mi tiene anche compagnia e mi permette di parlare con qualcuno dei Beatles <3
Ci vediamo presto, per il prossimo capitolo :3
Penny.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 5


 

Ebbene sì, quello che avevano davanti era George, la stella scesa sulla Terra alcuni anni prima, la persona che avevano cercato inutilmente per tutto il pomeriggio.
Paul mise subito in imbarazzo l'amico, assalendolo con un abbraccio caloroso. Dopodiché, cominciò a fargli domande: come stava, cosa faceva, come sopportava la pressione atmosferica terrestre così bene?
George si limitava a rispondere a monosillabi, e alla fine scoppiò a ridere.
"Non mi eri mancato affatto, Paul!" scherzò, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
John intanto lo guardava, incerto se interrompere quella scena oppure no. Una parte di lui si sentiva messa da parte, ed era geloso di vedere un rapporto così intimo tra i due. Ma era normale, in fondo si conoscevano da secoli. Non come loro…
"E tu sei il suo umano? Qual è il tuo nome?" George interruppe così i suoi pensieri, porgendogli la mano.
“John, John Lennon."
"Mi dispiace amico, ti è capitata la stella più rompiscatole dell'intero creato." Doveva aver percepito il suo disagio iniziale, perché con parole e gesti misurati e calmi, stava facendo di tutto per mettere John a suo agio.
"Che bello sapere che non sono tutte così! Tu mi sembri già più simpatico!" rispose con una smorfia divertita il ragazzo.
"E aspetta che ti racconti qualche bella storiella!"
La verità era che George aveva una serenità contagiosa, e il suo sorriso trasmetteva pace e voglia di amicizia. Che fosse una qualità reduce dal suo passato di stella? John lo conosceva da pochi minuti e già si sentiva suo amico. Paul intanto aveva il viso di una vivace sfumatura di rosso, e si mordeva il labbro, preoccupato dalla piega che aveva preso la conversazione.
"Ma insomma ragazzi, contegno!" esclamò infine, frustrato.
John si sforzò di non scoppiare a ridergli in faccia. La stella aveva un'espressione imbronciata ed orgogliosa in modo adorabile. Non che volesse o potesse ammetterlo, chiaro, ma quel pensiero gli si era fissato in testa, e pensò di scacciarlo con l'ennesima battuta.
"Senti George, non è che avresti voglia di farmi tu da stella? Questa rompe troppo e non so come rimandarla al mittente!" e così dicendo, si avvicinò quanto bastava per scompigliare i capelli di Paul, facendolo arrossire ancora di più.
George di tutta risposta sorrise a quella scena, e approfittò degli istanti successivi di silenzio per invitarli a casa sua: lì avrebbero trovato una minestra calda e un divano accogliente su cui dormire. Al solo sentir pronunciare una parola così morbida, John percepì la stanchezza piombargli addosso, e fu molto felice di accettare l’ospitalità del ragazzo.
Attraversarono tutta la parte più borghese di Didsbury, quella dove avevano girato poche ore prima senza successo, e arrivarono nel quartiere irlandese, più in periferia.
George mostrò ai due ragazzi un piccolo pub dai mattoni di un bellissimo verde smeraldo. Si trovava lì poche ore prima, quando un suo coetaneo era corso a chiamare lui ed un paio di altri ragazzi. A quanto pareva, in pieno centro paese, un duo di musicisti aveva attirato una gran folla, mescolando borghesi e operai, e facendoli ballare tutti insieme. La cosa gli puzzava di magia, non capiva il perché.
George, dunque, era accorso immediatamente, un po’ spinto dalla curiosità e un po’ da qualche birra di troppo, peccato che fosse arrivato in tempo solo per sentire l’ultima canzone. Ma la sorpresa di trovare Paul con la chitarra in mano era stata troppa.
“All’inizio pensavo di sbagliarmi, ci vedevo poco a causa della folla. Ma la tua voce, Paulie, è inimitabile.”
La stella aprì la bocca per rispondergli, quando fu interrotto.
“Eccoci alla mia reggia!”
John sgranò gli occhi: chiamarla casa era un gran complimento.
Era una delle tantissime dimore di operai della zona, dai mattoni rossi e dalle porticine scure. Già da fuori si notava però che era la più piccola della strada, tanto da avere una sola finestra.
I ragazzi capirono subito che non si erano sbagliati. L’ingresso era in comune con l’appartamento del piano di sopra e con quello del piano di sotto, e la “reggia” di George era composta solo da tre stanze: camera da letto, salotto e cucina comunicanti. Il bagno era all’esterno, nel piccolo giardino sul retro. Chiaramente, in comune anche quello con tutti gli altri.
John era immobile sulla porta. Non era mai entrato in una casa operaia, e si sentì profondamente stupido e fortunato allo stesso tempo.
Fortunato per quello che aveva a Liverpool, per la sua villetta grande e spaziosa, con una stanza da bagno all’interno, con un bel giardino curato. Stupido perché aveva passato troppi anni a voler scappare dalla sua vita, a lamentarsi di quello che aveva, mentre c’erano persone che con poco o nulla vivevano felici e grate. Prima gli Starr, ora George..
John si voltò immediatamente verso Paul, per studiare la sua reazione, e fu sollevato di vedere che non era stata tanto diversa dalla sua. Si era zittito, e il suo sguardo continuava a vagare da un angolo all’altro della piccola casa, senza tregua.
“Ma George..” riuscì a dire, dopo qualche istante. Il suo tono era basso, sia per l’ora tarda, sia per lo sgomento.
“Signor Harrison, le sembra questa l’ora di rientrare?” li interruppe una voce di donna, calda e sensuale.
L’attenzione di tutti si spostò verso la porta della camera da letto, da cui uscì una ragazza. Aveva all’incirca la loro età e sul suo bel viso, incorniciato da lunghi capelli biondi, risaltavano i grandi occhi azzurri.
La vestaglia da camera con cui era vestita faceva intendere che non si aspettasse degli ospiti, e cercò di nascondere l’imbarazzo mordendosi il labbro inferiore, mettendo in risalto la sua bocca carnosa.
Insomma, anche se mezza addormentata, era una visione paradisiaca. I due ragazzi si ammutolirono all’istante, e si sentirono un po’ a disagio davanti a quella presenza femminile così bella.
“Paul, John, vi presento mia moglie: Pattie Harrison!”
Moglie?!” esclamò Paul, sorpreso, sgranando gli occhi.
La reazione esagerata del compagno aveva fatto calare un silenzio imbarazzante, e John pensò di sdrammatizzare dicendo quanto George fosse fortunato ad essersi accaparrato una donna così bella. Quando poi lo vide avvicinarsi a lei per stringerla a sé e darle un bacio sulla fronte, non poté non pensare che fossero una coppia perfetta.
“Tesoro, le presentazioni: John e Paul. Paul è un collega, mentre John è un suo amico. Staranno qui per stanotte.”
La ragazza annuì e strinse la mano ad entrambi.
“Domani lavoro tutto il giorno, all’alba devo essere già fuori casa, quindi buonanotte ragazzi. Non fate troppo chiasso eh!” e sorridendo in direzione del marito, ritornò a letto.
“John, Paul, vi preparo una tazza di brodo, così possiamo parlare senza essere disturbati. Aspettatemi sul divano.”
La stella era estremamente curiosa di sapere cosa avesse fatto l’amico sulla Terra per tutto quel tempo. In realtà pensava più ad essere aggiornato su Pattie che alle domande su come tornare in cielo.
Si sedette accanto a John, e si preoccupò nel vederlo ombroso.
“Tutto bene, Jay?”
“Sono solo stanco, stellina. Molto stanco.” Disse, strofinandosi gli occhi chiusi.
Paul lo guardò per qualche istante e si trovò a sorridergli teneramente.
“Dovresti riposare allora.” Neanche il tempo di dirlo, che sentì i respiri dell’altro farsi più profondi.
Era tanto stupido volerlo accarezzare?
Era stupido voler appoggiare la testa sulla sua spalla e riposare, solo per qualche minuto?
Paul non ebbe una risposta a questa domanda, perché non appena si appoggiò a John, si addormentò all’istante.
 

“Amore così li svegli.” Era.. era la voce di George quella?
“Lo so, ma devo andare a lavorare! Hanno dormito così tutta notte?” Questa era una voce femminile, Paul ne era sicuro.
“Credo di sì. Li ho trovati nella stessa posizione di ieri sera.”
“Oh poveretti, si sveglieranno con il mal di schiena.”
“Sei incredibile, amore.”
“Ci possiamo fidare a lasciarli da soli in casa nostra tutto il giorno?” se solo avesse avuto la forza di aprire gli occhi, la stella avrebbe potuto anche mandare a quel paese quella donna mal fidente.
“Sì. Gli lascio un biglietto prima di uscire, e poi alle sei io sarò a casa.” 
“Va bene, buona giornata amore.” La ragazza se n'era andata. Il tonfo della porta d’ingresso lo fece svegliare definitivamente. 
Paul non era ancora abituato ai nuovi orari umani, il suo sonno era incredibilmente leggero e nonostante il corpo gli chiedesse di dormire ancora, la sua mente era già attiva.
Ora ricordava: si trovava a casa di George, e la voce femminile di prima era quella della moglie, Pattie.
Incredibile, il suo amico si era sposato. Chissà se era lei la famosa donna per cui si era fatto cacciare dal cielo!
Decise di aprire gli occhi e di alzarsi, un po’ perché cominciava a sentire davvero la schiena dolorante, un po’ perché voleva parlare con George finché John era ancora addormentato.
Già, John.
Lo sentiva ancora respirare profondamente sotto di lui. Sciogliere la posizione in cui si erano incastrati fu difficile, perché nonostante tutto, tra le braccia del giovane umano stava bene, ma si fece forza e si alzò.
Si diresse a passi leggeri in cucina, prendendo alla sprovvista il giovane amico mentre beveva del tè nero, rischiando di far cadere la tazza dallo spavento.
“Cristo, Paulie, vuoi farmi morire di infarto?”
La stella chinò il capo a mo’ di scusa e si sedette al tavolino accanto a George.
“Allora, di cosa dovevi parlarmi ieri sera?” la sua voce era roca, ma il suo tono era stranamente serio e preoccupato.
“No Paul, non chiedermelo. Non alle sei della mattina. Ora io finisco il mio tè e vado a lavorare. Stasera voi due mi aspettate a casa e ne parliamo tutti insieme, va bene? Pattie torna alle otto, avremo un paio di ore per discutere liberamente.” E si alzò. Alla stella non era sfuggito il fatto che George si fosse rabbuiato a quella domanda, e non sapeva se fosse solo colpa dell’orario o del discorso scomodo che dovevano affrontare.
Si salutarono con un cenno della mano e Paul si trovò all’improvviso solo e senza nulla da fare.
Moriva dalla voglia di rompere le scatole a John, di svegliarlo e stare con lui, ma non poteva... stava dormendo così bene! Gli faceva una gran invidia.
La sua pancia brontolò rumorosamente e si ricordò all’improvviso che era da un giorno che non mangiavano; la sera prima erano così stanchi da essersi dimenticati dei morsi della fame. Alzò lo sguardo verso la dispensa degli Harrison, ma con quale cuore poteva privarli del cibo, quando chiaramente avevano problemi economici?
Gli venne un’idea. Prese dalla tasca dei pantaloni qualche scellino e si diresse verso il centro paese.


John si svegliò quando il sole era già alto nel cielo. Avrebbe dormito ancora, ma era stato svegliato dai morsi della fame e dai rumori sinistri che emise il suo collo dolorante.
Si stropicciò gli occhi e fece fatica a mettere a fuoco la realtà che lo circondava. Non era a casa sua, né a casa dei suoi amici di Liverpool. Dove diavolo era?
Neanche il tempo di pensare ad una risposta plausibile, che si trovò davanti la faccia di Paul, spaventosamente vicina alla sua.
Ah già, ora ricordava.
“Finalmente ti sei svegliato! E’ quasi ora di pranzo!”
“Dio, perché urli?”
“Non sono Dio, Jamal, sono Paul.”
Era una fortuna che John non sapesse dove nascondere il cadavere di una stella a Didsbury, o l’avrebbe ucciso. Oh sì, l’avrebbe fatto eccome.
“Cosa vuoi, Paul?”
“Mi annoiavo terribilmente. Ho fatto di tutto per svegliarti, ho persino fatto cadere accidentalmente qualche pentola, ma niente, ancora russavi.”
“Io non russo! Ehy, aspetta… quelle sarebbero ‘qualche pentola’?”
Già dal divano e nonostante i suoi problemi di miopia, poteva ben vedere che sul pavimento della cucina era stata rovesciata tutta la dispensa.
Si mise le mani nei capelli, incerto se ridere o piangere. Alla fine scelse di ridere, e fu difficile smettere.
“Avevi altri motivi per cui distruggere la casa del tuo migliore amico, o l’hai fatto solo per noia, stellina?” disse quando riuscì a ritornare serio.
Paul non aveva interpretato bene le grasse risate che l’altro si era fatto alle sue spalle, e lo squadrava con superiorità.
“Non mi prendere in giro, umano, ti ho preparato la colazione.” Gli rispose con tono stizzito, facendo un piccolo cenno del capo verso il tavolo della cucina.
“Davvero? Oddio, potrei baciarti, stellina!” esclamò John, alzandosi con uno scatto e fiondandosi verso il cibo.
E Paul, arrossendo, sgranò gli occhi e lo seguì con lo sguardo, dimenticandosi in un solo istante di essere arrabbiato.

La giornata era piovosa e cupa, e decisero di passarla in modo tranquillo e casalingo. Dopo il modesto pranzo, si limitarono a strimpellare la chitarra e a riposarsi.
Quella giornata di pausa era inaspettata nei piani di John, dopo tre giorni via da casa, pensava di essere già di ritorno a Liverpool. Ma in fondo non poteva dire che gli eventi avessero davvero seguito i suoi piani, da quando aveva lasciato la sua città di origine. E la cosa non gli dispiaceva affatto.
Gli scocciava ammetterlo, ma Paul non era poi così male.
Soprattutto perché, forse rispecchiando un po’ il clima, quel pomeriggio sembrava più riflessivo e pacato. Gli stava insegnando un brano semplice, per mettere in pratica gli accordi imparati, ma ogni tanto si incupiva, e diventava difficile concentrarsi sulla canzone, per John. La stella aveva un’ombra, in quei suoi grandi occhi, che non gli aveva mai visto prima. Forse era preoccupato di non riuscire ad esaudire il suo desiderio?
“Tutto bene, stellina?”
Paul si destò finalmente e spostò l’attenzione su John. Fu come se lo mettesse a fuoco di nuovo.
“Sì, mi sento solo stanco, molto stanco. Credo sia colpa della pioggia.” 
“Vuoi un tè?”
“Sì, grazie.”
La verità è che quella del tè era solo una scusa per John per allontanarsi un po’ da Paul, per lasciarlo da solo coi suoi pensieri e per poter a sua volta stare da solo con i suoi.
Era così distratto e preoccupato, in realtà, che aveva messo sulla stufa il bollitore senza l’acqua, e la cucina si riempì di fumo e puzza di bruciato. Cosa diavolo gli stava succedendo? Perché sentiva il bisogno di tenere lo sguardo fisso su quella dannata stella? Stella che di solito passava il tempo a rompere le scatole e ora sospirava e basta, senza aprir bocca?
Alla fine quando tornò sul divano, stringendo in mano le due tazze bollenti, sentì che quella che stava suonando Paul era una ballata irlandese, lenta e nostalgica.
So fare thee well, my own true love, 
And when I return, united we will be. 
It's not the leaving of Liverpool that grieves me, 
But, my darling, when I think of thee.
 
“L’hai inventata tu?” e di nuovo, per John, fu come svegliarlo da una trance.
“No, è una ballata di parecchi anni fa. E’ stata scritta da un marinaio che stava partendo per l’America. Non chiedermi come faccio a conoscerla, vorrei saperlo anche io!” Rise nervosamente e si strinse nelle spalle, prima di riprendere a canticchiarla.
“Hai veramente una voce splendida, Paul. Proprio non capisco perché non volessi cantare.”
In preda all’imbarazzo, la stella abbandonò la chitarra sul lato vuoto del divano e si fiondò su una delle due tazze, bevendo un lungo sorso di tè.
Peccato fosse ancora bollente, e finì con il rovesciarlo tutto a terra, in preda allo shock.
“Ma perché non mi hai detto che era lava? Santo cielo, cos’è questa moda terrestre di avere tutto caldo? Cosa deve fare una povera stella per riscaldarsi mentre fuori viene giù il diluvio universale?”
John, di tutta risposta, scoppiò a ridere.
“Oh, bentornato Paul!”


Dopo qualche ora, finalmente George rientrò dal lavoro. Buttò le chiavi sul tavolo della cucina e si gettò sul divano, con un profondo sospiro. Si arrotolò una sigaretta, la accese e inspirò a lungo.
Paul si voltò a guardarlo, e per qualche minuto si sforzò di stare in silenzio, per lasciarlo riposare. Dopo un po’ il bisogno di sapere era troppo, e dovette parlare.
“Ne vale la pena, George?”
L’altro si limitò a guardarlo perplesso, non capendo a cosa si riferisse.
“Ne vale la pena, stare qui tra gli umani, sgobbare tutto il giorno per portare a casa due soldi da spendere in tasse e cibo, quando in cielo trovi tutte le comodità possibili e hai una vita perfetta?”
“Dimmelo tu, se ne vale la pena.”
Stavolta era il turno di Paul di essere perplesso, e così George decise di fargli un’altra domanda.
“Dov’è il tuo amico?”
“E’ andato a comprarsi il tabacco, perché?”
“Perché così so quanto possiamo parlare liberamente.” E con un gesto rapido, gettò il mozzicone fuori dalla finestra, lasciando che il vento e la pioggia lo sperdessero tra le strade di Didsbury.
Paul di tutta risposta si raddrizzò con la schiena, come uno scolaro richiamato davanti al preside. La verità è che aveva aspettato e temuto quel momento per tutto il giorno.
“Cosa vuoi dirmi?”
“Devo sapere cosa sai dell’esprimere i desideri.”
Ammettere all’amico che non sapesse assolutamente niente bruciava, bruciava moltissimo. Senza riuscire a controllarlo, il suo capo si irrigidì in un moto di ostentato orgoglio. La verità è che non credeva di aver bisogno di saperlo. Aveva insistito tanto per poter scendere sulla Terra, da non aver pensato di chiedere consigli prima.
Voleva solo fare qualcosa di diverso, come tutti i suoi amici, e non poteva umiliarsi mostrando le proprie lacune e debolezze. Ma non era stato comunque messo in imbarazzo dapprima da John e ora da George?
Che sciocco era stato!
“Come temevo. Non ne sai niente” Disse l’amico, come a leggergli nel pensiero.
Non provò nemmeno a giustificarsi o a difendersi. Serrò la mandibola così tanto da farsi male, e aspettò che George gli parlasse.
“Le stelle scendono sulla Terra per esaudire il desiderio del loro protetto. Come avrai visto, intervengono dei poteri magici che permettono alle stelle di facilitarsi il compito e aiutare l’umano, ma la verità è che esaudire un desiderio non è così semplice. Una stella deve essere in grado di raggiungere il suo massimo splendore e lì, lei e il suo protetto, pensando intensamente allo stesso desiderio, permetteranno a questo di realizzarsi. Ora, ti chiederai tu, come si raggiunge il massimo splendore?”
Paul scrollò le spalle, questa risposta la sapeva!
“E’ facile, è uno dei poteri di una stella. E’ uno dei più difficili, ci vogliono secoli di pratica.”
“E questo è quello che ti dicono i ‘capi’, amico. La verità è che c’è un altro modo.”
Il discorso fu interrotto brutalmente dalla porta che si spalancava, facendo entrare un John completamente zuppo e arrabbiato.
“Tempo di merda. Merda.”
George sussultò visibilmente. Proprio ora che stava arrivando alla parte importante del discorso, non poteva interrompersi. Aveva solo bisogno di qualche minuto…
“Jeremy, vai in camera a cambiarti. Credo che potrai prendere in prestito una camicia, vero?” Disse Paul, mosso da una curiosità morbosa, prendendolo sottobraccio e accompagnandolo, onde evitare che declinasse l’offerta.
La verità è che John bramava dei vestiti puliti e asciutti tanto quanto il suo amico bramava la fine della storia, e non si lamentò affatto della proposta. La stella dunque lo lasciò davanti all’armadio e tornò di corsa sul divano, dove si sedette più vicino a George.
“Allora, come posso fare?”
“Solo quando sarai immensamente felice potrai raggiungere il massimo splendore. Devi essere così felice da dimenticarti persino di essere al mondo.”
“E come posso fare? E’ impossibile!”
“Cosa è impossibile?” John era già tornato, e gli era capitato alle spalle, con i capelli fradici e arruffati, una camicia che si chiudeva a fatica e dei pantaloni che avevano visto tempi migliori.
“Amico, sei troppo magro!” disse a George, vedendolo ridere di quella scena.
“No, dai Jorgen, sei… bellissimo.” Commentò Paul, con un largo sorriso, cercando di non scoppiare a ridere.
John, frustrato, girò i tacchi e si diresse verso la cucina per prepararsi qualcosa di caldo.
“Ecco, così è un buon inizio.” Gli sussurrò nell’orecchio George, e la stella lo fissò perplesso per qualche istante.
A cosa si stava riferendo?





Angolo dell'autrice:

Buonasera a tutti!
Comincio già da subito con le informazioni riguardanti questo capitolo: la canzone cantata da Paul, è questa. Mi sono divertita moltissimo a cercare qualche ballata tradizionale, e ne ho cambiate parecchie nel corso della stesura della trama, ma alla fine questa è capitata per caso ed è stato amore a primo ascolto! Spero vi piaccia tanto quanto è piaciuta a me :3 
Questo capitolo è un capitolo di transizione, un "corridoio" insieme al prossimo... ci saranno dei dialoghi importanti, ecco perché mi sento buona (che sia colpa del Natale?) e ho deciso di pubblicare ben due capitoli nel corso di questa settimana! Questo oggi, il prossimo giovedì sera!
Sono inoltre felicissima di comunicarvi che ho praticamente finito di scrivere tutta la storia, e sono arrivata a 10 capitoli! Con questo siamo dunque a metà!
Detto questo, passiamo alla parte noiosa. Noto con piacere che le visite sono numerose, ma i pareri restano pochi... non mi interessa molto del numero delle recensioni, vorrei solo sentire qualche lettore silenzioso cosa ne pensa della storia, se gli piace, se non gli piace, il perché, cosa potrei migliorare. Ecco perché rinnovo l'invito: vi prego, scrivetemi, anche in messaggio privato.
Nell'attesa di ricevere qualche feedback in più, ringrazio le meravigliose personcine che ogni settimana recensiscono i miei capitoli con puntualità e fedeltà: Astoria McCartney & Paulmccartneyismylove. Inoltre, menzione speciale, specialissima alla mia beta preferita, nonché sostegno serale, Kia85. Grazie di cuore ragazze.
Che dire? Ho parlato fin troppo! Ci si legge giovedì!
Anya

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 6
 


“Vediamo se ho capito bene: questi fantomatici capi sono delle presenze, degli spiriti che voi percepite sempre, ma che non vedete nemmeno quando siete in cielo, e che controllano il vostro operato su questo pianeta.”  Disse John, pesando parola per parola.
“Sì, ma anche noi a fatica sappiamo qualcosa di più su di loro. Ci relazioniamo con loro come con gli altri nostri simili, ed è un modo così magico che non saprei spiegartelo.” Rispose George, stringendosi nelle spalle. Era la prima volta che spiegava questi argomenti ad un umano e non immaginava potesse essere così difficile esprimere dei concetti simili.
“Ma non avete un corpo quindi?” il ragazzo si sentiva parecchio stupido. Perché non gli era venuto in mente prima di farle a Paul? Il suo compagno ne parlava in termini così semplici che nella sua testa si era formata un’immagine da favola, ben lontana dalla verità.
“No, siamo delle anime, passami il termine. Percepiamo le altre presenze attorno a noi, percepiamo questo pianeta e i suoi abitanti, percepiamo i capi, ma questo non ha nulla a che vedere con le relazioni, intese nel  senso umano del termine. Alle stelle piace considerarsi libere, ma la realtà dei fatti è che non lo sono davvero. E’ un’esistenza alquanto bislacca, se ci si pensa: passiamo metà della nostra vita a guardare il vostro pianeta, metà ad acquisire poteri magici per voi e per le vostre speranze. Non facciamo altro, e la verità è che non ce ne rendiamo davvero conto, finché non scendiamo qui.” Commentò amaramente George, spegnendo con foga il mozzicone della sigaretta.
“E sono questi capi a mandarvi sulla Terra ad esaudire il desiderio, appena percepiscono che ne viene espresso uno?”
“Esatto. Ma non rispondono a tutti, solo ai più bisognosi viene concesso questo dono straordinario.” Intervenne Paul, mordendosi l’unghia del pollice. Non era del tutto sicuro che John avesse capito quello che gli avevano appena spiegato, ma doveva provare a dargli fiducia.
“In base a cosa scelgono chi, tra tutti voi, scende sulla Terra?”
“Di solito selezionano i più esperti o, più semplicemente, i più vecchi. Le due cose spesso coincidono, in realtà. Ma può capitare che provino a dare speranza anche a qualche stella più inesperta, se questa si rivela abbastanza convincente o petulante.” Rispose pazientemente George, indicando con un rapido cenno del capo l’amico accanto a lui, prima di proseguire con la spiegazione.
“Perciò, nella caduta, la stella acquisisce un corpo, e diventa simile in tutto e per tutto ad uno di voi. Nel fisico e nei sentimenti, il che è la parte più pericolosa. Generalmente i più esperti sono più freddi e razionali, proprio come sulla Terra sono gli adulti. Più una stella è giovane, più è in preda all’ebrezza di queste nuove sensazioni umane e rischia di farsi del male e farne alla persona per cui ‘lavora’.”
“Ecco perché Paul era così scorbutico e lamentoso all’inizio. Era ubriaco di sentimenti!” commentò John, ridendo sguaiatamente, facendo ridere anche George. 
“No, lui è così di natura, amico!”
“Possiamo continuare a parlare di cose serie, per favore?!” intervenne la stella in questione, incrociando le braccia. Ma era l’unico ad essere preoccupato dalla piega che avevano preso le cose?
“Va bene, va bene.” Gli fece il verso John, prima di proseguire col suo ragionamento, “Questi cosi, questi capi, non vi lasciano mai soli. Controllano che lavoriate bene, vi favoriscono nella realizzazione del desiderio, dandovi dei piccoli poteri all’occorrenza utili, giusto? Come hanno fatto con Paul e il suo linguaggio forbito, o il suo sapere suonare la chitarra.”
“Bravissimo. Non tutti gli umani accettano bene la nostra presenza, e talvolta ci creiamo identità false per poter entrare in contatto con voi. Inoltre, moltissimi desideri sono espressi a titolo generale: ‘vorrei essere felice, vorrei trovare il vero amore’… come possiamo sapere cosa vi rende appagati, se non vi conosciamo? Instaurare un buon rapporto con i terrestri è la prima cosa importante da fare. Il resto avviene più facilmente, per merito dei poteri di cui parlavi tu. Una volta creata una relazione di fiducia, alla stella non resta altro da fare…”
“Che raggiungere questo ‘grande sbrilluccichio’, giusto?” concluse John ad alta voce, grattandosi la testa.
“Non è uno sbrilluccichio, Jay, è ‘splendore’. E’ diverso.”
“Va beh, stellina, non fare la schizzinosa. Hai capito!”
Seguì un silenzio strano. Paul si sentiva chiaramente nervoso a causa di quella conversazione lunga e impegnativa e non faceva nulla per dissimularlo. Non che si aspettasse che fosse una passeggiata, ma nemmeno una cosa così complessa da non capire nemmeno cosa dover fare! Inoltre, fosse stato per lui, non avrebbe mai condiviso con un umano tutte quelle informazioni dettagliate sulla loro vita. Aveva paura di un giudizio negativo, perché certo, l’esistenza di una stella poteva non essere il massimo, ma non era poi così male come era stata appena dipinta! E in fondo, che alternative avevano? Se tutti avessero seguito l’esempio di George, in cielo sarebbe rimasta solo la luna!
John invece era sulle spine per un altro motivo; e alla fine si decise a parlare.
“Sentite, io vi devo confessare una cosa. Ieri sera, dopo aver cantato… beh, stavi brillando stellina. Io credevo di essermi sbagliato, credevo fosse un effetto del sudore o delle luci, ecco perché non ti ho detto nulla. Sai, non dormivamo da giorni, avevamo fame, potevo aver preso un abbaglio!”
“Stavo brillando? E non me l’hai detto? Cosa aspettavi?!”
George d’istinto rimproverò Paul per la pressione continua che esercitava sull’altro ragazzo. Non era utile, e in fondo John era colpevole solo di aver chiesto aiuto ad una stella cadente. Non si meritava un simile atteggiamento.
“Ragazzi, non capite? Abbiamo bisogno solo di sapere cosa stava facendo mentre brillava, e siamo a posto. Dopodiché, basterà rifarlo, pensare intensamente al desiderio e questo si realizzerà!” Disse George, soppesando bene le parole, in quel clima così teso. E riuscì perfettamente nel suo scopo: la nuova prospettiva, così ottimista, fece sentire un pochino meglio entrambi i ragazzi.
“Avevamo appena finito di cantare insieme, davanti a tutte quelle persone.” Disse John alla fine, deglutendo rumorosamente. Era arrossito vistosamente, mentre sentiva su di sé gli sguardi degli altri due.
Non che fosse in imbarazzo, è che si era ritrovato a pensare che sarebbe brillato anche lui, dopo quell’esibizione.
Ciononostante, non gli piaceva affatto sentire il battito accelerato del suo cuore. Era così forte che lo sentivano fino a Manchester, ne era sicuro.
“Allora è la musica che ti fa brillare, eh Paul?” gli chiese George, avvicinandosi all’amico e rivolgendogli uno sguardo serio.
“Credo di sì. Alla fine la sentivo sempre, dal cielo, ma non ho mai avuto occasione di farla. Potrebbe essere una cosa che mi piace fare e che mi esce bene, sì.” Concluse la stella, annuendo pensieroso e rivolgendo un rapido sguardo a John. Si fissarono intensamente per qualche istante, prima di essere interrotti bruscamente da George.
“Johnny boy, mia moglie tra mezz’ora termina il suo turno e con questo tempaccio ho paura a lasciarla da sola, ma sono troppo stanco per uscire. Ti spiacerebbe tornare là fuori e portarmela a casa sana e salva?”
“Ma…”
“Portati l’ombrello dietro, lei non ce l’ha e ho paura si ammali. Grazie, amico.” Concluse con un tono che non ammetteva repliche, e si concentrò sul rollarsi un’altra sigaretta.
Alla fine al povero ragazzo non restò altro che arrendersi, cambiarsi vestiti e uscire fuori sotto la pioggia.
Di nuovo.
Paul seguì la scena preoccupato, ma decise di non intervenire, intuendo che George avesse bisogno di una scusa per parlargli da solo.
Non appena si chiuse la porta con un tonfo, i suoi timori si rivelarono fondati.
“Che cazzo stai facendo, Paul?”
“Come prego?”
“Cosa cazzo stai facendo con il tuo umano?” il suo celebre autocontrollo era sparito del tutto, e la sua voce era severa e grave.
Ma la stella continuava a non capire a cosa si riferisse l’amico.
“Non riesco a…”
“No, hai capito perfettamente. Ora, rispondimi.”
“Senti George, siamo solo amici! Sì, mi sta simpatico e sto bene con lui ma non provo niente, io…”
“Non dire cazzate Paul, cinque minuti fa stavi brillando al solo vederlo. E quei sorrisini, quelle smorfie… non dirmi bugie.”
“Piantala, non è vero! E soprattutto non usare questo tono con me!” si era alzato dal divano con uno scatto involontario. Si sentiva gli occhi bruciare, e l’aria stava diventando dannatamente pesante.
“No Paul, non capisci.” E così dicendo George si alzò a sua volta, coprendo velocemente il metro che li separava, “Qui non siamo in cielo, amico. Con le stelle è diverso, non abbiamo sesso, non abbiamo problemi e lo sai. Ma qui, caro mio, qui non puoi innamorarti di un uomo. Se scoprono che provi certi sentimenti potrebbero anche sbatterti in carcere. Qui, sulla Terra, due maschi non possono stare insieme. L’indice era puntato verso il suo cuore, come ad indicare l’unico vero colpevole. Paul mantenne il contatto visivo, ma sentiva il bisogno di aumentare di qualche centimetro la distanza tra loro due.
“George, smettila per favore. Non sai di cosa stai parlando.” Gli mancava l’aria.
“No, invece, lo so. Ci sono passato, sai cosa ho dovuto attraversare perché mi sono innamorato di un’umana! Queste cose non sono  permesse, lassù. Io me ne sono fregato, perché ero sicuro di poter vedere il mio amore realizzato qui, sulla Terra. Ma se pensi di poter avere lo stesso lieto fine con il tuo John, hai sbagliato tutto.”
Per un instante era come se quel piccolo sentimento che si stava per formare nel suo cuore, pesasse come un macigno. Non che Paul avesse voluto che nascesse, ma l’aveva fatto, e non era stato capace di controllarlo.
“Senti, George… io non provo niente per lui, lo conosco solo da tre giorni.”
Il ragazzo lo osservò, perplesso. Non che gli credesse, ma in quell’istante realizzò che recitare il ruolo del cattivo per proteggere il suo migliore amico era più difficile di quanto pensasse. Sentiva già i muscoli della faccia rilassarsi, e ignorò l’impulso di abbracciare Paul, così indifeso e debole davanti a lui.
“Bene, ti conviene non provare niente per lui. Non è accettabile manifestare certi sentimenti, e potresti finire con pagarne conseguenze gravissime. Sia sulla Terra che in cielo. Se non vuoi farlo per te, fallo per me e per chi ti vuole bene.”
Paul annuì gravemente. Aveva capito, certo, ma George doveva sapere quanto difficile era fingere di non provare quel tipo di affetto, di cercare di cancellarlo e di chiudere il proprio cuore.
“Va bene. Ci proverò.”
“Ora, ho un’altra cosa da dirti. Accomodati, per favore, non sarà facile.”
La stella strinse i pugni e si sedette, già stanco di quel confronto, maledicendo il momento in cui aveva deciso di scendere sulla Terra.


Quando John e Pattie tornarono, con i vestiti inzaccherati e zuppi di pioggia nonostante l’ombrello, trovarono uno strano silenzio ad accoglierli, ed entrambi intuirono subito che qualcosa non andava tra i due amici.
Che avessero litigato? Fortunatamente per loro, avevano fatto tappa al pub e avevano portato quattro birre e del fish and chips per festeggiare la serata insieme.
Pattie diede un lungo bacio al marito, e gli chiese sottovoce come mai fosse così triste, ma John captò poco della risposta, mentre si cambiava vestiti.
Provò a fare la stessa domanda a Paul, ma l’unica risposta che ricevette fu:
“Non c’è niente che non va, Jonas! E ora mangiamo, ho una fame!”
Con il cibo e un po’ d’alcool la situazione fortunatamente tornò quella del giorno prima. Pattie raccontò storielle divertenti sul marito, sul lavoro e sul quartiere. Finita la cena poi, dalla borsa estrasse una sorpresa.
“Mentre mi aspettava, John si è quasi fatto investire dalla carrozza del mio capo, e ci ha fatto amicizia. Li ho trovati sotto il porticato a parlare fitto fitto e neanche si sono accorti di me! Deve aver fatto colpo, perché ci ha regalato questo!” esclamò, mostrando a tutti un pacchetto pesante.
Lo scartò sul tavolo, e si rivelò essere un Whisky scozzese di discreta qualità. Tutti applaudirono, e durante il brindisi, John prese la parola.
“Brindiamo, amici, perché il capo di Pattie, tale signor Epstein, non solo si è sentito in dovere di regalarmi l’alcool, ma si è anche offerto di dare un passaggio a me e a Paul per il nostro ritorno a Liverpool!”
“Davvero?” esclamò meravigliata la stella.
“Davvero davvero. Basterà farsi trovare domattina alla fabbrica Epstein e lui ci porterà a casa con la sua carrozza borghese e lucida.”
A questa notizia seguì un altro applauso, che portò ad un tintinnio di bicchieri lungo parecchi minuti.
Brindarono alla salute di tutti gli Epstein, di tutti i Lennon, degli Harrison, dei Boyd e infine pure degli Starr. Finiti i brindisi era praticamente finita anche la bottiglia di Whisky, ed erano tutti molto allegri.
“Miei cari amici, sarà meglio che ognuno si ritiri nelle proprie stanze. Domattina ci troveremo tutti qui in cucina per congedarci. Grazie della magnifica serata, siete un pubblico meraviglioso.” Esclamò Paul, inchinandosi davanti ad una platea immaginaria.
“Oh, sta zitto!” esclamarono tutti e tre gli altri in coro, ridendo della scena. Alla fine però, pian pianino, gli sbadigli cominciarono a farsi più frequenti, e dopo una lunga e difficoltosa buonanotte, si separarono.
“Sai stellina, non mi stupirei se stanotte fosse concepito un piccolo Harrison!” disse sottovoce John, mentre si sistemava sulla sua parte di divano.
“Oh, non credo proprio, Josh.” Rispose amaramente l’altro, e si sistemò nell’angolo opposto al compagno.
Stettero immobili e in silenzio per qualche istante, dopodiché John cominciò a muoversi sul divano, faticando a trovare una posizione adatta a dormire.
“Ma vuoi star fermo? Mi gira la testa già abbastanza.” esclamò alla fine Paul, scocciato, dandogli un leggero calcio.
La risposta di John arrivò dopo qualche minuto, e così sottovoce da essere quasi impercettibile.
“Stella, dormiresti vicino a me anche stanotte?”
“Cosa?”
“Mi è piaciuto dormire vicini.”
“Sei ubriaco.”
“Molto, ma lo sei anche tu. Vieni qui con me.”
E Paul, con un profondo sospiro, obbedì.
Lo sapeva perfettamente, sarebbe arrivato il momento in cui si sarebbe pentito di essersi lasciato travolgere dai sentimenti per John. Sentimenti che, per quanto lo negasse, crescevano in lui sempre più dirompenti, sempre più difficili da ignorare. Le parole di George, per colpa dell’alcool, si erano trasformate in sagome colorate che gli riempivano la testa e gli occhi, e lo avevano tormentato per tutto il tempo, quella sera. Non importava quanto riuscisse a fingere di non averle sentite, erano sempre lì, pronte a riempire ogni piccolo momento di distrazione.
Ecco perché si sorprese di come, preso posto accanto a John e appoggiata la testa sul suo petto, percepisse subito il calore dell’altro diffondersi sul suo corpo, riempiendo il suo cuore e persino i suoi pensieri, spegnendo in un solo colpo ogni dubbio, incertezza e paura.
Sarebbe arrivato il momento in cui si sarebbe pentito di essersi lasciato andare a quei dannati sentimenti, oh sì, ma per il momento non gliene importava granché. Perché, in un solo istante, sulla Terra, la stella aveva trovato un angolo di casa, di cielo.
Poche ore prima aveva chiesto a George se valesse la pena vivere una vita di sofferenza e fatica, solo per stare con la persona che si ama, e l’amico aveva subito rigirato la domanda a lui, senza rispondergli. Ora aveva capito il perché.
Ora aveva la risposta.

La mattina arrivò troppo presto per tutti gli abitanti della casa. Si trovarono nel piccolo cucinino, scostando con nausea le bottiglie vuote, per bere parecchie tazze di tè. Persino il tintinnio delle tazze dava fastidio.
Paul e John radunarono a fatica le loro cose, e scoprirono con gioia che aveva smesso di piovere durante la notte. I vestiti erano ancora umidi, ma si sarebbero asciugati durante il viaggio.
Gli dispiaceva lasciare quel piccolo appartamento, e salutarono emozionati George.  Dopodiché si avviarono verso la fabbrica Epstein, gelando a causa del freddo vento mattutino. Avevano circa mezz’ora di strada, dovendo raggiungere la periferia di Manchester; tuttavia il cammino era quasi piacevole, sapendo che li aspettava una comoda carrozza.
Inoltre, realizzarono sollevati, di lì a poche ore sarebbero stati a Liverpool, finalmente!
“Liverpool significa il mio letto, la mia casa e Mimi! Non vedo l’ora di fartela conoscere Paul.”
“E Cynthia?” si intromise Pattie, con un sorriso divertito.
John arrossì e sgranò gli occhi. Non che si fosse dimenticato di lei, certo. Come poteva, con la stella accanto a lui? Solo, sperava di poter rimandare un po’ il desiderio, stando di più con Paul. In fondo era sceso dal cielo per lui, almeno che si godesse qualcosa della Terra!
Mancavano pochi metri alla fabbrica, erano immersi in una fiumana di donne che, a passo di marcia, si dirigeva verso l’ingresso dello stabilimento. Normalmente questa scena avrebbe divertito John – tutte quelle donzelle! – ma stavolta gli procurò solo un magone al cuore.
Era una scena destabilizzante e grigia: le divise tutte uguali, pulite, ordinate, i capelli tutti raccolti allo stesso modo, lo sguardo fisso verso il cancello.
Solo Pattie si fermò e li fece fermare a loro volta, portando un po’ di scompiglio nella fila ordinata.
“Che sciocca, vi devo raccontare del signor Epstein. Venite ragazzi, forza, non posso fare tardi!” E si affrettarono a nascondersi in un angolo poco fuori la fabbrica.
“Cosa ci devi dire?” chiese incuriosito Paul, cercando di abbassare la voce il più possibile.
La ragazza si sentiva chiaramente in imbarazzo, e nella sua testa stava pesando parola per parola per rendere la conversazione più facile.
“Lui conduce, diciamo così, una vita libertina. Non si è sposato, nonostante sia l’unico erede degli Epstein, e nonostante abbia ormai più di trent’anni continua a vivere all’insegna del… piacere.”
“Non vedo cosa ci sia di diverso dagli altri ricconi come lui.” Disse John, scrollando le spalle. Non riusciva a capire perché Pattie fosse così sconvolta. Certo, era una povera operaia di soli diciott’anni, poteva trovare deprecabile quella condotta, ma la verità era che tutti i ricchi dirigenti delle industrie di Manchester e Liverpool amavano circondarsi di donne, gioco o droghe, solo che non lo dicevano in giro.
“No, non capite. Lui ha una fabbrica femminile perché i suoi genitori hanno cercato di impedirgli di avere alle sue dipendenze operai uomini. Gira voce che abbia tenuto una condotta deplorevole con alcuni ragazzi suoi sottoposti.”
Ora John cominciava a capire e annuì sempre più violentemente. La stella, invece, era un po’ più dura d’orecchi e continuava a non comprendere quale fosse il vero problema.
“Il signor Epstein è un pervertito, un omosessuale. Lui, insomma, è attratto da altri uomini!” Concluse infine stizzita Pattie, arrossendo ancora di più e attirando l’attenzione di alcune colleghe che passavano lì vicino.
“E quindi?” Paul si diede dello stupido per non aver capito prima cosa intendesse la ragazza, e si colpì la fronte con il palmo della mano. Ricordava il discorso tenuto solo il giorno prima, ma doveva sapere il perché di tanta intolleranza su quel pianeta.
Pattie e John si voltarono verso di lui, battendo le palpebre.
“E quindi dovete stare attenti che non vi faccia del male!”
“Che ci provi, a toccarci! Lo stendo con un pugno, quello schifoso pervertito. Nessuno ha pensato di arrestarlo?” rispose immediatamente John, alzando il tono della voce e buttando in fuori il petto.
Le sue parole ferirono come lame il suo compagno di viaggio. Sentire delle frasi così dure e cariche di disgusto era una vera sofferenza per Paul. Non ci voleva credere. Non il suo amico, il suo John…
Ma in fondo non era quello che George gli aveva detto il giorno prima? Non era quello da cui voleva proteggerlo? Non poteva amare un altro uomo, non sulla Terra. Non era possibile che John provasse il suo stesso perverso sentimento. 
“Paul, tu sei molto bello. Hai un viso femminile, una pelle delicata e gli occhi grandi… potresti attrarlo molto, fisicamente. Stai attento!” il ragazzo annuì al monito di Pattie, poco convinto, e la seguì dentro la fabbrica, con la testa bassa e tanta nostalgia del suo cielo.
John notò il suo sguardo triste, e pensando fosse preoccupato per il viaggio, si avvicinò e gli diede un piccolo buffetto sulla guancia.
“Non ti preoccupare, stellina. Ci penso io a proteggerti.”






Angolo dell'autrice:

Buonasera lettori e lettrici! Come promesso, ecco l'aggiornamento, dopo solo tre giorni! E, come promesso ad alcune fedelissime lettrici, ecco qualche spiegazione in più sulle stelle! 
Di nuovo, dopo aver salutato due personaggi... ci prepariamo a trovarne altri ;) Ci terrei a specificare che in alcuni pezzi prima George, poi John e Pattie dicono cose spiacevoli sugli omosessuali. Non c'è bisogno che aggiunga che questi pensieri non rispecchiano né il mio parere personale, né quello dei due originali, vero? Considerate il periodo storico in cui è ambientata. Non erano tempi facili... e non lo sono stati fino a poco fa, purtroppo.
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto quanto il precedente, perché è stato modificato e stravolto fino ad un secondo prima di pubblicarlo! E mi sono obbligata a pubblicarlo, sennò avrei rimandato per cambiare qualcos'altro! Ahah!
Ecco perché, di nuovo, ci terrei ad avere qualche parere da parte vostra, anche via messaggio privato. Soprattutto perché, con queste spiegazioni nuove, vorrei sapere se sono stata sufficientemente chiara! Insomma, non siate timidi <3
Per quanto riguarda il prossimo aggiornamento, non so darvi una data precisa. Vorrei pubblicare una piccola OS di Natale che sto scrivendo, quindi per il settimo capitolo potreste aspettare un pochino di più. Ma promesso, se la storiella natalizia non dovesse uscirmi, avrete la vostra stellina ;)
Ok, sono stanchissima e sto straparlando. Di nuovo. Passiamo ai ringraziamenti, che è meglio!
Grazie, grazie e ancora grazie a tutte le meravigliose persone che leggono questa storia, ma soprattutto a chi ha recensito: Astoria McCartney e Paulmccartneyismylove in primis, perché sono le mie fedelissime sin dall'inizio; poi Paperback White che mi si è persino messa a leggere Mclennon per me e infine Workingclassheroine, che è una scrittrice meravigliosa e se non avete letto qualcosa di suo siete brutte persone e dovete rimediare immediatamente. Immediatamente.
Come al solito, ultimo ma non ultimo, uno yellow submarine di ringraziamenti a Kia85, che è una beta fantastica e una grande compagnia per le mie serate <3
Ci si legge presto, promesso!
Anya~

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 7



Il signor Epstein era un bell’uomo, estremamente elegante e distinto nel suo completo costoso e ben stirato.
Nella testa di Paul si era formata un’immagine inquietante di un uomo grasso e disgustoso, sporco e dall’aspetto volgare. La sorpresa era dunque stata enorme.
Anzi, si dimostrò sin da subito un gran cavaliere, facendo il baciamano a Pattie, augurandole un buon lavoro e chiedendo ai due ragazzi se volessero fare colazione. John aveva perso gran parte del suo entusiasmo, e si dimostrò molto freddo e distaccato nei confronti del giovane uomo, cercando di distanziarsi il più possibile.
La stella, perciò, non si sorprese affatto quando Brian – così si chiamava – gli chiese di sedersi accanto a lui per poter parlare meglio durante il viaggio.
“Il tuo amico mi sembrava più predisposto alla chiacchera ieri. E’ un lunatico forse?”
Paul si grattò il naso e scrollò le spalle, non sapendo cosa rispondere. Si sentiva in imbarazzo per l’atteggiamento del compagno, e decise di ignorare bellamente gli avvertimenti ricevuti poco prima. Che ci provasse pure con lui, cosa gliene importava! Li stava aiutando, non si poteva trattarlo così solo perché aveva preferenze diverse dal ‘normale’. Che poi, ‘normale’ cos’era?
Dunque fece accomodare il signor Epstein accanto a sé, tenendo John di fronte, e partirono.
Finite le chiacchere formali ed esauriti tutti gli argomenti banali, stettero in silenzio per un po’.
Paul era felice di poter stare da solo con i suoi pensieri, si sentiva stanco e aveva tante, troppe informazioni in testa, che vorticavano ad un ritmo frenetico, come se fossero ancora in preda ai fumi dell’alcool.
George gli aveva parlato di cose importanti che non sapeva bene come affrontare, e ciò lo spaventava. Inoltre, sentiva la sua autostima calare sempre di più. Quanto gli mancava il cielo, si sentiva così sicuro di se stesso lassù!
Nonostante la sua testa fosse rivolta verso il finestrino, concentrarsi si stava rivelando più difficile del previsto, con lo sguardo del signor Epstein fisso su di lui. Persino John dopo qualche minuto se ne accorse, e cercò di sviare l’attenzione del giovane uomo, indicando un punto a caso della campagna inglese e dicendo di aver intravisto un cormorano.
Non che sapessero come era fatto un cormorano, ma chiaramente non c’era nulla, e quella distrazione valse a ben poco, perché Brian ritornò a fissare la stella.
“Sapete, avete delle ciglia lunghissime. La vostra fidanzata ve le invidierà molto.” Disse infine, sorridendogli teneramente.
Paul si voltò, perdendo il filo dei suoi pensieri, e si morse il labbro.
“Non ho una fidanz-” ma non riuscì a terminare la frase, perché fu interrotto da un’esclamazione di John.
“Non trovate che sia meravigliosa la campagna inglese alla luce del primo sole mattutino? Ah, come diceva Wordsworth? ‘Il mio cuore si riempie di gioia e balla con i narcisi’…”
“E così non siete fidanzato, Paul? Mi permettete di chiamarvi Paul?” proseguì il signor Epstein, avvicinandosi alla stella e turbando sempre di più John, che perseverava nel suo monologo.
“Diceva anche una cosa come ‘Le stelle brillano e splendono nella via lattea e muovevano le loro teste in una danza allegra’.”
“Ma certo, solo Paul andrà benissimo.” E sorrise, civettuolo.
“Non è bizzarra la mente umana? A scuola non riuscivo a ricordare mezza poesia e ora ne ricordo quasi una intera!” concluse infine John, ridendo sguaiatamente alla sua stessa affermazione e sentendosi terribilmente a disagio.
“Bizzarra davvero.” Gli rispose infine Brian, spostando su di lui lo sguardo, come a ricordarsi solo in quel momento della sua presenza.

Alla fine era passata solo qualche ora, quando John sbottò all’improvviso.
Forse aveva esaurito la pazienza per colpa del caldo o della fame, d’altronde si stava avvicinando mezzogiorno.
Non che gli desse fastidio il fatto che Paul e il signor Epstein non smettessero di parlottare a bassa voce delle cose più assurde, no no. Era solo che gli dispiaceva che il suo amico ricevesse questo genere di molestie. In fondo, Paul era una stella, cosa ne sapeva di questi uomini malvagi e perversi che si sentivano attratti dal loro stesso sesso? Probabilmente in cielo questo genere di mostruose preferenze non esistevano.
Se rideva e scherzava con il signor Epstein era solo per gentilezza ed educazione, dentro di sé stava implorando John di venire in suo soccorso, era ovvio. E il suo compito era quello di proteggerlo.
Ecco perché all’ennesimo risolino, si alzò in piedi di scatto, facendo traballare la carrozza.
“Vi prego, signor Epstein, di smetterla di molestare il mio amico in questo modo osceno.”
Brian e Paul si voltarono di scatto verso di lui, sgranando gli occhi. La stella arrossì violentemente, e d’istinto si coprì la faccia con le mani, in preda all’imbarazzo.
“Cosa stai facendo, Junior?”
“No, vi prego, Paul, lasciatelo continuare. Sono curioso di sapere cosa sto facendo che non va’ al vostro amico.”
“Avete capito benissimo cosa intendo. Voi giocate con i ragazzi indifesi, ma non vi permetterò di fare altrettanto con Paul. Le persone come voi mi disgustano! E ora, fermate la carrozza e fateci scendere. Proseguiremo a piedi.”
“No.” Rispose semplicemente Brian. Era immobile e il suo sorriso divertito si era spento, facendo spazio ad un’espressione terribilmente seria.
“No?”
“No. E ora vi prego di sedervi, voi ed io dobbiamo fare un discorso.”
La stella intanto provò ad aprire bocca per scusarsi e chiedere all’amico cosa diavolo gli stesse passando per la testa, ma non riuscì a spiaccicar parola. Era sconvolto dal comportamento di John, non se l’aspettava.
Certo, aveva sentito solo poche ore prima quanta poca tolleranza dimostrasse, ma non si aspettava certo che passasse all’attacco diretto, soprattutto verso una persona che li stava aiutando.
“Siediti, Jasper. Per favore.” Riuscì infine a dire, pregandolo a sua volta, in preda alla vergogna e alla preoccupazione.
E così, John cedette. Si accomodò sulla carrozza, incrociò le braccia, si concentrò sul panorama che scorreva e attese che Brian iniziasse a parlare.
Non che avesse molta voglia di ascoltarlo.
“Lo so cosa dicono di me a Manchester, signor Lennon. Li sento sparlare mentre passo per strada o mentre vado in chiesa. Dicono che sono un sadico, un perverso, un pederasta, un travestito. Potrei continuare per ore. La verità è che, signor Lennon, io sono principalmente un esteta, e come tale, ho sempre amato le cose belle.
In pochi sanno di come io abbia dato il mio primo bacio ad una splendida ragazza irlandese, dai lunghi capelli rossi e dagli occhi verdi. Ancora in meno sanno che l’anello della mia defunta madre è stato regalato ad un ragazzo che mi amava, e che questo mondo ha giudicato e condannato per il suo amore, spingendolo a gettarsi nell’Irwell alla tenera età di 19 anni. Nessuno sa quante lacrime io abbia versato per lui, forse nemmeno io.
La gente giudica, signor Lennon. Ti guarda e ancor prima di sapere il tuo nome, ha già un’idea su di te. Crede che sapendo un dettaglio della tua vita possa permettersi di guardarti dall’alto al basso, sputando sentenze sul tuo conto. Sentenze malvage e false, soprattutto. Mio padre mi ha impedito di gestire un’azienda maschile, perché giravano voci sul mio conto che sodomizzassi i miei dipendenti, credendo che la mia fosse una perversione verso gli uomini. La verità è che alcuni di loro, scoperta la mia preferenza, hanno approfittato di me e della mia debolezza, per poi usare questi atteggiamenti a loro favore. Altri invece, hanno cercato di sedurmi in preda alla disperazione, per poter portare a casa qualche centesimo in più alle loro famiglie. E’ vero, alcuni di loro sono stati pagati di più per il loro lavoro, ma la verità è che spesso aumentavo i loro stipendi purché non si abbassassero a simili comportamenti.
Con questo non voglio dire che sono stato sempre innocente, o che ho sempre tenuto un atteggiamento degno di un signore, non sono un santo, sono fatto di carne anche io. Non penso però di meritarmi un simile attacco diretto né da parte vostra, né da parte di nessun’altra persona. Un ben più nobile uomo non disse forse ‘chi è senza peccato scagli la prima pietra’?”
Fece una piccola pausa, cercando di tranquillizzare la voce tremante con un paio di sospiri profondi. Le mani erano chiuse a pugno, come per trovare la forza di esternare quelle parole che per troppo tempo erano state sepolte nella sua testa, nel suo cuore. Quando finalmente ricominciò a parlare, il suo tono era più fermo e calmo, le frasi più pesate e meno irrazionali.
“Mio caro John, ti do del tu ora che ho bisogno che mi ascolti e che mi creda, perché per me rappresenti molto più di un semplice ragazzo a cui do un passaggio per Liverpool. Tu per me ora sei la speranza verso il futuro, coi tuoi diciotto anni e tutta una vita davanti, quindi ascoltami, ti prego. Io non sono un sodomita, un pervertito, un omosessuale.
Io sono una persona che ama, e che quando lo fa non guarda né il conto in banca, né il sesso. Io non amo un corpo, amo lo spirito, il carattere, il riflesso nei suoi occhi, il colore dei suoi capelli; amo la persona in quanto tale, come stropiccia la bocca quando dice il mio nome, come sospira sulle mie labbra dopo un bacio. Che sia uomo, donna, che m’importa, se l’amo e se mi ama?”
Quante volte aveva ripetuto dentro di sé quelle parole? L’aveva forse scritte in una lettera al ragazzo che diceva di aver amato? Le aveva sussurrate al padre, nel bel mezzo di un litigio? Paul non lo sapeva con certezza, ma sentiva che per la prima volta Brian le diceva ad uno sconosciuto, ed era come se le gridasse al mondo intero. Questa immagine lo commosse profondamente, d’altronde, chi se non lui poteva capire lo struggimento di quel giovane uomo?
John teneva lo sguardo fisso fuori dal finestrino, ma la sua mascella non era più serrata e tutto il suo corpo si stava rilassando, segnale che aveva davvero seguito il discorso di Brian.
Paul si trovò a guardarlo sempre più di frequente, attendendo una reazione che ritardava ad avvenire. Non che si aspettasse un’epifania straordinaria, ma una risposta qualsiasi sarebbe bastata per dare anche a lui una minima speranza. Si diede dello stupido, e gli venne da picchiare quella piccola parte del suo cuore che si scaldava pensando a John.
Il signor Epstein intanto si limitava a lisciarsi i pantaloni e a sistemarsi i capelli già in ordine, come per scaricare la tensione accumulata durante quella conversazione.
Fortunatamente per loro, il cocchiere interruppe il silenzio dichiarando che sarebbe seguita una piccola pausa, e di lì ad un’ora sarebbero arrivati a Liverpool. Meno male, pensò Paul, l’aria si stava facendo irrespirabile.
Scesero dalla carrozza velocemente, e la stella approfittò del meraviglioso boschetto lì vicino per sgranchirsi le gambe. Quando tornò, dopo qualche minuto, trovò Brian appoggiato ad un albero, intento a fumarsi la pipa, pensieroso.
“Il tuo amico è rimasto nella carrozza. Non credo di aver fatto la cosa giusta, con lui prima.”
La stella lo guardò a lungo, prima di rispondergli. Non ci aveva fatto caso, ma gli occhi di quell’uomo erano i più tristi che avesse mai visto. Un pesante velo li ricopriva, e si trovò a chiedersi come dovevano essere belli, quando non avevano conosciuto tutti quei dolori.
“Io l’ho trovato un discorso bellissimo.” Disse infine, prendendo una piccola erba spiga e mettendosela in bocca.
“L’ho fatto per un motivo, sai? Non mi comporto con tutti i ragazzi attraenti come ho fatto con te. E soprattutto non parlo di queste cose con tutti quelli che mi attaccano. Ma tu… ho visto lo sguardo che hai verso di lui. Tu mi capisci, tu sai quello che ho passato.”
Il ragazzo fu preso in contropiede, ma cercò di non darlo a vedere. Poteva fidarsi davvero? E di un umano che non conosceva? Si limitò a stringersi nelle spalle e a guardare verso la carrozza, sorridendo amaramente.
“Paul, guardami.” E lo prese per il braccio, “Hai speranza. Fidati. Ho visto come reagiva, ho visto come percepiva le parole che gli dicevo. E’ solo che… amico, non è facile per lui. Non è facile per nessuno, in realtà. Ma c’è qualcosa, nei suoi occhi. E questo qualcosa mi dice che una volta scalfita la paura che lo ricopre, lui riuscirà a lasciarsi andare. Devi solo essere paziente, ci vorrà del tempo.”
La stella gli rivolse un mezzo sorriso, liberandosi dalla sua presa.
“La verità, Brian, è che io non ho tempo.” E ritornò verso la carrozza, sentendo lo sguardo del giovane uomo bruciare sulla sua nuca più del sole di mezzogiorno.

Una volta ritornati ai loro posti di partenza, il cocchiere avvisò loro che sarebbero ripartiti a breve, e consegnò al padrone il cestino del pranzo. John all’inizio rifiutò educatamente con un cenno del capo, ma quando i brontolii della sua pancia si fecero troppo forti, si decise a cedere.
Il pranzo, seppur nato come modesto, era una vera prelibatezza per i due ragazzi. Assaggi di formaggi inglesi e francesi, accompagnati con marmellate, salse e del pane.
Nel prendersi un cucchiaio di conserva di lamponi, John toccò per sbaglio la mano del signor Epstein, e pensò che fosse il momento giusto per ricominciare a parlare.
“Scusatemi.”
“Ci mancherebbe, per così poco.”
“No, ehm, scusatemi per prima.”
Paul non poté che sorridergli, grato. Doveva essergli costata molta fatica dire quella semplice parola, ma ce l’aveva fatta, ed era fiero di lui. Anche Brian era rimasto sorpreso da quella affermazione, e gli scappò una piccola risata liberatoria.
“Non ti preoccupare. Ricordati di questa conversazione però, va bene?”
John annuì di risposta, mordendosi il labbro. Alcune frasi gli erano rimaste così fisse in testa da poterle vedere vorticare davanti agli occhi, non le avrebbe dimenticate facilmente. Alla fine si trovò a guardare Paul, sorridendogli di riflesso.
Sperava sapesse che se si era abbassato a chiedere scusa, l’aveva fatto soprattutto per lui. Perché fosse fiero, perché non lo giudicasse in malo modo, perché…
Già, perché?
Aveva notato come la sua intolleranza avesse messo in imbarazzo Paul, e per un istante, si era trovato a pensare che forse era il suo punto di vista, così chiuso e spaventato, ad essere sbagliato. 
John aveva sempre amato vedersi come un libertino, in realtà. Leggeva De Sade di nascosto da zia Mimi sotto le coperte, illuminato solo da un candela, e aveva sempre sognato di condurre una vita “senza freni”. Ogni notte il cielo come coperta, una donna diversa in ogni città, oppio e fumi speziati ad avvolgerlo mentre scriveva le sue avventure… va bene, forse la sua era una visione romantica alquanto irrealizzabile, specie perché il suo collo gli ricordava che dormire sotto le stelle non era proprio così poetico.
Ma cosa era successo a quel sognatore ardito per trasformarlo in un ragazzino terrorizzato, non appena uscito da Liverpool? Il discorso di Brian aveva toccato un tasto dolente, e John si trovò a chiedersi: cosa gli faceva davvero paura? E soprattutto, cosa rischiava di perdere, lasciandosi frenare dalla fifa?
Non poté trovare una risposta a quelle domande, perché Paul attirò la sua attenzione, lamentandosi per una fitta dolorosa che l’aveva colpito ad altezza del cuore. In un solo colpo tutta la sua mente era rivolta verso la stella, a John non importava nient’altro.
Quanto stava cambiando la sua vita, quel viaggio?

Finito il pranzo, Brian raccontò loro come era nata l’impresa Epstein e come fosse appassionato di musica. Paul per ringraziarlo dunque, pensò di suonargli qualcosa per allietare gli ultimi minuti di viaggio.
Il tempo volò rapidamente, forse per merito di quell’accompagnamento, e in un battito di ciglia si trovarono davanti al molo.
John scese con un balzo dalla carrozza, facendola traballare tra le lamentele della stella.
Finalmente Liverpool! Con la sua dannata puzza di pesce e con il suo aspetto banale e grigio!
“Non è una meraviglia?” esclamò John, aprendo le braccia e annusando l’aria a pieni polmoni.
Brian rise di riflesso dall’alto della sua carrozza, aspettò che scendesse anche Paul e scusandosi per la fretta con cui ripartiva, li salutò. Strinse la mano ad entrambi, e fu felice di notare come il primo a ringraziarlo calorosamente fosse proprio John.
“Ragazzi, è stato un piacere. Vi auguro tutta la fortuna di questo mondo, ve la meritate.” Si congedò così il giovane uomo, mentre la carrozza ripartiva lentamente.
La stella poteva giurare di averlo visto ammiccare nella sua direzione, e forse non era l’unico.
“Ma hai visto con quanta sfrontatezza ti ha lanciato l’ultimo sguardo? E’ proprio senza vergogna!!” commentò amaramente il suo compagno, incrociando le braccia.
“Oh, andiamo, Jerry. Casa ci aspetta! C’è o non c’è un desiderio da realizzare?” e John fu felice di dargli ragione, per una volta.

Avevano affiancato tutto il molo, il caldo gli faceva rimpiangere la comodità e la velocità della carrozza.
John in realtà calcolò a mente che solo una decina di minuti li separava da zia Mimi, ma fece di tutto per allungare il più possibile il percorso e quando si trovarono a girare in tondo, persino Paul se ne accorse.
“Ok, cosa sta succedendo qui? E’ colpa della Terra o è colpa tua, Josley?”
Il ragazzo si grattò il capo e rise imbarazzato, colto sul fallo.
“Sono io! E’ che… non voglio tornare a casa. Il che è assurdo, lo so, perché sono tre giorni che non penso ad altro, ma all’improvviso… non voglio più.”
“E perché non me l’hai detto prima?”
“Non sono cose che uno può andare in giro a dire con tranquillità, stellina. Andiamo, sono un uomo io!”
Paul rise, vedendolo tergiversare in modo così adorabile e imbranato. Alla fine gli venne un’idea.
“Facciamo così. E’ un patto. Io ti racconto una storia e tu, nel mentre, ci porti a casa.”
Lo squadrò perplesso. Cos’era, un marmocchio? Però poteva rivelarsi una buona idea, anche se lo faceva sentire incredibilmente, dannatamente stupido.
“Ci sto.”
“Allora, era una notte buia e tempestosa – perché nelle storie lo è sempre, o non c’è magia – e una bellissima stella, una delle migliori della volta celeste, è affacciata a scrutare il suo pianeta preferito, la Terra. Passa le sue notti così, a studiare gli umani, ad ammirarli e ad invidiarli.
Proprio non ci sta bene su nel cielo, ed è un peccato, perché tutti gli vogliono bene! Insomma, dicevamo. Durante una notte buia e tempestosa, guarda giù e vede una terrestre. Agli occhi di tutti sembra una delle tante, ma non per lui, no no. Ha lunghi capelli biondi, grandi occhi azzurri, e corre verso casa coprendosi con una piccola giacca. Sta piangendo, piove a dirotto e non vede dove sta andando, così finisce per inciampare e cadere.
Questa umana dunque resta lì, a guardare il cielo per minuti così intensi da sembrare ore, e la stella si ritrova a pensare ‘oh, se solo esprimesse un desiderio! Cosa non darei per asciugarle quelle brutte lacrime salate!’.
Neanche il tempo di pensarlo, che puff… la ragazza sta pregando il cielo di farla felice.
La stella si trova ad implorare i suoi capi, deve essere lui ad esaudire il desiderio di quella bellissima terrestre, non gli importa a quale prezzo.”
John nel frattempo aveva rallentato il passo, ma aveva finalmente svoltato nella strada giusta. Solo un altro isolato e avrebbe rivisto la sua casa.
Paul, vedendolo ancora interessato, proseguì il racconto.
“Alla fine i capi si convincono, e decidono di mandare proprio quella stella dalla fama eccelsa.
Aveva esaudito desideri a tempi di record, sai? Era la migliore, e sì, quella ragazza si meritava davvero di essere felice, perché ne aveva già passate tante.
Finalmente la stella precipita, e non c’è bisogno che ti dica cosa succede, no? Già lo sai. Atterra vicino alla casa della bellissima ragazza, attende l’arrivo del giorno e si presenta davanti alla sua porta.
Lui però è furbo ed esperto, non ha bisogno di dire che è una stella, ha già in mente un piano. Si inventa un’identità nuova e usando un pizzico di magia ottiene la fiducia della ragazza, che prontamente lo ospita nella dimora che divideva con un vecchio zio scorbutico. Ottenuta la giusta confidenza, deve sapere cosa non va nella sua vita per riuscire a renderla felice.
Così la giovane pian pianino, ora dopo ora, giorno dopo giorno si confida con la stella, e i due ormai sono diventati grandi amici. Ma il tempo di una stella è limitato, e il desiderio non sembra riuscire ad esaudirsi.
Una mattina come le altre, dunque, riceve un avviso: gli rimangono solo ventiquattr’ore per realizzare il sogno di quella ragazza, o sarebbe stato rispedito in cielo e punito. Non poteva ricevere notizia più nefasta!
Non può separarsi da quella meravigliosa umana,  si è inevitabilmente innamorato di lei… senza contare che la vita sulla Terra gli piace troppo! Cosa fare dunque?
La notte stessa, decide di scrivere una lettera alla ragazza, e di tornare in cielo. Là avrebbe parlato con i capi, avrebbe ammesso le sue colpe, avrebbe persino accettato una punizione, pur di chiedere di poter stare per sempre su questo pianeta.
Oh, se solo avesse pensato a quanto sarebbe stato difficile convincerli. Non c’è spazio per l’amore individuale, tra le stelle. Si può amare il mondo, si può amare il cielo, si può amare la vita, ma non si può amare solo un’altra persona. E’ inconcepibile!
Ma la stella è più furba di loro e il legame con quella meravigliosa umana è troppo forte per essere sconfitto. Dopo essere stato imprigionato, scappa dalla volta celeste, e si fionda sul suo pianeta adorato. Nella fretta, però, è atterrato dall’altra parte del continente, e per una volta – forse l’unica – si trova a maledire la grandezza delle città e la vastità dei mari.
Incontra un giovane marinaio, che lo aiuta fino al ritorno in Inghilterra. A lui la stella ruba il nome, un nome che gli ricorderà per sempre la generosità terrestre.
Dopo quasi un anno di viaggi, finalmente è riuscito a tornare nella città dove abitava la meravigliosa ragazza bionda. Ma il cielo è furbo e non ha perdonato la sua fuga. Aveva nascosto la vendetta nei piccoli eventi casuali di tutto il suo pellegrinaggio: una porta chiusa, un vento sfavorevole, la pioggia battente, la risposta scontrosa di un passante. Tuttavia ora, ora che solo pochi metri lo separano dal suo grande amore, il cielo lo lascia libero, presentandogli il più grande prezzo da pagare.
Non possono impedire che il sentimento sia ricambiato, perché se c’è una cosa con cui non possono avere a che fare, è con un affetto di quella straordinaria portata; ma possono punirlo comunque, e in un modo ancora più infingardo. Non appena la stella rientra nella vita dell’umana, lei si trova a perdere lo zio, e con esso tutti i suoi averi, restando nella miseria più nera. E quando finalmente i due riescono a risollevarsi finanziariamente abbastanza per sposarsi, la giovane scopre di non poter avere figli.
La stella sarà dunque costretta a vivere per sempre con il fardello di essere in parte causa della più grande felicità e in parte causa della più cupa infelicità del suo grande amore.
Ecco cosa succede a chi va’ contro il volere del Cielo.”
Quando la storia finì, erano entrambi fermi da qualche istante davanti ad un piccolo cancello.
“Sai, Paul, per quel che vale… credo che George non rimpianga la sua scelta.” Commentò infine John, abbassando la testa.
Davanti alla perspicacia dell’umano, la stella rise. In realtà, tutti in cielo sapevano cosa aveva fatto George, ma molti dei dettagli più oscuri erano sempre stati celati, e ora che l’amico glieli aveva raccontati, lo perseguitavano come fantasmi.
Averli condivisi con il ragazzo lo faceva sentire molto meglio, più leggero.
“Sai, credo anch’io. Sembrava davvero felice con Pattie.”
John gli sorrise, lo prese sotto braccio, e con un cenno indicò la dimora davanti a sé.
“E ora che ne dici, entriamo?”
“E andiamo!” concordò ridendo Paul.






Angolo dell'autrice:

Salve, lettori e lettrici. Innanzitutto spero che abbiate passato un bel Natale e che abbiate mangiato abbastanza (ahahaha scherzo). 
Ecco finalmente il capitolo 7, in cui il rapporto tra John e Paul si sta evolvendo sempre di più.. che il discorso di Brian stia facendo ragionare un po' quel testone di un Lennon? MAH.
Inoltre, finalmente si chiarisce bene il background tra George e Pattie. Quanto amo quei due, nella vita. Erano poco belli? ;__; 
La poesia che John cita è la più famosa di Wordsworth, e penso che chiunque se la sia dovuta sorbire a scuola, ma per chi di voi ha avuto la fort- emh, sfortuna di non impararla a memoria, eccola qua.

Bene, passiamo ai ringraziamenti di routine. Intanto grazie a tutti coloro che leggono questa mia fanfiction, le visualizzazioni del primo capitolo hanno superato le 300, e questa cosa mi ha commosso non poco. Quindi tantissimo amore a chi legge e rilegge ogni volta la storia, e grazie anche a chi ha letto la mia OSchifezza natalizia
Inoltre, un grazie a chi ha recensito il capitolo precedente, e siete stati ben 6! Lasciate che vi abbracci uno ad uno: McLennon, Queen S Obladioblada, Paperback White, PaulMcCartneyismylove e Workingclassheroine. Vi meritate tanto amore e tanti cioccolatini.
Infine, come al solito ultima, ma MAI in ordine di importanza: Kia85, che è la beta migliore di Pepperland. Tantissimi cioccolatini a lei.
Ho detto tutto, ci leggiamo nel 2015, con il capitolo 8!
A very new year a tutti voi! (per citare John)
Anya.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 8



 
La chiave era, come sempre, nascosta sotto la statuetta di una rana. Era stato proprio John a fare quel piccolo capolavoro con l’argilla, parecchi anni prima, ed era stato molto felice quando zia Mimi l’aveva messo in giardino. Non se l’aspettava, e pensava fosse solo un contentino pur di farlo stare zitto e fermo. Invece gli anni passavano, e la rana era ancora lì, custode delle chiavi di casa.
Entrarono e si diressero a passo spedito verso la cucina, e furono ben felici di trovarvi una caraffa d’acqua con cui dissetarsi e una mela da addentare.
Sembrava non esserci nessuno ad aspettarli, e questo confortò entrambi i ragazzi. Ma, neanche il tempo per John di pensare a quanto fosse fortunato che zia Mimi fosse ancora al lavoro, che sentì la porta d’ingresso aprirsi con uno scatto.
“Chi va là?” la voce di donna era forte e sicura di sé, anche se chiaramente cercava di celare la preoccupazione del tornare alla propria dimora e non trovare più chiuso a chiave.
Doveva aver chiesto ai vicini di avvisarla nel caso avessero visto movimenti sospetti, diavolo di una zia!
Alla fine, John trangugiò l’ultimo bicchiere di acqua, fece cenno a Paul di stare fermo lì dov’era, e decise di palesarsi, uscendo allo scoperto, braccia alzate in segno di resa.
Mimi sgranò gli occhi, davanti a quella visione, e coprì con passi nervosi e veloci la distanza che la separava dal nipote, per dargli un sonoro ceffone in pieno viso.
“John Winston Lennon!”
“Mary Elizabeth Smith.”
Si squadrarono, e per un istante l’aria fu carica di tensione e frasi non dette. Nessuno dei due voleva abbassarsi a parlare per primo, ed era come assistere ad un duello.
Alla fine, fu Mimi a cedere per prima.
“Puzzi terribilmente.” E questo era il suo modo per dirgli ‘bentornato a casa, mi sei mancato’.
John la abbracciò forte, e le disse nell’orecchio di doverle presentare una persona.
La donna lo squadrò, perplessa. L’ultima volta che l’aveva sentito dire una cosa simile, si era presentato a casa con i peggiori compagni di classe possibili, e si ostinava a frequentarli tuttora! Non riusciva a capire quanto poco fossero adatti a lui?
Il ragazzo trotterellò verso la cucina, e tornò trascinando per la manica della camicia un ragazzo più o meno della sua età, dalla stessa aria scombussolata e disordinata, con grandi occhi marroni e completamente vestito di bianco. Certo, a voler essere pignoli, i suoi pantaloni ora erano di una terribile sfumatura di beige, e la camicia aveva visto giorni migliori, ma in generale non sembrava poi essere così male.
“Salve, signora Smith. Sono onorato di conoscerla, mi chiamo Paul, Paul McCartney.” Disse, facendo un leggero inchino.
In realtà la stella non sapeva poi molto della vecchia zia, John si era limitato a fargli un breve riassunto pochi minuti prima, mentre entravano in casa. L’idea di trovare un cognome fittizio, invece, gli era venuta sul divano di casa Harrison, perché se c’era una cosa di cui John era certo, era che Mimi non si sarebbe accontentata di un solo nome. E, ironia della sorte, i McCartney erano famosi insegnanti privati di musica, a Liverpool. Non c’era famiglia nobile che non fosse passata per la loro scuola e non avesse imparato da James o da Mike a suonare il clavicembalo, Smith inclusi.
Il cognome e l’eventuale grado di parentela convinse Mimi a fidarsi solo in parte; c’era ancora l’abbigliamento che la disturbava, ma avrebbe approfondito il discorso più tardi con Paul – o come si chiamava.
“Piacere mio.” Disse, porgendo la mano, e la stella si affrettò a baciarla con delicatezza. La donna la ritrasse subito con un gesto meccanico e si avvicinò al nipote.
“Ora, filate al piano di sopra, fatevi un bagno e rendetevi presentabili per ora di cena. Io devo tornare al lavoro per il momento, ma sappiate che non la scamperete. Ho ancora bisogno di sapere un bel po’ di cose da te, Winston.”
John studiò lo sguardo della zia per qualche istante, dopodiché con un rapido cenno invitò Paul a seguirlo al piano di sopra. Con un profondo sospiro, fece intendere che avevano ancora un paio di ore di grazia.
  
Quando Paul uscì dal bagno, si sentì profondamente a disagio nel muoversi in una casa così bella ed elegante, ma doveva ammettere che quella semplice vasca di acqua fredda e profumata lo aveva rigenerato. Seguì dunque la melodia stonata che proveniva dalla camera da letto e si sistemò per l’ennesima volta il ciuffo bagnato con un gesto nervoso.
Addosso aveva i vestiti smessi di John. La camicia gli andava un po’ larga, mentre i pantaloni erano corti, scoprendogli parte della caviglia. Ciononostante per lui era allo stesso tempo strano e affascinante indossare degli abiti non ‘ufficiali’, qualcosa che non gli ricordasse ogni momento che era una stella. Con addosso quei vestiti sembrava un umano a tutti gli effetti, e questo lo faceva sentire stranamente bene. Alla fine trovò il coraggio e aprì la porta, facendosi vedere da John.
“Salve.” Abbozzò timidamente, guardandosi i piedi.
Il ragazzo era sdraiato sul letto, tutto preso a strimpellare con la chitarra la canzone imparata il giorno prima.
“Oh salve, straniero. Chi sei e cosa hai fatto del mio amico?” esclamò, sorridendogli.
“Scemo.”
“Vieni qua, ti faccio posto.” Disse infine, mettendosi a sedere in modo composto.
La stella lisciò il lenzuolo e si accomodò. Solo così vicino notò che John aveva addosso gli occhiali da vista.
“Bei vetri, amico.”
“Grazie, fanno parte del mio look da intellettuale snob.” Commentò ironico, togliendoseli.
“No, rimettili, ti donano davvero. Non ti prendevo in giro.” e John, obbediente, li ricalcò sul naso.
Cominciarono subito a suonare insieme, e la stella notò con piacere che il ragazzo migliorava a vista d’occhio. Meglio così, gli rimaneva poco tempo per insegnargli.
Bevve un lungo sorso di tè,  per scacciare i brutti pensieri, e si perse a farsi accarezzare dalla brezza che entrava dalla finestra. Quando sentì lo sguardo fisso dell’altro su di lui si girò, preoccupato.
“Che c’è, Jeff? Ho qualcosa sulla faccia?”
John, di risposta, si ridestò dal torpore e scoppiò a ridere, imbarazzato.
“Niente, niente. Pensavo che sarebbe bello se fosse sempre così.  Io e te, in camera mia, che facciamo musica insieme.” Poi si morse il labbro, come se avesse effettivamente detto più di quello che avrebbe voluto e dovuto.
La dichiarazione sconvolse Paul, e di riflesso vide le sue mani che stavano cominciando a brillare.
No, non poteva! Se si fosse illuminato davvero, il ragazzo davanti a lui avrebbe capito che non era solo la musica a renderlo dannatamente felice. Avrebbe capito che la stella provava qualcosa per lui, dannazione.
Così, senza pensarci troppo, disse la prima cosa che gli passava per la testa.
“Potresti farla con Cynthia, coi vostri bambini. Insegnare loro a suonare la chitarra, il pianoforte… ”
Bel colpo, pensò il suo cuore, colpendolo con una fitta dolorosissima.
“Ah, sì, sì. Cynthia, giusto.”
“Dovresti farmela conoscere. Sai, per il desiderio e tutto il resto.”
“Beh, perché affrettare le cose? C’è tempo, e ormai è ora di cena. Che male c’è a stare un altro po’ così?”
“Già, che male c’è?” concordò Paul, guardandolo intensamente. Oh, se solo avesse potuto leggergli nella mente, sapere cosa pensava in momenti come quelli, in cui lo sentiva tuffarsi dentro i suoi occhi.
La stella si morse il labbro, stringendo i pugni per impedire a se stesso di abbracciarlo, stringerlo, sentire quei capelli ramati sotto le sue mani, annusargli il collo, che profumava così tanto di sapone. E fu una fortuna che dal piano di sotto zia Mimi li richiamò con tono severo, perché non sapeva quanto avrebbe resistito.

La cena che li aspettava era una delle cose più inglesi che ci fosse: piselli bolliti, purè di patate e un paio di cucchiai di fagioli. Nonostante i brontolii della fame, la stella non riuscì ad addentare niente perché Mimi cominciò subito ad attaccarlo con alcune domande.
“Allora, che legame di parentela ti lega ai McCartney di Liverpool, Paul?”
“Sono un nipote. Ho studiato fino all’anno scorso presso un’accademia privata ad Amburgo, in Germania, ecco perché non sono mai stato partecipe agli eventi mondani della mia famiglia.”
Bella mossa, si complimentò mentalmente John, abbuffandosi di purè. Stava mangiando come un maiale, se ne rendeva conto, ma più teneva la bocca occupata, più era difficile che la zia lo interrogasse a sua volta.
“Capisco, quindi parli fluentemente tedesco?”
“Ja, naturlich.” Grazie mille, poteri magici, pensò intensamente Paul, mentre beveva un sorso d’acqua per guadagnare tempo.
“E dimmi, caro, cosa ti lega alla fuga senza senso e senza cervello di mio nipote?”
Eccolo lì, il clou della storia, il loro punto debole. Avevano pensato a diverse versioni della loro avventura, ma la verità era che facevano acqua da tutte le parti. Nessuna avrebbe retto il giudizio severo di Mimi.
“Zia, lascialo mangiare in pace, per favore. E’ un ospite!” intervenne infine John, riempiendo quei secondi pesanti di silenzio.
“Allora dimmelo tu, Winston. Avanti, sono curiosa. Cosa ti ha trascinato lontano da casa nel bel mezzo della notte, con un’urgenza tale da lasciarmi solo un bigliettino sgrammaticato? Cosa ti ha tenuto via da qui per quattro giorni, facendomi quasi morire di crepacuore?”
“Zia…”
“No, ora me lo dici, e ti conviene usare una buona scusa. Intanto sei in punizione, signorino. Punizione severissima. E ora parla, o ti invito ad andartene di qui.”
“Signora Smith, è colpa mia. Sono arrivato a Liverpool via nave ad ora tarda, tardissima, e dovevo andare a Manchester per ritirare un’ingente somma di denaro lasciatami in eredità da mia zia Mary, ma non sapevo a chi chiedere aiuto. Sono stato anni in Germania, ho lasciato l’Inghilterra che ero un bimbo, non ricordavo niente. Ho incontrato casualmente suo nipote all’uscita di un pub e gli ho offerto una ricompensa se mi avesse accompagnato fino là.
Purtroppo i parenti ci hanno trattenuto qualche giorno di più, ma spero sia fiera di sapere che è stato tenuto alto il nome dei Lennon e degli Smith, e che non esagero se dico che potrebbe arrivare un’offerta vantaggiosa, di qui a breve.”
Paul concluse la sua storia mantenendo lo sguardo alto e fiero, e, zittito l’astio famigliare con la sua intelligente bugia, decise di potersi dedicare finalmente alla sua cena. Tra un boccone e l’altro, continuava a sentire il volto di zia Mimi rivolto verso di lui. Poteva vedere benissimo come la donna fosse divisa tra il credergli e il non fidarsi del tutto, dunque decise di perfezionare l’opera.
“Ah, signora, le dispiace se domani faccio arrivare i miei bauli qui? Non starò molto nella vostra casa, solo il tempo di farmi recapitare i bagagli per prendere una nave per le Americhe. Sembra esserci stato un problema al porto, e sono stato costretto a tenere addosso gli stessi stracci per tutto quel tempo! Immagini il disagio!”
Ecco, questo sembrò convincerla definitivamente. Aveva usato le parole giuste e la scusa giusta.
“Nessun problema, caro, un amico di John è anche amico mio, soprattutto se è un McCartney. E tu, nipote, non gongolare troppo, ti vedo. Resti in punizione per almeno un mese, ma sei perdonato.”
John sorrise soddisfatto, e rivolse uno sguardo grato a Paul.
Ce l’avevano fatta.

Proprio perché la stella era, in apparenza, uno dei futuri eredi del grande patrimonio dei McCartney, John fu costretto a cedergli il suo comodo e tanto agognato letto, per accontentarsi del freddo e scomodo divano in salotto. Dunque stettero seduti sul letto a strimpellare per qualche ora, ma poi furono spronati al silenzio da zia Mimi. Si trovarono così, schiena sul materasso e gambe contro il muro, a parlare sottovoce.
“E così siete solo tu e la signora Smith, in questa casa?”
“Sì, mia madre è morta così tanto tempo fa che fatico persino a ricordarlo. Mio padre, da quello che mi è stato raccontato, è in Australia, in Nuova Zelanda o Dio solo sa dove. Potrebbe anche essere morto, in realtà.”
“E’ per quello che l’altro giorno sei scappato via, quando ti ho detto che l’amore fa girare il mondo?”
“Sì. E me ne vergogno, ma quando sei orfano di madre da una vita intera, e sei stato abbandonato da tuo padre all’età di tre anni, beh, capisci che fai fatica a credere nell’esistenza di una ‘famiglia felice’. I miei genitori erano benestanti e di origini nobili, e ho sempre pensato che se non è stato possibile per loro, non lo è per nessun’altro. Poi arrivano questi  gitani e in un minuto ti sconvolgono la vita e ti fanno vedere che sì, è possibile essere felici, pur non avendo niente da mangiare o da ostentare. E fanculo, ti crolla il mondo addosso.”
Paul voltò lo sguardo fino a trovarsi a pochi centimetri dal volto dell’altro. Se solo non fosse stato buio, avrebbe giurato di aver visto una lacrima correre su quelle guance.
“Mi spiace. Ma sai, alla fine Mimi ti vuole bene. Sei fortunato ad avere lei. Lo sai , in cielo non sappiamo nemmeno cos’è, una famiglia. Noi stelle in realtà siamo così sole. Tremendamente, dannatamente sole. E non posso negarti che vedo della meraviglia anche nel piccolo legame tra te e tua zia. E’ una magra consolazione, me ne rendo conto, ma bisogna pur partire da qualcosa.”
“Ma credevo che fosse possibile per voi…”
“Esistono dei legami, sì. Ma sono legami estremamente superflui. Noi siamo a migliaia di metri di distanza, non possiamo toccarci, né vederci bene, abbiamo una percezione gli uni degli altri. A livello spirituale qualcosa succede, tra di noi, sì. Per questo posso dire che George è un mio amico, ma che sicuramente lo è stato di più in questi due giorni che in tutta la mia vita in cielo.”
“Lo sai, sono giorni che ci penso. Come fate a vivere senza fare così?” domandò curioso John, intrecciando la mano con quella della stella.
Paul fu preso alla sprovvista e si sentì arrossire violentemente, mentre un leggero formicolio alla punta del naso e delle dita gli fece intuire che la felicità lo stesse facendo brillare. Ma al buio, la cosa si stava facendo pericolosa per lui, così interruppe brutalmente il contatto con il ragazzo e con uno scatto si alzò in piedi. Peccato che cominciasse a sentirsi sempre più debole, e in preda ad un forte giramento quasi cadde a terra.
Solo dopo qualche minuto riuscì a parlare di nuovo.
“Credo che sia meglio andare a letto, vero?”
“Mh, sì. Anche se, per colpa del baronetto McCartney, devo finire sul divano.” Commentò John, prendendolo in giro.
“Beh, se vuoi, solo per qualche minuto, posso dividere la mia preziosa alcova con te.”
“Se insiste, Sir.” Esclamò felice il ragazzo, e neanche il tempo di sentire repliche che si era sistemato sotto le morbide lenzuola, occupando tutto il posto disponibile.
“Ehy, fatti in là!” e, punzecchiandolo, la stella riuscì ad ottenere un posto dove dormire.
“Buonanotte, Jude.”
“Buonanotte, stellina.”
La verità era che John non aveva minimamente voglia di riposare, si sentiva sveglio come non mai, un po’ per colpa del cuore che batteva veloce, un po’ dello stomaco sottosopra.
Non sapeva cosa gli stesse succedendo, capiva solo che si sentiva attirato da Paul come non gli era mai successo prima con nessun’altro. Non pensare a lui, o anche solo smettere di guardarlo gli risultava impossibile, persino al buio, in quella piccola camera. Per Stuart o per Pete non aveva mai provato nulla di simile, ma nemmeno per una delle ragazze avute nel corso della sua breve vita. L’attrazione verso Cynthia era stata una novità, ma ancora, era una cosa diversa.
Dunque, cosa gli stava sconvolgendo la vita in un modo così dirompente? Che nome aveva?
Sentendo gli occhi sempre più pesanti, decise di non voler rispondere affatto a quella domanda. In fondo, aveva ancora tempo, no? L’avrebbe scoperto, cosa gli tormentava il cuore, prima o poi.
E, dopo aver dato un lieve bacio sulla fronte della stella, si addormentò.

Il giorno dopo Paul si svegliò rannicchiato su se stesso e con la testa beatamente appoggiata al petto di John, che, messo a stella, occupava tutto il letto.
Controllò l’ora dalla vecchia sveglia del ragazzo e scoprì, soddisfatto, di aver dormito a lungo: erano le nove del mattino. Anche il suo corpo si stava abituando ai nuovi ritmi terrestri, infine.
Un’altra sorpresa, fu quella di scoprire che stava brillando, e sperò che alzandosi e prendendo una boccata d’aria fresca, tutto sarebbe passato. Ma, complice la postura scomoda, il solo mettere i piedi giù dal letto si rivelò un’impresa titanica. Con un sospiro, ricordò il monito di George.
Era successo quando avevano appena finito di discutere, e Paul sentiva già di avere l’umore e la fiducia in se stesso sotto i tacchi. La notizia che l’amico gli diede non migliorò affatto il suo umore.
“Cinque giorni è quello che una stella come te può resistere sulla Terra, Paulie. Non più di cinque giorni. Ora ti sembra di avere le forze di fare tutto, ti sembra di stare bene, ma vedrai, col passare del tempo starai sempre peggio, giorno dopo giorno ti affievolirai sempre di più e, come un vecchio, ti troverai senza energie. Fino al momento in cui non riuscirai più ad esaudire il desiderio per cui sei sceso su questo pianeta. E tu sai, a cosa andrai incontro se non farai il tuo dovere.”
Contò mentalmente i giorni: era il suo quarto giorno, gliene restava solo uno. Era stato fortunato, non si era accorto della propria debolezza, forse a causa dell’adrenalina del viaggio, forse perché era troppo stanco per il sonno accumulato.
Si voltò verso John, che dormiva nella grossa, e non appena riuscì ad alzarsi dal materasso, provò a svegliarlo, senza successo.
Alla fine scese, e appurato che erano di nuovo soli, preparò due grosse tazze di tè, e ne portò una in camera, prendendo qualche biscotto dalla dispensa.
“Joff…. Joff, Svegliati. Abbiamo un desiderio da esaudire.”
“Mmmh. Cynthia.” E udire quel nome fu come ricevere una stilettata diritta nel cuore. Ma in fondo, che si aspettava? Era lei il vero amore di John. Stupido, stupido romantico.
“Oh, Paul, sei tu. Che meravigliosa visione.”
“Lo dici solo perché ho del cibo in mano.”
“E’ vero...”
Ma l’entusiasmo della stella era svanito in un solo colpo, sostituito da una folle gelosia, che lo rendeva ancora più debole. Si costrinse a bere qualche sorso di tè e a calmarsi, prima di parlare di nuovo al ragazzo.
“Forza, pigrone. Oggi potrebbe essere il giorno in cui sarai felice tra le braccia della tua amata.”
“Ma…non so nemmeno cosa devo fare.”
“Ho elaborato un piano, mentre tu ancora russavi. Troviamo Cynthia, tu forse sai meglio di me dove potrebbe essere; con una scusa qualsiasi ti offri di cantare qualcosa per lei. Puoi darle, per esempio, appuntamento per una serenata? Vedi tu. Io ci sarò, ti accompagnerò con la chitarra, come quella sera. Dovrebbe funzionare, e cercherò di concentrarmi intensamente per trasformare una fioca luce in un vero e proprio bagliore. George è riuscito a spiegarmi qualche trucco, qualche pensiero da usare a mio favore, ma non sono cose di cui ti devi preoccupare. Tu pensa a Cynthia.”
Paul concluse il suo piano deglutendo rumorosamente, cercando di nascondere la preoccupazione e mostrandosi il più possibile sicuro di sé.
Avrebbe funzionato, ormai gli bastava guardare John per illuminarsi!
Cantare insieme, di nuovo, doveva essere sufficiente. La parte difficile era concentrarsi sul desiderio, pensare intensamente alla felicità della persona che amava accanto a qualcuno che non fosse lui. Ma era il suo lavoro, e l’avrebbe portato a termine, non importava cosa provasse.
“Cosa potrebbe succedere se esprimessi un desiderio diverso?”
“Cosa?” Ecco, questo la stella non se l’aspettava. Non dopo i suoi mille calcoli, i suoi programmi.
“Ma sì, se dovessi aver cambiato idea su un paio di cose…” John era chiaramente in imbarazzo, e lo dimostrava rassettando un po’ troppo vivacemente il cuscino del suo letto.
“No, Justin, non è accettabile. Quando raggiungerò il massimo splendore dovrai essere categorico e non avere neanche un momento di indecisione. Sarà impegnativo e richiederà un grande sforzo, da parte mia; mi vedrai illuminare tutto intorno, e insieme penseremo al tuo desiderio, a quello per cui sono sceso sulla Terra.
Ricorda le tue parole, recitale come una poesia: rendi possibile il mio vero amore. Un battito di ciglia e sarà realizzato. Ma manifesta incertezza, e sarà stato tutto inutile. Tutto questo non sarà servito a niente, e io sarò punito.”
“Ma…”
“Niente ma. Ora alzati, lavati e sistemati, ti aspetto giù pronto e pettinato.” Concluse, indicando l’orologio con fare minaccioso.

Alla fine, pianificarono di andare verso il grande Stanley Park, che era stato inaugurato solo qualche anno prima, ma che era la meta preferita per le passeggiate di tutti gli arricchiti e i borghesi di Liverpool.
Non di rado capitava di vedere grandi pic-nic e colazioni sull’erba, letture di gruppo sotto gli alberi più folti e persino spettacoli di musica dal vivo.
Quella mattina un gruppo di giovani nobildonne si esercitava con gli acquerelli proprio in riva al piccolo lago, sotto i loro ombrellini di pizzo, cercando di catturare il movimento delle anatre.
Nonostante il caldo, decisero di fare un rapido giro del parco, e individuarono qualche scoiattolo curioso, ma di Cynthia neanche l’ombra.
Si erano vestiti entrambi in maniera elegante e raffinata, ma il caldo era quasi insopportabile, e i due ragazzi si erano sbottonati i primi bottoni del colletto e slacciato il cravattino, perdendo così la ricercatezza del loro vestiario.
Alla fine John individuò un albero abbastanza largo e si sdraiò ai suoi piedi, braccia incrociate dietro la testa e poca voglia di proseguire con la ricerca. L’aria da ‘uomo di mondo’ che, inutilmente, aveva cercato di darsi si era dissolta, facendolo apparire per il ragazzino svogliato e nullafacente che era.
“Cosa diavolo stai facendo?” esclamò Paul, vedendolo comportarsi così.
“Sto riposando.”
“Dobbiamo trovare la tizia, ti sfugge questa cosa forse? O sono l’unico a cui interessa davvero? Joey, sei incredibile!”
Anche stavolta, fu più facile per John continuare ad ignorarlo, fingendo solo di ascoltarlo.
“Mi stai a sentire? Dobbiamo continuare a camminare.” Aveva il fiato corto, persino parlare ad alta voce gli richiedeva uno sforzo notevole, e dovette cominciare a farsi aria con il Times, comprato più per fare scena che per effettivo interessamento.
“Rilassati, stellina.” Disse infine John, aprendo un occhio per squadrarlo.
“Rilassarmi? Cosa pensi, che quella dannata ragazza apparirà davanti ai nostri occhi per magia?”
“Buondì, signor Lennon.”
Ecco, questo ridestò immediatamente John dal suo torpore, facendolo alzare con un balzo.
“Oh, non mi dire.” Commentò sardonico, Paul.
“Signorina Powell, quale piacere vederla!”
Non ci credo.” E, gettando sul prato il giornale, la stella pensò che era una fortuna che dovesse stare solo un giorno in quel dannatissimo pianeta.

Alla fine, dopo le presentazioni formali, John chiese il permesso a Cynthia di accompagnarla durante la sua passeggiata per il parco. Fortunatamente la sua tutrice non era presente, e così a Paul fu assegnata Dot, una buffa ragazza dai capelli biondi e capricciosi, mentre a John fu permesso di passare del tempo da solo con la giovane Powell.
Parlarono dapprima della natura, poi di arte e persino di musica. Cynthia sembrava avere una cultura immensa, e aveva una curiosità innata per quei pochi argomenti che non conosceva, e questa cosa piaceva davvero molto al ragazzo.
Sarebbe stato un momento perfetto, se solo…
Insomma, non è che gli dispiacesse quella posizione: lui e la signorina Powell davanti, Paul e la signorina Rhone dietro. E’ che li avevano distanziati parecchio, e ormai non riusciva più a vederli bene, a sentire cosa dicessero. Non che gli importasse, chiaro, è che il povero Paul non era abituato ad avere conversazioni con delle ragazze così belle, magari poteva sentirsi in imbarazzo, poteva aver bisogno di aiuto o consiglio o, ancora peggio!, poteva dire qualcosa di sconveniente.
Dopo aver ignorato dunque buona parte dell’ultimo discorso con Cynthia, John la pregò di fermarsi e di aspettare l’amico.
Questa situazione si ripeté tre volte, e Dio, come facevano a camminare così piano da perderli ogni volta?
Alla fine, dopo l’ennesima richiesta su Dot e Paul, la signorina Powell si fermò e lo studiò infastidita.
“E’ chiaro che la sto annoiando, signor Lennon. Se preferisce, interrompiamo qui la conversazione.”
John si sentì profondamente imbarazzato da quel rimprovero, e, prendendole la mano, la pregò di perdonarlo. Ma, inutile negarlo, il clima si era fatto più teso, e passeggiare non era più così piacevole.
Al ragazzo era rimasta solo l’ultima carta da giocare, e sentì che il minimo passo falso avrebbe potuto rovinare tutto.
“Senta, signorina, mi pare evidente che lei non crede al mio interessamento nei suoi confronti. E se le dicessi che ho fatto addirittura scendere dal cielo una stella, per il suo amore?”
Cynthia rise, arrossendo appena.
“Dico che lei è un folle.”
“Un folle che stasera la attende sotto casa con la suddetta stella, pronta a brillare per lei.”
Ma la ragazza sembrava far fatica a cedere alla sua proposta, e non cercava di nasconderlo.
John allora la fissò, pensando a tutto quello che aveva dovuto attraversare per arrivare fino a quel punto, e sperò di risultare abbastanza convincente. 
“Facciamo così, se stasera davvero le dimostro che non sto mentendo,  mi permetterà di corteggiarla?”
Cynthia prese la mano del giovane nella sua e ricambiò il suo sguardo.
“Sa, signor Lennon. Sospetto che sia proprio quello il suo problema: a lei interessa troppo la conquista. Ma, vede, temo che questo potrebbe farle perdere ciò che di importante e bello le capita nella vita.”
“Cosa sta cercando di dirmi?”
“Sto cercando di dirle che spero di sbagliarmi, ma se fossi stata io la destinataria di tutti gli sguardi furtivi alle nostre spalle, so con certezza che non avrei bisogno di vedere la stella cadente. Sarei già stata sua.”
John abbassò lo sguardo, e cominciò a scuotere il capo. Si liberò dalla presa e aumentò la distanza dalla ragazza.
“Non credo di capire, mia cara.”
“Mi capirà. L’unica stella cadente è quella che vedo nei suoi occhi, e una settimana fa non c’era. E sono pronta a scommettere che stasera non ci sarà nessuno, sotto casa mia.”
Per John fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso. Non riusciva a capire cosa stesse insinuando, o forse lo capiva ma non riusciva ad accettarlo. Alla fine, neanche il tempo di risponderle, che sentì Dot, alle loro spalle, chiamarli disperata.
E gli bastò vedere Paul accasciato a terra, per non capire più niente.


 


Angolo dell'autrice:

Buonasera a tutti, e ancora buon anno. Spero abbiate passato un bel Capodanno!
E siamo a -2 dalla fine, ridendo e sterminando (cit.). Questo è un capitolo corridoio per il grande finale col botto, giusto per stare in tema con la festa appena passata.
Spero che vi sia piaciuto, e spero soprattutto che non sia risultato pesante!
Finalmente è tornato il personaggio di Mimi, e si capisce qualcosina di più su di lei e sul suo rapporto con John. Io amo quei due, non lo dirò mai abbastanza.
Inoltre, fa un’apparizione Dot Rhone, che è stata la primissima fidanzata ufficiale di Paulie, fino al '60 se non erro.
Bene, passo ai ringraziamenti. Lasciatemi dire che siete stati tutti il miglior regalo di Natale e Capodanno che potessi desiderare. Grazie, grazie e ancora grazie a tutti voi, che avete letto e recensito questa mia fanfiction. Non mi aspettavo che questa mia ff da strapazzo vi piacesse così tanto! Non vi merito :’)
La lista è lunga: Queen s obladioblada, grazie mille delle parole gentili; Oh_darling_beatles, grazie per la tua prima recensione e per la miriade di complimenti che non mi merito; Astoria McCartney, grazie per la puntualità con cui recensisci sempre ogni capitolo; Paulmccartneyismylove grazie, sei un tesoro e mi riempi sempre di parole dolci (e andate a leggere le sue ff, è un ordine) ; Paperback White grazie perché ho trovato un’amica di sfogo beatlesiano; Workingclassheroine grazie perché non mi stancherò mai di dire quanto sei brava e i tuoi complimenti per me valgono doppio, senza considerare che è un piacere (s)parlare con te di Zia Emilia.
Concludo come al solito con all my loving per Kia85 che mi aiuta, mi sostiene e corregge questa mia.. cosa. Senza di te sarei perduta, cara!
Un abbraccio enorme a tutti, lettori silenziosi inclusi! Ci si legge alla befana per il capitolo 9~
Anya

 
 
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 9



Paul era accasciato a terra e John non sapeva più cosa fare.
Erano anni che non si sentiva così impotente e terrorizzato, da quando lo zio gli era quasi morto tra le braccia…
Aspetta, cosa gli aveva insegnato lo zio George? Sì, prima cosa da fare: misurare il battito.
Ma per John tenere la concentrazione focalizzata su una cosa sola era impensabile al momento, preso com’era da controllare che respirasse e che si svegliasse. E poi, andiamo, non stava parlando di un umano, non sapeva con certezza se funzionasse allo stesso modo per una stella.
Che cretino era! Alla fine abbandonò il polso e prese tra le mani il viso di Paul. Vedendolo imperlato di sudore, pensò che fosse una buona idea cercare un posto all’ombra.
Poteva essere un mancamento dato dallo stupido sole di luglio, ma certo!
John dunque lo trascinò immediatamente sotto un albero, e si trovò attorno una piccola folla che chiedeva se avessero bisogno di una mano, ma che in realtà rendeva la situazione solo più confusa.
Alcuni corsero a prendergli dell’acqua fresca, altri lo aiutarono ad alzargli i piedi, gli sbottonarono la camicia e gli fecero annusare dei sali, finché il ragazzo non si riprese.
“Cosa diavolo succede, Paul?”
La voce di John tremava quasi quanto le sue mani. Non si era accorto di aver trattenuto il respiro per degli interminabili secondi.
La stella si stropicciò gli occhi e gli sorrise.
“Oddio, sono ancora qui?” esclamò sollevata, guardandosi attorno, cercando di alzarsi, senza successo.
“Certo, stupido. Dove pensavi di essere finito?”
“Temevo di essermene andato per sempre. E non potevo, non senza averti salutato.”
John arrossì violentemente a quella affermazione. Era solo una sua impressione, o l’aria si stava facendo sempre più irrespirabile? Alla fine scacciò con fastidio tutti quei curiosi che li avevano attorniati.
Priorità assoluta era riportarlo a casa, e subito.
A pochi metri erano rimaste solo Cynthia e Dot, quest’ultima ancora visibilmente scossa. Si offrirono di dar loro un passaggio in carrozza, ma John preferì chiamare un taxi. Non voleva che nessuno si intromettesse tra lui e Paul.
Le ragazze dunque li salutarono e li videro uscire dal parco a passo malfermo, mentre lo sguardo di mezza Liverpool era ancora fisso su di loro.

“Non credo di aver fatto una buona impressione su Cynthia e su Dot. Che peccato.”
“Taci, stella.”
John non era dell’umore per sentire un’altra stupida scusa del genere, non dopo averlo visto mezzo morto su quel prato. E poi, sì, per quanto gli scocciasse, era geloso. Geloso da morire.
Era stupido?
La verità era che quel legame sconosciuto e intenso che lo legava a Paul, lo stava cambiando. Si trovava ad avere a che fare con sentimenti nuovi che gli scaldavano il cuore e glielo laceravano nello stesso momento.
Tutta la sua vita già scritta e programmata nella sua testa, all’improvviso era stata stravolta, e le sue certezze erano crollate. Solo pochi giorni prima non avrebbe mai creduto a delle stelle cadenti che scendevano sulla Terra per esaudire desideri. E, allo stesso modo, non avrebbe mai pensato di trovarsi a desiderare di passare la sua vita accanto ad un altro uomo.
Erano due cose per lui ugualmente assurde, ma, per ironia della sorte, erano successe entrambe.
E non poteva negare che sì, la sua vita era cambiata, ma in meglio. Perché da quando una sciocca stella gli era piombata addosso, John Lennon, l’eterno sognatore senza arte né parte, una persona destinata a non combinare mai nulla se non disastri, aveva uno scopo per alzarsi la mattina dal letto e per cui andare a letto felice la sera. E per quanto questo scopo fosse fastidioso, petulante e rumoroso, sentiva il bisogno di proteggerlo.

Tornarono a casa in pochi minuti, John pagò l’autista e trascinò dentro Paul. Sorridendo, si ritrovò a pensare che gli era sembrato molto più magro e più leggero, durante il loro viaggio. Certo, non avrebbe mai immaginato di doverselo caricare sulle spalle.
Poi, come un piccolo fulmine, lo colpì il pensiero di quattro giorni prima, quando l’aveva visto per la prima volta, mezzo svenuto... com’erano cambiate le cose!
Prima non vedeva l’ora di liberarsene, adesso il solo pensiero di perderlo lo uccideva.
A fatica John riuscì a sdraiarlo sul divano, lo sistemò e lo coprì con una delle coperte di zia Mimi. Una volta sicuro che fosse abbastanza comodo, si sedette a terra, di modo da avere la testa vicino alla sua.
Paul riposò ancora per qualche minuto, poi, in preda a dei piccoli spasmi, si svegliò di soprassalto.
Ogni volta che chiudeva gli occhi poteva sentire qualcuno, dal cielo, trascinarlo via dalla Terra. I suoi capi dovevano aver percepito il suo fallimento, dovevano averlo visto da George, e soprattutto era sempre più certo che sapessero perfettamente cosa provava per l’umano.
Il fatto che in quei giorni il suo sentimento fosse diventato così forte da non riuscire più nemmeno a mascherarlo, era sicuramente visto come una sua grande mancanza, e non poteva negare che fosse così.
D’altronde, si era ritrovato più volte a pensare che non volesse davvero esaudire il desiderio, e questo era riprovevole. Che sciocco era stato, a farsi fregare così, e alla prima esperienza!
Aveva visto altre stelle venire punite e richiamate, anche per motivi più banali, e sapeva anche che a loro bastava poco, pochissimo, per riportarti a casa.
Peccato che lui non avesse sbagliato di poco. E peccato, inoltre, che ora casa avesse un altro significato. E non era pronto a lasciarla senza aver prima parlato con John.
Ecco perché aveva bisogno di radunare tutte le sue forze e di voltarsi per ammirarlo un’ultima volta.
“Cosa diavolo mi combini, stella da strapazzo?”
“Credo di aver saltato la colazione stamattina.”
John lo guardò cinico, ed estrasse dal taschino gli occhiali.
“Non ho bisogno di questi per vedere che mi stai mentendo, Paul.”
“Emh, sì, potrebbe essere stata colpa del caldo.”
“Devo picchiarti o pensi di dirmi la verità?”
John aspettò qualche minuto che l’altro si riprendesse un po’ dal semplice sforzo di parlargli. Non riusciva ad inquadrare bene che problema avesse Paul. Vedeva solo che faceva fatica a respirare, e ogni tanto si aggrappava alla stoffa del divano in preda a grossi giramenti. Se solo avesse saputo cosa fare per farlo star meglio!
Alla fine, come per tranquillizzarlo, la stella gli rispose.
“Va bene, va bene. Potrebbe c’entrare anche il fatto che ho quasi finito il mio tempo su questo pianeta.”
Che cosa?! E quando pensavi di dirmelo?!”
“Rilassati, per favore.” Esclamò Paul col poco fiato che gli rimaneva in corpo, coprendosi il viso con le braccia. Con calma gli spiegò che ne era venuto a conoscenza da George solo due giorni prima, ma non si sarebbe aspettato una tale ricaduta. Alla fine, costretto a interrompersi a causa di una grossa fitta al petto, aspettò di sentire la reazione dell’altro. Già poteva sentire la predica: come faceva in quelle condizioni a esaudire il desiderio? Era una stella da strapazzo, ecco cos’era! Doveva capitargli uno come George, non proprio lui!
“Che peccato, proprio ora che avevi fatto colpo su Dot.” Scherzò invece John, costringendo Paul a girarsi.
“Eh?” con tutti i rimproveri che poteva fargli, tirava in ballo la ragazza di prima!
La stella si morse il labbro, e si decise a parlare, sforzandosi di mantenere il contatto visivo nonostante l’imbarazzo. D’altronde, cosa aveva da perdere?
“Sai di cosa abbiamo parlato, io e la signorina Rhone, per tutto il tempo? Di te.”
John arrossì, mentre il suo cuore accelerò spaventosamente. Doveva essere un infarto, non aveva dubbi, come altro si poteva spiegare quella strana sensazione che sembrava tormentargli il petto?
“Non mi dire.” disse, dopo aver deglutito un paio di volte per tranquillizzare il tremolio nella voce.
Paul annuì, e scoppiò a ridere. Doveva essere colpa della sua faccia color peperone, John ne era certo. Che vergogna, arrossire come una bambinetta alla prima cotta.
Non che provasse quel genere di sentimenti verso la stella, chiaro.
Ma era davvero poi così chiaro? John non lo sapeva più, sentiva una gran confusione nella testa, mescolata ad una gran voglia di lasciarsi andare, spegnere il cervello e seguire il suo cuore, fanculo le conseguenze, fanculo le paure.
Perché, in fondo, contavano solo loro due.
“Mi mancherai terribilmente.” Disse infine la stella, guardandolo intensamente e mordendosi il labbro.
Oh, se solo Paul avesse potuto dirgli quello che provava per lui, se solo avesse potuto liberarsi di quel peso. Non poteva esaudire il desiderio, ma almeno poteva fargli capire che era felice di essere sceso sulla Terra, di averlo conosciuto. Perché era una persona meravigliosa, generosa e lui sì, lui lo amava.
Lo amava come non aveva mai amato niente e nessuno in vita sua.
Se solo avesse potuto liberare quei pensieri, quei sentimenti…
“Ti mancherà fare musica con me?” gli chiese John, con un sorriso amaro.
Paul fece un profondo sospiro, e pregò il suo corpo di sostenerlo, in quell’ultimo momento di bisogno. Strinse tra le dita la coperta e si voltò quel poco che bastava per essere più vicino all’altro.
Quanto era bello.
“No, mi mancherai tu. Mi mancheranno i tuoi capelli sconclusionati e il tuo naso così regale, mi mancherà come mi guardi negli occhi, mi mancherà dormire vicini, mi mancherà come mi prendi in giro e mi chiami ‘stellina’, mi mancherà il modo in cui fai smorfie quando ti chiamo con un nome che non è il tuo… mi mancherà tutto di te, John.”
Per un secondo, un piccolo, meraviglioso istante, tutta la vita di John andò al posto giusto.
Erano bastate poche parole, era bastato un nome, il suo, per fargli trovare il posto nel mondo, per fargli toccare la più perfetta felicità.
E avvicinarsi, prendere il viso della stella tra le sue mani e baciarlo, fu finalmente semplice, per lui.
Giorni e ore di paure, ripensamenti, pregiudizi e sensi di colpa svanirono, illuminati dalla luce più forte che John avesse mai visto in vita sua. Riempiva il salotto, la casa intera, forse l’intera città, e cosa più importante, toccava il suo cuore.
Se lo sentiva, era quello il massimo splendore di cui parlava George.
Sorrise, e vide Paul tra le sue mani che lo guardava con gli stessi occhi, con lo stesso sorriso.
Era giunto il momento, dovevano esprimere il desiderio, dando un senso, in un solo secondo, alle loro vite.
Non lo credeva possibile, ma sapeva esattamente cosa voleva in quel momento, e come averlo.
E così John, chiudendo gli occhi, baciò Paul di nuovo.
 
 
Quando li riaprì, aveva ancora sulle labbra lo stesso stupido sorriso felice. Zia Mimi lo squadrava, con le braccia incrociate, tamburellando il piede per terra.
“Winston, cosa stai facendo sdraiato sul mio tappeto come un sacco di patate?”
“Paul…”
“Sei ubriaco, forse?”
“No, Mimi, c’era Paul che non stava bene, mi devo essere addormentato…”
Ma la zia non sembrava credergli affatto, si abbassò dapprima per annusare se puzzasse di alcol, e una volta appurato che fosse sobrio, gli toccò la fronte per sentire se avesse la febbre.
Lo sguardo di John si spostò velocemente sul divano vuoto, e con uno scatto si alzò in piedi.
“Dov’è Paul?” chiese, preoccupato.
Stupido testardo, dov’era andato? Non stava bene, era debole, faceva fatica a respirare, come poteva muoversi!
“Paul chi?”
“Cazzo, zia, Paul McCartney, il ragazzo con cui sono tornato ieri. Ha dormito nel mio letto stanotte, era a cena da noi ieri sera…”
“Mi stai facendo preoccupare, John. Cosa stai dicendo?”
“Mimi, sono stato via quattro giorni! Sono tornato con lui! Dov’è Paul?!”
John poteva vedere dallo sguardo terrorizzato della zia che si stava comportando in modo sconsiderato, poteva sentirsi urlare, poteva immaginare le reazioni dei vicini, ma non riusciva a calmarsi. Aveva bisogno che quello scherzo finisse in fretta, che la stella uscisse allo scoperto e sorridendo lo abbracciasse dicendogli che era tutta una finta.
Ma l’unica persona che arrivò, alla fine, fu il medico.
John si maledisse, mentre si liberava dalla presa del dottore, e si divincolava dalla zia.
Che sciocco a credere di poter essere felice davvero!
Passavano i minuti, le ore e c’era solo lui. Era corso come un pazzo da una parte all’altra della casa senza trovare nessuno; era persino andato in strada, ma non c’era nemmeno lì. Alla fine, si era accasciato a terra, e, in preda ai singhiozzi, si era trovato ad implorare il cielo di ridargli Paul.
Perché non si era sognato tutto, ne era certo.
Ma tutto tacque, e John capì.
Era solo, di nuovo.
Paul non c’era più.








Angolo dell'autrice:

E salve a tutti!! :D 
Buona befana, miei cari lettori! Avete ricevuto dei dolcetti? Avete trovato qualche bel regalino dentro la calza? Io non ho ricevuto un bel niente. Evvai.
Però in compenso ho ricevuto un saaacco di bellissime recensioni e visite da parte vostra! Ma quanto vi voglio bene? *-* vorrei ringraziarvi uno ad uno, recensori in primis, ma direi di contenere tutto quell’amore per il prossimo (e ultimo) capitolo. Promesso, sarò particolarmente melensa per farmi perdonare.
A tal proposito.
C’è qualcosa da aggiungere su questo chap? Avete capito tutto? Dubbi, perplessità? Pomodori in faccia per me? No vero? :D PERFETTO. L'ho già detto che vi voglio bene, vero? *lancia cioccolato a tutti*
Altra “bella” notizia: il decimo capitolo, già scritto e praticamente finito, si è trasformato in una sfilza di quadratini senza senso, per merito di Avg che l’ha “corretto” come minaccia. Ho provato a recuperarlo, invano, quindi lo sto riscrivendo tutto. Evvai (du vorte).
Per questo non posso dirvi una data precisa in cui pubblicherò il finale… spero attorno al 14/15 di gennaio, ma se ritardo un po’ sapete il perché! Perdonatemi <3
Un grazie di nuovo a tutti voi che seguite con passione questa mia storia, e a Kia85 che è la beta più paziente che ci sia! <3
Non vi merito davvero, dopo questo capitolo soprattutto. Ma voi mi volete bene lo stesso, vero? :')
Un abbraccio ruffiano a tutti voi!
Anya

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Mr. Moonlight
 
Capitolo 10



John ispirò profondamente, lasciandosi beare dal profumo di miele che proveniva dai capelli di Paul. Spostò con una carezza il ciuffo dalla fronte del ragazzo, e lo ammirò di nuovo, in tutta la sua bellezza.
Gli diede un leggero bacio sul naso e lo strinse ancora più forte a sé, in un abbraccio impacciato e sonnolento. Il solo vederlo sbadigliare e muoversi lentamente nel sonno tra le sue braccia era una visione stupenda.
Dio, non c’era altro posto in cui sarebbe voluto stare, se non lì. In un letto troppo piccolo, con mezze gambe fuori al freddo, solo per poter permettere a Paul di dormire con lui. In una casa in cui dovevano parlarsi sottovoce perché, santo cielo!, figuriamoci se zia Mimi potesse capire che lui e Paul…
In ogni caso, a svegliarlo dai suoi stupidi pensieri romantici, ci pensò l’altro ragazzo.
“John, mi stai stritolando.” Sussurrò, ridendo.
Un piccolo bacio a fior di labbra.
“Cosa succede, Johnny, un altro incubo?”
Il ragazzo si limitò ad annuire, di risposta.
“Oh andiamo, va tutto bene. Lo sai che è solo un sogno. Io sono qui con te.”
“Ma se il cielo ti rapisce di nuovo e ti porta via da me?”
“Non succederà. Io sono sempre qui.” Disse, baciandogli prima la fronte e poi abbassandosi per baciargli il petto, dove il cuore batteva come un tamburo.
“E se invece fosse questo un sogno?”
Paul sorrise appena, avvolgendo le braccia al suo petto.
“Non lo è, John. Non lo è.”

Invece lo era eccome.
John si era addormentato sulla panchina di fronte al pub, di nuovo. La bottiglia di birra si era rovesciata sui suoi pantaloni, lasciandogli un alone imbarazzante sul cavallo.
Merda.
Non sapeva esattamente quante birre avesse bevuto, ma erano davvero parecchie. Forse troppe.
Nonostante i giramenti di testa e la nausea, la prima cosa che i suoi occhi misero a fuoco fu il cielo. Quelle piccole, dannatissime stelle.
Si rialzò in piedi, aspettò che il suo andamento fosse più stabile e si accese velocemente una sigaretta, mentre cercava di sistemarsi alla bell’e meglio i pantaloni. Controllò l’ora: le tre di notte. Senza dubbio meglio del giorno prima in cui era tornato a casa alle cinque del mattino.
Zia Mimi l’avrebbe ucciso, se si fosse accorta che era scappato di nuovo.
Cercò di aprire la porta d’ingresso nel modo più silenzioso possibile, e si rifugiò in stanza, gettando rapidamente i vestiti sporchi di birra in un angolo, lontani dal letto. Quell’odore aumentava la nausea e il disgusto verso se stesso.
Prima di mettersi a letto però, fece una cosa: aprì la finestra e guardò il cielo.
“Buonanotte, Paul. E buon compleanno a me.”

In quei mesi ne erano successe di cose, in realtà.
Subito dopo aver perso Paul, aveva passato parecchie settimane a piangersi addosso, a sospirare e a non mangiare, esattamente come una ragazzina mollata dal primo spasimante.
Poi, come reazione opposta, con l’arrivo del suo compleanno aveva cominciato ad uscire, ad assentarsi da casa per giorni interi, a bere, a fumare e a fare la solita vita sregolata. Zia Mimi aveva smesso di preoccuparsi e aveva ricominciato ad arrabbiarsi, a rimproverarlo e a metterlo in punizione, senza risultati.
Le settimane erano corse veloci: l’estate aveva lasciato spazio all’autunno, l’autunno all’inverno, e John era ancora senza Paul, era ancora tremendamente solo.
Aveva provato a scrivere a Cynthia, ma non aveva ricevuto risposta. Aveva provato anche a fermarla per strada, durante una delle sue solite passeggiate nei pressi della drogheria, ma lei non sembrava ricordare nulla di quel giorno allo Stanley Park, né di aver effettivamente ricevuto un qualche tipo di corteggiamento da parte di John.
Bella fregatura! Non solo aveva perso Paul, ma non si era nemmeno esaudito il desiderio per cui l’aveva fatto cadere.
Doveva essere parte della punizione del cielo, ne era certo.
Non che pensasse di riuscire a vivere felicemente con Cynthia. Probabilmente l’avrebbe solo fatta soffrire. In fondo, ci aveva messo del tempo a realizzarlo, ma ora era fin troppo chiaro: il suo destino era quello di stare con Paul, e se non poteva essere felice accanto a lui, non avrebbe più trovato la pace, ne era certo.
Dunque si era limitato ad arrendersi e a ritornare il solito sognatore che si aggirava per Liverpool, bighellonando. Questa cosa a suo modo era rassicurante, no?
Era quello che si aspettavano gli altri da lui.
In realtà, per quanto mentisse a se stesso, John era terribilmente in dubbio, e questa crisi si palesava sempre, ogni giorno, ogni notte, non importava quanto fosse ubriaco o stanco o spaventosamente sobrio. Era un dubbio che gli divorava l’anima e il cuore: era successo davvero, o era stato solo un sogno? E se la stella cadente era piombata davvero sulla Terra, non c’era nulla che potesse fare per riaverla con sé?
Doveva pur esserci una soluzione, no?

Alla fine l’illuminazione gli venne una notte di Dicembre. Aveva toccato il fondo di nuovo, aveva bevuto davvero troppo, di nuovo, e si stava odiando, di nuovo.
Nascosto in un angolo di strada mentre Stuart e Pete ridevano di lui, si era deciso: avrebbe fatto qualcosa.
Non sapeva ancora bene cosa, in realtà. D’altronde era ubriaco marcio.
Ma il giorno dopo, quando si svegliò, tra i giramenti e la nausea, si diede dello stupido per non averci pensato prima: avrebbe contattato George. Lui avrebbe saputo qualcosa a riguardo.
Era finito il tempo del ‘solito John’, ora avrebbe fatto qualcosa.
Il giorno dopo dunque, prese la prima diligenza disponibile, e si fiondò a Didsbury. Il viaggio gli bruciò parecchio, nella memoria. Era sì bello rivedere quei posti, ma era anche molto doloroso. Bloccato tra tanti altri passeggeri e i loro bagagli si sentiva dannatamente solo.
Ci volle poco meno di mezza giornata per tornare nella campagna di Manchester, e molto meno tempo per ritrovare la casa di George. Insomma, non male per una persona che pochi mesi prima, per fare lo stesso tragitto, di giorni ce ne aveva messi due.
Si era fumato una sigaretta, aveva mangiato un sandwich scadente al pub irlandese, e aveva atteso che gli Harrison tornassero a casa dal lavoro. Stranamente, quel pomeriggio, la prima a rientrare fu Pattie, che non solo non lo riconobbe, ma si dimostrò anche parecchio spaventata dal suo atteggiamento. Possibile che anche lei si fosse dimenticata di lui e di Paul?
Stava quasi per ricevere un pugno in piena regola, quando arrivò George.
“Cosa sta succedendo qui?”
“Scusami, George, ma Pattie non si ricorda di me, e forse nemmeno tu…”
“No, so perfettamente chi sei tu, e temo di sapere anche perché sei qui.”
Con un rapido gesto del capo lo invitò a seguirlo in casa, tranquillizzando la moglie. Nonostante la vicinanza al Natale, la casa si presentava esattamente come in quelle giornate di luglio, eccezion fatta per un piccolo ramo di vischio appeso allo stipite della porta d’ingresso. Anche il riscaldamento era scarso, e il salotto era parecchio freddo.
Un brivido gli percorse la schiena, più per i ricordi che per la temperatura della casa, ma di tutta risposta Pattie accese la piccola stufa in cucina, e gli porse una tazza di tè.
“Amore, ti andrebbe di prepararci le tue meravigliose Jacket potatoes? Credo che John sarà nostro ospite fino a domani, non possiamo farlo tornare a casa, non con questo freddo.” Le chiese George, e lei intuì che in realtà avevano solo bisogno di una scusa per stare da soli, e non fece ulteriori domande.
John la osservò distrattamente mentre si metteva ai fornelli. Non sapeva da dove cominciare il discorso, e fu molto dispiaciuto quando il suo tè finì, perché significava non avere più una scusa per temporeggiare.
“Allora, il mio amico è tornato in cielo?”
Il ragazzo gli annuì di risposta, lentamente. Era come realizzarlo di nuovo, era come rivivere quel momento.
“Pensi di raccontarmi cos’è successo o devo leggerti nella mente?” disse George, ridendo. In realtà aveva pensato parecchio a Paul, nel corso di quei mesi. Ma sapeva perfettamente cosa poteva essere successo, e non si era illuso neanche per un secondo che gli eventi fossero andati diversamente.
John raccontò tutto. Più o meno.
Tralasciò qualche piccolo dettaglio, per esempio quello del bacio. George non chiese nemmeno come la stella avesse raggiunto il massimo splendore semplicemente stando su un divano, perché intuiva cosa il ragazzo tenesse nascosto e intuiva anche il perché lo facesse.
Pattie li chiamò a tavola non appena John terminò il suo racconto, e questo sospirò di sollievo.
Non che fosse affamato, ma sentiva che qualcosa di caldo sotto i denti potesse calmare un po’ il nervosismo che lo stava tormentando.
La cena terminò con i complimenti verso la cuoca e una tazza di punch caldo. Le spezie e il rum aiutarono John a sentirsi molto meglio, persino più ottimista verso il futuro, e sperò che George gli desse una buona notizia, ora che erano rimasti nuovamente soli. Poteva vedere benissimo come pesasse nella sua testa le parole da dire.
Alla fine dovette aver scelto la strada più diretta possibile, perché evitò ogni giro di parole. Ma, in fondo, era quello di cui John aveva bisogno.
“Senti amico, ci ho pensato a lungo. Io non posso dirti che tornerà, o che c’è un modo per farlo cadere sulla Terra di nuovo. Ma una cosa posso dirtela: non dargliela vinta.”
“Come?”
“Io lo so come agiscono. Ti portano via ciò a cui tieni e ti lasciano alla vita di tutti i giorni all’improvviso, a chiederti se ti sei sognato tutto, se sei andato fuori di testa o se è effettivamente successo.”
John annuì gravemente. C’erano dei giorni in cui si aggrappava al minimo ricordo: la chitarra, un profumo, una frase che gli tornava alla mente. Mentre c’erano altri giorni in cui non aveva la forza e la voglia di farsi coraggio, e si trovava a pensare, svuotando l’ennesimo bicchiere, di essere semplicemente impazzito.
“Non permettere loro di averla vinta. Se Paul non dovesse tornare, potresti trovarti davanti a due alternative: o dimenticartelo e vivere sereno la tua vita credendo di aver semplicemente sognato; o andare fuori di senno e rifugiarti in un mondo che non esiste per nessuno all’infuori di te. Un mondo in cui le stelle cadenti cadono davvero sulla Terra per esaudire i desideri. In entrambi i casi faresti il volere del cielo, ma nel dubbio, ti prego di scegliere la prima opzione e di lasciarlo andare.”
“Cancellare il ricordo di Paul? Non credo di volerlo fare.” Perdere il ricordo dell’unica cosa bella che gli era capitata fino a quel momento? Oh no, non l’avrebbe permesso. Se non avesse potuto riavere la stella con sé, che almeno potesse portare sempre nel cuore il ricordo di ciò che avevano vissuto. Al diavolo pure il cielo!
“Io ti dico soltanto di non ostinarti a vivere per una persona che non c’è più, John. Se Paul non dovesse più tornare, vivi la tua vita, per favore. Ci vorrà del tempo, ma sei ancora così giovane! Non farti rovinare l’esistenza troppo presto.”
“Va bene.” Disse alla fine. Era una promessa difficile da mantenere, ma era la cosa migliore da fare, George aveva ragione. Non poteva permettere di finire in manicomio a 20 anni!
Dopo qualche minuto di riflessione, John spostò lo sguardo dal pavimento all’amico.
“Ma tu perché non mi hai dimenticato?”
“Oh beh, sono stato una stella anch’io, no?” e ammiccando teatralmente, se ne andò a letto, lasciando il ragazzo da solo con i suoi pensieri.

La mattina seguente i due sposi dovevano andare al lavoro presto, quindi John doveva prendere la diligenza delle sette per Liverpool, oppure un treno. Non che avesse paura del treno, sia chiaro, è che quei mostri viaggiavano su rotaie, e facevano un gran trambusto, e sembravano così instabili! Meglio la buona e vecchia diligenza, decisamente.
Fece parte del tragitto con George, ma parlarono principalmente di politica ed economia, poi le loro strade si separarono, e il ragazzo gli diede una pacca sulla schiena.
“Spero di vederti tornare a Didsbury in compagnia, amico. Ma se ciò non dovesse succedere, beh, sappi che il mio divano ci sarà sempre, anche per un viaggiatore solitario.”
John sorrise, grato, e gli infilò di nascosto nella tasca della giacca una piccola sterlina, avvolta in un biglietto di ringraziamenti.
Aveva fatto così tanto, per lui, che si meritava un piccolo rimborso.
Dopo mezza giornata di viaggio sulla carrozza, scomodo e stretto sul proprio sedile, stringendo a sé il proprio bagaglio, finalmente arrivò a Liverpool.
Quel viaggio, che gli provocò qualche acciacco e un gran mal di testa, si rivelò utile a qualcosa, perché John si mise a scrivere.
E non sembrava più essere capace di smettere.

John continuò a scrivere per i seguenti mesi. Di giorno stava in biblioteca, leggendo tutto quello che c’era sulle stelle e sui loro moti, mentre di notte consumava fogli e inchiostro, trovando questo passatempo di gran sollievo. Era il suo modo per andare avanti con la vita, conservando però il ricordo di Paul.
In pochi mesi era stato concepito il suo primo romanzo: Julian e la Stella cadente.
La storia parlava dell’amore tra Julian, un umano, e Stella, caduta dal cielo per esaudire il desiderio del giovane terrestre. Il resto delle vicissitudini tra i due era noto: era la versione romanzata di ciò che aveva vissuto lui con Paul. Solo, la loro vicenda aveva il lieto fine.
Con tanto di matrimonio e tutto il resto, chiaro.
Chi se la sentiva di scrivere nero su bianco che la vita fa schifo, e che non tutti quelli che si amano hanno un finale felice? La gente non aveva bisogno di leggere la cruda verità in un libro. Che si illudessero tutti che potesse esistere un mondo in cui le cose andavano bene.
Certo, non avrebbe mai pensato di pubblicarlo davvero o di farlo leggere a qualcuno, se solo un giorno non l’avesse dimenticato sulla scrivania e zia Mimi l’avesse letto. All’inizio la reazione della donna era stata fredda e cinica, come se non volesse dar adito all’ennesima stranezza artistica del nipote, ma alla terza rilettura, dopo aver corretto alcuni passaggi, dovette essersi convinta che c’era qualcosa di buono e promettente, in quelle righe, perché decise di dargli una possibilità.
Alla fine di Aprile il manoscritto fu dunque inviato ad alcune case editrici di Birmingham, seppur contrariamente al volere di John e, dopo un mese e mezzo, il ragazzo ricevette una lettera entusiasta da parte di un editore. Il suo libro sarebbe andato in stampa, all’inizio solo con poche copie, circa un centinaio, ma poi, se avesse avuto successo, la tiratura sarebbe aumentata.
Fu così che la primavera volò via, tra la burocrazia e  la correzione del romanzo. In un battito di ciglia, arrivò l’estate.
John mantenne ancora una volta la promessa fatta a George: era finito il tempo di aspettare la sua stella cadente. Ormai Paul era uno dei personaggi del suo libro, non era tornato e non si era più palesato, se non nella sua testa. Insomma, era l’ora di voltar pagina per davvero.

Il romanzo sarebbe stato messo in commercio a metà giugno, ma sarebbe stato ufficialmente presentato al pubblico il 6 luglio.
Di nuovo, quella maledettissima data. Era il giorno in cui aveva conosciuto Paul.
E se invece, non fosse stata una casualità? Se fosse stato un regalo da parte del Cielo, per spronarlo a continuare a vivere la sua vita, senza la stella?
Carico e ottimista, si diresse fuori casa alla ricerca di Pete e Stuart per dar loro la notizia della pubblicazione.
Non che i suoi amici avessero preso bene tutta la faccenda della scrittura, l’avevano pure preso in giro per qualche giorno. Alla fine, però, dovevano aver capito che era un buon modo per rimorchiare, perché smisero all’improvviso e anzi, si appassionarono alle vicissitudini di John con la casa editrice.
Dunque, la notizia di un evento pubblico atto a sponsorizzare il libro del loro migliore amico, li fece esultare di gioia, pensando già alle donzelle che avrebbero potuto conoscere.
Inoltre, John sembrava aver raggiunto un certo equilibrio. Non che non si fossero divertiti, quando pensavano solo a sbronzarsi e a fumare, ma non credevano che fosse normale un comportamento del genere. Per quanto cercassero di non palesarlo, erano sollevati di vederlo sempre più simile a quello di una volta.
Furono ben felici, perciò, di brindare al successo del loro amico.
John ammirò le loro reazioni entusiaste e pensò che sì, quello era un segnale.
Il Cielo non avrebbe vinto contro di lui, non stavolta.

Il 6 luglio arrivò velocemente, e iniziò con un temporale, che svegliò John nel bel mezzo della notte. Un tuono fortissimo fece tremare i vetri della finestra della sua camera, e la pioggia incessante, che sbatteva contro il vetro, non lo fece dormire.
Quando il sole iniziò a sorgere, e zia Mimi gli capitò in camera pronta a richiamarlo, fu ben sorpresa di trovarlo già in piedi, vestito e pettinato.
Il programma della giornata era fitto di impegni, e John doveva essere il più operativo possibile: la presentazione sarebbe stata vicino all’Albert Dock all’ora del tè, e già nel primo pomeriggio doveva essere tutto pronto.
Una diligenza l’avrebbe accompagnato all’ufficio postale di Chester per andare a ritirare alcune copie del suo libro, dopodiché sarebbe ritornato a Liverpool in tempo per cambiarsi, lavarsi e relazionarsi con tutta quella gentaglia invitata dalla zia. La sola idea lo faceva rabbrividire.
In ogni caso avrebbe fatto qualsiasi cosa per non pensare a cosa quella giornata rappresentasse nella sua testa. Dunque fu ben felice di trovarsi, sulla diligenza per Chester, in compagnia di Stuart e Pete, che lo intrattennero con i loro stupidi commenti. Meno tempo passava da solo, meglio era.
Tra una corsa e l’altra si trovò in completo elegante, stretto tra Mimi e i suoi amici, in direzione dell’Albert Dock, senza nemmeno rendersene conto.
Entrò nella sala prenotata dalla zia e la prima cosa che lo sorprese fu la musica: un giovane pianista accompagnava le presentazioni e le chiacchere formali della gente. Poi l’odore di colonia cominciò a fargli pizzicare il naso, e dovette slacciare i primi bottoncini della camicia per riuscire a respirare. Il caldo era soffocante.
La pila di libri che aveva ritirato a Chester troneggiava su una piccola scrivania, e il dorso azzurro era ancora più bello, alla luce di quella sala.
Il suo breve romanzo era stato molto richiesto, e parecchie persone stringevano in mano la loro copia. Questa cosa lo faceva sentire molto strano, ma allo stesso tempo eccitato. Forse pubblicare quel libro non era stata un’idea poi così stupida.
Zia Mimi si avvicinò a lui, e lo strinse in un abbraccio imbarazzato, per sussurrargli qualcosa all’orecchio.
“Sono fiera di te, John.” Era come se non riuscisse più a trattenere quel pensiero, ora che gli si era formato nella testa. Non era da lei, esternare così i propri sentimenti, e per questo un pensiero simile valeva più di ogni complimento che potesse ricevere da uno sconosciuto.
“Ti voglio bene, zia.” Gli rispose il ragazzo alla fine, sussurrandolo appena e ricambiando impacciato quella stretta.
Quando Mimi fu chiamata da uno dei camerieri, John si staccò, si sistemò la giacca, e si avvicinò al banco del buffet: per la prima volta dopo qualche giorno sentiva di nuovo lo stimolo della fame. Meglio socializzare a stomaco pieno, si trovò a pensare.

Le sette arrivarono velocemente, ed era l’ora in cui John avrebbe letto un piccolo estratto dal suo libro. Dopodiché avrebbe risposto a qualche domanda e avrebbe firmato qualche copia, prima di congedarsi da tutti.
La gente sembrava divertirsi, in ogni caso. Alcuni bevevano, altri parlavano fitto fitto, mentre i pochi bambini presenti ballavano al ritmo della musica del signor Martin, il “pianista più talentuoso di tutta Liverpool”, come l’aveva definito sua zia. Nel mentre, Stuart e Pete sembravano molto delusi dalla scarsa presenza di giovani donzelle in età da marito, e si consolavano abbuffandosi di sandwich.
John si prese cinque minuti per sé e fumò nervosamente una sigaretta di nascosto da tutti. Non voleva far preoccupare la zia, ma non si sentiva affatto bene: i pensieri su Paul si stavano facendo sentire, più violenti che mai. Un brivido gli percorse la schiena: non aveva detto che avrebbe voltato pagina? Dannazione, si stava comportando come una checca!
Gettò indispettito il mozzicone il più lontano possibile, e tornò alla festa, stringendo nervosamente la sua copia del libro tra le mani.
Aveva scelto, come pezzo da leggere, uno dei più difficili e strazianti da scrivere: quello della realizzazione del desiderio.
Non sapeva esattamente cosa gli avesse detto che era una buona idea, forse il fatto che George Martin si fosse offerto di accompagnarlo con una melodia malinconica, o forse il fatto che sentisse il bisogno di avere vicino a sé Paul, e quello era l’unico modo di farlo rivivere.
Dunque, si schiarì la voce, si sedette comodo, aprì il suo manoscritto e cominciò a leggere.

“Stella guardò a lungo negli occhi verdi di Julian. Poteva quasi sentire il profumo dei prati di Irlanda che aveva ammirato dal cielo, e che non aveva mai toccato. Oh, se solo avesse potuto avere un giorno di più, un solo giorno di più! Non chiedeva molto! Per poter guardare solo per un altro giorno quei meravigliosi occhi e immaginarsi la vita che avrebbero potuto avere insieme.
Intanto, Julian tratteneva il fiato. Quando il petto iniziò a dolergli così forte da dover ricominciare a respirare o avrebbe perso i sensi, realizzò che tutto quello non era un sogno.
E realizzò soprattutto che avrebbe perso Stella, se avesse continuato a temporeggiare così.
Si avvicinò, sfiorando appena la morbida pelle delle sue guance. Gli ricordavano una pesca, uno di quei frutti succosi che rubava dalla dispensa della nonna quando era piccolo e andava in vacanza in Provenza.
Mentre quelle labbra, oh quelle labbra erano due meravigliose ciliegie. Rosse, lucide, invitanti. Erano inumidite come se avesse appena smesso di piovere.
Il respiro della giovane stella era sempre più affannoso e irregolare, ma Julian doveva provare, doveva rischiare. Si avvicinò ancora di più, e lasciò che i reciproci respiri si mescolassero.
In quei centimetri era racchiuso un piccolo universo di infinite possibilità: parole non dette, sogni infranti, futuri da vivere e passati già vissuti, da loro, o da altri amanti. Amanti che non avrebbero mai conosciuto, o di cui avevano solo letto nei libri.
Cosa avrebbero detto di loro, di Julian e di Stella, gli scrittori più bravi del sottoscritto?
Come sarebbero stati giudicati se qualcuno avesse aperto la porta, scoprendoli così vicini, così intimi?
Julian non sembrava pensarci, troppo spaventato dal semplice pensiero di perdere l’amore di Stella. Finalmente, dunque, trovò il coraggio di coprire quei pochi centimetri che li separavano, e poggiò le sue labbra su quelle della ragazza. 
Il solo contatto lo fece rabbrividire, prima di essere scaraventato dall’altra parte della stanza da un vento folle che fece spalancare le finestre. Il bagliore che illuminava la camera era immenso, e Julian pensò di essere morto. Che fosse quello il meraviglioso Paradiso?
No, perché Stella era ancora lì, sul suo divano, in preda alla sofferenza, e lo chiamava, lo implorava di avvicinarsi di nuovo a lei. Julian dunque strisciò fino al sofà, socchiudendo appena gli occhi, che ormai bruciavano come se andassero a fuoco. Non gli importava in realtà di morire, se questo avesse permesso alla sua amata di sopravvivere e di restare felice sulla Terra.  Le prese le mani e le strinse a sé, sfiorandole appena con le proprie labbra.
Ammirò per l’ultima volta Stella e, versando una piccola lacrima, chiuse gli occhi, esprimendo il suo grande desiderio: “Rendi possibile il mio vero amore.”
E detto questo, cadde in un sonno pesante e senza sogni.
Quando la mattina si svegliò, con gli occhi si mise a cercare Stella, ma sul sofà non c’era. Era rimasta solo la coperta, infagottata in un angolo. Si mise dunque a cercare, a chiamare, mentre sentiva il panico prendere possesso delle sue azioni e dei suoi pensieri.
Neanche il tempo di cercare le scarpe per fiondarsi fuori dalla casa, che dalla cucina una voce famigliare richiamò la sua attenzione.
“Dove scappi senza aver preso il tè?”
Julian spalancò la bocca, e gettò a terra la giacca e le scarpe.
Era Stella. La sua Stella.
Ed era lì, davanti ai suoi occhi, in tutta la sua bellezza.
“Temevo di averti persa.” disse il ragazzo alla fine, cercando di tranquillizzare la sua voce.
“Avevi o non avevi espresso il desiderio di realizzare il tuo vero amore?”

Con un tonfo chiuse il libro, facendo spaventare alcune persone, assorte nell’ascolto.
George Martin cambiò melodia, lasciando che l’accompagnamento diventasse più allegro e vivace. Alcuni cominciarono subito a parlottare fitto fitto, mentre Stuart e Pete si avvicinarono ed iniziarono sin da subito a prenderlo in giro.
Zia Mimi, che già vedeva in cattiva luce quei due ragazzi, non aveva del tutto approvato la scelta del nipote di invitarli alla presentazione ufficiale, ma alla fine aveva ceduto, dopo parecchi litigi e insistenze.
Eppure, ogni volta che li vedeva comportarsi come in uno dei pub di Liverpool, si sentiva in dovere di intervenire, e anche stavolta non fece eccezioni.
“Winston, caro, è ora dell’incontro con il pubblico.”
“Ma signora Smith, noi siamo parte del pubblico.” Disse Pete, con una gesto teatrale.
L’occhiata che gli rivolse Mimi fu così gelida da pietrificarli tutti e tre all’istante.
“Va bene, abbiamo capito! Noi ce la squagliamo allora, Jane Austen. Ci si becca dopo!” concluse Stuart, accelerando il passo e lasciando John da solo sotto lo sguardo severo della Zia.
“Oh andiamo, Mimi. Era solo uno scherzo!”
“Al lavoro, Winston. Non sei qui per divertirti. Ti chiedo di mostrare un po’ di responsabilità, solo per stasera. Fallo per me e per tutti i soldi che sto investendo in questa tua pubblicazione.”
John chinò lo sguardo, colpevole. Si sentiva di nuovo come quando, da bambino, saltava una lezione e veniva beccato. Zia Mimi difficilmente era stata una da schiaffi o da grida, ma usava una tecnica estremamente elegante, che provocava immediato senso di colpa. E la stava praticando di nuovo, nonostante John avesse ormai quasi 20 anni. Ed ottenne l’effetto sperato, come sempre.
Il ragazzo annuì gravemente, e si sedette alla scrivania, cercando di non strisciare troppo le gambe della sedia, per non fare troppo rumore. Proprio come uno scolaretto i primi giorni di scuola.
Le persone, pian pianino, si avvicinarono al suo tavolo, e cominciarono a porgergli la copia da firmare, mentre alcuni si soffermarono un paio di minuti per fargli qualche domanda.
La coda era scemata in modo rapido e piacevole. Il suo libro sembrava esser stato apprezzato davvero, e questa cosa non finiva di sorprenderlo.
Ormai la sala si stava svuotando rapidamente, e John si stava dedicando a fare un piccolo disegnino su una copia che gli era stata affidata da una piccola bambina asiatica. Era per la sua mamma, e stava per chiedere se “Yoko andasse con la i o con la j o con la y”, quando una voce maschile interruppe il flusso dei suoi pensieri.
“Mi dica, signor Lennon, non trova strano che il desiderio di Julian si sia realizzato così velocemente? Di solito ci vuole più tempo… per esempio, non saprei, un anno?”
John alzò lo sguardo, rovinando il piccolo disegno e la dedica per la bambina giapponese.
Si infilò velocemente gli occhiali, cercando di non danneggiare ancora di più il libro che aveva tra le mani, e guardò la persona davanti a sé.
“Un anno, non mi dire.”
“Sì, di solito è così che funziona. Credo che il suo romanzo sia poco realistico.”
“E lei sarebbe?” chiese, coprendosi la bocca con la mano libera.
“Sono del.. sì, del sindacato delle stelle cadenti. Mi chiamo Paul.” Rispose l’altro, non riuscendo a smettere di sorridere a sua volta.
Si guardarono per dei minuti, forse per delle ore, non lo sapevano con esattezza. John stringeva la stilografica tra le mani così forte da farsi male; Paul si aggrappava alla scrivania, come se avesse paura di cadere in preda all’emozione.
Se possibile, pensò la stella, John si era fatto ancora più bello. La barba cominciava a intravedersi sempre di più nonostante fosse rasata, il capello era ordinato e ben pettinato, ma sempre dispettoso, con qualche piccolo ciuffo mosso sfuggito alla cera. Solo le occhiaie si erano fatte più accentuate, ma doveva essere normale, con l’ansia per la presentazione.
John studiò la stella davanti a sé e la trovò invece esattamente uguale a com’era un anno prima. Solo, indossava un completo bianco diverso, e i suoi capelli erano leggermente più lunghi, ma per il resto era il solito Paul. Il suo Paul. Il suo bellissimo Paul.
Mollò la penna calligrafica per allungare la mano: doveva toccarlo. Sentiva il bisogno di avere la conferma immediata che fosse lui, che fosse vero, e che non stesse sognando. Ma, ad interromperlo, intervenne la piccola bimba asiatica che, mano nella mano con la mamma, reclamò il libro autografato.
John glielo diede, senza però badare troppo a ciò che faceva, impegnato com’era dal non distogliere lo sguardo da Paul. Aveva il terrore che se si fosse voltato per un solo istante, la stella sarebbe scomparsa.
Il tomo cadde con un tonfo, e madre e figlia si indispettirono molto davanti al comportamento dello scrittore, e se ne andarono, lasciando John nel suo mondo.
Alla fine riuscì a prendere la mano di Paul, e Dio sì, era vero. Era davvero lì. Non era un sogno. Poteva sentire la pelle d’oca sul braccio della stella, poteva percepire il freddo delle sue dita, nonostante facesse un caldo tremendo in quella stanza. Poteva persino sentire la morbidezza del raso della sua camicia.
Zia Mimi si avvicinò per informarlo che di lì a pochi minuti la festa sarebbe finita, ma la sua voce non arrivò davvero alle orecchie del nipote.
Paul gli rivolse un sorriso più dolce, mentre si staccava dalla sua presa con forza.
“Ora questa gente ha bisogno di te. Io ti aspetto fuori.” Sussurrò appena, voltandosi.
Il ragazzo cercò di farlo rimanere, ma senza risultato.
“Promesso, sarò al molo ad attenderti.” La voce della stella era così melodiosa e rassicurante. Era esattamente come se la ricordava.
John si morse il labbro e si trattenne dal gridare come un pazzo.  Lo guardò uscire dalla sala e si trovò a pregare che non stesse davvero sognando ogni cosa, e che avrebbe davvero trovato la stella, fuori ad aspettarlo.

I saluti si protrassero per parecchi minuti. Dovettero congedare George Martin, il catering, gli ultimi ospiti che non sembravano aver voglia di andarsene, e infine accordarsi per i pagamenti.
John affidò a zia Mimi la piccola busta con i guadagni della serata, e fu molto fiero di se stesso. Il suo romanzo poteva anche essere melenso e banale, come l’avevano definito i suoi amici, ma gli aveva permesso di intascarsi un buon gruzzolo! Uscì dunque da quella dannata sala e inspirò a pieni polmoni l’aria fresca che profumava di estate, prima di accendersi una sigaretta. Con una scusa si allontanò dalla zia, e si mise a cercare Paul attorno al molo.
Passarono i minuti, gettò in acqua il terzo mozzicone, e la stella ancora non si vedeva. Il cielo intanto si era scurito, e fu portato dal vento il rintocco delle campane della cattedrale: erano le 10. La festa era finita da un’ora, ormai.
E di nuovo, il dubbio. Se si fosse sognato tutto? E se Paul fosse stato una visione?
Uno scherzo di cattivo gusto del Cielo per farlo andare fuori di testa?
Si mise a correre ancora prima di accorgersene: doveva chiedere a zia Mimi se avesse visto anche lei il giovane ragazzo alla festa, o se fosse stato l’ennesimo miraggio. Forse, se avesse avuto fortuna, l’avrebbe trovata ancora ferma sotto il Royal Liver ad aspettare il taxi.
Durante quella sua folle corsa, John si scontrò con una figura smilza, e cadde con un tonfo, sbattendo rovinosamente il fondoschiena contro il marciapiede.
“Ehy, attento amico!”
“Paul?” esclamò John, immobile a terra.
“Oddio, sei tu? Grazie a Dio!” rispose Paul, gettandosi su di lui, abbracciandolo impacciato.
“Dove..? Cosa…?”
“Dio, avevo paura ti fossi dimenticato di me! Temevo di dover trascorrere tutta la notte qui, e ho già visto un paio di barboni che adocchiavano il mio bellissimo cappotto bianco. Per non parlare delle zanz…”
Paul non finì mai il suo sproloquio, perché John lo interruppe prima, scoppiando a ridere rumorosamente.
“Sei tornato.” Disse alla fine, senza smettere di sorridere come un idiota.
“Sì.”
“Per davvero?”
“Per davvero.” Rispose Paul, avvicinandosi.
“E non è un sogno o una mia proiezione mentale, o uno scherzo del Cielo?”
“No, sono qui davvero. Per restare.” I loro nasi cominciarono a sfiorarsi.
“Per restare con me.” Solo pochi centimetri ormai separavano le loro bocche, quando un barbone, vedendoli così vicini,  gridò una bestemmia e sputò a pochi metri da loro.
Fu come vivere, da cosciente, quella strana sensazione di precipitare, che di solito ti coglie prima di addormentarti. Un duro, durissimo ritorno alla realtà.
“Vieni, Paul, andiamo a casa.” Disse John, rosso come un pomodoro, alzandosi da terra.
La stella, con la testa bassa, lo seguì.

Mendips distava quasi due ore a piedi dall’Albert Dock, ma decisero di non prendere il taxi e di camminare. Avevano un anno da recuperare, no? E John aveva così tante domande in testa!
“Allora, cominciamo dall’inizio, cosa è successo?”
“Io e te abbiamo espresso lo stesso desiderio, nel pieno del massimo splendore, quindi andava realizzato. Ma in Cielo hanno provato lo stesso a farla franca, a separarci, forse perché non riuscivano davvero ad accettare una simile sconfitta? Non lo so, ma una volta dimostrato che non potevano più tenermi lontano da te, mi hanno rispedito giù. Ed eccomi qua.”
John si morse nervosamente l’unghia del pollice. Gli sfuggiva qualcosa.
“Ed è bastato esprimere lo stesso desiderio?”
“Sì perché, mh, a quanto pare io sono sceso dal cielo proprio in quanto tuo… tuo… e come tale il desiderio si è realizzato.” Il suo tono di voce si fece sempre più basso, e cominciò a gesticolare sempre più nervosamente.
Cosa?”
“Sì, hai capito.”
No, John non aveva affatto capito, si voltò a guardare Paul, e nonostante il buio poteva vedere quanto fosse arrossito, e quanto si vergognasse di quello che doveva dire.
“Va bene, ma come sei duro di comprendonio, dannato terrestre! Il fato ha voluto che proprio io insistessi in quella occasione, e scendessi io ad esaudire il tuo desiderio, perché ero io la persona giusta per te. E quando abbiamo chiesto… di rendere possibile il tuo vero amore, non poteva andare altrimenti. Cioè, così mi è stato detto. Ma se hai cambiato idea, io posso.. mh, andare da George?”
“Aspetta, vuoi dirmi che il mio desiderio sin dall’inizio non si rivolgeva a Cynthia, ma a te? Perché tu sei il mio…?” era una sua impressione o cominciava a fare caldo? La brezza estiva si stava facendo stranamente soffocante, per essere notte.
“Sì, il tuo… vero amore. Ecco.” Concluse Paul, abbassando la testa e  arrossendo ancora di più.
Cadde un silenzio imbarazzato, e l’unico rumore che accompagnava i loro pensieri frenetici era quello del loro passo, veloce e nervoso.
John si spronò a trovare qualcos’altro da dire in fretta, in fondo ne aveva ancora di cose da sapere! Ma un groppo alla gola gli rese difficile prendere la parola.
Alla fine si fece coraggio, strinse i pugni e cominciò a parlare.
“E sei piombato giù dal cielo oggi?”
“Oh no, sono caduto sulla Terra qualche settimana fa. Ero finito nei pressi di Dublino, e non sapevo minimamente cosa fare. Fortunatamente, dopo solo pochi giorni, il proprietario di un pub mi ha offerto un lavoro. All’inizio ero un tuttofare, poi hanno cominciato a farmi suonare il pianoforte per intrattenere i clienti. Non credevo di essere in grado di strimpellare anche quello! In ogni caso sono stato lì per quasi un mese, il tempo di lavorare e di guadagnare i soldi per raggiungere Liverpool. Sono arrivato con il traghetto ieri, è stato un viaggio terrificante! Non credevo si muovessero così tanto quelle barche, che nausea terribile! Stavo dicendo? Ah, sì! Sono giunto a Liverpool e ho subito chiesto di te in giro, e un tizio, credo sia un tuo amico, mi ha detto che oggi c’era la presentazione ufficiale del tuo libro. E così mi sono imbucato. Avrei potuto aspettare, ma non ce la facevo più, avevo bisogno di vederti!”
Un’altra lunghissima pausa.
John in realtà aveva quella domanda in testa da quando l’aveva rivisto alla festa. Era stato il suo pensiero fisso, ma formularla implicava ricevere una risposta che faceva paura, tanta paura.
“E non hanno chiesto nulla in cambio, stavolta?”
Paul cominciò a giocare con una ciocca dei suoi capelli e cercò di pesare bene le parole da dirgli.
“Pensano che il semplice fatto che due uomini vogliano stare assieme sia una punizione più che sufficiente.”
Il silenzio, se possibile, si fece ancora più imbarazzante e pesante.
“Sempre se lo vorrai, John. Questo è ovvio. Io.. credo che dovremo pensarci bene. Tu sei ancora in tempo per trovarti qualcun'altra e vivere felice la tua vita. Hai vissuto bene sulla Terra senza di me per un anno, puoi continuare, no? E’ vero, anche a me ha fatto piacere rivederti e…”
“Paul, per favore, sta’ zitto.”
E la stella, mordendosi le labbra, obbedì.

La seconda parte del tragitto fu ben più lunga della prima. L’aria era piena di domande che nessuno dei due aveva il coraggio di fare, e i ragazzi si tenevano a distanza di sicurezza. L’unica volta in cui si sfiorarono, per caso, un brivido percorse la schiena di entrambi, e aumentarono ancora lo spazio tra di loro.
In quella situazione così impacciata e precaria, il commento di odio ricevuto dal barbone si ripeteva in continuazione, nelle loro teste.
Era quello che li aspettava: un mondo di segreti, di confessioni sussurrate, di paure e di rischi.
John sapeva perfettamente cosa avrebbero dovuto affrontare se fossero stati scoperti: potevano essere o puniti severamente, o peggio, arrestati. Voleva davvero che la stella, la sua meravigliosa, innocente stella, patisse tutto quel dolore? Forse Paul si stava già pentendo di essere tornato sulla Terra, un pianeta con così tanto odio.
John scoprì dunque che avrebbe preferito restare solo tutta la vita, piuttosto che forzare colui che amava a vivere in una situazione del genere. Che stupido ed egoista era stato: in quell’anno era stato così preso da sé e dal suo dolore, da non pensare all’altro.

Finalmente arrivarono a Mendips, poco dopo lo scoccare della mezzanotte. Zia Mimi, stranamente, sembrava dormire nella grossa.
Paul, dunque, decise di sistemarsi sul divano, per non disturbare il sonno di John. Si sciacquò il viso, si tolse la giacca e si coprì alla bell’e meglio, prima di fingere di dormire. Non è che si sentisse davvero stanco, voleva solo mettere a tacere la sua testa per un po’. In quelle settimane sulla Terra era stato così preso dal solo pensiero di quell’incontro, da non considerare minimamente le conseguenze che avrebbe potuto avere sulla sua vita. Inoltre, se fosse stato rifiutato, cosa che credeva fermamente sarebbe successa, si sarebbe trovato sulla Terra a vivere una vita senza amore, senza… senza senso. E questo pensiero faceva paura.
Che stupido era stato a chiedere di diventare un umano. Stupido ed egoista, così preso da se stesso da non pensare a come avrebbe rovinato la vita della persona che amava.
Si asciugò velocemente le lacrime e si morse il labbro.
Cosa aveva fatto?
 
 John intanto, chiuso nella sua stanza, si spogliò e indossò la sua vestaglia da camera, dopodiché prese una sigaretta e la accese, cercando di buttare tutto il fumo fuori dalla finestra spalancata.
All’ultimo, lunghissimo tiro, sapeva perfettamente cosa fare. E non era dormire, oh no.
Gettò il mozzicone in giardino, sentendo già i rimproveri di zia Mimi il giorno dopo, e si diresse con un balzo fuori dalla propria camera e giù dalle scale.
Non si preoccupò nemmeno di fare poco rumore per non svegliare Paul, era esattamente ciò che voleva.
Gli gettò via la coperta, lo prese per un polso e lo trascinò su con sé, ignorando i suoi lamenti e le sue domande confuse. Una volta chiusa a chiave la porta della camera, John prese il volto della stella tra le sue mani e gli sorrise appena.
“Cosa diavolo stiamo facendo, Paul?”
“Non capisco.” Rispose la stella, rabbrividendo a quel contatto.
“Io ho aspettato di rivederti per un anno intero, ho bevuto, Dio solo sa quanto ho bevuto! Ho fumato, ho fatto cazzate che mi vergogno di ripetere, sono persino tornato a Manchester… tutto questo per te.
Ho passato settimane intere chiuso in casa perché il solo pensiero di affrontare un mondo in cui non saresti stato al mio fianco era spaventoso, terrificante. Ho creduto di aver sognato ogni cosa, perché tutti mi dicevano che ero un pazzo, che non eri mai esistito. E ora sei qui con me, finalmente. E questo non è un sogno, è la dannatissima realtà. Non lascerò che tu vada via da me un’altra volta, non lo permetterò.”
Paul lo guardò intensamente, e cercò di farsi forza, di non cedere subito.
“Ma non capisci a cosa vai incontro? Non sarei mai dovuto venire a cercarti, sono uno stupido…”
“Fanculo tutto quanto. Andremo a vivere in un paese sperduto della Scozia e là ci faremo una fattoria. Vuoi le caprette? Avremo le caprette. O se vuoi ce ne scappiamo in America, in quelle grandi città nessuno saprà nemmeno come ci chiamiamo. Oppure, oppure… potremo cercare gli Hurricanes e girare l’Inghilterra con loro. Potremo essere tutto quello che vogliamo. Ma insieme. Non azzardarti a lasciarmi un’altra volta, stellina.”
Lo sguardo di John era la cosa più bella che Paul avesse mai visto. Non c’erano stelle che potessero reggere il paragone con quegli occhi ora. Gli occhi di un uomo che costruiva un gigantesco, meraviglioso, sogno su misura per loro due.
A cosa serviva negare la verità ancora? Sopprimere i propri sentimenti di nuovo?
“Non posso lasciarti, John. Non più.” Sussurrò appena, cercando di non crollare davanti a lui.
“Ti conviene, o me la pagherai.”
“Ah, e come?”
“Ti faccio vedere io.” Concluse ridendo, prima di coprire quei pochi centimetri che li separavano per baciarlo.
Fu un bacio all’inizio impacciato e teso, le mani di John cercavano di non tremare troppo mentre stringevano il viso della stella. Paul si aggrappò alla schiena dell’altro, un po’ perché non credeva che le sue gambe avrebbero retto, un po’ perché aveva sognato per troppo tempo quell’abbraccio.
Il calore del corpo di John spazzò via in un solo colpo ogni pensiero negativo, ogni dubbio. Non poteva mentire a se stesso, era quello il suo posto nel mondo. Non nel cielo, ma lì, tra quelle braccia.
E sì, fanculo, quel bacio valeva tutte le sofferenze e i dolori della Terra.

John ispirò profondamente, lasciandosi beare dal profumo di miele che proveniva dai capelli di Paul. Spostò con una carezza il ciuffo dalla fronte del ragazzo, e lo ammirò di nuovo, in tutta la sua bellezza.
Gli diede un leggero bacio sul naso e lo strinse ancora più forte a sé, in un abbraccio impacciato e sonnolento. Il solo vederlo sbadigliare e muoversi lentamente nel sonno tra le sue braccia era una visione stupenda.
Dio, non c’era altro posto in cui sarebbe voluto stare, se non lì. In un letto troppo piccolo, con mezze gambe fuori al freddo, solo per poter permettere a Paul di dormire con lui, stretti dopo aver fatto l’amore.
“John, mi stai stritolando.” Sussurrò, ridendo.
Un piccolo bacio a fior di labbra.
“Ti amo, Paul. Lo sai?”
La stella sgranò gli occhi, e sorrise senza essere in grado di trattenersi.
“Ce la faremo, John?”
“Ce la faremo, promesso. E lo sai perché?”
Paul fece cenno di no con la testa, mordendosi appena il labbro. Non credeva fosse possibile provare una tale felicità. Non c’era splendore che reggeva il confronto con qualcosa di così straordinario e magico.
“Perché sei il mio desiderio realizzato.”








Angolo dell’autrice:

Ma salve a tutti!
Avevate paura che fossi sparita per sempre, anche io insieme a Paulie vero? Magari qualcuno di voi ci sperava pure… e invece, fregati tutti! Muahahaha.
Sono molto triste/felice di annunciare che la mia prima long del fandom è giunta al termine, ma ehy, avete avuto il lieto fine, siete o non siete fortunati? Vi voglio poco bene? ;)
Scherzi a parte, vi voglio davvero molto bene.
Innanzitutto perché per merito vostro ho portato a termine questa mia “cosa”. E poi perché ormai era diventato per me un appuntamento immancabile con tutti voi.. e mi mancherete tanto.
Vorrei citarvi uno ad uno, ma la cosa si farebbe troppo lunga, dunque vi basti sapere che sto mandando un gigantesco abbraccio a chiunque abbia letto e, magari, recensito questa storia. E un abbraccio ancora più forte a chi, in via privata, mi ha dato sostegni preziosissimi. Grazie, siete stati meravigliosi tutti.
Spero questo mio ultimo capitolo non vi abbia deluso <3
Infine, non mi sono dimenticata di te, Kia85. Pensavi che non t’avrei ringraziato?
Senza di te, mia cara, questa Au sarebbe rimasta in una cartella remota del mio pc, ad ammuffire. E poi, probabilmente, l’avrei cancellata. Invece tu mi hai fatto ricominciare a scrivere, in primis, e poi mi hai incoraggiata un sacco ogni volta che ti scrivevo, con le mie noiosissime paturnie. E tu, non solo non ti sei stufata di me, ma sei diventata anche mia amica!
Quindi, lasciami dire, che mi sento fortunata, perché questa semplice storia mi ha fatto riscoprire un hobby e mi ha fatto trovare un’amicizia. Grazie della pazienza, del sostegno e dell’affetto.
Che altro dire? Ho parlato anche troppo, come al solito. Ci si legge presto, prestissimo. E’ una minaccia  promessa ♥
Grazie ancora,
Anya



 

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