That Love Is All There Is - Old Tales [FONDATORI] di Terre_del_Nord (/viewuser.php?uid=52219)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I.001 - TERRE DEL NORD - AED DI GLOWER ***
Capitolo 2: *** I.002 - TERRE DEL NORD - CUILéN ***
Capitolo 3: *** I.003 - TERRE DEL NORD - DòMNHALL ***
Capitolo 4: *** I.004 - TERRE DEL NORD - STORIA DI SHEIRA E CORMACC ***
Capitolo 5: *** I.005 - TERRE DEL NORD - LA RADURA ***
Capitolo 6: *** I.006 - TERRE DEL NORD - IL SIGNORE DEI SERPENTI ***
Capitolo 7: *** I.007 - TERRE DEL NORD - DI CENTAURI, FRATI E CACCIATORI ***
Capitolo 9: *** I.008 - TERRE DEL NORD - IL NERO ***
Capitolo 1 *** I.001 - TERRE DEL NORD - AED DI GLOWER ***
NOTE
INTRODUTTIVE
GENERE
Avventura,
Drammatico, Romantico, Guerra.
RATING
Arancione per le
scene
più
drammatiche.
PERSONAGGI
I quattro Fondatori
di Hogwarts, gli
"antenati" degli Sherton e la Confraternita del Nord (i miei personaggi
originali).
DESCRIZIONE
Spin off di That
love is all there is, narra le vicissitudini dei quattro
Fondatori e la nascita di Hogwarts, parla della Magia delle Terre del
Nord e dei legami di Salazar Slytherin con la Confraternita e gli
Sherton.
NOTE
1. Nel 2013
ho cambiato il mio nickname EFP da Meissa_s
a Terre_del_Nord.
2.
Ringrazio tutti
coloro che leggeranno, commenteranno e/o metteranno
tra i preferiti questa fic e naturalmente coloro che l'hanno
già fatto...
3.
Potete trovare
info relative alle storie della serie That Love sulla mia pagina autore
in
EFP e su FB dove esistono una
pagina e un
gruppo
dedicati alle mie storie.
DISCLAIMER
1. I personaggi e la trama di questa
storia mi appartengono, a eccezione dei personaggi e delle vicende
"canon" di Salazar Slytherin, Rowena Ravenclaw, Godric Gryffindor e
Helga Hufflepuff, che sono di proprietà di J.K. Rowling.
2. Storia scritta per
divertimento, non a fini di lucro.
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.001
- Aed di Glower
Regno
di Alba, anno del Signore 962
I pochi sopravissuti emersero dalle nebbie
sul far del mattino, simili
a pallide ombre provenienti dal regno delle anime: stremati, avevano
camminato per trenta giorni e trenta notti, lasciandosi la costa alle
spalle, la spiaggia di Cullen disseminata di morti e di feriti,
abbandonati alle maree. Erano contadini, servi, non soldati, erano
stati chiamati dal loro signore a difendere la loro terra e si erano
ritrovati tra orrori che avrebbero desiderato dimenticare, senza
poterci mai riuscire. La battaglia era stata feroce: amici, figli,
fratelli, tutti erano
caduti. Persino re Indulf aveva perduto la vita. Ora il nemico
proveniente dal mare era stato sconfitto, l’invasione
scongiurata. Tutti temevano, però, che fosse solo una
questione di tempo: la popolazione era sfinita, denutrita, afflitta
dalle malattie, decimata. Stava perdendo la speranza. E con essa, la
Fede. Tra le retrovie, alcuni dicevano che persino il devoto
Áed
mac Taidg, signore di Glower-o'er-em, avesse tradito il Crocefisso per
affidarsi alle pratiche antiche e per questo, ora, fosse punito con la
più feroce delle penitenze: aveva perso in battaglia
Máel, il suo unico figlio maschio, e questo aveva fatto
sì che la vittoria, per lui, diventasse la più
amara delle sconfitte. Áed aveva avuto solo un pensiero, in
quegli ultimi trenta
giorni, ricondurre a casa ciò che restava dei suoi uomini e
adesso, in sella al suo frisone nero, muto, a capo chino, lo sguardo
perso nel vuoto, era arrivato al termine del suo viaggio. La colpa era
sua, solo sua, lo sapeva bene: non era necessario confessarsi col
cappellano su, al maniero, sapeva che quella era la punizione di Dio,
per aver perduto la Fede, anni prima, e aver agito come il peggiore dei
pagani. Mentre l’alba rischiarava i contorni delle colline e
si
specchiava nelle acque scure appena increspate di Loch a'Mhuilidh,
mostrandogli di nuovo la malinconica bellezza del suo mondo, non
riusciva a tollerare quel dolore, la rovina di tutto ciò che
era e possedeva, preda d’immagini che non avrebbe dimenticato
più: aveva sotterrato suo figlio, aveva visto sparire per
sempre nella terra gelida i capelli color del grano del suo
Máel e in quel tragico frangente aveva compreso come la sua
avidità fosse la causa di tutto. Ora gli restavano anni
vuoti, da dedicare al dolore, alla solitudine e al rimorso. E alla
vendetta. Un’insana, inutile, disperata vendetta.
«È tutta colpa tua,
dannata Strega!»
Colpì, feroce, i fianchi del suo cavallo, costringendolo a
riprendere il galoppo, illudendosi che fosse possibile correre lontano
dai ricordi e dal dolore. Era colpa sua, sì, e di quella
maledetta adoratrice del demonio.
*
Erano passati oltre
sedici anni dalla prima volta che l’aveva
vista.
Si trovava a Fonn Abhuinn, appena oltre il confine delle sue
terre, per vendere i velli appena tosati alla fiera delle lane, quando
aveva visto quella donna, con il moccioso appeso al collo:
l’aveva notata subito, bella, con i capelli corvini sciolti
sulle spalle, una tunica color verde scuro, diversa da quelle grigie e
sporche che portavano tutti i servi. Appena i suoi occhi si erano
posati su di lei, per la prima volta nella sua vita, Áed mac
Taidg, signore di Glower-o'er-em aveva dimenticato il pudore che si
richiede a un uomo timorato di Dio, aveva provato un desiderio ardente
per una donna che non fosse sua moglie, aveva bramato stringere a
sé quelle forme morbide e piene, avviluppare, con le sue,
quelle labbra vermiglie. Aveva iniziato a seguirla tra i banchi del
mercato, folle, smanioso di contrattare il prezzo di quella "carne",
consapevole in cuor suo che sarebbe stato capace persino di prenderla
contro la sua volontà, nel buio di qualche vicolo malfamato,
se si fosse sottratta ai suoi bisogni. Quando, però, si era
avvicinato a lei, furtivo, non erano serviti gesti o parole, era stato
sufficiente lo sguardo penetrante della donna a confonderlo. Non ne
aveva mai incontrata nessuna, fino a quel momento, ma già
dall'infanzia era stato avvertito che esistevano donne capaci di
piegare l'altrui volontà con un unico sguardo, e quella che
aveva davanti doveva possedere quel potere. La donna aveva sorriso,
gentile: era molto più giovane e persino più
bella di quanto avesse notato da lontano, si era avvicinata senza
timore e gli aveva chiesto una moneta d’oro, una singola
moneta d’oro, per comprare cibo per suo figlio, in cambio gli
avrebbe svelato il suo destino, la via per ottenere successo, amore,
fortuna, tutto ciò che un uomo potesse desiderare.
Nonostante gli ammonimenti, Áed non aveva mai creduto a
quelle pratiche antiche, certo che se qualcuno avesse avuto
capacità simili, le avrebbe sfruttate per ottenere ricchezza
e potere per se stesso, non avrebbe continuato a vivere nella miseria,
mendicando favori e denaro dal prossimo. Da quando era diventato il
signore delle terre ereditate da suo padre, perciò, aveva
denunciato spesso indovini e mendicanti, rei di approfittarsi
dell’ingenuità del popolo e offendere la
verità del Cristo, eppure quel giorno… Non si riconosceva
più, l’unica cosa che
desiderava era poter continuare a fissare quel volto. La donna aveva
sorriso, di nuovo, enigmatica, sembrava avesse letto nei suoi pensieri
e conoscesse i suoi dubbi, così, prontamente, si era voltata
per allontanarsi: aveva capito che l’uomo che aveva di fronte
non era uno stolto qualsiasi, pronto a credere a qualsiasi fandonia, e
percepiva quanto la lussuria dilaniasse la sua mente e la sua carne.
Era stato allora, mentre si allontanava, che Áed aveva
incrociato lo sguardo del bambino, aggrappato alle spalle della madre:
aveva due grandi occhi, grigi come il mercurio, che facevano capolino
tra i folti capelli scuri e degli strani segni neri sulle nocche della
dita, simili a sottili ricami di seta. Non aveva le guance sporche,
rigate dalle lacrime della fame, come tutti i mendicanti, non
provenivano, dunque, dalle colline circostanti: nei suoi possedimenti,
come in quelli confinanti, gli ultimi anni di guerra avevano ridotto
alla fame buona parte della popolazione. Áed l'aveva
raggiunta, aveva
messo mano alla sacca che portava alla cintola e aveva contato tante
monete d’argento da fare due monete d’oro, poi le
aveva offerte alla donna deciso a prendersi ciò che voleva
da lei e tornare subito dopo alle sue commissioni: lei fece no con la
testa, c’era fierezza nel suo
sguardo, la fierezza di chi non accetta elemosina e non scende a
compromessi; Áed l'aveva fissata a lungo, poi, compreso che
non c'era modo di soddisfare i propri desideri, aveva ripreso
metà delle monete offerte ma
aveva lasciato che la giovane gli prendesse le mani, per leggergli il
suo destino.
«Sei un uomo ricco e potente,
mio signore, ma non hai ancora trovato la tua pace e la tua strada, non
sai come lasciare un segno su questa terra… Vorresti
qualcosa di più di un gregge che pascola florido tra le
colline. La tua linea della vita dice che puoi ottenere ciò
che vuoi, per te e la tua stirpe, se avrai a cuore la tua terra e la
tua gente. È scritto nel tuo destino, Áed di
Glower: tu sarai un cavaliere. Presto verrà un nuovo re che
ti darà un compito e tu lo porterai a compimento. Entrerai
nella sua casa e il tuo nome sarà ricordato nei secoli.
Sempre che tu lo voglia...»
Era vero, Áed
aveva
sempre sognato di essere qualcosa di più, non desiderava
passare la sua vita senza lasciare un segno, avrebbe voluto conoscere
il mondo, legare il suo nome alla leggenda, contribuire a far nascere
un regno importante nella sua terra. Invece, fin dalla nascita gli
altri avevano scelto ogni cosa al suo posto, la sua vita era fatta solo
di quelle inutili pecore e quegli odiati contadini, era stato destinato
a sua moglie ancor prima di venire al mondo. E tutto questo per
cosa? Solo per ottenere una famiglia fatta di troppe figlie femmine da
sistemare.
«Non c’è
futuro, senza figli maschi…»
«La linea della vita lo dice
chiaramente, mio signore, la stirpe dei mac Taidg non si
esaurirà con te e tu sarai amato e ricordato dal tuo
popolo… vieni al limitare del bosco di Am Monadh, la notte
di Litha… ti darò un filtro per tua moglie. Dopo
nove lune, avrai il tuo erede… ma ricordati...
perché il tuo destino si compia, occorre che tu voglia il
bene della tua terra...»
L’aveva vista
sparire con il figlio al collo, tra la gente
che trattava merci al mercato. Era ritornato a casa,
aveva ripreso la sua vita, ma
all’avvicinarsi del Solstizio d’Estate, la donna
aveva popolato sempre più spesso i suoi sogni, invitandolo a
ricordare il loro appuntamento. La notte di Litha, perciò,
aveva preso il cavallo e, da solo, aveva percorso il lungo sentiero
scosceso fino a una radura circondata da querce: la Strega era uscita
dalla boscaglia, accompagnata da un imponente cane nero, appena la luna
si era alzata tra gli alberi e aveva iniziato a proiettare la sua luce
dal centro del cerchio di fronde; Áed aveva tremato di
paura, credeva che quel cane fosse l’incarnazione del
demonio, ma la donna si era avvicinata solo il tempo di dargli un
sacchetto
di erbe selvatiche e un filtro da mescolare il mattino seguente
nell’acqua della moglie, poi, insieme al cane, era sparita. Áed aveva
fatto come gli era stato ordinato e nove mesi
più tardi, il giorno dell’equinozio di primavera,
la sua famiglia era stata benedetta dalla nascita di un figlio maschio:
Máel.
*
Non era stata quella, però, l’ultima volta che
Áed aveva incontrato la Strega.
Un lugubre, freddo, mattino di
novembre di quasi dieci anni più tardi, il signore di Glower
era nella piazza del suo villaggio, per assistere
all’esecuzione di un gruppo di delinquenti comuni condannati
a morte: quel giorno toccava a cinque ladri, un parricida e un
adoratore del demonio, che gli era stato raccomandato da
Gregorius, il suo cappellano. Ora che la sua vita era completa, ora che
aveva ritrovato la pace e la serenità attraverso suo figlio,
Áed riteneva giusto assistere a tutte quelle
esecuzioni, così come alle funzioni religiose: riteneva
fosse suo compito rendere merito a Dio dell'infinita
generosità mostrata nei suoi confronti, aiutandolo a
mantenere in
piedi un regno fatto di giustizia, anche in quella valle di lacrime che
era la vita terrena. Si era seduto al suo posto, stretto nel suo
mantello di calda lana, aveva visto, come innumerevoli altre volte, il
boia accompagnare sul patibolo, uno dopo l’altro, i
condannati, passare i cappi intorno alle loro teste e far scattare la
botola ai loro piedi, aveva sentito uno dopo l’altro quei
colli spezzarsi e quelle vite spirare, e non aveva battuto ciglio di
fronte alla disperazione dei parenti, alle acclamazioni del popolo, ai
pianti dei condannati, pur sapendo di aver sentenziato la loro morte
senza nemmeno controllare che le accuse mosse corrispondessero al vero.
Aveva piluccato dal vassoio la sua frutta, impassibile, per tutto il
tempo, davanti agli occhi della sua gente, incavati dalla miseria e
dalla fame. Quando era stato portato sul patibolo l’ultimo
condannato,
però, le cose non erano andate secondo le previsioni: un
grido alto e incomprensibile aveva attraversato la folla, facendola
dividere, sbandare di paura, aprirsi come una ferita nella terra, e
mentre la botola scattava e il collo dell’adoratore del
demonio non si spezzava come quello di tutti gli altri,
perché l’uomo scompariva di colpo nel nulla,
Áed rischiò di strozzarsi con il boccone che
stava mangiando, vedendo emergere dalla folla la chioma corvina della
Strega, i capelli appiccicati al volto dalla pioggia che aveva iniziato
a sferzare tutti loro con violenza. Áed diede l'ordine alle
guardie di fermarla, ma accanto alla donna, visibilmente incinta,
comparve dal nulla il cane nero che, digrignando i denti, tenne lontani
tutti coloro che cercavano di ostacolarla, mentre si avvicinava al
palco su cui il signore di Glower-o 'er-em assisteva alle esecuzioni.
«Áed mac Taidg,
perché ripaghi la tua terra e la tua gente, della fortuna
donata, con l’ingiustizia? Il tuo destino si
compirà solo se tu lo vorrai, questo ti dissi... Cambia i
tuoi passi, signore di Glower, sei ancora in tempo... o ti avverto, la
maledizione degli Antichi perseguiterà te e la tua stirpe,
fino alla fine dei tempi…»
Era sparita subito, con il suo cane, in una nuvola di zolfo, dissero i
presenti, proprio come era apparsa,
lasciando tutti spaventati e confusi.
Da allora, per quasi due anni, Áed era vissuto nel terrore e
nell'inerzia, non comprendendo in quale direzione dovesse muovere i
propri passi per non scatenare contro se stesso quella misteriosa
minaccia, poi, pur guardingo, la vita e gli anni avevano via via
cancellato dai suoi pensieri il ricordo della Strega e della
maledizione, fino al giorno in cui aveva visto Máel spirare
tra le sue braccia, durante la battaglia. Non aveva pensato alla Strega
nemmeno quando, evidentemente, il destino promesso aveva iniziato a
concretizzarsi: appena un anno prima, il nuovo re, Indulf, aveva fatto
visita alle sue terre, per chiedergli di contribuire alla guerra contro
gli invasori vichinghi in cambio del cavalierato e di un titolo nel
nuovo Regno. Preda dell’ambizione e dei sogni di gloria,
Áed aveva ridotto alla fame la sua gente per offrire i
raccolti all’esercito di Alba, poi aveva messo nelle mani del
re la propria vita e quelle di suo figlio e della sua gente, imponendo
ai suoi contadini di lasciare la terra per andare in battaglia. I mac
Taidg erano
partiti con scarsi mezzi, ma avevano avuto fortuna, avevano
accumulato ricchezze, fama e onore: Máel si era distinto per
forza e coraggio e aveva ottenuto a tal punto il favore del re, che gli
era stata promessa la mano di una sua nipote, la sua protetta. Dalla
vita del signore di Glower-o 'er-em, improvvisamente, erano
sparite greggi e campi incolti, per aprirsi un inaspettato futuro,
fatto di ricchezza, avventure e opportunità: il sogno della
nobiltà e del prestigio era finalmente a portata di mano.
Tutto era invece finito contro la gelida lama di una spada. Tutto era
diventato buio e freddo, la morte aveva preso suo figlio e
con lui aveva portato via anche tutto il resto.
*
«Mio signore… siamo
arrivati al bivio per Fonn Abhuinn...»
Kenneth mac Maìl, il fido scudiero del signore di Glower si
era avvicinato cautamente, sulle vesti ancora la polvere e gli schizzi
di sangue rappreso, sul volto le lacrime che non avevano ancora smesso
di sgorgare.
«Che gli uomini proseguano
verso il castello... vai con loro, avvisa mia moglie, poi torna qui con
uomini freschi, cani e il cappellano... prima di tornare a casa,
abbiamo ancora un dovere da compiere…»
Kenneth guardò il suo signore e annuì, pensava
che volesse lavarsi al fiume prima di presentarsi a sua moglie e
parlarle del loro figlio, ma non capiva a cosa gli servissero uomini e
cani... lo guardò di sottecchi, lo sguardo vuoto di
Áed, oltre a una profonda tristezza, gli trasmise una strana
inquietudine. Mentre l’armata sfilava lenta e senza
più un
ordine preciso verso il maniero, Áed osservava il suo mondo,
respirava a fondo, come una bestia che fiuta l’aria in cerca
della preda: davanti a sè, la valle ai piedi di Fonn Abhuinn
appariva circondata da dolci colline che si disponevano
simili a una corona, chiusa verso ovest dal massiccio di Am Monadh, una
terra impervia, cui nessuno si avvicinava, perché popolata,
si diceva, da spiriti antichi e malvagi. Era sicuro che la Strega
vivesse lì. Ne era più
che certo. Com’era certo che non avrebbe trovato pace
finché non gliel’avesse fatta pagare,
finché non avesse visto la terra bere il suo sangue immondo.
Solo così, liberando il mondo da una creatura malvagia e
pericolosa, avrebbe dimostrato al Signore che non avrebbe
più ceduto al peccato, alla superstizione, che avrebbe messo
la sua spada al servizio di Dio... e Dio, allora, forse,
l’avrebbe perdonato.
«Andremo nei boschi di Am
Monadh, Kenneth,
voglio trovare la donna che mi ha letto la mano…»
«Mio Signore… io
non credo che…»
«Voglio catturarla, Kenneth,
voglio catturarli tutti…. Li giustizierò,
taglierò loro personalmente la testa nella pubblica piazza,
darò al mio popolo la giusta vendetta, liberando la terra da
quei figli del demonio e… solo allora il Signore
riprenderà a
proteggere la nostra devota terra…»
Kenneth guardò preoccupato e spaventato il suo padrone, non
aveva alcuna intenzione di entrare dei territori di Am Monadh, si
diceva che chiunque ci provasse, ne uscisse impazzito. Un brivido di
terrore gli percorse la schiena e si aggrappò con tutte le
sue forze al pensiero della sua famiglia, che l’attendeva a
casa, e del Crocefisso che portava al collo.
*continua*
NdA:
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, aggiunto alle liste e/o
commentato.
Un grazie speciale a Ary Yuna,
artista ufficiale di That Love, per avermi concesso di utilizzare
l'immagine che vedete a inizio capitolo. Potete trovare i suoi lavori
anche nella pagina
artista FB. Un bacione.
Valeria
Scheda
Immagine
|
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Capitolo 2 *** I.002 - TERRE DEL NORD - CUILéN ***
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.002
- Cuilén
Le urla di dolore di sua madre infransero di nuovo il silenzio della
notte e Cuilén si fece ancora più piccolo nella
sua pelle d'orso, sotto gli occhi divertiti del fratello, seduto
impassibile davanti al fuoco. Il bambino non capiva: come poteva
Dòmhnall rimanere così buono e tranquillo, a
intagliare quel suo stupido pezzo di legno, mentre quell'uomo, il loro
padre, faceva del male alla mamma? Sarebbe intervenuto lui stesso, se
non fosse stato appena un bambino. E, soprattutto, se non fosse stato
terrorizzato a morte da quell'uomo. Sì, Cuilén
era a dir poco terrorizzato da suo padre, perché era grande
e grosso, con quegli enormi occhi scuri che sembravano scrutarlo
dentro, fino all'anima, e quella terribile cicatrice in faccia, che si
vedeva nonostante la folta barba da orso. E non era gentile, mai, con
nessuno di loro. Cuilén ne aveva così tanta paura
che a volte... a volte arrivava a pregare che suo padre non tornasse
più. Era molto più felice quando Cormacc Mac
Artgal non c'era, quando portava suo fratello Dòmnhall a
caccia, restando via per settimane. Era felice perché,
quando suo padre era lontano, Cuilén smetteva di avere paura
e perché, rimasti soli, la mamma gli permetteva di dormirle
accanto, attorno al fuoco, e, d'inverno, persino nella tenda di pelli
con lei, davanti a Habarcat, la fiamma verde. Appena suo padre tornava,
invece... Se solo si avvicinava a sua madre, lo afferrava per la
collottola e lo scacciava: non voleva che le stesse attaccato alle
sottane e, soprattutto, non voleva che gironzolasse attorno al loro
giaciglio e alla loro tenda, anche perché, non importava se
fosse estate o inverno, giorno o notte, quando suo padre era nella
radura con loro, stava quasi sempre chiuso nella tenda con sua moglie
e, per quelle che a Cuilén sembravano ore interminabili,
tutto sembrava riempirsi dei loro misteriosi gemiti e al bambino non
restava che nascondersi nella sua pelle di orso o allontanarsi nel
bosco, avventurandosi lungo il sentiero che portava al fiume. Una
notte, l'inverno precedente, nascosto nel suo giaciglio, aveva preso
coraggio e si era girato verso la tenda, aveva aperto gli occhi e li
aveva spiati: proiettate sulle pareti della tenda dal freddo fuoco
verde che restava sempre acceso là dentro, vide le ombre dei
suoi genitori che si baciavano; quando, però, suo padre si
era avventato su di lei e l'aveva costretta a terra, come una belva,
aveva subito richiuso gli occhi e si era nascosto nella sua pelle
d'orso, spaventato a morte.
Quello che stava accadendo nella tenda in quel momento, se possibile,
era anche peggio. Sì, molto peggio: suo padre le stava
facendo del male, molto più del solito, non aveva mai
sentito la mamma lamentarsi così... E durava da troppo,
sì… da troppo ormai. Cuilén non
riuscì a trattenere una lacrima, che gli andò a
rigare la faccia, già sporca di terra mista alle lacrime
precedenti, terrorizzato al pensiero che suo padre potesse arrivare ad
ucciderla: l'aveva visto lucidare e affilare con cura il pugnale che
teneva legato alla cintola, l'aveva visto mentre lo passava e ripassava
sul fuoco, poco prima di entrare nella tenda. E lei non poteva nemmeno
difendersi, non sapeva che cosa le fosse successo, ma erano ormai due
giorni che non usciva più da là dentro.
«Smetterai mai di frignare?
Che cosa dovrei dire io, allora? Ho già una piaga come te di
cui occuparmi e ora ne arriverà anche un'altra... »
«Che cosa... vuoi dire...
Dòmhnall?»
Cuilén lo guardò sconcertato, mentre suo
fratello, divertito e esasperato, faceva di no con la testa: che cosa
c'entrava lui col fatto che la mamma...
«Tu non hai idea di che cosa
stia succedendo là dentro, vero?»
Il bambino negò con la testa, afflitto, ma al tempo
speranzoso, perché ancora una volta, anche in un momento
spaventoso come quello, sembrava che suo fratello avesse la situazione
sotto controllo, una spiegazione valida per tutto.
«Ti ricordi la primavera
scorsa, quando ti ho detto di stare zitto e osservare una cerva?
L'abbiamo spiata mentre dava alla luce il suo cucciolo,
ricordi?»
Cuilén annuì, ritornando indietro con la memoria
a pochi mesi prima, ricordando la quiete del bosco, l'odore fresco
dell'erba umida di rugiada, il manto fulvo della cerva percorso da uno
strano brivido e, infine, il cucciolo, che giaceva a terra umido e
tremante e subito si metteva in piedi sulle sue zampette sottili. Era
rimasto affascinato e perplesso, quel giorno, perché non
capiva come qualcuno fosse riuscito a mettere un cucciolo lì
dentro... Si era anche chiesto se la cerva avesse provato dolore e
se... Le sue domande, come al solito, avevano suscitato le risate
incontenibili di suo fratello. Dòmhnall, concentrato,
continuava a intagliare con il coltello il pezzo di legno,
un'espressione ironica sul viso: probabilmente stava ridendo, tra
sé, ricordando a sua volta quelle domande. Cuilén
si chiedeva come suo fratello potesse parlare di cervi, sogghignare e
giocare col suo stupido coltello, mentre la mamma aveva bisogno del
loro aiuto, perché se lui era troppo piccolo e spaventato,
Dòmhnall al contrario era ormai quasi un uomo e avrebbe
potuto soccorrerla.
«La mamma in questo momento
sta facendo la stessa cosa di quella cerva, Cuilén, sta
mettendo al mondo nostro fratello o nostra sorella... Hai visto quanto
era cresciuta la sua pancia nelle ultime settimane? Non ti sei mai
chiesto il perché? Quindi ora smettila di piangere, non ce
n'è motivo. E promettimi che nei prossimi giorni non la
infastidirai come fai sempre. Lei non avrà nemmeno il tempo
di riposarsi, perché dovrà prendersi cura del
bambino, non potrà pensare a te... Tieni, questo
è tuo, ma solo se mi prometti che non le darai noia...
»
Il giovane si rigirò il pezzo di legno in mano un'ultima
volta, per studiare il lavoro, soddisfatto degli ultimi dettagli, una
fila di sottili Rune incise sull'impugnatura, a formare il loro nome,
poi lo tese al fratello e Cuilén, nel palmo aperto,
riconobbe un richiamo per uccelli: Dòmhnall, da anni, ne
aveva uno simile, fatto dal loro padre, e il bambino moriva dalla
voglia di prenderlo e imparare a usarlo, ma suo fratello non glielo
avrebbe dato mai, nemmeno ora che non lo usava più.
«Quando sarai cresciuto, non
ne avrai più bisogno nemmeno tu, perché
conoscerai come me altri metodi per farti ascoltare dalla natura ma,
per ora, questo potrebbe servirti… E vedi di non perderlo,
perché non te ne farò un altro e, di certo, non
ti darò mai il mio... »
ll bambino annuì e sorrise, rigirandosi tra le mani il dono
del fratello: notò subito che era persino più
bello e elaborato di quello che aveva sempre sognato, e fu preso da un
tale entusiasmo che avrebbe voluto fosse già mattino, solo
per andare a provarlo. Un nuovo grido, più sofferente e
prolungato, lo riportò invece al presente, all'idea che sua
madre stesse correndo un pericolo e alle mille domande che lo
turbavano: perché lei urlava e suo padre era entrato con un
pugnale? La cerva di certo non ne aveva avuto bisogno...
«... La mamma... »
«Te lo ripeto, non
ti devi preoccupare per lei: sanno tutti e due cosa devono fare...
altrimenti tu ed io non saremmo qui, adesso, non trovi? Domani mattina
potrai vederli, sia lei, sia il bambino... è una promessa...
»
Dòmhnall sorrise rassicurante, i grandi occhi color del
mercurio fissi e sinceri, come sempre: il giovane, da un po' era spesso
taciturno e scontroso, ma quando gli faceva una promessa,
Cuilén poteva essere sicuro che l'avrebbe mantenuta a costo
della sua vita. Lo guardò, ammirato, era più
grande di circa undici anni, presto sarebbe stato pronto per lasciare
la famiglia e per vivere la sua vita: come aveva paura e sentimenti
contrastanti verso suo padre, trovava in suo fratello l'esempio da
seguire, voleva diventare come lui, un giorno. Alla fine dell'estate,
però, Dòmhnall l'avrebbe lasciato solo,
perché sarebbe partito per un lungo viaggio, lontano dai
territori di Am Monadh, diretto nelle Terre del Nord, la Terra della
Confraternita, la loro gente, di cui sentiva parlare, nei racconti e
nelle favole, fin da quando era ancora nella culla. Lì
avrebbe preso parte ai riti, al termine dei quali gli sarebbero state
imposte le Rune della maturità, le Rune con cui la
Confraternita segnava i giovani di sedici, diciassette anni se
riuscivano a superare delle prove. Un giorno, ancora molto lontano,
sarebbe toccato anche a Cuilén: al suo collo era
già stata impressa la Runa che indicava la sua appartenenza
a uno dei clan della Confraternita, e le dita delle sue mani e dei suoi
piedi erano decorate di sottili ricami, simili a seta nera: erano le
“Parole del Nord”, tracciate da suo padre con un
inchiostro fatto di erbe magiche, a cui aveva mischiato il proprio
sangue. Non ricordava quando gliele aveva fatte, né se aveva
provato dolore, sapeva solo di averle sempre avute. Tutti, nella sua
famiglia, avevano quei ricami, quel fitto susseguirsi di Rune, che
raccontavano una storia e una tradizione che nascevano nella notte dei
tempi: la tradizione degli Antichi. I suoi pensieri si interruppero di
colpo, tutto intorno, l'intera radura fu pervasa da un silenzio
irreale, i lamenti della madre si erano fermati e al loro posto,
improvviso, era scoppiato un pianto, un suono nuovo, simile al miagolio
di un gatto. Subito dopo, Cuilén sentì la voce
debole e commossa della mamma e la risata forte e liberatoria di suo
padre. Dòmhnall emise un sospiro: si era mostrato forte e
distaccato per tutto il giorno, per non spaventare con la sua ansia il
fratello minore, ma aveva temuto anche lui per la madre. Si
alzò, spazzando via i trucioli di legno che aveva addosso e
con essi le ultime preoccupazioni, spense il fuoco di erbe magiche che
aveva tenuto acceso ininterrottamente da quando il padre era entrato
nella tenda e finalmente stese la sua pelle d'orso vicino a quella del
bambino, davanti al falò.
«Hai sentito, moccioso?
È nato... Ora vieni qui, stenditi accanto a me, e cerca di
dormire, almeno domani mattina possiamo partire presto e provare il tuo
richiamo... »
Cuilén lo guardò, in parte deluso: aveva sperato
di poter vedere il bambino subito, ma sapeva che, quando suo fratello
gli dava un ordine, doveva eseguirlo, come se l'avesse ricevuto da suo
padre. Si alzò, superò i pochi passi che li
separavano e si stese accanto al corpo forte e caldo di suo fratello,
che gli scansò i capelli dagli occhi e con un movimento
leggero della mano gli pulì la faccia: a Cuilén
piaceva quel gesto, simile a una carezza, grazie al quale si ritrovava
subito pulito senza dover usare l'acqua. Odiava l'acqua, non sapeva
perché, ma ne aveva talmente paura che non riusciva a
seguire gli altri di là del fiume, per questo sua madre o
suo fratello dovevano prenderlo in braccio, per farglielo attraversare,
e per questo suo padre si arrabbiava moltissimo. Una volta era persino
riuscito a strapparlo dalle braccia della madre per poi gettarlo in
acqua, impedendo alla donna di aiutarlo e urlando a suo figlio che, se
voleva ancora sedersi attorno al fuoco con loro, doveva imparare, e
presto, a superare le sue paure. Il bambino, però, non ci
riusciva, per questo, quando Cormacc era a casa, Cuilén era
costretto spesso a restare da solo, lontano dalla sua famiglia, al
limitare della radura: suo padre ormai sapeva quanto fosse spaventato e
per questo insisteva nel costringerlo a seguirlo al fiume, dove
inevitabilmente il bambino si metteva a piangere e lui lo puniva,
nonostante l'intercessione della madre. Un giorno, però,
Cuilén sarebbe stato capace, come Dòmhnall, di
vincere le proprie paure e fare le magie: non vedeva l'ora,
perché quando fosse arrivato quel giorno, sarebbe stato
finalmente simile a quel fratello che ammirava tanto e... sarebbe
finalmente fuggito lontano da suo padre.
E la mamma? Come potrei lasciarla sola con quell'uomo?
Si voltò, così da avere davanti agli occhi la
tenda dei suoi genitori, sospirò, sollevato che non fosse
successo nulla di male, come aveva temuto, e al tempo stesso
sentì un sentimento strano, nuovo, per quel bambino che, al
contrario di lui, aveva il diritto di stare nella tenda con sua madre.
«Dòmhnall...
»
«...Dormi...
»
«... Credi che
smetterà mai di farle del male?»
«Male? Non le fa del
male, Cuilén, sei tu che sei piccolo, troppo... e non puoi
capire... Pensa a dormire... »
«Per favore...
spiegami... tu non hai mai paura per lei? Non hai paura che lui possa
farle troppo male?»
«Ascolta,
Cuilén... Devi smettere di avere paura di nostro padre,
tutto quello che fa, lo fa perché la ama...
perché ci ama e vuole proteggerci... tutti... Devi imparare
ad ascoltarlo, invece di temerlo... E per quanto riguarda la mamma...
beh... te lo assicuro... Non devi avere paura per lei, ma di lei, non
dimenticarlo mai… Ora dormi... domani parleremo per tutto il
tempo che vorrai... »
«Me lo
prometti?»
«Certo, te lo
prometto... »
Cuilén, pur senza capire, si sentì rassicurato,
si sistemò meglio la pelle d'orso addosso e
scivolò rapidamente nel sonno, sereno. Dòmhnall
invece rimase a lungo a fissare le stelle, che facevano capolino tra le
fronde. Non riusciva a dormire, una sensazione strana lo turbava,
guardava suo fratello accanto a sé e, ancora una volta, si
chiese fino a quando sarebbe stato in grado di mantenere le sue
promesse, come aveva fatto finora. Non poteva immaginare che avrebbe
trovato molto presto quella risposta...
*continua*
NdA:
Ciao a tutti/e, per prima cosa vi ringrazio per le letture e le
recensioni e grazie per la fiducia a chi ha aggiunto ai preferiti/
seguiti, ecc ecc. Per le atmosfere mi sono fatta "suggestionare" un po'
da "Il Signore degli Anelli" e da "I Pilastri della Terra", ma questo
spin-off resta connesso, nonostante ci sia quasi un millennio di
distanza tra le due storie, a "That Love" e al mondo di Harry Potter,
quindi i personaggi principali sono più che altro Maghi e
Streghe e i rapporti con il mondo babbano sussistono solo
perché il Trattato di Segretezza Magica sarà
stipulato non prima del 1689. I riferimenti alla religione cristiana
presenti e futuri in questa ff non rispecchiano/rispecchieranno i miei
pensieri sull'argomento e non hanno intenti polemici, ho solo cercato e
cercherò di descrivere l'atmosfera di questa epoca che, come
sappiamo, è stata divisa tra un forte teocentrismo e
un'altrettanto forte tendenza alla superstizione. Questo prologo
darà modo a chi legge di ambientarsi, conoscere con calma i
personaggi e come si relazionano tra loro: non tutti i personaggi che
vedremo in questi primi appuntamenti ci seguiranno nel resto della
storia, al contrario se ne aggiungeranno degli altri solo in seguito.
Anche se i nomi non vi sono familiari, la famiglia di Maghi che vive
nella radura sono gli antenati degli Sherton (leggete il nome della
Strega e capirete come nasce questo cognome così poco
"gaelico"). Tutti
questi nomi, come i nomi di luogo e di persona dell'altro chap, non
sono di mia invenzione ma li ho scovati andando a leggermi siti che
trattano dell'antica Scozia (in particolare, la battaglia di Cullen nel
962 è realmente avvenuta e re Indulf di Alba è
morto nel tentativo di
respingere gli invasori Vichinghi in quell'occasione). Piccolo promemoria:
Cormacc
Mac Artgal: il padre, l'abbiamo visto nel capitolo
precedente nelle vesti umane di condannato al patibolo in quanto
adoratore del demonio (Cormacc in antico gaelico significa "figlio di
dissacratore") e nelle vesti del cane nero che protegge la Strega;
Sheira
nic a' Thon: la Strega, vedremo la sua presentazione
ufficiale nei prossimi chap;
Dòmhnall:
è il bambino che stava in braccio alla Strega nello scorso
capitolo, ora ha circa 16/17 anni, essendo di qualche mese
più grande di Mael, il figlio morto di Aed;
Cuilén:
nell'altro capitolo la Strega era incinta di suo marito e aspettava
questo figlio, ha sui 5/6 anni.
A presto.
Valeria
Scheda
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Capitolo 3 *** I.003 - TERRE DEL NORD - DòMNHALL ***
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.003
- Dòmhnall
La foresta era immersa nell'oscurità e in un silenzio quasi
perfetto, il vento portava lieve, a tratti, solo il respiro del fiume e
i versi sommessi di qualche animale notturno, dal folto del bosco. In
quella quiete, poteva sentire, nitido, il battito del suo cuore, forte
e stranamente irregolare: quella notte sembrava che pulsasse
così violento e furioso da impedirgli di dormire, quasi
volesse fuggirgli via dal petto. Passava spesso la notte
così, in attesa, a occhi chiusi e in silenzio, ad ascoltare
il suo corpo, la brezza, la natura, provando a fondersi con lo spirito
di quei luoghi, come gli aveva insegnato sua madre fin da bambino; in
quel momento, però, una tensione ignota gli impediva quasi
di respirare, la sua mente non si apriva all’armonia che
viveva attorno a sé, ma si tormentava correndo dietro a
pensieri contorti e dolorosi. Dòmhnall si rigirò
nel suo giaciglio, piano, per non svegliare suo fratello: da un po' il
moccioso aveva smesso di servirsi di lui come fosse un pagliericcio,
così aveva potuto mettersi supino e ora stava considerando
l'idea di sollevarsi a sedere o addirittura alzarsi. La luce della luna
illuminò il musetto di Cuilén che spuntava appena
dalla pelle d'orso, preso da un sonno profondo e da chissà
quale sogno finalmente sereno, non si era accorto dei movimenti del
fratello maggiore, per fortuna, altrimenti Dòmhnall avrebbe
dovuto passare il resto della notte a rispondere alle sue
sconclusionate domande. Sorrise tra sé: quel bambino era
spesso una peste insopportabile ma lui gli voleva bene, ogni volta che
si allontanava per qualche giorno con suo padre per la caccia o le
prove, non sentiva nostalgia solo per la voce di sua madre, o per
quella che era ancora la sua casa, gli mancava anche suo fratello, la
sua ingenuità spesso ridicola, quel suo modo ancora un po'
buffo e goffo di muoversi e parlare. Sospirò.
Quell’inquietudine invece di disperdersi sembrava stringerlo
più forte, perché non sopportava l'idea che non
avrebbe mai visto suo fratello diventare un uomo, presto non avrebbe
saputo più nulla di lui, di tutti loro. Presto se ne sarebbe
andato da quella radura e la sua vita avrebbe preso una strada diversa
da quella di tutti loro. Non c'era niente da fare… Doveva
muoversi, voleva togliersi di dosso quella odiosa ansia. Poteva
arrivare al fiume, immergersi nell'acqua fresca, bere. Se fosse stato
abbastanza rapido, sarebbe ritornato prima che qualcuno si accorgesse
della sua assenza. Gettò un'occhiata verso la tenda dei suoi
genitori, attraverso le ombre proiettate dalla Fiamma verde, vide la
figura di suo padre, seduto vicino all'imboccatura, ciondolare un po',
forse si era assopito mentre montava la guardia a sua madre e al
neonato: il piccolo non si era ancora sentito, non aveva pianto per la
fame, sembrava dormire sereno e tranquillo.
Chissà
se è un altro maschio o, finalmente, una bambina?
Dòmhnall si strinse nelle spalle, del destino di quel
bambino non avrebbe mai saputo niente, quindi non doveva curarsi di
lui, era già triste pensare di dover abbandonare
Cuilén, era inutile affezionarsi al neonato, significava
solo soffrire di più. Si alzò senza far rumore,
accostò per bene la pelle d'orso addosso al fratello,
notò che stringeva tra le dita il richiamo che gli aveva
regalato un paio di ore prima, quasi fosse il più prezioso
dei tesori. Si voltò, deciso a non pensare, si
sgranchì appena le gambe e le braccia: il suo corpo, pallido
ai raggi della luna, appariva macchiato qua e là di scuro
dalle ombre delle fronde sovrastanti. Era ancora poco più di
un ragazzino, asciutto e sottile, ma già alto quanto suo
padre, e sulla sua pelle la peluria biondiccia dell'infanzia aveva
ormai lasciato quasi del tutto il posto a quella più scura e
prepotente di un giovane uomo. Rabbrividì quando vide le
rune, sottili ricami d’inchiostro nero, rilucenti sulle sue
dita, pensando al fatto che presto a esse se ne sarebbero aggiunte
ancora e ancora. I suoi occhi chiari indugiarono sul suo corpo ancora
per un po', con un misto di tristezza e imbarazzo: a volte, anche se
quei pensieri lo facevano vergognare a morte, si rendeva conto di
invidiare suo fratello, così piccolo e ancora bisognoso di
protezione, sapeva di aver paura, di non voler diventare un uomo, di
non voler crescere, perché per quelli come lui, crescere
significava doversene andare, lasciare il mondo che conosceva, la sua
famiglia, per andare lontano, ad affrontare l'ignoto. Suo padre gli
aveva raccontato con orgoglio delle avventure che avevano segnato la
sua vita, del lungo viaggio fino alle Terre del Nord, delle prove, dei
riti, delle cerimonie, degli insegnamenti del suo maestro,
dell'incontro con sua madre, della sua vita raminga insieme con lei,
fino a scoprire quella radura, e creare lì, con lei, la sua
vera famiglia. Dòmhnall ne era rimasto affascinato e colpito
da bambino, ma ora che la vita stava per chiamarlo ad affrontare in
prima persona quei cambiamenti, sentiva il cuore e la mente vacillare,
perché non sopportava l'idea che quella che conosceva non
sarebbe più stata, come diceva suo padre, la sua
“vera” famiglia. Se solo fosse stato possibile, non
avrebbe mai abbandonato il suo mondo, quell'angolo di foresta che
conosceva come se stesso, i suoi nascondigli, i punti migliori per
pescare, e... E quel sentiero che aveva scoperto pochi anni prima, che
portava allo scoperto, fuori dal bosco: ci si era perduto una volta per
sbaglio, inseguendo un cervo, poi era stato attratto da un suono
strano, che non aveva mai udito prima...
Ina...
Ci si era inoltrato di soppiatto più e più volte,
da allora, nascondendosi tra i cespugli che celavano una radura ai
margini di Am Moradh, in cui alcune ragazze di un villaggio vicino
lavavano e si facevano il bagno. Dòmhnall
accelerò il passo, camminò rapido fino al fiume,
cercando di non pensare a quelle immagini: scoprire quelle donne tanto
diverse da sua madre l'aveva turbato e l'esistenza di Ina, lo sapeva,
aveva accelerato la data della sua partenza. Era strano e ridicolo che
la sua vita cambiasse ogni volta che gli capitava di vedere delle donne
che si facevano il bagno: era poco più piccolo di
Cuilén quando aveva visto sua madre al fiume e, se lo
ricordava ancora, era scoppiato a ridere come uno stupido, facendosi
scoprire, osservando quel suo corpo tanto diverso dal suo, le sue forme
più piene delle sue, guardandolo incuriosito, sorpreso di
quanto fosse diverso una volta nudo, senza quella tunica informe con
cui la vedeva sempre, tanto simile alla sua. Sua madre non aveva detto
nulla, al momento, ma per tutto il resto del giorno l’aveva
fissato a lungo, spesso di soppiatto, cercando di cogliere nei suoi
occhi un cenno, una domanda, per iniziare con lui un discorso
importante, ma Dòmhnall, dopo quelle risate iniziali, era
ammutolito, non capiva nemmeno lui perché, ma si sentiva
troppo imbarazzato per chiedere. Quando fu l'ora di spegnere il fuoco,
sua madre aveva all'improvviso iniziato a parlargli di come la natura
avesse voluto gli uomini e le donne simili eppure diversi,
"complementari" aveva detto, proprio come tutti gli altri animali della
foresta; l’aveva ascoltata per ore, affascinato, scoprendo
una realtà che aveva percepito già, a volte, ma
che non aveva compreso mai: da quel momento aveva iniziato a guardare
il mondo attorno a sé in maniera diversa, consapevole e
curioso di quelle differenze. Senza accorgersene, la sua infanzia era
finita così, per un fatto innocuo e fortuito: da quel
momento la sua vita era cambiata, non aveva più potuto
mettere piede nella tenda, non aveva più potuto dormire
accanto a lei, scaldandosi col suo calore, era lentamente passato dal
mondo di sua madre a quello di suo padre, aveva smesso di raccogliere
erbe e bacche nella foresta con lei e aveva iniziato a seguire lui,
passando via via sempre più tempo lontano dalla radura, a
caccia. Aveva persino imparato a uccidere. Solo il giorno che aveva
trovato e visto le donne del villaggio, però, aveva compreso
appieno il discorso di sua madre.
E quel giorno non aveva riso, no. Aveva scoperto cose nuove, non nel
mondo che lo circondava ma in se stesso, un turbamento diverso; era
rimasto confuso, quelle spiegazioni erano di colpo diventate reali, le
aveva sentite sulla sua stessa pelle, era rimasto spaesato, per non
dire spaventato, per giorni. Da allora aveva cercato sempre
più spesso la solitudine e il silenzio, da quel momento la
curiosità che finora aveva riversato sul mondo era finita e
aveva iniziato a cercare di capire e scoprire se stesso, le proprie
reazioni, il mistero che aveva nella mente e nel suo corpo. Al tempo
stesso, non poteva fare a meno di andare al fiume sempre più
spesso, all'inizio ogni volta che i suoi non si curavano di lui, poi
appena si presentava anche la più piccola folle occasione di
allontanarsi, infine era arrivato a disubbidire e scappare senza dare
spiegazioni: c’era, infatti, una ragazza bionda,
più piccola e timida delle altre, Ina, che non si spogliava
mai, che concentrava tutta la sua attenzione, alimentando giorno per
giorno, sempre di più, la sua ossessione.
Dòmhnall passava giorni e notti intere a immaginare come
fossero la sua pelle e il suo corpo sotto la tunica, come fosse il suo
profumo, come sarebbe stato baciarla e toccarla e...
S’inventava i piani più stupidi e pericolosi
immaginando di poterla portare via dalle altre, poter restare solo con
lei, convincerla a rimanere per sempre con lui, a vivere insieme nella
foresta, ma ogni volta che nella realtà la ammirava, seduta
in riva al fiume, a ridere timida con le altre, i suoi passi
diventavano pesanti come pietra e lui si rendeva conto che non sarebbe
mai riuscito ad avvicinarla. Quando aveva scoperto il suo segreto, suo
padre non era stato tenero con lui, anche se Dòmhnall gli
aveva giurato e spergiurato di non aver mai mosso un passo fuori dai
cespugli, di aver solo sognato di avvicinarsi a lei, di non essersi mai
nemmeno mostrato. Suo padre non aveva sentito ragioni,
l’aveva rinchiuso per tre giorni e tre notti in una grotta,
senza cibo né acqua, in un luogo impervio della foresta da
cui nessuno potesse sentire le sue urla e le sue suppliche.
Dòmhnall non aveva capito quello che era accaduto, credeva
che suo padre si fosse arrabbiato perché aveva ignorato suo
fratello per farsi gli affari propri, ma quando infine, al tramonto del
terzo giorno, l'uomo, con cipiglio severo, era tornato da lui,
portandogli da mangiare, ed era rimasto con lui tutta la notte a
parlargli, aveva scoperto una verità che non sospettava. Suo
padre gli aveva spiegato che esistevano due mondi, e che la foresta di
Am Moradh esisteva per segnare il loro confine, assicurandosi che
fossero e restassero separati per sempre. Questi due mondi erano
caratterizzati dalla presenza o dall'assenza di quella forza che
Dòmhnall sentiva crescere in sé giorno per
giorno, una forza che il ragazzo aveva sempre immaginato innata, eterna
e immutabile, presente in ogni creatura, invece, con orrore, suo padre
gli stava dicendo che non era così, che esistevano uomini e
donne senza quella forza, invidiosi di quella forza, capaci con il
proprio sangue e la propria carne impura di indebolire, fino a
spegnerla per sempre, la loro diversa essenza. Dòmhnall
aveva scoperto quella notte che quelle cose che lui sapeva fare, quelle
che aveva appreso dai suoi genitori e che stava insegnando a suo
fratello, non erano alla portata di tutti, che la forza che stava
crescendo in lui era un potere straordinario concesso a pochi, ma anche
una responsabilità gravosa, che solo pochi erano in grado di
assumersi.
Quella
notte ho appreso che noi siamo Maghi e tutti gli altri no...
Aveva imparato quella parola quella notte, non l'aveva udita mai prima.
Aveva imparato il suo nome quella notte, scoprendo con esso la propria
forza e la propria maledizione. Aveva scoperto che la sua vita non era
segnata, preordinata alla nascita, come quella di tutti gli altri, ma
stava tutta nelle sue mani, poteva plasmarla a suo piacimento,
affrontando di volta in volta le innumerevoli scelte che il destino gli
avrebbe messo davanti. Quella notte, lo comprese subito, forte di
quella nuova consapevolezza di sé, aveva smesso di essere
solo un ragazzino ed era diventato un giovane uomo.
Un
Mago.
Erano passati mesi da quella notte di primavera, i suoi sogni
continuavano a popolarsi di quei corpi, di quelle risate cristalline,
di quei capelli rossi e biondi che si muovevano al vento, i suoi
pensieri abbracciavano ancora, spesso, il dolce sorriso di Ina, ma
aveva compreso che per lui tutto questo non contava abbastanza. Troppo
alto era il prezzo di un desiderio, in fondo, incredibilmente futile.
Entrò nell'acqua del fiume, scorreva placida e gelida,
rabbrividì fino alle ossa, e lasciò che quel
tremore spegnesse l'ansia e il desiderio che aveva sentito crescersi
addosso. S’immerse fino a sentire le sue palpebre pesanti
d'acqua, le sue orecchie chiudersi a qualsiasi rumore, fino a coprire
completamente la testa; represse il respiro, fino a forzare i suoi
polmoni, si trattenne ancora sempre di più, fino a sentirsi
bruciare dentro, poi riemerse, i capelli corvini che si appiccicavano
sulla pelle intirizzita delle spalle. Si lasciò cullare
dall'acqua, diventando un tutt’uno con l’abbraccio
fluido e ritmico del fiume.
*
Il vecchio sarebbe giunto a prenderlo entro il nuovo plenilunio, in un
momento imprecisato, forse persino quella stessa notte: allora Ina,
quelle donne, sua madre e suo padre, Cuilén e tutto il resto
sarebbero spariti, simili a fantasmi del passato sul fare del giorno,
non avrebbero lasciato che tenui tracce su di lui, come quell'acqua che
eternamente scorre, non è mai la stessa, in mezzo a un mondo
che vorrebbe essere immutabile come roccia antica.
Nemmeno
la più dura delle rocce resta immutabile e inviolata dal
tempo.
Uscì dall'acqua grondante, si sedette sull'erba umida di
rugiada, la brezza che gli gelava le gocce addosso, ancora un po'
affannato, la mente vuota, pronto ad ascoltare la voce della sua
foresta. Avrebbe scoperto nuove foreste, avrebbe ascoltato altri
alberi, avrebbe conosciuto altri sentieri, ne avrebbe persino aperti di
nuovi, sotto un cielo immutabile, quello sì, che si sarebbe
acceso su di lui ogni notte. Di colpo capì quello che poteva
e doveva fare. Il cielo era l’unica cosa immutabile che
conosceva, ed era lo stesso in ogni terra in cui suo padre
l’aveva condotto. Avrebbe insegnato a suo fratello, quella
stessa notte, appena fosse ritornato alla radura, come restare sempre
insieme: gli avrebbe insegnato a riconoscere il Carro dell'Orsa, gli
avrebbe detto di osservarla, tutte le sere, e intanto stringere in mano
il richiamo per gli uccelli che aveva costruito per lui; in questo
modo, pur in terre diverse, per il resto della loro vita sarebbero
sempre stati insieme, uniti da quello stesso cielo.
E
forse un giorno... chissà…
Rapido si asciugò dal viso le gocce che scendevano dai suoi
capelli, aveva sentito sulle labbra qualcosa di salato, non voleva
ammettere nemmeno con se stesso che per molto tempo avrebbe perso la
sua battaglia con quelle lacrime. Fu allora che lo sentì.
Era strano: qualcosa frusciava, irrispettoso, muovendosi incerto nel
fogliame. Non era il suono naturale degli animali: quelli, nell'eterna
scacchiera dei predatori e delle prede, cercavano sempre di non fare
alcun rumore. Questo era un rumore innaturale. Rumore di passi, passi
pesanti, passi erranti, passi diversi, uomini misti ad animali...
Qualcuno delle “genti diverse” aveva violato Am
Moradh, spingendosi fin lì, un luogo finora difeso dalle
loro stupide superstizioni e dal fitto della boscaglia. Di colpo
Dòmhnall ricordò che, alcuni anni prima, suo
padre era stato catturato e tenuto prigioniero: era piccolo e all'epoca
non aveva capito, aveva pensato che suo padre non fosse tornato a casa
per oltre un mese perché aveva combattuto con un orso o una
belva feroce, per via della cicatrice sul volto. Invece, quando gli
aveva spiegato la differenza con gli “altri”, suo
padre gli aveva parlato anche di quello che le “genti
diverse” di solito facevano a quelli che chiamavano
“strani”, “adoratori del
demonio”, “dissacratori”,
“figli di satana”, quelli come loro.
Ricordò anche, con angoscia, che una Strega, per quanto
forte e potente come sua madre, dopo il parto restava debole e priva di
poteri per giorni, perché impegnata a passare al nuovo nato
il suo “dono”, attraverso il sangue prima, e poi
con il latte. Comprese di dover fare in fretta, doveva raggiungere gli
altri, annunciare la presenza di estranei, aiutare suo padre a mettere
in salvo sua madre e i suoi fratelli. Combattere al suo fianco.
Dòmhnall maledisse se stesso e la propria debolezza, sapeva
che c'era un motivo serio se suo padre e sua madre non volevano che si
allontanasse, soprattutto di notte, maledisse la propria
stupidità: correva tra le foglie, leggero, senza far rumore,
proprio come aveva appreso dai cervi, saltava tronchi d'albero e
tagliava, a balzi, sui ciottoli scivolosi, l'ansa del fiume, per
raggiungere la radura il più velocemente possibile e per
celare al fiuto dei cani, li aveva sentiti, l'odore dei suoi passi. Non
capiva quanti fossero, non capiva che cosa cercassero, non capiva che
cosa li avesse spinti in un bosco che tutti consideravano spaventoso di
giorno, figurarsi in piena notte: l'unica risposta che riusciva a
darsi, era che stavano cercando proprio loro. Quando giunse alla
radura, trovò tutto come aveva lasciato, suo fratello nella
pelle d'orso, la tenda illuminata dalla Fiamma verde, l'ombra assopita
di suo padre: si avvicinò, rapido e furtivo, fino
all'ingresso della tenda, parlando piano, mettendo una mano sul braccio
dell'uomo, e svegliandolo di soprassalto.
«Ci sono degli estranei che si
avvicinano alla radura, padre... dobbiamo allontanarci, portare la
mamma e i bambini al sicuro!»
All'inizio, colto alla sprovvista, Cormacc parve non comprenderlo, poi
dallo sguardo spaventato del figlio, l'uomo si rese conto di quello che
stava accadendo, rifletté, poi decise di affidargli
Cuilén e ordinargli di risalire il fiume fino alla sorgente,
di aspettarli lì, mentre lui si sarebbe occupato della
moglie e del neonato, seguendoli e coprendo intanto la fuga dei figli
più grandi.
«Padre... coprirò
io la vostra fuga, posso rallentarli, mentre voi e la mamma…
e i bambini... »
«No, devi mettere in
salvo tuo fratello, Dòmhnall, è questo il tuo
compito... Qualsiasi cosa succeda, e te lo ripeto, qualsiasi cosa
succeda, giurami che farai di tutto perché Cuilén
raggiunga la sorgente!»
Non accettò altre obiezioni, Cormacc prese la sua pelle
d'orso, ci avvolse dentro la Fiamma verde, dopo averle imposto un
incantesimo che la chiudesse su se stessa, e diede una pacca sulla
spalla del maggiore dei suoi figli, gettandolo fuori dalla tenda.
Dòmhnall si voltò un'ultima volta per guardarvi
dentro, prima di avviarsi al fiume: suo padre svegliava con
difficoltà la madre, l'aiutava ad avvolgere il bambino in
una pelle e li prendeva entrambi tra le sue forti braccia. Quando
raggiunse Cuilén, il bambino dormiva ancora e
Dòmhnall comprese che sarebbe stato più facile
fuggire con lui se non si fosse svegliato, così
avvicinò le labbra all'orecchio del fratello e
recitò una nenia antica, poi se lo caricò sulle
spalle e iniziò a correre risalendo rapido e spaventato il
corso del fiume.
*
Per raggiungere la sorgente mancavano ancora alcune ore di cammino, ma
Dòmhnall non ce la faceva più, era stanco,
sfinito dalla corsa e dalla paura, attorno a lui il bosco era sempre e
indistintamente immerso nel silenzio. Il ragazzo era nato e vissuto nei
boschi, conosceva in particolare quella foresta come se stesso, eppure
aveva paura, proprio come la prima volta che si era inoltrato tra
quegli alberi e quei sentieri. Aveva paura perché dietro di
se sembrava tutto immerso nel silenzio della morte. Non capiva... Dopo
aver corso per un po' come un forsennato, si era fermato, tendendo
l'orecchio, in ascolto, ma dalla radura non era salito alcun suono, non
sapeva perciò se quegli uomini fossero davvero diretti nella
sua radura, se avessero un’altra meta, se si fossero
scontrati con suo padre o se avessero deciso di seguire lui.
Quell'incertezza gli devastava la mente e popolava la foresta di voci,
di sospiri, di fantasmi. Più di ogni altra cosa,
però, lo angustiava non sapere niente del resto della sua
famiglia. Suo padre gli aveva dato un compito, ma lui non ce la faceva
a restare lì o a proseguire, senza sapere, gli
passò per la mente un'idea folle, ma al momento gli sembrava
fattibile: avrebbe nascosto Cuilén, in maniera che nessuno
lo potesse trovare, poi sarebbe ritornato indietro, per vedere cosa
fosse successo.
Per
aiutare la mia famiglia.
Si accostò a un albero, controllò con attenzione
tutto attorno a sé, sentì che non c'erano nelle
vicinanze animali pericolosi; depose suo fratello a terra, ai piedi
dell'imponente pino, cauto, gli gettò addosso di nuovo
l'incantesimo con cui l'aveva addormentato, poi camminò in
cerchio attorno a lui, recitando altre litanie e concentrandosi su se
stesso e la forza degli alberi, perché tutto intorno a suo
fratello si elevasse una barriera che lo proteggesse da qualsiasi cosa.
Sapeva come si faceva, l'aveva visto spesso fare a sua madre quando era
più piccolo e se l'era fatto insegnare da lei,
già da qualche anno, per avere sempre il controllo su
Cuilén, quando la madre lo affidava a lui. Prese con
sé la Fiamma e la pelle che la conteneva, non poteva
rischiare che suo fratello si bruciasse, si guardò di nuovo
intorno, mise a fuoco quell'immagine e la memorizzò,
gettò attorno a sé degli incantesimi a distanza
di cinquanta passi l'uno dall'altro per riconoscere il percorso, quando
fosse tornato indietro. Poi si voltò. E i suoi passi si
fecero via via sempre più rapidi e tumultuosi.
*continua*
NdA:
Ringrazio tutti per le letture e le recensioni e grazie per la fiducia
a chi ha aggiunto ai preferiti/ seguiti, ecc ecc. A presto.
Valeria
Scheda
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Capitolo 4 *** I.004 - TERRE DEL NORD - STORIA DI SHEIRA E CORMACC ***
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.004
- Sheira e Cormacc
(dal
primo volume di "Storia della magia")
..."Terre
del Nord" è il nome dato dalla
comunità magica alle propaggini nord-occidentali delle
Highlands scozzesi, territori disabitati e selvaggi, duri e ostili, in
cui una parte delle “Antiche genti”, gli
“uomini di Daur” (1), si
rifiugiò quando un imponente esercito babbano proveniente
dal continente (2)
penetrò nella Britannia e sottomise, pezzo dopo pezzo, quasi
tutta l'isola alle proprie leggi e alla propria spada. Per secoli gli uomini di Daur
avevano vissuto presso le popolazioni prive di magia di quelle isole,
pur senza unire il proprio sangue al loro, gelosi com'erano della
propria “saggezza” e delle proprie
abililità, prosperando in pace all’interno dei
loro villaggi, ricoprendo l'importante ruolo di guaritori, ottenendo
venerazione e rispetto grazie alla conoscenza degli intimi segreti
della natura, delle proprietà di piante e minerali, e alla
capacità di interpretare i segni. Il resto del popolo
iniziò a chiamarli "Saggi" e ad affidarsi alla loro guida. All’arrivo del grande
esercito, com’era già avvenuto ai loro "fratelli"
diffusi su tutto il continente, i Daur assistettero alla progressiva
scomparsa della loro civiltà semplice, legata al culto della
natura, videro gli antichi sacelli, scavati nella terra e nella roccia,
distrutti e sostituiti da templi ricoperti di ori e di marmi, dedicati
a numerose divinità in cui potevano ancora riconoscere,
sotto i nomi diversi, i propri dei; in seguito però,
anch'essi scomparvero, sostituiti dall'unico, insondabile, temibile,
dio della Croce. Per
anni, gli uomini Daur guidarono la ribellione dei popoli autoctoni
contro l’invasore, come sempre avevano fatto contro i
numerosi aggressori che avevano cercato di impossessarsi
dell’isola nel corso dei secoli, ma di fronte a un
conquistatore tanto forte, organizzato e inattaccabile, le popolazioni
dell'isola, una dopo l’altra, erano cadute ed erano state
sottomesse. La maggior parte dei Daur fu uccisa in battaglia o nelle
successive rivolte; dei superstiti, molti, per sopravvivere, tradirono
le proprie tradizioni, perdendo con esse la propria purezza e celando
il proprio potere; altri si ritirarono nelle foreste, in eremitaggio,
isolati, soli, incapaci di trasmettere nella pienezza la memoria degli
Antenati. Un
piccolo gruppo di superstiti, proveniente da tutta l'isola, si
riunì nei pressi del cerchio di pietre di
Mên-an-Tol (3)
dove, a Lughnasad, era celebrata la festa del raccolto, proprio davanti
alla pietra forata: i sacerdoti di Lugh sostenevano che era stato il
dio a forare la pietra gettandoci contro la sua lancia e questa,
oltrepassata la roccia, si era conficcata a terra, sprofondando per
metri e metri e generando un pozzo. Era in fondo a quella voragine che
gli Antichi avevano trovato secoli prima Habarcat, una delle tre fiamme
verdi, dono che il “dio della luce” aveva fatto
alla sua gente prediletta, le fiamme che alimentavano
nell’eternità il potere dei Daur. Essendo stato sempre il
giaciglio della sacra reliquia, la bocca del pozzo era stata abbellita
con formelle di pietra, incise con le Rune, simbolo della Triade
divina. Quel lontano giorno d’estate del ventesimo anno di
guerra, i due terzi dei Daur decisero di estrarre Habarcat dalla terra,
di portarla via, di nasconderla e proteggerla dagli invasori nelle
lontane terre settentrionali dell'isola, le Terre del Nord. Il Daur
designato a portare la Fiamma, il venerabile delle Innse Gall,
raggiunse le Terre del Nord in groppa al suo Drago, un nero delle
Ebridi, seguito da coloro che, capaci di trasformarsi in animali di
cielo, mutarono le proprie sembianze e spiccarono il volo; gli altri si
misero in marcia, per terra e per mare: aveva inizio la diaspora dei
Daur. Non
tutti riuscirono a raggiungere le Terre, alcuni perirono, altri si
fermarono prima; quanti si erano trovati in disaccordo con la decisione
di ritirarsi a Nord e fondare la Confraternita, dopo iniziali proteste
senza risultato e vani tentativi di riprendere la Fiamma, si dispersero
a loro volta nell’isola, alcuni fondando villaggi magici in
cui vissero lontani dai Babbani, altri continuando a vivere tra loro e
integrandosi con essi...
(fine
inciso)
Appena aveva visto i suoi figli allontanarsi nella foresta con
Habarcat, Cormacc MacArtgal aveva spento con la Magia il fuoco del loro
bivacco, così che non restassero residui di fumo a tradirli
e, fermo, aspettò di sentire i suoni manifestarsi e
ripetersi, per decidere in quale direzione muoversi. Suo figlio
Dòmhnall aveva ragione: c'erano estranei nella foresta,
provenienti dal fiume, ne aveva percepito la pesantezza dei passi e la
puzza inconfondibile, una puzza che gli ricordava con orrore le
settimane che aveva passato nelle segrete del castello di Glower-o
'er-em, in attesa dell'impiccagione. L’angoscia gli strinse
il cuore, si affrettò a
cancellare le ultime tracce della loro presenza nella radura, mentre
Sheira, indebolita dal parto, lo osservava, nascosta tra gli arbusti,
tenendo la piccola Diorbhal tra le braccia: doveva sbrigarsi, erano in
pericolo, doveva mettere più distanza possibile tra
ciò che aveva di più caro al mondo e le
“bestie” che aveva imparato a conoscere solo
durante la prigionia. Era stato per la sua Sheira, il suo
Dòmhnall e il bambino
che stava per nascere, Cuilén, se all'epoca non aveva
provato a fuggire dalla sudicia cella in cui l'avevano rinchiuso,
servendosi dei suoi poteri; aveva atteso, per settimane, l'occasione
giusta per tentare una fuga il più possibile
“normale”, una fuga che non confermasse, agli occhi
di chi lo accusava, la sua natura di Mago. Alla fine, però,
era stato tutto inutile, per salvarsi dal cappio e per evitare che
Sheira fosse aggredita dal popolo, era stato costretto a
smaterializzarsi quando già il boia gli aveva messo la corda
attorno al collo, confermando così, davanti a tutti, la
presenza di veri Maghi nella foresta di Am Monadh. Quando erano giunti
in quella terra, poco più di sedici anni
prima prima, giovani e innamorati, pieni delle fantasiose teorie di cui
erano intrisi gli antichi scritti, credevano ancora che fosse possibile
convivere in pace con i Babbani, che, addirittura, la Magia potesse
alleviare la sofferenza dei popoli, guidarli verso un destino migliore,
com’era avvenuto per secoli. Era stato per questo che Sheira
si era esposta e aveva offerto al signore di Glower un infuso per
ottenere un figlio maschio, nella speranza che, soddisfatto il suo
desiderio più grande, quell'uomo diventasse più
mite e generoso con la sua stessa gente; ma era stata una sciocchezza,
proprio com’era stato sciocco da parte di Cormacc, per
conoscere le usanze dei Babbani, curiosare intorno ai villaggi con le
sembianze di un cane, fermandosi persino a dormire nei fienili, quando
si allontanava troppo: eppure sapeva che, durante il sonno, venendo
meno il controllo della mente sul suo corpo, non poteva mantenere le
sembianze animali ma tornava a essere un uomo. In una fredda alba di
fine settembre di sei anni prima, alla fine, era
accaduto l'inevitabile: un contadino l'aveva sorpreso nel sonno e,
accusandolo di essere un ladro, l'aveva portato davanti alle
autorità del villaggio; la natura ingenua e pacifica aveva
impedito a Cormacc di ricorrere alla Magia per fuggire, si era lasciato
portare al castello di Glower, confidando che, se si fosse mostrato
innocuo e remissivo, tutto si sarebbe risolto solo con qualche giorno
in cella e, al massimo, qualche frustata. Cormacc sospirò e
guardò per l'ultima volta la
radura in cui aveva vissuto con la sua donna e i suoi figli.
No, a quei tempi non avevo ancora idea
di che cosa siano i Babbani…
A giudicarlo non era stato il signore di Glower-o'er-em, impegnato nei
suoi commerci, ma il cappellano del castello, un vecchio irlandese,
Cormacc aveva riconosciuto subito la cadenza particolare della sua
voce, molto simile a quella di sua madre: il Mago non se ne era
sorpreso, sapeva che i monaci irlandesi si spingevano da secoli fin
lungo i margini delle Terre del Nord, per evangelizzare le rozze genti
che incontravano, persino in quelle lande sperdute e semidisabitate,
dove c'erano solo pietra e miseria. Dove gli uomini della Croce
temevano, a ragione, che si nascondesse ancora l'antica Magia. Quello
che aveva di fronte, però, non era un religioso
qualsiasi, invasato solo dal fuoco della sua Fede: quell'uomo sapeva
qualcosa, conosceva le antiche leggende, il significato delle Rune,
Cormacc l'aveva capito dalle domande che gli aveva posto e
dall'insistenza con cui l'aveva osservato, attratto dai segni che
portava sul collo e sulle dita delle mani. Si erano fissati, a lungo,
ma il Mago aveva finto di non capire, aveva risposto alle domande come
avrebbe fatto un povero stolto, aveva parlato di segni tradizionali del
suo clan. Il cappellano aveva cercato di spaventarlo, accusandolo di
essere un figlio del demonio, la causa, con quei segni blasfemi,
dell’Oscurità che circondava la foresta di Am
Monadh, di meritare per questo la morte, ma Cormacc aveva continuato a
tacere e negare per ore e per giorni; alla fine, l'irlandese aveva
lasciato cadere l'accusa di furto, per gravarlo di una ben peggiore,
quella di blasfemia e Stregoneria, condannandolo a morte per
impiccagione. Nemmeno allora, nemmeno di fronte a un rischio tanto
grande,
però, Cormacc MacArtgal era venuto meno agli insegnamenti
della sua gente, non aveva tradito le proprie convinzioni, non aveva
messo a rischio la Confraternita rispondendo alle domande,
né si era servito della Magia per uccidere e salvarsi. Le
guardie avevano ricevuto l'ordine di piegarlo con la fame, la sete, la
prigionia in un'angusta cella con altri miserabili che potevano
dileggiarlo, colpirlo, umiliarlo, feccia che continuava a essere
considerata umanità, pur essendo un ammasso immondo e
violento di ladri e assassini, solo perché alla nascita
erano stati consacrati tutti dall'Acqua Benedetta e dalla Croce.
Cormacc, invece, la cui unica colpa era essere nato con il suo Dono e
essere stato forgiato col Fuoco e con la Lama, era considerato un
demonio, un mostro, contro cui tutti potevano scagliarsi.
E
questo hanno fatto, guardie e
prigionieri, per settimane e settimane.
Pur passati sei anni da allora, nonostante le amorevoli e sapienti cure
di Sheira e la folta barba che si era fatto crescere dopo la fuga, ogni
volta che si specchiava nell'acqua del fiume, Cormacc rivedeva con
sgomento il proprio viso deturpato dai segni di
quell’orribile esperienza. Eppure non riusciva a odiare,
provava solo terrore e angoscia. Da allora l'uomo aveva vissuto sempre
nella paura, per se stesso, per
Sheira, per i ragazzi. La loro dimora, una capanna ai margini del
bosco, non era più stato un nido sicuro per lui, aveva
iniziato ad andare a caccia con Dòmhnall solo per trovare
anfratti più inaccessibili e protetti, aveva cercato di
convincere Sheira, più volte, invano, a spostare il loro
nascondiglio, e di fronte al suo diniego, aveva pregato gli dei che le
voci sinistre sui poteri oscuri della montagna fossero un deterrente
sufficiente contro qualsiasi folle impresa dei Babbani. Quella continua
tensione aveva trasformato un giovane semplice, entusiasta e
appassionato, in un uomo cupo, nervoso, a volte persino rabbioso e
violento: lo capiva da sé, spesso era fin troppo duro con i
suoi figli, soprattutto con Cuilén, ma era per loro che
agiva così, doveva evitare che i suoi ragazzi diventassero
troppo superficiali, troppo avventati, pieni di false illusioni,
com'era stato lui. Quando aveva scoperto che Dòmnhall era
interessato a una
giovane Babbana, era rimasto talmente sconvolto che aveva reagito nella
maniera peggiore, non gli aveva parlato con razionalità,
come suo padre e il suo maestro avevano fatto con lui, delle differenze
esistenti tra gli uomini e i Maghi, gli aveva raccontato invece le
più bieche superstizioni, pur sapendo che si trattava solo
di menzogne, aveva instillato in suo figlio l’idea che i
Babbani potessero rubargli la Magia. Se ne vergognava, certo, e aveva
fatto in modo che Sheira non lo scoprisse, ma non poteva permettere che
suo figlio finisse rinchiuso e fosse massacrato com’era
accaduto a lui. La sua vita, stranamente, era diventata più
serena solo
negli ultimi tempi, da quando le incursioni di un popolo guerriero
proveniente da Viken avevano spinto re Indulf di Alba a richiamare
sulle coste il suo popolo e dare inizio a una nuova guerra: il signore
di Glower e il suo cappellano avevano problemi ben più
urgenti da affrontare. E in quella ritrovata serenità,
Sheira era rimasta nuovamente incinta e quella notte, finalmente, era
nata la loro prima bambina, cui aveva imposto il nome di sua madre.
Diorbhal...
Il Mago prese di nuovo in braccio le sue donne e s’immerse, a
sua volta, nell'oscurità del bosco, a rapidi passi: il
sangue e le forze perse durante il parto avevano reso Sheira troppo
debole per provvedere da sola a se stessa e alla bambina, Cormacc
sapeva che sarebbe stato impossibile portarla alla sorgente quella
stessa notte, dovevano perciò accamparsi in un luogo
riparato, abbastanza vicino al fiume, in cui fosse facile difendersi e
da cui fosse semplice, pur senza smaterializzarsi, scappare. La strinse
a sé, guardò Sheira con tenerezza e
preoccupazione, era sfinita, come non l’aveva vista mai,
eppure il suo sguardo continuava a essere sempre lo stesso, fiero e
indomito, come il primo giorno: tutta la sua vita, lo sapeva, era stata
plasmata e stravolta da lei, dalla sua luce, dal suo potere, dal loro
folle amore. Aveva deciso, stavolta non avrebbe avuto esitazioni,
sarebbe ricorso
persino alla violenza, avrebbe rotto persino il giuramento fatto ai
Centauri quando erano giunti in quell’angolo delle Terre del
Nord e, se necessario, avrebbe ucciso, per lei, per la sua donna.
Cormacc stampò un bacio sulla fronte di Sheira e
continuò a camminare, tenendola stretta a sé,
l'orecchio teso a cogliere qualsiasi sussurro della notte, la mente
piena solo dei tanti ricordi della loro intensa, avventurosa esistenza.
*
Cormacc McArtgal era
nato trentasette inverni prima, a
Banrìgh nan Eilean (4), la più meridionale
delle
Innse Gall (5), le isole a ovest delle Terre
del Nord. Era il secondo
di sette figli, in una famiglia che aveva sempre praticato la
Medimagia, seguendo i precetti degli Antichi: suo padre, Artgal, era
originario di un villaggio di Beinn Nibheis, ed era bruno e grosso, un
po' burbero, proprio come un orso; sua madre, Diorbhal, era una donna
austera, dai capelli rossi e selvaggi, nativa dell’Eire, la
grande isola verdeggiante che si trovava a sud: era stata lei a
insegnargli a rispettare la terra e il vento, a riconoscere i segreti e
le proprietà delle piante, che crescevano rigogliose grazie
al clima mite della loro isola, dove l'estate si protraeva quasi fino
alla festa di Modron. Era vissuto felice lì, con i suoi
fratelli e i suoi
genitori, finché, tre lune dopo aver compiuto quindici anni,
come voleva la Legge di Habarcat, un vecchio mandato dalla
Confraternita degli Antichi, Eoghan McFionn, era sbarcato sull'isola in
una notte di plenilunio e, prima ancora dell'alba, l'aveva sottratto
all’affetto dei suoi cari, portandolo via con sé.
La barca che li attendeva in una piccola rada era leggera e rapida, di
legno scuro, completamente intarsiata di Rune: a metà del
secondo giorno di viaggio, Eoghan aveva bruciato dell'incenso su un
piattino d'argento, aveva ferito il palmo di Cormacc con una lama lunga
e sottile e aveva intriso le ceneri con il suo sangue, poi aveva
passato la lama nel miscuglio e aveva ordinato al ragazzo di incidere
le Rune del proprio nome sul legno dell'imbarcazione e di gettare le
ceneri nell’acqua, tributo per ingraziarsi il favore del
mare. Avevano veleggiato tra i fiordi immersi nelle nebbie per altri
tre giorni e altre tre notti, infine erano scesi a terra e avevano
iniziato a percorrere le lande aspre che conducevano al massiccio di
Beinn Nibheis, avevano guadato fiumi e attraversato paludi, camminando
fino a ferirsi i piedi sulla nuda roccia, per giorni che diventarono
settimane, per settimane che diventarono mesi, immersi in una natura
solitaria e selvaggia, in panorami sconfinati che prima si coprirono di
foglie morte, poi di soffice e gelida neve.
All'inizio del viaggio,
Cormacc era rimasto a lungo silenzioso e
triste, consapevole che quello sarebbe stato un viaggio senza ritorno,
che ciò che si era lasciato alle spalle era già
perduto per sempre, ma un po' per volta la malinconia aveva lasciato il
posto alla meraviglia e all'emozione, per tutto quello che di nuovo
trovava davanti a sé, per la Magia che esplodeva in tutto
ciò che lo circondava, per i canti pieni di mistero e di
storie antiche con cui il vecchio Eoghan salutava il sorgere delle
stelle, notte dopo notte. Erano partiti dalla sua Banrìgh
nan Eilean all'inizio della
primavera, mancavano solo due giorni alla festa di Yule quando
giunsero, infine, sulle rive del mare settentrionale, a Loch an Inbhir,
il cuore delle Terre del Nord. Durante quella lunga notte di riti e di
festa, insieme ad altri ragazzi della sua età, Cormacc aveva
superato la sua prova più importante, aveva affrontato i
suoi demoni e aveva scoperto la sua attitudine per la “voce
della Terra”, aveva dimostrato a tutti di essere pronto a
entrare nel mondo degli adulti per ricoprire il suo ruolo nella
comunità, gli erano state perciò impresse le Rune
più importanti, quelle che marchiavano il suo intero petto.
All'alba, stremato, aveva appreso di essere stato assegnato come
apprendista, per quattro anni, a Eoghan, sarebbe stato ospite nella sua
casa, avrebbe perfezionato sotto la sua guida quelle conoscenze
già apprese da sua madre: chiamare gli animali senza usare
la voce o altri strumenti, piegare al proprio volere l’Acqua,
il Fuoco, la Terra, il Vento, imparare a trasformarsi in un animale
marino, in un animale terrestre e in un animale del cielo, creare
pozioni e decotti con le erbe che crescevano nelle foreste per curare e
uccidere, fare incantesimi di varia natura, potenziare la propria Magia
con i segreti delle Rune e sfruttare i doni del ventre della terra per
creare Talismani, due arti queste ultime che, insieme
all’Erbologia e alle Pozioni, sarebbero state utili al
giovane per diventare ciò che più desiderava: un
Guaritore.
La sua vita era
trascorsa tranquilla per anni, nella capanna del
vecchio in riva al mare, diviso tra lo studio e la meditazione, le
feste e i balli con gli amici, qualche relazione senza importanza con
alcune ragazze del villaggio, finché, la settimana prima di
Beltane di quasi quattro anni più tardi, aveva conosciuto
Sheira nic a'Thon: suo padre, Thon McCuilén, era uno dei
venerabili della comunità, perché da giovane,
grazie al dono della Veggenza, aveva salvato la sua gente dal gigante
Harkmut, ma soprattutto perché, negli ultimi tre secoli, i
Custodi della sacra Fiamma di Habarcat erano appartenuti tutti alla sua
nobile famiglia. La ragazza si era presentata con suo padre da Eoghan
per scegliere il
dono che avrebbe fatto alle divinità la notte di Samhain,
quando, al compimento dei sedici anni, avrebbe preso le sue Rune e
consacrato la sua vita a Habarcat: Cormacc l’aveva guardata
con curiosità, abituato a essere l’unico giovane
dai capelli bruni, in un mondo dominato da persone bionde e fulve,
aveva notato subito con simpatia quella ragazzina minuta dai capelli
corvini, con la pelle del viso tempestata di lentiggini sottili, e gli
occhi color del mercurio. E l'aveva ammirata ancora di più
quando, tra i tanti preziosi Athame disponibili, aveva scelto
personalmente, senza esitazioni, un semplice e minaccioso pugnale
intarsiato di Rune, potenziato con gli influssi delle Tormaline nere,
decidendo che sarebbe stata quella l’arma con cui le
avrebbero inciso le Rune sulla pelle del ventre. Quando Sheira aveva
alzato i suoi occhi su di lui, però,
l'ammirazione del giovane era sparita per lasciare il posto a un
devastante turbamento: Cormacc, pur grande e grosso, si era sentito
sciogliere, fluido come il metallo che stava forgiando, e la sua mente
aveva perso di colpo ogni pensiero che avesse logica. Aveva provato
un’emozione strana, incomprensibile, molto più
complessa del desiderio profondo di stringerla a sé,
baciarla, possederla e annullarsi in lei, tutte sensazioni fisiche
potenti, che aveva sempre provato con le sue amanti. No, non aveva mai
visto una ragazza come quella, Sheira emanava
sicurezza, calma, luce. Sheira era, lei stessa, luce. Nessuno degli
altri presenti, forse neppure Sheira, si accorse del
turbamento del giovane Mago: dentro di sé, Cormacc era
infastidito da quella sensazione adatta a uno sciocco adolescente, non
a un giovane uomo come lui, eppure gli era ugualmente sfuggito un
sorriso entusiasta quando aveva udito l'imperioso Thon
McCuilén chiedere a Eoghan di insegnare anche a sua figlia
le proprietà delle pietre, così che la ragazza
completasse prima di Samhain il suo percorso di studi.
Durante la primavera e
l'estate seguenti, perciò, Sheira si
era presentata alla capanna sulla spiaggia tutte le mattine, molto
presto, via via sempre più presto, restando con i due uomini
e la sua Elfa domestica, Brida, per quasi tutto il giorno, mangiando
con loro, raccontando con la sua voce cristallina e il suo candido
entusiasmo di sé, dei suoi fratelli, dei luoghi che aveva
visitato, delle leggende che il suo vecchio precettore le aveva
insegnato, delle Magie con cui si allenava a guidare la Sacra Reliquia.
Cormacc si era perso per ore ad ascoltarla, tanto che spesso era stato
costretto a finire di studiare dopo che lei se n’era andata,
ma non aveva mai avuto il coraggio di interromperla per chiedere di
più, benché avesse tante domande da farle,
proprio per non infrangere la Magia che sembrava materializzarsi tutto
intorno a loro al suono della voce della Strega.
Da parte sua, anche la
ragazza era incuriosita da Cormacc, un giovane
diverso dagli altri, privo di quella smielata devozione che le
riservavano tutti, senza però mai ascoltarla davvero, al
contrario, lui, pur taciturno, era sempre attento e incuriosito da lei
e dalle sue storie. Lo aveva trovato misterioso e interessante fin dal
primo giorno, con quegli occhi scuri e profondi, che brillavano sotto i
lunghi capelli, corvini come i suoi, così alto e imponente,
così selvaggiamente affascinante. L'aveva colpita anche
quella specie di timidezza che manifestava solo con lei, mentre con le
altre, l’aveva visto durante i balli attorno al fuoco, era
molto più spigliato, persino spregiudicato: all'inizio aveva
temuto di essergli antipatica, ma i suoi crucci erano spariti, quando
si era accorta della sincerità del sorriso gentile e dello
sguardo vivace con cui Cormacc la salutava sempre al suo arrivo.
Senza un vero
perché, aveva iniziato a cercarlo, seguirlo,
anche fuori della capanna del vecchio: una notte, durante la "luna
delle erbe" (l’Esbat, o luna piena, di luglio), si era
allontanata dal cerchio attorno al fuoco e nella penombra della radura
l'aveva visto baciare una ragazza stringendola a sé con una
passionalità che le aveva infiammato il sangue, di gelosia,
di turbamento, di desiderio. Non le era mai accaduto nulla di simile, e
Sheira ne era rimasta profondamente turbata: ormai, giorno per giorno,
quando pensava a lui, sentiva qualcosa di sconosciuto crescerle dentro,
e tutte le sue certezze, tutte le convinzioni che le avevano inculcato,
di colpo, avevano perso d’importanza e autorevolezza. Un
giorno aveva persino insistito con la piccola Brida per raggiungere
la capanna prima dell'alba, perché aveva scoperto che
Cormacc, prima del suo arrivo, tutte le mattine si attardava a nuotare:
voleva ammirare il Mago, il suo corpo nudo, senza che lui nemmeno se ne
accorgesse, aveva un bisogno ormai fisico di lui, era sconvolta dai
suoi pensieri, dalle emozioni che provava, temeva di diventare folle,
di compiere qualche gesto sconsiderato e vergognoso. Quando se
l’era trovata di fronte, Cormacc era rimasto a sua volta
pietrificato dalla sorpresa, dall'emozione, dall’imbarazzo,
tanto che, invece di salutarla come ormai faceva tutte le mattine, era
sparito senza rivolgerle nemmeno una parola, incapace per tutto il
giorno di uscire dal suo ostinato mutismo, almeno finché la
Strega non era ritornata a casa sua, al tramonto, ancora più
turbata.
L'interesse dei due
giovani per lo studio aveva finito col calare
molto, Eoghan se n'era accorto, ma non se n'era preoccupato, pur
vecchio, ricordava bene quanto fosse difficile quel periodo della vita,
e soprattutto, riteneva quel genere di esperienza molto importante per
crescere e maturare, perché entrambi stavano scoprendo
un'importante lezione di vita: non tutti i desideri sono destinati a
realizzarsi, ed era importante che lo scoprissero quanto prima. Sheira
restava spesso in silenzio a guardare Cormacc che lavorava a breve
distanza da lei, compiacendosi quando notava il volto del giovane
illuminarsi in un sorriso, al suono della sua risata o della sua voce
cristallina, o quando percepiva con la coda dell’occhio lo
sguardo del Mago indugiare assorto sulla curva del suo collo o
sull’incedere a volte sfacciatamente malizioso della sua
figura. Cormacc si dava dello stupido per ore, ricordava a se stesso
chi fosse
quella ragazzina, eppure appena entrava nella capanna, cercava di nuovo
tutte le scuse possibili per riuscire almeno a sfiorarla, lasciava i
suoi oggetti in disordine, per potersi alzare e avvicinare a lei,
accarezzarle furtivo le mani sulla sabbia, un paio di volte aveva
persino intrecciato le dita alle sue sotto il tavolo, durante i pasti.
Il Mago aveva compreso che, ingenua e presa com’era, se solo
avesse tentato, avrebbe potuto facilmente ottenere molto più
di un bacio, da lei, ma a frenarlo non era solo il timore delle gravi
conseguenze se si fosse abbandonato a qualche mossa avventata,
né la consapevolezza che l’educazione, il diverso
stato sociale, il destino di Sheira fossero un evidente ostacolo.
Ciò che gli impediva davvero di approfittare della
situazione era quel sentimento sconosciuto che provava per
lei… Iniziò a sfuggirla, a non farsi trovare, si
ripeteva che era
giusto così, che doveva toglierle e togliersi certe idee
dalla testa, per il suo bene, così l’entusiasmo
che i due giovani avevano iniziato a manifestare l’uno per
l’altra, si era trasformato in breve in inquietudine e
tristezza. Cormacc sapeva che la Strega non era destinata a lui e
già ne soffriva, ma il pensiero che fosse nata solo per
Habarcat, per sacrificare tutta la sua vita a potenziare la Magia e il
potere della Sacra Reliquia, senza poter mai godere delle gioie
concesse a tutti gli altri, lo aveva riempito giorno per giorno di
odiose domande, aveva esacerbato la sua inquietudine, la sua
frustrazione, persino la sua rabbia: aveva ormai compreso di volerle
davvero bene, anzi, ormai era certo di cosa fosse quel sentimento
strano, quello che non aveva provato mai, sapeva che il suo nome non
poteva che essere “Amore”, sì, ne era
addirittura innamorato, perché più di ogni altra
cosa, desiderava saperla felice, non riusciva a tollerare di vedere la
tristezza negli occhi di Sheira. Non sapeva cosa fare per aiutarla,
però: l'unica soluzione
che gli veniva in mente era la fuga, ma non era certo che Sheira
volesse o potesse fuggire, né che alla fine lo volesse con
sé, in fondo lei apparteneva a un mondo diverso, ricco e
colto, era cresciuta come una principessa, lui era invece un Mago
piuttosto abile e intelligente, certo, ma era e sarebbe stato sempre
umile e povero. Inoltre Sheira era ancora troppo giovane per
smaterializzarsi, la Traccia di Magia che la segnava avrebbe rivelato a
chiunque dove si nascondesse, e soprattutto… lei non sarebbe
mai stata una Strega qualsiasi: la vita di un custode era legata alla
Fiamma di Habarcat, se Sheira si fosse allontanata troppo, avrebbe
potuto perdere i propri poteri e, con essi, la vita. Fuggire,
perciò, significava anche dover sottrarre Habarcat
alla comunità e questo, lo sapeva, era un altro
tabù che, se infranto, avrebbe condotto entrambi alla morte.
Nelle sue lunghe notti
insonni, Sheira era arrivata alle stesse
conclusioni: ora che aveva scoperto il desiderio e i suoi nuovi
sentimenti, non voleva più dedicare la sua vita alla Fiamma,
sacrificando a essa tutto il resto, voleva andarsene, fuggire, pregava
gli dei di aiutarla e sostenerla, di mostrarle una strada, sapeva che
dovevano esistere dei contro-Rituali che separassero il suo nome da
Habarcat. Più di ogni cosa, però, desiderava
trovare un
modo per convincere Cormacc a fuggire con lei. Per un po’ di
tempo si era illusa di interessarlo, nonostante
fosse più piccola e inesperta delle ragazze che frequentava
di solito, ma visto il suo comportamento di nuovo sfuggente e
più freddo, temeva di non aver capito nulla di Cormacc, e si
sentiva persa, perché senza il suo sostegno era sicura che
non sarebbe mai riuscita a ribellarsi al suo destino. Aveva riflettuto
a lungo, alla ricerca di una soluzione, e alla fine,
concentrandosi sul Mago e su quello che sapeva di lui, credette di
sapere quale fosse l’unica strada da percorrere per
convincerlo. Una sera, all'inizio dell'autunno, al primo novilunio dopo
Modron, mentre tutta la comunità era riunita attorno al
fuoco intenta a eseguire alcuni Riti, Sheira aveva preso coraggio e
aveva fatto in modo di avvicinarsi a lui, rivolgendogli la parola
apertamente, come ancora non aveva mai fatto: gli aveva afferrato la
mano e, facendogli cenno di restare in silenzio, l'aveva invitato a
seguirla. Nel breve tragitto che li separava dalla spiaggia, immersi
nell'oscurità della boscaglia, le figure protette dai
mantelli, Sheira aveva confidato al giovane il suo desiderio di
libertà e la sua intenzione di fuggire, gli aveva parlato
della profonda disperazione che la coglieva al pensiero di un destino
che le era stato imposto, di una vita che non aveva scelto; Cormacc era
rimasto sconvolto dall’inesorabilità e dalla
fermezza di quelle parole, sorpreso di non essersi accorto che Sheira
aveva maturato in silenzio le sue stesse convinzioni, al punto da
elaborare persino un piano. La Strega gli disse di aver bisogno del suo
aiuto, che per sottrarsi alla sorte, era necessario forgiare un
semplice anello di metallo, una piccola fedina di ferro, bagnata col
sangue della Strega, al cui interno Sheira stessa avrebbe tracciato le
Rune necessarie a liberare il suo nome dalla Magia della Fiamma, per
poi gettarlo nel pozzo dei sacrifici, come pegno a Habarcat.
Cormacc non aveva mai
immaginato che Sheira, quasi cinque anni
più giovane di lui, fosse già tanto potente e
istruita nella Magia Antica da conoscere un contro-Rituale e delle
formule tanto potenti, ma più di tutto l’aveva
colpito scoprire che la ragazza si fidava a tal punto di lui, della sua
amicizia, delle sue abilità, da confidargli un segreto
così importante e chiedergli qualcosa di tanto pericoloso.
Aveva sentito il cuore riempirsi di ardore e di orgoglio, le aveva
promesso subito il suo aiuto e il suo silenzio, contento di contribuire
almeno in parte alla sua felicità, senza riflettere su cosa
sarebbe stato meglio per entrambi, né sulle conseguenze
delle loro azioni. Nelle due settimane seguenti, di giorno i due
giovani avevano
continuato a comportarsi come sempre, scambiandosi sguardi dimessi e
dimostrando scarso interesse per le lezioni di Eoghan, di notte,
invece, mentre Sheira perfezionava gli incantesimi che aveva appreso
dalle pergamene di suo padre, di nascosto, Cormacc lavorava senza sosta
all’anello, bagnando il metallo alla luce della luna col
sangue che Sheira si era estratta in segreto e gli consegnava tramite
Brida. Senza che il vecchio, reso innocuo con dei filtri soporiferi, si
accorgesse di nulla, Cormacc creò in tutto tre copie, tre
piccole verghette di ferro, semplici, identiche, se non per dei
piccolissimi dettagli che solo il suo occhio allenato riuscivano a
cogliere.
Quando entrambi furono
pronti, la notte della luna rossa, l'Esbat di
ottobre, Cormacc aveva partecipato distratto ai riti notturni al
cerchio di pietre, la mente presa da tutt’altri pensieri:
Sheira sarebbe fuggita quella notte, lui aveva preso coraggio, aveva
deciso di parlarle sinceramente, si sarebbe offerto di accompagnarla,
voleva aiutarla fino in fondo. E se la Strega
l’avesse accettato con sé, appena ne avesse avuto
l’occasione, un giorno le avrebbe confidato i suoi veri
sentimenti, senza peraltro pretendere da lei nulla. Per questo, per
questa folle speranza, aveva estratto dalle sue poche
cose anche una piccola pietra verde che sua madre gli aveva donato, da
offrire alla donna che voleva al proprio fianco: aveva preparato una
piccola incastonatura in uno dei tre anelli di ferro, uno di quelli che
non sarebbero stati gettati nel pozzo, aveva provato a inserire la
pietra, applicandole un incantesimo che l’avrebbe incastrata
in maniera permanente una volta riconosciuto il sangue di Sheira,
quindi aveva messo i tre anelli nella taschina di pelle di pecora che
portava al collo ed era uscito dalla capanna, diretto al promontorio
del cerchio di pietre, in attesa dell’appuntamento alla fine
dell’Esbat. Quando i più si ritirarono alle
proprie capanne, al levarsi
di Orione, si spostò dal cerchio di pietre
all’estrema propaggine della radura, sopra il mare: la Strega
era già lì, vestita col suo lungo mantello rosso,
come voleva la tradizione, nel silenzio rotto solo dal respiro del mare
sotto di loro, circondati dal fitto della boscaglia, le cinque pietre
che formavano il cerchio illuminate dalla luna nella sua completa
pienezza. Come si era avvicinato a lei, sotto un tappeto di stelle
pulsanti, se l’era ritrovata avvinghiata addosso, le labbra
bramose sulle sue, il corpo stretto tra la rugosità delle
rocce e il trepidante calore di Sheira, le dita e le labbra di lei,
calde e curiose, che si avventuravano alla scoperta del suo corpo teso,
insistenti nel tracciare i bordi delle Rune delle sue mani, delle sue
braccia, seguendo il fluire del sangue nelle vene del collo,
lì dove, pulsando impazzita, la Runa intensificava
all'inverosimile i desideri sempre più espliciti di
Cormacc... Non doveva farlo, non doveva cedere, il Mago se
l’era
ripetuto continuamente, sempre con più
difficoltà, sempre con minore convinzione,
finché, con estrema sofferenza era riuscito ad allontanarla
un poco da sé e ottenere una sincera spiegazione, restando
turbato quando Sheira, in lacrime, gli aveva confessato che era
intenzionata a concedersi a lui, nella speranza di convincerlo a
seguirla. Il Mago l’aveva stretta a sé per
consolarla, baciandola con tenerezza, poi aveva iniziato a confidarle,
per la prima volta, i mille discorsi che si era fatto da solo nella
propria mente, le disse quello che sentiva per lei dal primo giorno, le
descrisse i suoi sentimenti, il suo amore, il suo bisogno di non
perderla, il suo desiderio, se solo lei glielo avesse concesso, di
fuggire via insieme, di aiutarla a essere felice, senza chiederle
niente in cambio, senza pretender nulla che non volesse anche lei.
Sheira aveva ascoltato ogni singola parola, all'inizio confusa, poi
sempre più commossa nello scoprire che Cormacc condivideva i
suoi desideri; aveva preso le mani del Mago nelle proprie, aveva
iniziato a baciarlo di nuovo, con tenerezza, stringendosi a lui, mentre
le parole, quelle parole che entrambi avevano avuto per mesi
difficoltà a pronunciare, sgorgavano come un fiume in piena,
raccontando di sogni, di luce, di amore, di progetti, di futuro, di
vita. Di vita insieme.
Erano rimasti a lungo
stretti l’uno all’altro, in
silenzio, finché Cormacc aveva compreso dalla posizione
delle stelle che la notte era arrivata al suo culmine ed era il momento
di agire: aveva estratto gli anelli dalla taschina di pelle e li aveva
offerti a Sheira, ma quando la Strega aveva visto l'anello con la
piccola pietra, i suoi occhi si erano riempiti di nuovo di lacrime di
felicità, era cresciuta nella ricchezza, ma non aveva mai
visto in tutta la sua vita un anello più bello e prezioso.
Si alzò sulle punte, si allungò fino al suo
orecchio e gli disse che l’avrebbe seguito ovunque li avesse
portati il destino, che da quel momento sarebbero stati una vita sola,
un’anima sola, anche se non avrebbero mai trovato un anziano
disposto a unirli davanti alla sacra Fiamma. Cormacc sorrise, cosciente
che per la loro felicità quello era un dettaglio superfluo:
dalla capanna del vecchio aveva preso il pugnale che Sheira avrebbe
dovuto usare a Samhain per consacrarsi come custode, la
guardò con insistenza, chiedendole una tacita, consapevole,
conferma, quindi glielo porse e si avviarono al centro del cerchio di
pietre, là dove era stato scavato il nuovo pozzo in fondo al
quale era custodita la fiamma di Habarcat da quando era stata portata
nelle Terre del Nord. Osservò la Strega recitare le formule
che aveva appreso e la
Fiamma emergere rapida e leggera dal ventre della terra: sicuri delle
reciproche intenzioni, Sheira non esitò oltre,
indossò la verghetta con la pietra, mentre Cormacc prendeva
una delle altre due “copie”, ammirarono le piccole
fedine adattarsi alla forma e alle dimensioni delle loro dita
intrecciate, sentirono il metallo serrarsi, penetrare nella loro pelle,
fino a far sgorgare due piccole stille di sangue. Quando queste si
fusero e scivolarono a bagnare la pietra, lo smeraldo si
fissò al metallo, unito a esso da quell’unico
sangue. Alla luce della luna, avevano quindi inciso i propri palmi,
facendo scivolare altro sangue sull’anello e da lì
sulla Fiamma, avevano pronunciato le formule che avrebbero legato nel
potere delle Rune e di Habarcat ciascuno di loro alla sola persona
amata, compenetrando i loro destini definitivamente: il rito del primo
sangue, il rito che sarebbe stato consacrato definitivamente dal sangue
della loro prima unione. Sheira, emozionata e confusa, finalmente e
inaspettatamente unita
all’uomo che amava, prese infine il pugnale per liberarsi del
suo pesante destino, lo immerse nella luce verde della Fiamma,
soffermandosi fino a vederne la punta ormai incandescente, poi incise
il centro esatto dell'ultimo anello, quello destinato a essere gettato
nel pozzo, cercando di creare magicamente la prima microscopica Runa
che racchiudeva parte del suo nome.
Non ci riuscirono:
improvvisamente la radura si era ravvivata della
luce di numerosi fuochi, si guardarono intorno, dalla boscaglia
emersero, inferociti, alcuni sacerdoti e gli anziani del villaggio,
guidati dal padre di Sheira che teneva per le orecchie la piccola
Brida, in lacrime, i bastoni levati sopra le loro testa, pronti a
scagliare contro di loro le più potenti maledizioni. Cormacc
non ci pensò due volte, chiese a Sheira di tendere la mano
con il “loro” anello verso la fiamma e Habarcat, a
sorpresa, risplendette nell'oscurità del suo più
intenso colore verde, si raccolse su se stessa e si lasciò
cogliere ed estrarre dal suo nido, Sheira l’avvolse nella
pelle d’orso con cui il Mago si era finora coperto, la stessa
su cui, da allora, avrebbero dormito notte dopo notte. Il giovane, per
la prima volta nella sua vita, era riuscito a
completare la sua trasformazione in animale, un possente cane nero,
ringhiò contro gli astanti, poi con il muso
invitò la Strega a montargli in groppa e con un improvviso
balzo, le dita di Sheira strette nella sua folta pelliccia, si erano
dileguati nella foresta. Cormacc corse nel bosco a lungo, avendo cura
che i rovi e i rami non ferissero la Strega, risalì il fiume
che attraversava la valle retrostante Loch an Inbhir, salì
sulla montagna che gravava su quelle terre e scese dalla parte opposta,
fino a ritrovare di nuovo il mare, più a nord, fino a
raggiungere una scogliera d’irti scogli, che celavano una
piccola grotta.
Quando vi entrarono e si
fermarono, la luna si specchiava meravigliosa
sullo specchio d’acqua davanti a loro, sulle pietre perlacee
delle pareti, creando giochi particolari di luce verde argento con la
Fiamma di Habarcat: i due giovani iniziarono a baciarsi
appassionatamente, nudi, sul mantello rosso della strega, sulla sabbia,
davanti alla fredda fiamma che bruciava, poco lontano da loro. Il
contatto dapprima timido e impacciato, incredulo, era divampato di
colpo in passione pura, violenta, assoluta: Cormacc aveva travolto con
forza e impazienza quel corpo fragile, aveva affondato affamato i suoi
denti nella carne di lei, fino a sentire il sapore ferroso del suo
sangue, a stento era riuscito a fermarsi il tempo di capire se lei era
davvero pronta e sicura di voler andare fino in fondo, poi le aveva
mozzato il respiro strappandole un gemito soffocato, sprofondando nelle
sue membra, senza nessun altro pensiero che non fossero la fame e il
desiderio che provava per lei e il piacere che voleva donarle. Solo
molto più tardi, molti baci e amplessi più
tardi, quando aveva ormai annullato in lei tutta la sua forza, la sua
linfa, i suoi pensieri, la sua esistenza stessa, riconobbe il potere di
quella grotta, sentì che possedeva una sua Magia, che non
dipendeva da loro o da Habarcat, ma che si univa a loro, a Habarcat,
alla Luna di sangue, al sangue che macchiava il loro giaciglio. Anche
Sheira sentiva quella Magia, e pur senza il coraggio si dirlo
apertamente, era certa che in quella grotta, in quella notte dominata
dal plenilunio, avessero appena concepito un figlio.
Fuggirono come due
ladri, all’alba, preda dall'ebbrezza,
della libertà e del loro amore, senza curarsi di niente, che
non fosse vivere finalmente insieme, felici, l'uno per l'altro:
sapevano che su di loro gravava la maledizione della Confraternita, ma
nessuno di quei Maghi, mai, sarebbe stato in grado di trovarli,
perché Habarcat proteggeva il suo custode, come Sheira
proteggeva la Fiamma con i suoi rituali e la sua Magia. Consapevoli che
la protezione di Habarcat sulle genti delle Terre era
fortemente legato alla distanza, decisero, però, di non
uscire dai territori, ma si spostarono fino ai lembi meridionali delle
Terre, sul massiccio di Am Monadh che con la sua oscura foresta
costituiva il punto più a sud cui potevano giungere, senza
privare la loro gente dell’influenza della Fiamma. Una volta
rassicurata la comunità dei Centauri che non avrebbero
praticato la Magia contro gli umani o contro le altre creature della
foresta, né che avrebbero cacciato oltre quanto era
necessario al loro sostentamento, non ebbero difficoltà in
quella terra ospitale, dove vissero per oltre sedici anni, sempre nella
stessa radura, crescendo i soli due figli nati dal loro amore,
Dòmhnall e Cuilén, cui, infine si era aggiunta la
piccola Diorbhal. Anche la condanna della Confraternita, alla fine,
erano venuta meno,
sia perché Habarcat era stata mantenuta
all’interno delle Terre, sia perché Sheira aveva
annunciato la nascita dei loro figli alla sua gente e
l’intenzione di crescerli secondo la tradizione del Nord; in
particolare, i veggenti avevano letto nelle stelle della loro unione,
la nascita di un figlio maschio, nel giorno di Oimelc, con tutte le
caratteristiche di un saggio custode, tale da portare a lungo pace e
prosperità nelle Terre, e di almeno un altro Mago che
sarebbe diventato celebre in tutto il Mondo Magico per le sue
abilità e il suo potere. Pur compiaciuto, lui proveniente da
una famiglia tanto modesta,
all’idea di avere addirittura due figli con un futuro tanto
importante e radioso, Cormacc condivideva l’ansia della sua
Sheira, che non aveva appreso con troppo favore questi auspici: avrebbe
desiderato, infatti, per i suoi figli più che la fama e il
potere, quello che aveva ottenuto lei nella sua vita. L’amore
della persona amata e, soprattutto, la
libertà.
*
«Lasciami qui, io non posso
farcela questa volta, prendi la bambina e raggiungi i ragazzi...
»
«Te l'ho detto quella notte,
Sheira, non ti abbandonerò mai, né in questa
vita, né nella prossima, né in quelle che vivremo
in seguito, ancora e ancora... resteremo per sempre insieme…
»
Il Mago le stampò un bacio sulla fronte e
continuò a camminare, tenendola stretta a sé, con
l'orecchio teso a scoprire qualsiasi sussurro della notte. Il suono che
aveva percepito, però, non si ripropose, la
foresta non era più percorsa da rumori di passi: di colpo,
la boscaglia si riempì invece di sibili e fuochi, improvvise
le frecce incendiarie iniziarono a cadere, tutto attorno a lui, sempre
più vicine, Cormacc ebbe appena il tempo di deporre sua
moglie e sua figlia a terra, in quello che gli parve un anfratto
sicuro, con uno sguardo pieno d'amore impose a Sheira di farsi forza,
di impedire alla bambina di piangere, di aspettarlo... Sarebbe
ritornato subito, l'avrebbe condotta sul sentiero che saliva alla
sorgente, non c’era nulla da temere, li avrebbe ricacciati
indietro, spaventandoli a morte. Il Mago si voltò, con
orrore vide che in direzione della
radura, in cui aveva vissuto per anni con la sua donna, salivano fumo e
fiamme, sentì il crepitio del fuoco avvicinarsi, poi il
pianto spaventato della sua bambina rompere il silenzio cupo della
notte. Non sentì la voce della sua Sheira... Il suo corpo,
all'improvviso, fu di nuovo quello di un cane, si
lanciò, a testa bassa per difendere la sua sposa,
riuscì a raggiungere alle spalle, di sorpresa, uno degli
intrusi, lo rovesciò a terra, gli fu alla gola, la
squarciò. Esaltato dal sangue, spaventato dalle fiamme e dai
rumori improvvisi, attaccò e attaccò ancora, vide
molti fuggire davanti a lui, altri pregare e tremare,
azzannò, colpì, uccise, ancora e di nuovo, ancora
e di nuovo: dove si muoveva, dove avanzava, lasciava a terra corpi
straziati, urla, sangue. Continuò così, ancora e
ancora. Finché
ovunque fu di nuovo silenzio, finché non si aggiunse
più altro fuoco. Finché il suolo non fu pregno di
sangue. Finché, a tradimento, fu colpito in pieno petto da
un dardo.
Cormacc crollò a terra: il dolore non gli faceva capire
più nulla, il sangue scorreva a fiumi e fluiva via dal suo
corpo insieme alla sua forza, ai suoi ricordi, ai suoi pensieri. Perse
il controllo su quel corpo di cane e tornò a essere un uomo,
sentiva il gelo impossessarsi di lui, sentiva la vita scivolargli via,
perdersi nella terra, mentre la luce delle stelle che filtravano tra
gli alberi diventava sempre più incerta. Un solo pensiero
gli attraversava la mente, mentre l'ultimo alito di
vita l'abbandonava, il pensiero della sua Sheira, della sua donna, di
tutte le promesse che le aveva fatto.
E di quella, l’unica, che non
sono riuscito a mantenere: tornare da te...
*continua*
NdA:
Ringrazio tutti per le letture e le recensioni e grazie per la fiducia
a chi ha aggiunto ai preferiti/ seguiti, ecc ecc. So che anche questo
capitolo sembra fuori dal mondo, ma a una lettura attenta forse si
potrebbe intuire quello che ho in mente. Spero inoltre di aver risolto
un po' di misteri sulla Confraternita che aleggiavano in "That love"
ormai da due anni. La grotta che avete visto è la stessa del
matrimonio di Mirzam, questo perché Herrengton sorge poco
lontano dai resti del villaggio principale descritto in questo
capitolo: ho voluto che la notte d’amore di Sheira e Cormacc
si svolgesse in quella grotta perché è con loro
che nasce la dinastia degli Sherton. Quante alle note sparse nel
capitolo:
1) Daur: quercia; la parola "druido" sembrerebbe provenire dalla parola
"Duar" e starebbe a significare "saggezza della quercia"
2) L’esercito è evidentemente quello degli antichi
romani
4) Banrìgh nan Eilean: la regina delle Ebridi, è
l’isola di Islay, la più meridionale delle Ebridi
interne
5) Innse Gall: nome gaelico delle isole Ebridi
3) Mên-an-Tol è un sito megalitico che si trova in
Cornovaglia.
A presto.
Valeria
Scheda
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Capitolo 5 *** I.005 - TERRE DEL NORD - LA RADURA ***
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.005
- La Radura
La notte era ormai giunta al culmine, le stelle e i pianeti
attraversavano lenti e inesorabili il cielo, dispiegando con le loro
danze arcane le trame oscure del destino. L'acqua gelida le lambiva
appena gli zoccoli, mentre Banrigh avanzava cauta lungo la riva
sinistra del fiume, lo faceva tutti i giorni e tutte le notti, da anni,
competeva a lei controllare quella porzione della foresta, eppure,
quella notte, l'oscurità carica di segni la rendeva inquieta
e la sua mente si distraeva di continuo, portandola a pensieri lontani.
Volse lo sguardo di nuovo al massiccio che sovrastava il fiume, aveva
ordinato a Magorian, il maggiore dei suoi figli, di portare i fratelli
lassù, dove la foresta avrebbe potuto celarli a occhi
estranei, al sicuro, rapidamente, e il giovane si era fatto seguire
promettendo ai più piccoli di insegnar loro il significato
della luce rossa di Marte. La luce rossa di Marte... erano anni che su
An Monadh la stella non appariva così fulgida e splendente,
come negli ultimi tempi, di un intenso rosso rubino, pregno di funesti
significati: Banrigh lo sapeva, il rosso dell'astro infiammava il cielo
quando il rosso del sangue era prossimo a essere versato sulla terra.
Stava per accadere qualcosa di oscuro, lo sentiva da giorni, lo capiva
da numerosi segni, qualcosa di oscuro forse era già
penetrato e si muoveva nella foresta, senza accettare di sottomettersi
alla natura: quasi tutti gli animali della montagna erano inquieti e
spaventati, molti rifuggivano l'acqua e si nascondevano nel folto della
vegetazione, persino il fiume sembrava scorrere più
lentamente da quando gli uccelli arrivavano da est, portando la notizia
di una terribile battaglia, nella quale avevano trovato la morte
centinaia di uomini. E ora, bagnata da tanto sangue impuro, la terra
era percorsa da orde di spiriti inquieti, che reclamavano a loro volta
morte e vendetta.
Banrigh tremò: conosceva il cuore degli uomini, la loro
follia, la loro violenza, non dovevano entrare e turbare, con la loro
ferocia e la loro arroganza, la pace della foresta, non dovevano
sfregiarne la purezza con la loro disperazione. A volte capitava che
qualche incauto si spingesse nei boschi di An Monadh per cacciare il
lupo o il cinghiale, ma difficilmente faceva ritorno a casa, di solito
si perdeva e moriva nei dirupi, o sbranato dalle fiere, e anche quando
riusciva a salvarsi, la paura provata nei suoi vagabondaggi tra quei
sentieri oscuri, s’incideva tanto profondamente nella sua
anima, da fargli perdere per sempre il senno. Per questo, nel corso
degli anni, tra gli uomini si era diffusa la superstizione che ci fosse
uno spirito maligno sulla montagna e il timore di essere ghermiti e
uccisi da un demone li teneva opportunamente alla larga. Di colpo il
vento, che spirava da sud, scompigliò le chiome del Centauro
e parlò più chiaramente a Banrigh, che
l'ascoltò trepidante: il lamento degli alberi e il canto
atterrito degli uccelli notturni raccontavano di fiamme cadute dal
cielo e di creature del bosco morte arse nell'incendio. Quella notte,
il timore provato dagli uomini verso i segreti di An Monadh sembrava
non essere più sufficiente a fermare gli invasori, la loro
brutalità li stava spingendo fin lì e i loro
scopi non avevano nulla a che fare con il lupo, né con il
cervo. Il Centauro temette che si stesse compiendo il destino, che
fosse giunta la notte, la notte più lunga, quella in cui la
foresta di An Monadh sarebbe stata violata e sfregiata dall'odio e dal
sangue. Annusò l'aria, sentì il vento pregno
dell'aroma pungente del legno e della carne bruciata, con un alto grido
richiamò a sé Magorian e gli ordinò di
correre lontano, di portare i fratelli con sé, di avvisare
gli anziani che le profezie si stavano compiendo. Mentre suo figlio si
allontanava da lei, Banrigh corse veloce lungo la riva,
annusò più e più volte l'aria per
orientarsi, ma a mano a mano che si avvicinava all'incendio,
iniziò a sentire che la notte e la voce degli alberi erano
permeate anche di Magia, una Magia diversa da quella che praticavano il
Mago e la Strega della radura, una Magia ancora più antica,
più potente, che serbava in sé dolcezza e dolore.
Come tutti i Centauri, Banrigh conosceva la Divinazione ma non la
maggior parte delle altre Arti Magiche, non comprendeva con chiarezza
il messaggio portato dal vento, eppure quello che scorreva nel sussurro
delle fronde la colpiva direttamente al cuore, riempiendola di angoscia
e di tormento.
Continuò a correre rapida lungo la riva del fiume,
avvicinandosi sempre più alla radura dei Maghi, tendendo
l'orecchio e riascoltando più volte il messaggio, fin quando
comprese: la Strega stava morendo e chiedeva aiuto per salvare i suoi
figli. Un tremito percorse la schiena della Custode del fiume, si
fermò all'istante, turbata, poi riprese ad avanzare
lentamente, a capo chino, senza sapere cosa fare: le leggi del suo
popolo le imponevano di non immischiarsi nelle faccende degli umani, ma
non poteva dimenticare chi aveva salvato il suo bambino. Banrigh
sollevò lo sguardo un'ultima volta verso il cielo, nelle sue
iridi color dell'ambra si rispecchiò funesto il rosseggiare
dell'astro, attese ancora un attimo, poi, con il cuore stretto
dall'apprensione, il Centauro riprese a galoppare rapida, nel folto
della foresta.
***
Non era come le altre volte, Sheira aveva sentito fin dall'inizio del
travaglio che il suo corpo non reagiva come avrebbe dovuto. Non era
ancora così vecchia da non poter dare alla luce un altro
figlio senza correre rischi, il prossimo sarebbe stato solo il suo
trentatreesimo inverno, eppure si sentiva mortalmente stanca, sfinita,
prosciugata, incapace di reagire. Non aveva voluto dire nulla a
Cormacc, perché il suo uomo sembrava aver recuperato grazie
all'idea di quel bambino una serenità che Sheira non gli
vedeva da tanto, troppo tempo, ma a se stessa non aveva potuto mentire:
in quei mesi, da quando si era resa conto di essere di nuovo incinta, i
segni che aveva letto nei suoni della notte, nel fluire del fiume,
erano stati tutt'altro che rassicuranti e la Strega si era convinta che
la civetta e il lupo cantassero un lamento funebre alla sua creatura,
già prima che venisse al mondo, confermando ancora una volta
la sentenza della sua gente, motivo di orgoglio e, al tempo stesso,
condanna.
“La vostra unione sarà benedetta da due figli,
destinati a un futuro di gloria e grandezza”.
Due figli. Avevano sempre parlato di due soli figli. Per
questo, in tutti quegli anni, pur amando il suo uomo con passione e
devozione, aveva spesso assunto, di nascosto da lui, le erbe che
l'aiutassero a non restare incinta perché, dopo aver perduto
due dei suoi bambini alla nascita, non voleva più soffrire
di un dolore tanto orrendo, non voleva più sentire il suo
cuore indurirsi come pietra e frantumarsi in mille pezzi, mentre
affidava la sua stessa carne, ancora calda del suo ventre, al riposo
della terra. Ora che teneva la sua Diorbhal sul petto, però,
ora che sentiva la forza, la Magia, il calore della sua bambina, Sheira
intuiva la verità: i veggenti si sbagliavano, c'erano i nomi
di tre figli incisi nel suo destino. Per la Strega, però,
non si sarebbe levato di nuovo il sole, Sheira sentiva che non avrebbe
visto l'alba. Il lupo da mesi piangeva per la custode di Habarcat, non
per la sua bambina. Ora lo sapeva. Era normale per
una Strega del Nord restare priva di forze per alcuni giorni, il tempo
di trasmettere, con il sangue e il latte, il potere ai propri figli, ma
non c'era nulla di normale nel freddo che raggelava le sue membra, in
quel torpore sempre più pesante, nel suo sangue che
continuava a fluire via da lei, inarrestabile, nonostante gli infusi e
la Magia che Cormacc le aveva praticato per arrestarlo.
Il Mago la strinse a sé, trepidante, Sheira sentiva che
aveva paura quasi quanto lei: Cormacc non era un veggente e non
riconosceva i segni nell'acqua e nel fuoco, ma la sua esperienza e la
sua abilità come Guaritore dovevano averlo messo in allerta,
lo percepiva dal passo veloce, dal respiro affannato, dall'urgenza con
cui la serrava a sé, mentre cercava di raggiungere non la
Sorgente, ma la grotta lungo il fiume. Cormacc aveva paura di perderla,
temeva per la sua infinita debolezza, temeva per quel corpo che tanto
amava e desiderava, sempre tanto forte e malizioso e ora
invece… Ora così fragile da non sorreggere
nemmeno il peso insignificante della loro bambina.
L'aveva implorato di lasciarla lì, tra gli alberi, di andare
avanti da solo, fino alla Sorgente, di portare in salvo Diorbhal, con
la Magia sarebbe riuscito a farla sopravvivere anche senza la mamma, di
fuggire con i ragazzi, a nord, sempre più a nord, ma non era
servito a niente: Cormacc era uguale a lei, innamorato come lo era lei,
non l'avrebbe lasciata per nulla al mondo, nemmeno per i loro figli,
voleva mantenere fino alla fine la promessa che le aveva fatto, quella
che la Strega serbava gelosamente nel suo cuore, con la stessa emozione
di quando non era ancora una donna, ma solo una ragazzina. Avrebbe
desiderato vivere ancora a lungo accanto al suo compagno, seguire la
crescita dei suoi ragazzi, accarezzare il volto di Cuilén e
Domnhall un'ultima volta, sapeva bene che gli dei la richiamavano a
sé troppo presto, troppo in fretta, lasciando in sospeso
troppe cose, ma Sheira non riusciva a maledirli né a
ribellarsi, non aveva rimpianti, anzi si sentiva grata e fortunata,
perché aveva ricevuto e donato tutto l'amore che
può unire un uomo e una donna ed entrambi ai propri figli, e
l'unico desiderio che le restava da realizzare, ora, era vedere la sua
famiglia, tutta la sua famiglia, in salvo. Per questo,
perché il suo tempo era finito e nessuno poteva farci
niente, pregava gli dei che la prendessero subito con sé,
lì, tra le braccia del suo uomo, così che di
fronte all'ineluttabilità della morte Cormacc si arrendesse
e la lasciasse andare, pensando infine a se stesso e a tutto
ciò che avevano creato insieme, con il loro amore.
Gli dei non erano intenzionati a prestarle ascolto, però,
anzi il destino giunse a travolgerli più rapido e feroce
della morte stessa: la foresta si riempì improvvisamente di
sibili strani, di frecce infuocate che cadevano dal cielo tra gli
alberi, erano stati raggiunti dagli uomini di Glower, i cani forse
avevano seguito l'odore del suo sangue caduto tra le foglie, e ora li
braccavano, sicuri e decisi, nel groviglio della foresta. Pur
senza parlare, avevano compreso: se non avessero rotto il patto fatto
con i Centauri e non avessero reagito, sarebbe finita, sarebbe finita
per tutti loro. Mosso dalla disperazione, Cormacc era intenzionato a
fare di tutto per difendere ciò che nella vita aveva di
più sacro e prezioso, non si sarebbe dato per vinto, fino
alla fine: Sheira lo vide fermarsi, turbato, guardarsi attorno, poi la
depose a terra, nell'incavo formato dalle radici di una sacra quercia,
in un punto in cui il terreno avvallava, creando una barriera contro le
frecce, nascosto tra il fogliame. Il Mago avvolse con cura la
bambina e gliela serrò tra le braccia, perché non
le scivolasse a terra, poi le coprì con il suo mantello,
perché conservassero a lungo il suo calore, ma quando
provò a tracciare un cerchio magico tutto intorno al loro
nascondiglio, così che le sue donne, in sua assenza, fossero
protette da qualsiasi minaccia proveniente dal bosco, non ci
riuscì completamente, perché la paura e la
disperazione offuscavano il suo potere. La Strega comprese e
lo guardò con sgomento, mentre le mani del Mago tremavano:
non c’era nulla nella foresta di An Monadh capace di opporsi
alla Magia di Cormacc o alla sua, la natura, volontariamente, si
prostrava sempre al potere di un Daur, ma occorreva essere saldi nel
dominio del proprio cuore e della propria mente, senza farsi turbare
dalle emozioni... Cormacc tentò ancora ma, di nuovo, non
completò il cerchio, allora mise sulle labbra di Sheira un
impasto d'erbe, le portava sempre nella sacca di pelle che teneva al
collo, la Strega riconobbe l'odore dell'avena, dell'ortica,
dell'astragalo e della passiflora, ne aveva masticato molto in quei
giorni, traendone però solo brevi momenti di
lucidità e forza: questa volta doveva resistere, a qualsiasi
costo, doveva resistere.
“Mastica lentamente, a lungo:
ti darà un poco di sostegno. Ti prego... devi resistere,
almeno finché non sarò tornato da te, devi
resistere per la nostra bambina... farò presto, li
spaventerò e li metterò in fuga, ma tu devi
restare lucida, Sheira, o Diorbhal piangerà e quegli uomini
non troveranno solo te... troveranno e faranno del male anche a lei...
”
L'aveva salutata con una carezza sui capelli, con un sorriso, il suo
bel sorriso, con un bacio sulle labbra, talmente appassionato da aver
in sé il fuoco del primo e la disperazione dell'ultimo: lo
sapevano entrambi che quello era un addio, quando lo vide immergersi
nella boscaglia, nella direzione da cui salivano fumo e rosseggiare di
fiamme, Sheira scoppiò in lacrime, perché sapeva
che non l'avrebbe visto mai più, che Cormacc non sarebbe
più tornato né da lei, né dalla loro
bambina. Restò immobile, preda della disperazione
più profonda, finché sentì muoversi,
lieve, sua figlia tra le braccia e un vagito infranse il silenzio della
foresta: no, non poteva cedere, non poteva lasciarsi andare
così, se voleva dare a Diorbhal una possibilità
di salvarsi, doveva impedire che la trovassero e sfruttare le poche
forze e il poco tempo che le erbe le avrebbero
concesso. Sheira masticò l'impasto e attese di
sentire un poco di forza tornarle nelle membra, stringendosi il
mantello addosso, così da non disperdere il calore, poi fece
appena leva sui gomiti tirandosi su quasi a sedere, con estrema
difficoltà, scoprì la testolina della piccola, su
cui spuntava già un folto ciuffo di capelli corvini, si
aprì la veste e la accostò tremante al seno, la
guardò poppare, avida, latte e vita, ogni stilla le toglieva
altra forza ma la trasmetteva alla sua bambina, e Sheira sorrise,
incitandola a prenderle tutto ciò che poteva, la sua vita,
il suo sangue, la sua Magia, la sua
speranza. Ammirò quel nasino minuscolo e quegli
occhi ancora serrati, le labbra rosse e umide, le manine chiuse a pugno
che sembravano nuotare lente nell'aria e poi aggrapparsi sicure e forti
a lei; sospirò a fondo, con le lacrime che le inondavano
inesorabili il viso e le appannavano ancora di più la vista,
poi raccolse con le dita il sangue che usciva ancora copioso dal suo
ventre e tracciò la runa di Cormacc sul collo della
piccolina. Una volta soddisfatta la fame di Diorbhal, Sheira si
sentì di nuovo mortalmente intorpidita, allora, temendo di
essere prossima alla fine, rapida, cercò di soffiarle le
preghiere antiche sulle orecchie, sulle labbra, sul viso, sul cuore,
affidandola alla protezione degli Antichi e sperando che la propria
voce e il proprio ricordo si fissassero per sempre nella memoria della
sua bambina, poi riprese a cullarla piano, finché non la
vide addormentarsi di nuovo tra le sue braccia. Lentamente, si
tolse il caldo mantello di Cormacc e l'avvolse per bene, la depose tra
le foglie, accanto a sé, poi, prostrata a terra, ormai quasi
del tutto priva di forze e vita, grattò il terriccio con le
unghie, tutto intorno al giaciglio della piccola, con
difficoltà, fino a ferirsi le mani, continuando a bagnare
del suo sangue la terra, e componendo, sfinita, ostinata, le rune del
nord, del sud, dell'est e dell'ovest intorno a lei, tra le foglie,
aiutandosi con quello che trovava, pezzetti di legno, sassi,
interrompendosi più volte, sbagliando più volte,
rifacendo i segni più volte, finché la piccola
non fu racchiusa nel cerchio magico più potente, quello che
non poteva essere spezzato da niente e da nessuno, nemmeno dalla Magia
di un Daur.
Gliene aveva parlato per la prima volta sua madre, prima di morire,
quando aveva appena nove anni, le aveva spiegato che come custode di
Habarcat, era destinata ad apprendere Magie sopraffine dai maestri, con
cui guidare e rafforzare la Sacra Fiamma per il bene dei Daur, ma
esisteva un'altra Magia, più forte di tutte le altre, capace
di sconfiggere qualsiasi altro potere, una Magia che non
s’insegnava e non si apprendeva, una Magia innata che
scaturiva forte, pura, indomita direttamente dal cuore: era
l’amore, l'amore che lega una madre al proprio
bambino. Sheira recitò il nome della sua Diorbhal
con tutto l’amore che sentiva nell’anima, con le
poche forze che le restavano tracciò quel nome col suo
sangue nella terra sacra, e l'affidò alla natura e agli
spiriti dei suoi antenati, perché la proteggessero e
trovassero il modo di salvarla. Infine, stremata, si
aggrappò al tronco della quercia che la sovrastava e
tremando di freddo e di febbre, s’inginocchiò ai
suoi piedi, baciò la corteccia e vi appoggiò la
testa, pensò con forza ai suoi tre figli e
supplicò lo spirito dell'albero di mandare un messaggio,
attraverso le fronde, in ogni angolo della foresta, fino a Banrigh, il
Centauro Custode del fiume. Quando erano giunti nella foresta
di An Monadh, sedici anni prima, era stata lei il primo Centauro che
avevano incontrato, subito dopo aver attraversato il fiume: la femmina
si era avvicinata a loro, austera e distaccata, non amava avere a che
fare con i Maghi, ma il suo compito la costringeva a svelarsi, doveva
conoscere le loro intenzioni, assicurarsi che portassero nel cuore e
nella mente sentimenti di pace, e concedere loro il passaggio solo se
intenzionati a rispettare la natura. Sheira e Cormacc le
avevano promesso che non avrebbero usato la Magia contro le altre
creature, che non avrebbero cacciato oltre le loro
necessità, che non avrebbero alterato gli equilibri della
foresta, e per sedici anni avevano mantenuto quei
giuramenti. Da allora, avevano visto la Custode del fiume solo
un'altra volta, quando Cormacc aveva trovato un giovane Centauro ferito
dai dardi di un cacciatore babbano e l'aveva salvato dalla morte con la
sua Magia: quando era arrivata alla radura, di notte, per cercarlo,
scoprirono che era il più giovane dei suoi figli e Banrigh
li aveva ringraziati e benedetti, pregando la Natura di ricompensarli
con ogni bene. Ora era Sheira ad aver bisogno dei Centauri,
non per sé ma per la sua bambina: se Cormacc fosse morto,
qualcun altro doveva portare Diorbhal dai fratelli alla Sorgente, ed
era sicura che Banrigh, una madre, non si sarebbe tirata indietro,
benché il suo popolo non amasse immischiarsi nelle faccende
umane. Sì, Sheira era sicura che Banrigh non si
sarebbe tirata indietro. Doveva andarsene da lì,
però, doveva lasciare sua figlia da sola nel giaciglio di
lana e foglie, protetta da una Magia che solo l’amore di
un'altra madre avrebbe potuto spezzare: come la volpe, che abbandona la
tana per allontanare i cacciatori dai suoi cuccioli, anche Sheira
doveva separarsi da Diorbhal, non poteva restare lì, il suo
sangue avrebbe attirato i cani e alla presenza di quegli uomini mossi
dall'odio, sapeva che Banrigh non si sarebbe mai avvicinata. La Strega
baciò un'ultima volta la sua bambina, poi si levò
lentamente in piedi, iniziò ad avanzare, tremando e
ondeggiando, la mente ormai offuscata le impediva di mantenere una
direzione precisa, solo l'abbaiare del cane e le urla degli uomini
atterriti dal suo compagno le indicavano, in mezzo al groviglio di
rami, alberi e foglie, dove si stesse consumando la battaglia.
Avanzò, infreddolita, esangue, decisa a raggiungere il
signore di Glower: sapeva che era lì per lei, se si fosse
lasciata catturare e uccidere, avrebbe soddisfatto il suo odio e
avrebbe dato a Cormacc una possibilità di
salvarsi. Quando le foglie si richiusero dietro di lei e
Sheira intravide più vivido il rosseggiare del fuoco, il
silenzio atterrito della foresta alle sue spalle fu percorso di nuovo
dal pianto della sua bambina: con le lacrime agli occhi, Sheira si fece
forza, e appoggiandosi a un altro tronco, avanzò di un altro
passo.
Fu l'ultimo. Esausta, sentì la sua Magia spegnersi
lentamente, e scivolarle dalle membra come un velo leggero, portando
via con sé il suo ultimo respiro: la Strega si
accasciò a terra priva di vita, tra le foglie, come una
bambola addormentata, il corpo baciato dalla rugiada, gli occhi di
mercurio socchiusi sullo splendore del cielo tempestato di stelle.
***
“Ho colpito il cane! Mio
signore, ho colpito il cane!”
Kenneth mac Maìl, lo scudiero del signore di Glower-o
'er-em, abbassò l'arco, asciugandosi con un braccio la
fronte madida di sudore e impiastrata di polvere e sangue: non poteva
crederci, ce l'aveva fatta, quel demonio fatto di zanne e artigli, che
aveva visto dilaniare e uccidere molti dei suoi compagni, era caduto
sotto il suo dardo e ora giaceva da qualche parte a terra, di
là della fitta selva di rovi che aveva davanti. Da
dove si trovava non vedeva il corpo, e pregava il Signore che non lo
mandassero in quella tetra oscurità a cercarlo, ma era certo
che il mostro fosse morto, non poteva essere altrimenti, l'aveva
colpito in pieno petto e la striscia di sangue che ora vedeva a terra
era troppo abbondante per chiunque, di sicuro anche per un figlio del
demonio come quello. Al solo pensiero, si rifece per
l'ennesima volta il segno della Croce, mentre Áed
mac Taidg, il suo signore, gli si avvicinava, la faccia illuminata da
un ghigno di follia che voleva essere un sorriso: di colpo tutta la
fatica della guerra e di quella notte di caccia, la paura, la
disperazione davanti alla morte dei suoi uomini e di suo figlio,
sembravano spariti dal suo cuore, uno sguardo smanioso era dipinto sul
suo volto, mentre sputava improperi e oscenità che
culminarono, arroganti, in un urlo che pervase tutta la foresta.
“Ora vengo a prendere anche a
te, puttana maledetta!”
Áed raggiunse lo scudiero avanzando con ampie falcate,
seguito dall'onnipresente Gregorius, il monaco irlandese che svolgeva
le funzioni di cappellano di corte, un omino basso e tarchiato, con il
volto da faina, la chierica lucida e i pochi capelli che gli erano
rimasti in testa candidi e arruffati. Kenneth sapeva che era
un uomo di Dio, ma ogni volta che il monaco gli posava gli occhi
addosso, si sentiva pervaso da un senso di profonda inquietudine,
qualcosa di persino più terribile del disagio che provava
quando doveva confessarsi e raccontare quanto la sua carne fosse
debole, fallace, imperfetta.
“Trova il corpo e portalo qui,
Gregorius vuole studiare quella dannata bestia!”
Lo scudiero guardò inorridito Áed, mentre il suo
signore si allontanava di nuovo, diretto ai portatori di cani,
chiamando un nome che si perse nel silenzio irreale della foresta, dopo
avergli imposto quella che sembrava una condanna a morte, non il premio
per una miracolosa impresa. Il soldato tremò per
alcuni istanti poi, segnatosi con la Croce del Signore, si fece largo
tra la vegetazione, pregando tutti i Santi che lo proteggessero:
superò la selva di spine, si guardò attorno,
capì la direzione da prendere quando notò dei
brandelli di pelo e carne sanguinante attaccati a dei rametti,
avanzò timoroso, finché gli sembrò che
il cuore gli si fermasse del tutto nel petto. Tra le foglie, a terra,
invece di un cane, c’era il corpo inanimato di un uomo,
trafitto da una freccia in pieno petto. Kenneth non poteva
credere a quello che vedeva, doveva per forza essere uno dei maledetti
intrighi dei Maghi o il potere sinistro della foresta di An
Monadh… eppure... No, dentro di sé sapeva che non
era un errore, non era un caso, non era una Magia: quella che aveva di
fronte piantata nel petto dell'uomo, era proprio una delle sue
frecce. Tremò: se la freccia era davvero la sua
allora ai suoi piedi, c'era la terribile dimostrazione
dell’esistenza di Satana sulla terra, perché solo
uno spirito tanto immondo poteva trasformare un uomo in un cane e
servirsene per arrecare morte e sofferenza. Era talmente sconvolto da
quella scoperta da voler urlare, ma era ancora più
terrorizzato, tanto che non ci riuscì. Non sapeva
cosa fare. Non aveva il coraggio di avvicinarsi e guardare meglio, di
toccare e capire se era davvero morto, l’unica cosa che
voleva era allontanarsi il più possibile da lì,
magari chiamare i suoi compagni in quel punto, di certo non voleva
restare da solo con quell'essere; d’altra parte, era anche
vero che il suo signore gli aveva impartito un ordine e sapeva quanto
potesse diventare violento di fronte a un rifiuto. Doveva
portargli quel corpo il più velocemente possibile, non aveva
altra scelta. Kenneth si fece coraggio, titubante si
avvicinò e dopo averlo toccato con la spada, vedendo che non
reagiva, si piegò, prendendo l’uomo per le gambe e
trascinandolo attraverso le sterpaglie: il corpo era possente, pesante,
ancora caldo, ma era veramente morto, non reagiva in alcun modo al suo
tocco. Lo scudiero prese via via più fiducia e si
mosse sempre meno lentamente, l'orecchio teso a cogliere qualsiasi
fruscio sorgesse tra le foglie intorno a sé. All'improvviso,
così piegato, qualcosa attirò la sua attenzione
da dietro dei cespugli: si fermò, lasciò cadere a
terra le gambe dell'uomo, estrasse di nuovo la spada dal fodero e
scostò con la punta della lama alcuni rovi per vedere
meglio. Pallida come la luna, a terra, dietro dei cespugli,
vide una specie di bambola che sembrava riposare tra le foglie, avvolta
in una tunica scura, il viso e i capelli in parte coperti da un
mantello, la pelle delle gambe e delle braccia esposte in buona parte
alla vista.
Possibile che fosse la Strega? Possibile che anche lei fosse
morta? E se era così, che cosa l'aveva uccisa?
Rimase per alcuni secondi a guardarla, quel volto, già solo
a guardarlo da lontano, gli trasmetteva un senso di pace, voleva
avvicinarsi, toccarla, baciarla, solo con difficoltà l'uomo
riuscì a ritornare in sé e a ricordare chi fosse
e soprattutto cosa fosse quell'essere. No, non doveva
avvicinarsi o sarebbe caduto sotto qualche maleficio di quella dannata
Strega, magari il turbamento, l'attrazione che provava in quel momento
era proprio frutto degli incanti del demonio per strappargli
l’anima e farla bruciare all’inferno. Si
ritrasse e, mettendo da parte, di nuovo, qualsiasi cautela,
iniziò a urlare a squarciagola perché corressero
tutti lì: aveva trovato anche la Strega.
***
Áed fremeva di eccitazione, tutto preso dai suoi pensieri,
mentre ritornava verso Gregorius: aveva appena parlato con i portatori
dei cani e distribuito i compiti, stando ai suoi calcoli, ora che il
mostro che difendeva la Strega era morto, dovevano esserci almeno altri
quattro Adoratori di Satana, attorno a loro, nascosti nelle tenebre
della foresta. Eppure, benché fossero in evidente
inferiorità numerica e strategica, non conoscendo il bosco,
il signore di Glower si sentiva ottimista e pregustava la vittoria,
perché poteva opporre alle arti demoniache dei Maghi, la
croce e il rosario del suo cappellano. Sentiva che li avrebbe catturati
presto, vivi o morti, tutti quanti. Pregava di riuscire a
prendere lui stesso la Strega, la voleva uccidere con le sue mani, ma
non voleva chiudere quella storia subito, più ci pensava e
più si convinceva che la morte era troppo poco, voleva farla
soffrire, nel più orribile dei modi. Oltre alla
fattucchiera, poi, c'erano l'uomo che aveva provato a impiccare, senza
riuscirci, e quel figlio maschio di circa diciotto anni, quello che
aveva visto al collo della Strega al mercato di Fonn Abhuinn: avrebbe
fatto pendere dalla forca entrambi gli uomini, sulla pubblica piazza,
anzi, sarebbe stato lui stesso il boia, voleva far vedere a tutti che
si era pentito dei suoi peccati, che era tornato a essere un uomo
timorato di Dio. E, soprattutto, avrebbe costretto la Strega ad
assistere, così che provasse, vedendo con i suoi occhi la
morte del proprio figlio, lo stesso dolore devastante che
Áed aveva sentito spezzargli il cuore, quando aveva raccolto
il corpo esanime di Mael dalla nuda terra.
Mael…
Suo figlio, il suo unico figlio… Non c'era solo il dolore
per la morte e il desiderio di vendetta a dominare la mente del signore
di Glower, c’era anche una strana, folle speranza: se era
nato maschio e il rigore dell'inverno non l'aveva già
strappato alla madre, doveva esserci almeno un altro bambino, di non
più di cinque o sei anni, ricordava bene che la Strega era
incinta l'ultima volta che l'aveva vista, quando, con quel maledetto
cane, aveva salvato il suo uomo dal boia. E chissà,
magari ne aveva altri ancora. Da quando il cappellano gli
aveva assicurato che i bambini maschi, al contrario delle femmine,
erano offerti al demonio non alla nascita ma al compimento dei dieci
anni, l’idea di scontrarsi con la Strega l’aveva
riempito d’inquietudine, odio, esaltazione ma anche di un
desiderio che aveva vergogna ad ammettere persino con se
stesso. Áed cercava di ricordare che si trattava
pur sempre del figlio di una Strega, ma il suo pensiero tornava sempre
lì: se la fattucchiera avesse avuto dei figli maschi di non
più di dieci anni… se fossero stati ancora dei
bambini normali… se, una volta battezzati e opportunamente
riconsacrati, fossero davvero stati liberi dal
Male… Bambini maschi, uguali a tutti gli altri,
probabilmente più forti e robusti di tutti gli
altri… Áed aveva paura a formulare razionalmente
quel pensiero, ma dentro di sé la smania e
l’eccitazione si fondevano e si libravano superando timore e
superstizione: potevano essere cresciuti come dei figli? Dei figli
perfetti? Se avesse trovato quel bambino, quei bambini, se
fossero davvero stati dei maschi, avrebbe potuto prenderli e allevarli
come propri? Se col battesimo il cappellano poteva davvero
farne dei buoni Cristiani, per quale motivo non avrebbe dovuto
prenderli con sé? Quella donna maledetta gli aveva
promesso un figlio maschio e lui... Le aveva persino offerto,
anni prima, ben venti monete d'argento per averlo e invece, ora, di
nuovo, si ritrovava senza niente... Sì, quei figli
gli spettavano di diritto e lui non intendeva né poteva
aspettare oltre! Áed avrebbe ottenuto il maschio,
anzi i maschi, che il destino gli doveva. Un uomo aveva il
diritto di perpetuare il proprio nome... E se sua moglie non era stata
capace di... allora lui aveva il diritto persino…
Ricordò di colpo la fierezza dello sguardo di mercurio
dell’Adoratrice di Satana, l'altezzoso rifiuto che gli aveva
opposto, la voluttà di quel corpo pieno, quella Strega gli
turbava i sogni e il corpo ormai da anni, e di colpo l'ira, il dolore,
la sete di vendetta si fusero al desiderio fisico di possederla e lo
travolsero. Áed temette di diventare pazzo,
respirò a fondo: perché prendere il figlio di un
altro uomo, un bastardo, quando poteva averne uno proprio? Se avesse
trovato dei maschi, glieli avrebbe strappati e li avrebbe cresciuti per
farne dei buoni soldati, certo, ma si sarebbe tenuto anche lei, voleva
tenersi anche lei, demonio o non demonio, la voleva, prigioniera, nelle
segrete, come l’animale che era, la voleva per prenderla ogni
volta che ne avrebbe avuto voglia, finché lei,
così feconda, gli avrebbe dato il maschio, anzi tutti i
maschi che il destino finora non gli aveva concesso. Solo alla fine,
quando si fosse stancato, quando avesse ottenuto tutto ciò
che desiderava, si sarebbe sbarazzato anche di lei. Sì,
avrebbe fatto così... Quanto alle figlie della Strega...
quelle non si potevano salvare nemmeno con il battesimo, pertanto non
aveva senso tenere in vita altre bocche da sfamare, nemmeno per trarne,
un giorno, soddisfazione... Non le avrebbe tenute nemmeno come serve,
le avrebbe fatte bruciare tutte, subito, si sarebbe vendicato
così della Strega, l'avrebbe costretta ad assistere
all'orrore che avrebbe scatenato contro i suoi figli, proprio come a
lui era toccato vedere la morte di Mael. Sapeva di essere
dalla parte del giusto, lo dimostrava l'esser riusciti già
ad ammazzare quel maledetto cane... Nemmeno per un istante
Áed pensò che quella minima vittoria era stata
ottenuta a costo di tante, troppe vite, che stava mandando a morire la
sua gente, per quella che era solo un’ossessione, una follia,
non riusciva a comprendere che qualsiasi vendetta, nemmeno la
più turpe, gli avrebbe reso suo figlio.
All’improvviso le urla di Kenneth dal fitto della foresta,
là tra quei rovi in cui gli aveva ordinato di entrare, lo
ridestarono dal suo delirio personale: Áed mise mano alla
spada, diede una rapida occhiata al cappellano perché lo
seguisse e lo proteggesse con la Croce, ritornò sui suoi
passi, il cuore in tumulto, l'ira affamata a governargli il corpo e la
mente. Aveva sentito bene? Kenneth aveva proprio detto di aver trovato
anche la Strega? O forse il suo scudiero era già impazzito?
Tutti sapevano che su An Monadh era stata gettata una potente
maledizione, ma Áed non se ne curava, avanzava sicuro, ora
che la vendetta stava per essere consumata, non aveva alcun timore,
nulla sarebbe riuscito a fermarlo, nemmeno la più oscura
delle creature uscite dall’inferno. Quando vide i rovi
schiacciarsi al passaggio del suo scudiero e l’uomo,
apparentemente incolume, avvicinarsi, i suoi occhi fissarono carichi di
attesa l'oscurità alle sue spalle e il dolore cupo per Mael
spazzò via, di nuovo, qualsiasi altro sentimento.
“Dov'è?”
Non aspettò nemmeno che lo scudiero formulasse una risposta,
lo superò e si fece largo tra il fogliame, mentre Kenneth
farfugliava qualcosa su un cane, che non era un cane ma un uomo, lo
implorava di non andare, di aspettare di essere raggiunti anche da
altri, di non far conto solo sulla Croce di Gregorius, che lo seguiva a
capo chino, muto, particolarmente pensieroso. Áed non gli
prestò ascolto, non gli interessava più niente,
solo stringere le sue dita attorno al collo della
Strega. Rapido raggiunse il luogo in cui giaceva il corpo
seminudo del condannato alla forca, lo riconobbe subito dal naso curvo
in una piega strana, si compiacque quando vide la freccia mortale
conficcata nel petto, proprio all'altezza del cuore, sentì
quasi un piacere fisico pensando che la Strega avesse visto il dardo
penetrare nella carne amata, lacerarla, danneggiarla, togliere per
sempre la vita al suo uomo. Si avvicinò ancora di
più, sempre con Gregorius al seguito, sollevò la
spada che reggeva nella destra, l’aveva tenuta sempre
sguainata da quando era entrato nei territori di An Monadh,
ammirò il luccichio metallico della lama, poi di colpo la
calò sul corpo dell'uomo, rapida per tre volte, per sfregio,
dritta in pieno petto, allargando ancora di più la ferita
provocata dalla freccia. Con un sorriso di soddisfazione sulle labbra,
proseguì nell'oscurità della vegetazione, nella
direzione che gli aveva indicato lo scudiero appena l’aveva
raggiunto: la Strega era lì, oltre quelle foglie, che lo
aspettava. Ordinò al cappellano di seguirlo e a Kenneth di
trascinare l'uomo-cane fino al fiume.
***
Kenneth si chinò di nuovo sul corpo del Mago, lo prese per
le gambe e si mosse a ritroso per alcuni passi, rassicurato dal fatto
che presto sarebbe uscito dal folto della vegetazione e avrebbe
raggiunto una radura scoperta, in riva al fiume, dove avrebbe atteso al
sicuro i portatori dei cani. Aveva persino sentito alcuni fruscii
dietro di sé, probabilmente stava già arrivando
uno dei segugi. All'improvviso, però, mentre con
fatica trascinava il corpo del Mago, si ritrovò a cadere a
terra, all'indietro, perdendo la presa sul morto: forse era inciampato
su un ramo, o su un sasso, o addirittura sui suoi stessi piedi, corse a
guardarsi i calzari per capire cosa l'avesse fermato. Con orrore vide
che due serpenti gli si stavano annodando stretti alle caviglie.
Cercò di sollevarsi a sedere, di estrarre la spada dal
fodero per assestare un colpo preciso che uccidesse i rettili e lo
liberasse, ma anche sul suo polso si stavano già annodando
un paio di serpi dalla testa verde, apparsi dal nulla. Provò
a urlare per chiedere aiuto, ma la voce non gli uscì dalla
gola: sinuoso, un altro rettile gli si stava stringendo al collo,
serrandolo via via sempre con più forza, togliendogli il
fiato poco alla volta, annebbiandogli sempre più la vista e
la mente. Kenneth era sicuro che a quell’ora, quasi prossima
all’alba, i serpenti dormissero ancora, nascosti nelle loro
tane o sotto le pietre, e rabbrividì ancora di
più al pensiero che quelle bestie non si stessero
comportando secondo natura, che una forza demoniaca avesse preso il
controllo delle loro azioni. Non fu capace, però,
di connettere a lungo i suoi pensieri, la serpe sul collo strinse
ancora di più, trasformando il suo difficoltoso respiro in
una specie di rantolo, mentre alle caviglie e ai polsi, affilati, i
dentini delle serpi gli penetravano ripetutamente la carne,
iniettandogli più e più volte, nel sangue, il
loro fluido venefico. Lo scudiero voleva implorare
pietà, urlando tutto il suo dolore e la sua paura, mentre le
serpi colpivano e colpivano ancora, ma ormai, anche se la serpe non
stringeva abbastanza il suo collo da farlo morire soffocato, non
riusciva quasi più a respirare. L’uomo si
sentì girare la testa, il freddo e il fuoco si alternavano
nelle sue membra, l'oscurità prendeva a poco a poco il suo
sguardo rendendolo semicieco, mentre si dibatteva per la febbre e il
dolore, senza tregua, percorso dalla più atroce delle
torture, in attesa che il veleno giungesse al cuore e il suo corpo
cedesse all’oblio.
L'ultima cosa che vide, mentre il suo corpo era devastato dalle
convulsioni, fu un'ombra: ne vide distintamente solo una gamba, ma la
sua mente alterata riconobbe la gamba di un
uomo. L’ombra si muoveva a pochi passi da lui, al
limitare di ciò che restava del suo campo visivo, si
chinò a raccogliere la sua spada, a pochi centimetri dalle
sue mani, lo sentì, chiaramente, la sua voce era simile al
sibilare del serpente, e si levava appena in un canto
sconosciuto. Kenneth ne era convinto, le serpi facevano
scempio della sua vita aizzate proprio da quello strano canto.
L’ombra avanzò fino a inginocchiarsi sul corpo
dell’uomo che era stato un cane, non si curò in
alcun modo di Kenneth, non gli alleviò le sofferenze
togliendogli la vita, si sollevò invece poco dopo, la spada
stretta nel pugno, e penetrò tra la vegetazione, lasciando
lo scudiero lì, a morire nelle più atroci
sofferenze, come un animale.
*continua*
NdA:
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, aggiunto alle liste e/o
commentato. Abbiamo ritrovato due personaggi che avevamo
conosciuto nel primo capitolo, Aed e il suo scudiero, e
conosciuto Banrigh (= in gaelico questa parola significa
"signora", "regina"). Per il nome di uno dei suoi figli ho usato il
nome del capo dei Centauri al tempo di Harry Potter,
Magorian. Per Sheira era quasi scontato un certo tipo di finale (fatto
di violenza sessuale, sangue e dolore), data la situazione, ma appunto
sarebbe stato il finale più scontato, ecco quindi che, se
proprio si doveva parlare di morte, ho voluto caratterizzare
i suoi ultimi istanti non con l'odio ma con l'amore,
ricollegandomi al filone della Rowling di madri che muoiono salvando i
propri figli. Il momento "horror" arriva alla fine, e in questo modo ho
anche fatto fuori tre personaggi in due capitoli. Un bacione.
Valeria
Scheda
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Capitolo 6 *** I.006 - TERRE DEL NORD - IL SIGNORE DEI SERPENTI ***
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.006
- Il Signore dei Serpenti
Dòmhnall aveva trovato ridotta in cenere la radura in cui
era nato e cresciuto. Era rimasto annichilito per lunghi, interminabili
secondi, poi, come invasato, si era gettato a terra e aveva scavato a
mani nude tra i resti fumanti degli alberi, là dove fino a
un paio di ore prima si ergeva la tenda con la Fiamma Verde, per
cercare traccia dei suoi familiari, terrorizzato all'idea di trovarsi,
prima o poi, di fronte ai loro corpi privi di vita. Sconvolto, gli
occhi pieni di lacrime e le mani ridotte a piaghe sanguinanti, aveva
pregato gli dei che suo padre e sua madre fossero fuggiti in tempo,
finché, lentamente, si rese conto che, nella devastazione
del suo mondo, non c'era nulla che testimoniasse un loro scontro con i
Babbani: non era stata compiuta alcuna Magia dopo la sua partenza, suo
padre non si era dovuto difendere, gli aggressori sembravano aver
raggiunto la radura quando la sua famiglia si era già
allontanata da lì. Rassicurato, recuperò la calma
e trovò infine, tra i rovi, le tracce che cercava, tracce
che testimoniavano come suo padre non avesse percorso la strada che gli
aveva consigliato per raggiungere la Sorgente, ma avesse scelto
l'altra, quella più lunga e meno ripida, forse per
confondere gli assalitori, forse per farli dividere e guadagnare tempo,
forse nell'estremo tentativo di allontanare quelle bestie dai suoi
figli più grandi. In realtà, nessuno dei
Babbani aveva trovato o seguito le tracce dei ragazzi: tornando sui
suoi passi, Dòmhnall non aveva scorto segni riconducibili al
loro passaggio, il che significava che aveva preso la decisione giusta,
aveva lasciato suo fratello Cuilén al sicuro, per tornare
indietro e aiutare i suoi genitori e il neonato, in pericolo nella
boscaglia. Osservò con cura i rametti spezzati, le
impronte stranamente leggere nella terra umida, riconobbe i segni
appena percettibili con cui suo padre, abitualmente, segnava la strada:
non aveva compiuto alcun errore, come sempre, era impossibile capire
che quelle lasciate erano tracce umane, non animali; c'erano,
però, anche alcune gocce di sangue, di cui non riusciva a
capire il significato e, forse, questo aveva indicato la pista ai
segugi. Si mise in marcia a sua volta, tenendo la direzione
senza difficoltà: gli uomini di Glower-o ‘er-em,
infatti, avevano sovrapposto pesantemente le proprie impronte a quelle
del Mago, non avevano certo avuto cura di muoversi con cautela e
rispetto, addirittura il fuoco di alcune frecce divorava ancora gli
arbusti, alimentandosi pericolosamente con le foglie secche del
sottobosco; lungo il tragitto, il giovane vide molti animali uccisi dal
fumo e dalle fiamme, la vegetazione ovunque calpestata con violenza, il
suo bosco recava i segni di una volontà assassina di
distruggere e devastare ogni cosa. Suo padre a un certo punto
aveva deviato ancora, sicuramente per dirigersi alla grotta lungo il
fiume: Dòmhnall immaginò che sua madre, debole
per il parto, non potesse arrivare subito al luogo dell'appuntamento e
la grotta costituisse il riparo più sicuro, soprattutto di
notte; il giovane si animò di coraggio e speranza, conosceva
bene il percorso, lui e suo padre passavano settimane intere in quel
rifugio, quando andavano a caccia d'inverno, era una roccaforte di
rocce facilmente difendibile dalle belve: appena i suoi l'avessero
raggiunta, sarebbero stati in salvo.
Aveva deciso: anche se non capiva quanto vantaggio avessero, avrebbe
cercato di rallentare la corsa dei Babbani, li avrebbe attaccati alle
spalle, così da dar modo ai suoi familiari di arrivare alla
grotta, avrebbe potuto spaventarli aggredendoli con qualche semplice
Magia innocua, suo padre diceva sempre che erano uomini codardi,
superstiziosi, che credevano ad assurdità sugli spiriti
della Foresta. Era pericoloso, certo, avrebbe dovuto essere
cauto, non sapeva quanti fossero, quanto fossero armati, e,
soprattutto, come avrebbero realmente reagito, ma Dòmhnall
sapeva essere cauto, quando era necessario: fin da ragazzino, suo padre
gli aveva insegnato che non avrebbe mangiato, se non fosse stato in
grado di procurarsi da solo il cibo, e nel corso degli anni era
diventato abile a muoversi nella foresta, silenzioso come le sue prede,
per catturare, anche senza Magia, gli animali con cui doveva
sostentarsi. Dòmhnall non era armato e un vecchio
patto con i Centauri lo costringeva a non fare del male con la Magia,
ciò nonostante aveva già un paio d’idee
su come agire e sapeva che, se avesse giocato bene le sue carte, non
solo non l'avrebbero visto, ma i Babbani sarebbero rimasti
così sconvolti, che non avrebbero mai più violato
la foresta. Avanzò circospetto, tenendosi nel fitto della
boscaglia, annusò l'aria, sentì l'odore acre di
fumo farsi più pungente, vide a terra tracce di sangue
ancora fresche, dimostrazione che lo scempio lì era avvenuto
abbastanza di recente: suo padre aveva ragione a disprezzare quegli
uomini, ovunque andassero portavano distruzione e morte, non capivano
che la Natura era una madre dispensatrice di ogni dono, capace di
soddisfare qualsiasi necessità, bastava solo obbedirle e
assecondarla. No, i Babbani si ponevano come fossero padroni
di tutto, come se il Creato dovesse piegarsi al loro volere, come se la
Natura fosse una serva da violentare
impunemente. Guardò con ribrezzo la carneficina,
avanzò, con il cuore gonfio di dolore e di rabbia, si chiese
se sarebbe riuscito a portare a termine quanto si era imposto, se
sarebbe riuscito a spaventare quegli uomini orribili, con i suoi
trucchi innocenti. Sì, ce l'avrebbe fatta, lo
sapeva, ce l'avrebbe fatta per l'odio profondo che, per la prima volta,
sentiva crescersi nel cuore e nel cervello. Quando vide uno di
quei Babbani che avevano popolato per ore la sua immaginazione, la sua
forza e il suo coraggio non vacillarono, anzi il suo odio e la sua
determinazione, se possibile, si radicarono ancora di più:
già da lontano, il fetore di quell'essere, rimasto solo
nelle retrovie a far da sentinella, spaventato a morte da qualsiasi
rumore provenisse dal fitto della boscaglia, permeava ogni cosa; era
solo una bestia immonda, proprio come aveva detto suo padre.
Dòmhnall si sentiva stordito, paura ed esaltazione si
fondevano, proprio come quando andava a caccia, e quell'uomo, in quel
momento... poteva essere la sua preda. Le voci e le urla
squassavano la foresta, i fuochi rendevano l'aria pesante,
irrespirabile, il rumore dei passi pesanti, il sibilo delle frecce di
fuoco, tutto contribuì ad acuire il turbinio di sensazioni
che lo agitavano come una foglia nel vento. Il ragazzo
respirò a fondo, recuperando lentamente il controllo di
sé: non doveva avere paura e non doveva farsi distrarre
dall'odio, l'unica cosa importante era che quegli uomini non
arrivassero alla sua famiglia, non doveva ascoltare la voce che,
nell'anima, gli urlava che non era sbagliato assalire e straziare,
vendicarsi per lo scempio che vedeva intorno a sé, per il
terrore che provava, per la fuga cui era costretta la sua famiglia. No,
doveva pensare solo ai suoi genitori e ai suoi fratelli. Era
convinto che fossero vivi, da qualche parte, nei paraggi, bisognosi del
suo aiuto, li avrebbe aiutati, si sarebbe riunito a loro, li avrebbe
abbracciati, avrebbe raggiunto la Sorgente e Cuilèn con
loro... doveva solo agire, fuggire e
salvarsi. Lasciò la sentinella dietro di
sé, quello stolto non immaginava nemmeno cosa aveva appena
rischiato, continuava a tremare al verso cupo della civetta.
Dòmhnall accelerò il passo, si
avvicinò di più al grosso degli uomini,
notò, a poco a poco, che davanti a sé si levavano
sempre meno frecce, che le voci concitate si mischiavano a urla e
pianti: si nascose varie volte nella vegetazione più fitta,
sentendo giungere di corsa, nella sua direzione, alcuni di quegli
uomini. Li osservò incredulo: sconvolti, urlavano
arrancando tra gli alberi, le carni delle gambe lacerate e straziate,
alcuni si tenevano un braccio che penzolava nel vuoto, ne vide un altro
tenersi la pancia e poi crollare a terra, in un tripudio di carne e
sangue, il ventre squarciato; quelli che restavano in piedi, impazziti,
s’inoltravano nella foresta senza più badare dove
fosse il fiume, destinati a cadere in qualche profondo crepaccio o,
dispersi nell'intrico degli alberi, morire per il freddo e la fame,
pasto delle bestie selvatiche. Dòmhnall non riusciva a
capire di cosa avessero paura quegli uomini, né chi li
avesse aggrediti in quel modo cruento: i Centauri e le altre creature
magiche non agivano così e dovevano essersi già
nascoste sentendoli arrivare, gli animali feroci attaccavano singole
prede, non gruppi di persone armate e, soprattutto, di fronte al fuoco
fuggivano. Che cosa stava accadendo? Forse suo padre,
in difficoltà, per difendersi, aveva rotto il patto con i
Centauri e aveva affatturato e scatenato i lupi contro i
Babbani? Era possibile, anche se, conoscendo il carattere mite
di suo padre, poco credibile. Si chinò sul corpo
dell'uomo sventrato, turandosi il naso, con un piccolo pezzo di legno
gli scostò i lembi della tunica e furtivo osservò
la ferita: lupi… Sì, lupi… aveva visto
solo i lupi procurare delle lacerazioni simili.
“Ho colpito il cane! Mio
signore, ho colpito il cane!”
Una voce agitata si levò tra gli alberi, spaventandolo, in
direzione di una piccola radura a pochi metri dalla sua posizione:
Dòmhnall, sospettoso, tese l'orecchio, sapeva che non
c'erano cani nella foresta di An Monadh, i lupi non lasciavano che i
randagi dei villaggi entrassero nei territori e si accoppiassero con le
femmine, indebolendo la razza. Eppure la voce aveva detto
proprio “cane”, anzi “il cane”,
come se lo conoscessero. Che fossero lì per cercare
un cane malato, per evitare un'epidemia di rabbia? Il giovane
s’immerse nel sottobosco muovendosi lentamente tra i cespugli
verso la voce, voleva capire, anche se non poteva avvicinarsi
più di tanto, arrivò fino al punto più
riparato nei pressi della radura scoperta, rimase fermo, trattenendo
quasi il respiro studiando la scena: al primo uomo se ne aggiunse un
altro, dal passo imperioso e dal vociare potente, urlava improperi e
maledizioni incomprensibili, ma quando fu più vicino, il
bosco vibrò di parole che il ragazzo comprese chiaramente,
senza possibilità di errore.
“Ora vengo a prendere anche a
te, puttana maledetta!”
Dòmhnall sentì il sangue ribollirgli nelle vene,
mosso da paura e odio. Non stavano cercando
cani. S’impose calma e coraggio, osservò
con attenzione per decidere cosa fare, incuriosito da quegli uomini
così diversi da lui: si mosse, si avvicinò ancora
un po', quasi strisciando, scostò, un poco, le foglie dei
cespugli, per studiare i dettagli, l'uomo che aveva colpito il cane
portava un pesante arco a tracolla e una spada al fianco, aveva vesti
umili, le calze logore e sporche, i calzari di pelle laceri, il corpo
nascosto da una pesante maglia di metallo, al contrario dei disgraziati
che correvano nel bosco, con addosso solo la tunica. L'arciere
era un soldato e, da quanto riusciva a vedere del suo viso nascosto da
lunghe chiome castane impiastrate di polvere e sudore, aveva circa
l'età di suo padre. Il secondo era più
vecchio, più alto, grasso e flaccido, con le vesti
più ricche, anche se ugualmente sporche: al contrario
dell'arciere, non indossava la cotta di metallo, la testa era scoperta
e quello che restava di una chioma fulva e rada scendeva a ciocche
spettinate sulle spalle, fondendosi con la barba biondiccia,
inzaccherata di sudore e sporcizia. Aveva il volto segnato da
rughe profonde, rabbioso, su cui rilucevano occhi chiari, spiritati, da
pazzo assassino: doveva trattarsi del signore di Glower-o
‘er-em, l'uomo che aveva già provato a uccidere
suo padre, anni prima, mosso da un odio di cui, oggi come allora,
Dòmhnall non riusciva a capire la ragione. Gli
sembrava di avere il cuore pressato in un guanto gelido,
tremò dalla paura, dall'angoscia, temendo di non riuscire a
portare a termine ciò che si era prefisso, senza far uso
della Magia: quell'uomo di certo era più forte ed esperto di
lui nella lotta, determinato a dargli la morte, almeno quanto
Dòmhnall era determinato a salvare se stesso e i suoi
cari. D'un tratto, i due Babbani si divisero, il signore di
Glower-o ‘er-em si allontanò, portandosi dietro,
se ne accorse solo all'ultimo, una terza figura, un vecchio dal capo
canuto, un essere fragile, quasi piegato in due dagli anni e dalla
fatica, ma il cui sguardo... Dòmhnall
rabbrividì di nuovo, questa volta per la sensazione di
pericolo che provò, vedendo il vecchio monaco, un uomo che
non aveva nulla di minaccioso, anzi... Eppure...
ricordò i discorsi di suo padre su Gregorius, il monaco che
era riuscito a turbare persino sua madre, perché sembrava
conoscere le Rune e la Confraternita di cui, Babbano, non avrebbe
dovuto sapere niente. Decise di non perdere altro tempo,
osservò l'arciere inoltrarsi nella boscaglia, alla sua
sinistra, poteva aggirarlo e affrontarlo, poteva immobilizzarlo con la
Magia, scoprire cosa volevano dalla sua famiglia, vedere le sue paure
profonde e approfittarne. Si guardò attentamente
intorno, in quel punto non si era ancora avventurato nessuno, non
c'erano tracce della sua famiglia, eppure era abbastanza vicino al
sentiero per la grotta, non capiva se avesse sbagliato strada, o se i
suoi, per qualche motivo, avessero deviato ancora, nascondendosi nelle
vicinanze. La situazione non era semplice, era necessario
trovarli, il più in fretta possibile. Si mosse,
rapido e silenzioso, finché non percepì, con la
coda dell'occhio, alcune foglie agitarsi alle sue spalle: si
acquattò a terra, osservò, con occhi fissi, e,
nel grigiore che andava a sostituirsi lentamente al buio della notte,
gli parve di scorgere una schiena nuda tra gli alberi e un suono
strano, come un pianto, molto simile a quello di un gattino.
Che fosse la voce del bambino? Di suo fratello? La sua famiglia era
davvero lì, vicino a lui, da qualche parte? Di chi era
quella schiena bruna?
Tese l'orecchio ma il suono non si ripeté, lasciandolo nel
dubbio e nell'ansia. Si mosse ancora, sempre lentamente, in
quei minuti, che potevano essere pochi o
l’eternità intera, aveva perso di vista l'arciere,
ma aveva un'idea abbastanza precisa di dove potesse trovarsi; inoltre,
i Babbani avevano ormai una rilevanza secondaria, rispetto alla
possibilità di ritrovare la sua famiglia e scappare insieme
con loro. Quando però la voce affannata del soldato
ruppe di nuovo, improvvisa, quel silenzio carico d'attesa,
Dòmhnall sentì un brivido gelido lungo la
schiena, le gambe si piegarono, tutto si fece oscuro mentre le sue
orecchie udivano le parole e il cervello comprendeva lentamente il loro
significato.
“Presto, correte, ho trovato
anche la Strega!”
Dòmhnall si sorresse all'albero al suo fianco, il volto, lo
sentiva, bruciava per lo scorrere violento del sangue nelle sue vene,
deglutì, cercò di fare chiarezza nella mente,
senza riuscirci, di raccogliere le idee e prendere una decisione:
ascoltò con attenzione l'arciere, concitato, che parlava di
un cane che non era un cane ma un uomo, e di una donna, la Strega,
stesa a terra, tra gli alberi. Tutto in Dòmhnall si spense:
pensieri, speranze, persino la coscienza di se stesso. Il giovane Mago
tremò: alcuni ricordi riemersero confusi dal suo passato, le
voci di sua madre e di suo padre, attorno al fuoco, riecheggiarono
nella sua memoria, si rivide bambino, mentre gli narravano cosa un
giorno sarebbe stato capace di fare con la Magia. Glielo aveva fatto
vedere, suo padre... e Dòmhnall aveva riso, pieno di
entusiasmo. Suo padre sapeva trasformarsi in cane. Lo
ricordava chiaramente.
Il cane… l'unico cane che può vivere nella
foresta... Non è un cane, ma un uomo... L'unico cane...
può essere... è... solo... Mio padre...
Allora… L’uomo che mi ha dato la vita...
è…
L’uomo che mi ha insegnato ogni cosa…
è...
L’uomo invincibile, capace di spaventarmi con uno sguardo...
è...
“Ho colpito il cane! Mio
signore, ho colpito il cane!”
Gli girava la testa, Dòmhnall sentiva di essere sul punto di
vomitare. No, non era possibile, non era assolutamente possibile.
Sentì il vociare degli altri uomini che tornavano indietro,
il giovane continuò a muoversi confuso, assente, come una
bestia ferita, tentando di raggiungere la posizione dell'arciere e
vedere con i suoi occhi il cane che non era un cane, e la donna stesa
sulla fredda terra, la mente gli pulsava: si rifiutava di accettare il
significato di quelle parole. Cercava disperato una
spiegazione diversa.
Uccisi... Dòmhnall… te li ha uccisi…
Entrambi...
Non è possibile… Quell'uomo non può
averli colpiti... Non entrambi… Non sono loro, non possono
essere loro...
Se non sono loro... dove sono i tuoi?Perché le tracce
finiscono qui? Dov'è
il bambino?
Dòmhnall, come impazzito, riprese a cercare tracce tra gli
alberi, senza trovare più niente, senza vedere
più niente, nemmeno a pochi centimetri dai suoi occhi, non
vedeva più nemmeno le sue mani, i suoi piedi, le foglie, la
terra: tutto era nero, oscuro. Tutto era morte. Aveva paura,
Dòmhnall, aveva paura di sapere, paura di
vedere. Paura di scoprire la verità. Paura di
scoprire che la verità peggiore era ormai anche l'unica
possibile.
Si stava abbandonando alla disperazione, al gelo che gli intorpidiva le
membra, agiva senza riflettere, non gli importava di essere scoperto,
decine d’immagini terrificanti gli balenavano nella mente e
lo sconvolgevano tanto da non riuscire a respirare: ricordava quello
che suo padre aveva raccontato della prigione, cosa aveva visto fare
alle donne nelle segrete del castello, sapeva perché parlava
di quegli uomini come di bestie immonde. Si sentiva
soffocare... Viva o morta, doveva trovare e nascondere sua
madre, non poteva lasciare che quegli esseri ripugnanti
la... Cercava, disperato, di aggrapparsi all'idea che fosse
tutto un errore, ma non ci credeva già più:
desiderava profondamente lanciarsi nella mischia, scatenare tutta la
rabbia che sentiva in corpo, vendicarsi su quei miserabili maledetti,
ucciderli tutti. O morire... Sì, avrebbe
persino desiderato la morte, pur di non vedere, se solo la voce
amorevole di sua madre non gli avesse ripetuto, nella mente, un nome,
sempre lo stesso, ossessivo, infinito, dolce e al tempo
stesso terribile.
Cuilén…
L’odio che sentiva dentro lo spingeva a uccidere o morire, ma
c'era suo fratello da salvare, quel fratello che suo padre gli aveva
affidato, insieme alla Fiamma di Habarcat. Dòmhnall
si accucciò alla base di un albero, pianse tutte le lacrime
che sentiva dentro di sé, la testa gli sembrava esplodere,
mentre non aveva più idea di dove fosse, perso tra le foglie
e in se stesso: non capiva cosa stesse facendo, né cosa
dovesse fare, cosa fosse giusto e cosa sbagliato, chi dovesse aiutare,
chi abbandonare.
Cosa devo fare?
Spettava a lui ormai proteggere quanto di più prezioso e
sacro era nato e cresciuto in seno alla loro famiglia, suo padre gli
aveva spiegato il valore di suo fratello, del bambino nato a Oimelc,
del custode di Habarcat, la cui vita era tutt'uno con la
Fiamma. Aveva commesso un errore, lasciandolo nella foresta:
ora, tutto rischiava di finire. Come aveva fatto a non
capirlo? Suo padre aveva intuito dall'inizio di non avere
scampo, li aveva allontanati per mettere in salvo l'unico che dovesse
salvarsi, Cuilèn, glielo aveva affidato perché
era ancora troppo piccolo per cavarsela da solo... Suo padre
non li aveva spediti alla Sorgente per poi ritrovarsi là,
non aveva scelto una strada diversa per raggiungerli, sapeva
dall’inizio che non si sarebbero più
rivisti… L'aveva spedito alla Sorgente
perché era lì che sarebbe apparso il Mago della
Confraternita entro pochi giorni, al massimo poche settimane:
Dòmhnall sarebbe dovuto ritornare in seno alla Confraternita
con Habarcat e il Custode-bambino. Era questa l'unica cosa che
suo padre gli aveva chiesto di fare... L’ultima
richiesta, il suo addio, il suo testamento… E
Dòmhnall non l'aveva ascoltato: aveva rovinato tutto, aveva
privato Cuilén della Fiamma, aveva portato Habarcat in mezzo
a una battaglia, da cui, se non se ne fosse andato subito, non sarebbe
mai uscito vivo.
Il Mago, però, non poteva permettere che... se i soldati
avessero trovato sua madre... non poteva allontanarsi, non poteva
lasciare che l'orrore si consumasse pienamente. Si
risollevò, deciso a vendere cara la pelle e fare tutto
quello che era ancora possibile. La vide, così, tra gli
alberi, sulla terra pregna di aghi di pino: era lì, a
pochissimi passi da lui, tra le foglie cadute a segnare gli ultimi
giorni di quell'estate maledetta. La guardò, da
lontano sembrava addormentata. Dòmhnall non capiva
cosa stava vedendo, paura e speranza si fondevano, l'aveva trovata, era
finita, poteva scappare con lei... non si chiese nemmeno dove fosse il
bambino, perché non fosse al suo fianco, o se ci fosse
ancora speranza per suo padre... Lieve, si avvicinò,
pregando di sentire ancora il suo respiro, la toccò, la
annusò, riconobbe l'odore che più amava al mondo,
riconobbe il calore che tante volte l'aveva accolto con un abbraccio,
ma non osava guardare il suo viso, i suoi occhi, aspettava muto che
quelle mani, abbandonate, scomposte, sulla terra, si sollevassero ad
accarezzargli il volto, come continuava a fare, anche ora che era quasi
un uomo, pronto a vivere la sua vita. Gliene prese una e la
portò alle labbra, la baciò, era ancora calda, si
avvicinò alla sua testa e le sussurrò piano
all’orecchio, chiamandola lieve, “madre”.
Non si spaventò del silenzio, sapeva che era stanca, era
sfinita dal travaglio, ora ci avrebbe pensato lui a sua madre,
l'avrebbe salvata lui, avrebbe fatto ciò che suo padre,
sacrificandosi, non era riuscito a portare a compimento...
l’avrebbe difesa lui.
Scivolò, timido, con le mani sotto le sue costole, per
sollevarla, caricarsela sulle spalle e finalmente allontanarsi da
lì, nascondersi, fuggire, raggiungere
Cuilèn. Quando tutto fosse finito, quando fosse
stata di nuovo a casa, forse... Forse un giorno,
l’avrebbe perdonato per non aver salvato il
bambino… l’ultimo dono che le aveva fatto suo
padre. Tutte le speranze morirono, però, appena
Dòmhnall sentì qualcosa di umido e vischioso,
ancora caldo, che gli impastava le dita. Rimase pietrificato:
ancora caldo… caldo... sangue caldo… tanto
sangue, caldo… Che cos'era quel sangue? Da dove veniva tutto
quel sangue? Chi l'aveva ferita così?
Il respiro gli si mozzò nei polmoni. La
guardò, infine, in volto, vide gli occhi, gli amati occhi,
socchiusi, freddi, vuoti di morte, Dòmhnall si
sentì morire. Era lì, a pochi passi da
lei, com’era possibile? Quei maledetti gliela avevano uccisa,
lì, mentre lui era a pochi passi da
lei... Com’era possibile? Impazzito, la
girò sul fianco e le controllò, nella
semioscurità dei cespugli, la schiena, tastandola si accorse
che non c'erano ferite, non ce n'erano neppure sul torace, nessuna
freccia, nessuna spada aveva trapassato il suo amato corpo. Allora
perché? Quel sangue, tutto quel dannato sangue
veniva... Quando abbassò lo sguardo sul suo ventre,
l'urlo di orrore gli morì in gola. Le gambe, il ventre, la
tunica, erano una sola, orrenda, immensa macchia di sangue.
Dòmhnall sapeva come nascono i bambini, ma non conosceva i
dettagli e le complicazioni di un parto, suo padre non gli avevano mai
spiegato nulla a quel proposito, perché suo figlio non aveva
attitudine come Guaritore. Il giovane, perciò, non
comprese il vero motivo del sangue e di quella
morte. Dòmhnall immaginò, con
l’odio e la paura: immaginò le cose più
turpi e orribili. Immaginò l'arciere che
approfittava della debolezza di sua madre, che la catturava, la
profanava e infine la uccideva. Non capì più
niente, adagiò orripilato quel corpo a terra, credendolo
intriso della bestemmia di quell'uomo miserabile, come se la vergogna
della bestia avesse corroso quelle membra amorevoli che tante volte
l'avevano baciato, da cui era nato. Sua madre non era
più lì, non c'era più, non l'avrebbe
guardato più, baciato più. Non avrebbe
più sentito la sua voce, accolto le sue
carezze. Non avrebbe più concesso il suo abbraccio
all’uomo amato, e non sarebbe più stata accolta
tra le sue braccia. Le era anzi stato imposto come ultimo, il
tocco di una mano sacrilega.
Tremò... Dòmhnall non poteva
accettarlo. Non contava più niente per
lui. Non gl’importava più di niente,
nemmeno delle promesse che aveva fatto, delle responsabilità
che aveva assunto. Esisteva solo la vendetta, l'odio, il
sangue. Nei suoi occhi e nella sua mente c'era solo il
sangue. Bramava il sangue, bramava vendetta, bramava
morte. Di quel maledetto Babbano, e di ogni altro Babbano
avesse trovato sul suo cammino. Non avrebbe avuto
pietà, mai e poi mai, fino all’ultimo dei suoi
giorni.
Iniziò a vagare tra gli alberi, gli occhi vuoti e freddi, il
corpo tremante, privo di controllo, le sue labbra fremevano, parlavano
senza che se ne accorgesse, ripetevano, come un mantra infinito, il
nome del lupo che dilania le membra, della serpe che inietta il suo
veleno, del rapace che strappa via gli occhi. Infervorato, incatenava i
nomi alle antiche formule, legava le formule al suo dolore, consacrava
il dolore al desiderio di morte e di vendetta. Non contava nient'altro,
non sentiva nient'altro, nemmeno quando, fermo tra i cespugli, vide il
signore di Glower-o ‘er-em sollevare la spada tre volte e per
tre volte conficcarla nel corpo di suo padre, il sangue nero come la
pece che fuoriusciva e scorreva lento a macchiare le Rune del suo
petto, mentre l'essere schifoso ghignava e dava ordini all'arciere e al
monaco. Dòmhnall era freddo, determinato,
deciso. Attese. Attese che l'arciere restasse solo,
attese che riprendesse per le gambe suo padre, attese che ricominciasse
a trascinarlo come un sacco verso il fiume. Poi chiuse gli occhi.
Concentrò tutto se stesso nelle parole di morte che
riempivano il suo cuore, nel dolore e nella rabbia di cui erano
cariche, catturò nel fiato il desiderio di vendetta e lo
liberò nell'aria, col suo respiro, permeò la
natura attorno a sè di quell'odio, di quella fredda frenesia
di morte e perdizione, osservò alcuni rami degli alberi, a
terra, concentrò la sua mente su di loro, chiese alla natura
di trasformarli in serpi velenose, le micidiali serpi con la testa
verde, quelle da cui suo padre lo metteva sempre in guardia,
d'estate. Con occhi pieni di lacrime, Dòmhnall
ricordò come sorrideva della preoccupazione di suo padre,
non si era mai accorto che suo figlio era in grado di parlare con i
serpenti... Osservò l'uomo cadere mentre i rettili
gli si avvinghiavano alle gambe, alle braccia, lo soffocavano
attorcigliandosi al suo collo, poi iniziarono a colpire, a strappare, a
stringere, impercettibilmente sobillate dal piegarsi e dal distendersi
delle sue labbra. Godeva di quella paura e di quel dolore,
anche se sapeva che sarebbe sempre stato niente, rispetto a quanto
aveva subito sua madre. Nella disperazione folle che lo
devastava, veder quell'uomo contorcersi nella sofferenza gli dava
appena un poco di sollievo: decise che doveva soffrire di
più, ancora di più, doveva rimpiangere fino
all’ultimo respiro quello che aveva fatto, voleva sentirlo
implorare il suo dio di dargli la morte... Solo per dargli
ancora più sofferenza, ancora e ancora: sarebbe stata quella
la risposta al levarsi delle sue suppliche. Quando si accorse
che quasi non reagiva più e i suoi sussulti si stavano
trasformando in rantolo, che non poteva trarre, ancora per molto,
soddisfazione dalla morte di quell'uomo, si avvicinò, si
chinò a prendere la spada dell'arciere, ammirò da
vicino il volto deformato dal dolore, la supplica muta nel suo sguardo
ormai quasi cieco, gli squarci provocati dalle serpi, affamate e
impazzite, che strappavano le sue carni.
“Io ti maleico, Kenneth mac
Maìl, maledico te e la tua stirpe immonda, tutta la lurida
feccia che condivide il tuo sangue sporco e miserabile, lurido essere
inferiore, voglio che tu muoia in atroci sofferenze, e che la mia
maledizione perseguiti te e tutti i tuoi simili che osino ancora alzare
gli occhi e la mano sulle discendenti di Sheira nic a' Thon…
da oggi e fino alla fine dei tempi… per la gloria dei
Daur…”
Afferrò la spada, gli fece desiderare e sperare il colpo di
grazia, quindi soffiò ancora le sue litanie nell'aria,
ordinando ai suoi amici dalla testa verde, di non colpire mortalmente,
di non iniettare altro veleno, così che si prolungasse il
più possibile quella lenta, orribile, inesorabile
agonia. Si chinò sul corpo privo di vita di suo
padre, osservò lo squarcio dei tre colpi di spada sul suo
petto, tremò vedendo che il signore di Glower-o
‘er-em aveva cancellato quasi completamente la Runa che
portava sul torace: secondo la legge degli Antichi, una profanazione
simile avrebbe rallentato l'ingresso della sua anima nelle Terre della
Purificazione. Avrebbe
pagato… Quell’essere indegno avrebbe
pagato anche per questo. Dòmhnall sollevò la
spada, il chiarore del nuovo giorno filtrava tra le fronde, da est, e
luccicò sul metallo: sarebbe stato il giorno più
onorevole, per quell’antico ferro, strappato dal ventre delle
Terre del Nord, per gli stupidi giochi di guerra di quei dannati
Babbani. Quel giorno, la spada e la terra sarebbero state
consacrate nel sangue e nella vendetta, per la morte dei figli di Daur.
***
Quando Áed vide la Strega riversa a terra, tra le foglie
secche e gli aghi degli alberi, tentò di lanciarsi subito su
di lei, anche se non aveva ancora deciso cosa farle, sapeva soltanto
che aspettava quel momento da quando aveva seppellito suo
figlio. E ora la puttana era lì, a terra, alla sua
mercé. Gregorius, con difficoltà,
riuscì a bloccarlo, non gli era bastato uno sguardo dei
suoi, stavolta, quello con cui lo riprendeva ogni volta che gli
confessava di aver costretto una giovane ancella a giacere con lui, era
dovuto ricorrere alle minacce, gli aveva ricordato quanto doloroso
fosse il fuoco dell’inferno e della dannazione
eterna. Áed sbuffò, poco convinto, ma si
ritrasse, lo guardò: stranamente agile, il vecchio monaco si
era avvicinato alla Strega, rapido come un ratto, aveva iniziato a
toccarla, voltarla, guardarle tra le vesti, insistere sulle mani e sul
collo, un comportamento per lo meno bizzarro, visto che aveva appena
ripetuto per l’ennesima volta al suo signore che donne come
quella non andavano toccate, che erano pericolose,
diaboliche...
“La Strega è
già morta, mio signore... basta solo
bruciarla…”
“Come sarebbe a dire, morta?
Morta come? Kenneth me la pagherà, gli avevo detto
esplicitamente che volevo essere io a decidere della sua
sorte!”
“Questa donna é
morta di parto, mio signore... non dovreste avvicinarvi, qui
è pieno di sangue impuro, e... ”
Gregorius non riuscì a finire la frase, Áed si
era già lanciato di nuovo su di lui e l'aveva allontanato,
si era inginocchiato vicino alla donna, osservandola incredulo: l'aveva
sollevata appena un po’ da terra, le aveva dato uno schiaffo,
era sicuro che stesse recitando, che fosse tutto un patetico inganno,
che avesse preso qualche infuso per fingersi morta e non affrontare la
vendetta che, implacabile, stava per scatenarsi su di lei.
“Che state facendo, mio
signore? Non potete profanare un morto, nemmeno se si tratta di una
strega! Anzi… soprattutto se si tratta di… la
vostra anima…”
“Taci!”
Áed lo spintonò via per l’ennesima
volta, facendolo cadere a terra, era stanco di quella presenza
invadente, non sapeva se quella donna fosse viva o veramente morta e
nemmeno gli interessava: ora che la rivedeva dopo tanto tempo,
così da vicino, con quei capelli corvini sulla pelle di
porcellana e il corpo pieno… ora che sentiva il tepore
ancora vivo del suo copro... il suo voluttuoso corpo... Era
stanco di quel dannato vecchio che gli rammentava sempre il fuoco
dell’inferno, lui voleva sfogare i suoi istinti, dopo tutti
quei mesi di guerra e dolore ne aveva bisogno: e nulla gli avrebbe
impedito, morta o non morta, di prendersi quella donna. Era
lì, finalmente, a un passo da quel piacere che inseguiva
ormai da quasi venti anni, nessun girone dell’inferno gli
faceva paura, il destino glielo doveva, in un modo o nell'altro, alla
fine, si sarebbe preso almeno parte di ciò che desiderava.
Rapido sotto gli occhi inorriditi del monaco, estrasse il pugnale dalla
cintola e, con un colpo secco, aprì completamente la veste
della strega, osservò bramoso quel corpo niveo, pieno,
materno, distolse rapido lo sguardo dall'oscurità sanguigna
che percepiva in basso, per non perdere il coraggio, la lussuria che
gli accecava completamente il cervello. Portò le
mani ai lembi della propria tunica, se la sollevò sopra i
lombi, iniziò a indugiare con decisione sul proprio pube,
per accelerare il risveglio del proprio corpo. Gregorius, dietro di
lui, iniziò a urlare come un ossesso, impedendogli di
concentrarsi e ottenere un qualche risultato, alla fine, esasperato, si
girò verso il vecchio per ordinargli di smetterla di
infastidirlo, ma quando lo guardò, dal suo volto atterrito
si rese conto che il monaco non lo stava implorando di smetterla,
quanto di scappare. Áed non capì, fece
appena in tempo a voltarsi dall'altra parte, vide appena il lampo del
metallo che si abbatteva dall’alto di traverso su di lui, ma
il cervello non riuscì a registrare altre l'informazione:
Áed mac Taidg, signore di Glower-o
‘er-em era già morto.
Il monaco, inorridito, vide la testa del suo signore rotolare a terra,
accanto ai suoi piedi e finire tra i rovi, il sangue schizzare e
macchiare tutto quello che c'era lì attorno, il corpo
crollare a terra, a pochi centimetri da quello della Strega, come un
sacco vuoto. Si guardò le vesti, lorde di sangue,
appena per un secondo, guardò il demonio che era sbucato
dagli alberi brandendo la spada, un ragazzino esile, semi nudo, con le
dita delle mani, dei piedi e il collo decorati dalle Rune della
Confraternita, occhi di acciaio che saettavano sotto la zazzera
corvina, le guance sporche di terra e lacrime e sangue. Era
senza alcun dubbio il figlio della Strega, un indemoniato. Un
indemoniato che aveva appena visto suo padre e sua madre uccisi dalla
sua gente, un fascio di dolore, di odio e di desiderio feroce di
vendetta. Gregorius deglutì, nascose meglio il
contenuto della sua mano nella tasca interna della tonaca e fece un
impercettibile passo all’indietro, osservando quella creatura
della notte che aveva appena ucciso con una freddezza inumana il
padrone di quelle terre, poi, per quanto gli consentivano le membra
minate dal tempo, iniziò a correre, gettandosi tra i rovi e
i cespugli, invocando aiuto a squarciagola. La sua corsa
procedeva confusa, il vecchio cadde e si rialzò
più volte, sentiva appena un fruscio dietro di
sé, che lo convinse ancora di più di essere
inseguito dal diavolo, non da una persona: no, non poteva una persona
fare... Gregorius incespicò, cadde, si
rialzò, iniziò a recitare le preghiere al Signore
nella sua mente, finché non si vide la strada sbarrata da
una gigantesca creatura irta e pelosa, provò a deviare, ma
dai cespugli, altri occhi gialli, da lupo, sembravano circondarlo.
“Nel nome del Signore della
Croce, io ti ordino... “.
Gregorius si sentì raggiungere dal ragazzo, si
guardò intorno, atterrito, gli parve di vedere un varco, si
buttò in quella direzione, cercò di riprendere la
fuga, ma qualcosa lo fece cadere di nuovo a terra e lo
trascinò all’indietro per alcuni metri, tra le
foglie. Urlò, le unghie del vecchio affondarono negli aghi
di pino, mentre Dòmhnall, brandendo la spada, gli balzava
sopra, deciso a chiudere quella faccenda una volta per tutte, occuparsi
finalmente dei corpi dei suoi genitori e ritornare indietro da
Cuilèn. Il vecchio si voltò, avvicinò
rapido il pugno alla mano e soffiò con forza,
Dòmhnall respirò una specie di farina di pino e
non vide più niente, incespicò e cadde a sua
volta, sentì il vecchio muoversi tra le foglie e riprendere,
stranamente agile, la fuga. Si rialzò e
ricominciò la caccia, riprese a parlare al vento,
aizzò i lupi contro il vecchio monaco: aveva visto tutto,
molto bene, mentre quel maledetto maiale cercava di approfittarsi di
sua madre, il vecchio, con la scusa di verificarne la morte, le aveva
sottratto l'anello con la pietra verde, l’anello che suo
padre aveva fatto per lei e che sua madre teneva sempre alla mano
destra. Era di nuovo quasi addosso al vecchio, i lupi lo
stavano costringendo verso una piccola radura lì a pochi
passi, da cui non c’era possibilità di scampo:
anche se era un vecchio, Dòmhnall non avrebbe avuto
pietà, era stato il cappellano di Glower-o ‘er-em
a far imprigionare e condannare alla forca suo padre… era il
momento della resa dei conti. Dòmnhall
brandì di nuovo la spada e si preparò ad
assaltare il vecchio, intrappolato nella
radura. Sentì un sibilo e poi un altro,
all’altezza del suo orecchio, si voltò, un dardo
centrò in pieno il suo braccio destro, passandolo da parte a
parte, e gli fece cadere la spada. Il Mago scrutò tra gli
alberi, sicuro di veder apparire uno degli ultimi uomini di Glower-o
‘er-em, ma un intenso scalpiccio riempì
rapidamente tutto il bosco intorno a lui: i Centauri, almeno una
dozzina di Centauri l’avevano accerchiato, i volti contratti
in un’espressione bellicosa.
*continua*
NdA:
Innanzitutto mi scuso per la presenza di molti pezzi abbastanza
pesanti, ma volevo giustificare la caratterizzazione che
darò al personaggio. Credo ormai sia chiaro che cosa ho
deciso di fare con questa ff... almeno per chi ha letto That Love, il
discorso della maledizione dovrebbe aver dato un indizio decisivo
sull'identità finale di Domhnall (insieme al discorso dei
serpenti, della lingua dei serpenti, dell'odio per i Babbani... la
questione del nome... per quello occorrerà aspettare qualche
altro capitolo, invece). L'idea può lasciare interdetti ma
non è estemporanea, come può apparire in questo
momento, ne avevo già messo le basi in That Love quando
Mirzam dice a Rodolphus :
RL:
“... io sono un Lestrange, ho anche delle
responsabilità verso la mia famiglia. Per questo, non posso
permettermi… interferenze… o Maghi
del Nord imboscati nel Norfolk…”
MS: “Non so se fa più ridere pensare a Bella come
a una donnetta qualsiasi o ai Maghi del Nord imboscati nel Norfolk.
Salazar!…”
RL:“... Sai benissimo di cosa sto parlando!”
MS: “No, Rodolphus, mi spiace, ma non ne ho idea: non
ci sono Maghi del Nord nel Norfolk da quando Salazar Slytherin ha
lasciato quelle paludi per raggiungere la Scozia…”
Bon, non mi resta che ringraziare tutti coloro che
hanno letto, aggiunto alle liste e/o commentato. A presto.
Valeria
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Capitolo 7 *** I.007 - TERRE DEL NORD - DI CENTAURI, FRATI E CACCIATORI ***
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.007
- Di Centauri, Frati e Cacciatori
Un chiarore soffuso si levò da Oriente, emerse dietro la
corona di colline e squarciò le tenebre, dipinse di un rosa
irreale campi e villaggi e, come una benedizione, risvegliò
la valle, liberando il cuore degli uomini dai demoni
dell'oscurità. Per ultima, anche la tetra montagna di Am
Monadh fu baciata dal sole nascente: i roghi, che avevano bruciato i
suoi fianchi per gran parte della notte, erano stati spenti prima
dell'alba da una pioggia improvvisa e ora, come lacrime versate per il
sangue immolato, le ultime gocce scendevano dagli alberi a purificare
le ferite della Madre Terra. Il vento, lieve, spazzò via il
lungo silenzio atterrito, promettendo alle creature della foresta la
pace di un nuovo giorno: la lunga notte d'odio e sangue era finalmente
terminata, gli animali, rincuorati, iniziarono a lasciare i propri
rifugi. La vita riprese il suo normale corso...
Banrigh fu scossa da un brivido e si fermò su una sporgenza
di roccia a strapiombo sul fiume: il sudore, mischiato alle gocce di
pioggia, scendeva tra i suoi capelli e andava a bagnarle la schiena;
riprese fiato, reso corto dalla ripida salita, e, per la prima volta da
quando l'aveva sottratta alla morte, abbassò lo sguardo
sulla bambina che stringeva a sé: mentre correva, ne aveva
sentito il calore e il pulsare ritmico del cuore, attraverso il
mantello in cui la madre l'aveva avvolta, ma si era imposta di non
guardarla. Era stata una decisione saggia: come vide quel ciuffo di
capelli corvini e gli occhi chiari appena socchiusi, infatti, la
memoria del Centauro tornò agli orrori della notte
precedente e a lungo Banrigh non riuscì a soffocare il
proprio turbamento. Si trovava a poca distanza dal campo di battaglia,
quando aveva sentito sibilare il dardo che aveva trafitto Cormacc il
Mago; poco dopo, aveva visto con i propri occhi Sheira nic a'Thon, la
Sacerdotessa della Fiamma Verde, perdere le forze, accasciarsi a terra,
tra gli alberi, e morire. Banrigh non aveva potuto fare nulla,
incredula e inorridita era rimasta immobile, mentre ovunque, attorno a
lei, infuriava il massacro, il fumo si levava in spire soffocanti e
l'oscurità rossastra era squarciata dalle urla degli uomini
e dal lamento della foresta. La Strega le aveva chiesto aiuto,
consapevole di essere in punto di morte, eppure Banrigh si rifiutava di
credere che la grande Magia dei Daur si rivelasse inutile proprio in
quel frangente: fin da piccola, ascoltando le storie degli anziani, il
Centauro aveva immaginato che i Maghi fossero invincibili, quasi
immortali; da adulta, aveva avuto prova del loro leggendario potere
quando Cormacc MacArtgal aveva salvato il suo Keiron. Per questo non
riusciva a credere che Sheira potesse morire nel dare alla luce un
figlio, o che il Mago, trafitto, non fosse forte e potente a
sufficienza da rialzarsi, mettere in fuga gli uomini e portare in salvo
il bambino... Solo quando aveva sentito le urla e i passi minacciosi
avvicinarsi, Banrigh era uscita dall'apatia, aveva capito che doveva
andarsene o sarebbe stata a sua volta in pericolo, si era chinata sulla
bambina, l'aveva stretta tra le braccia e si era lanciata al galoppo,
senza più voltarsi. Non aveva pensato a nulla, non aveva
riflettuto su cosa fosse giusto e razionale fare, né alle
conseguenze delle proprie azioni, si era solo imposta di fuggire, il
più lontano possibile.
Ora che sorgeva un nuovo giorno, però, ora che la corsa
l'aveva portata lontano dall'orrore, nel folto della foresta, Banrigh
si rese conto delle difficoltà: per la piccola e per i suoi
fratelli, ammesso fossero ancora vivi, il pericolo era tutt'altro che
scampato, quella notte, infatti, il patto sancito tra i Centauri e i
Daur, al loro arrivo nella radura, era stato violato; anche se usata
solo per difendersi, la Magia aveva contribuito a portare morte e
distruzione nella foresta, pertanto, persino i più
tolleranti tra i suoi simili non si sarebbero più fidati dei
Maghi, non avrebbero rischiato altri lutti, non avrebbero permesso ai
ragazzi di restare. A nessuno di loro. Poco importava se, senza una
madre a nutrirla e accudirla, il lungo viaggio verso le Terre della
Confraternita sarebbe stato fatale a quella neonata, anzi... Banrigh
conosceva i più intransigenti del suo branco, da tempo
cercavano una scusa per allontanare i Daur dalla radura, sapeva
addirittura che alcuni di loro, i più esagitati, non
desideravano soltanto cacciarli via ma, in nome di un odio tra le due
razze risalente alla notte dei tempi, avrebbero colto l'occasione
più propizia per tentare di ucciderli. Banrigh, a sua volta,
rischiava conseguenze già solo per aver appoggiato
l'ingresso dei Daur nei territori di Am Monadh, anni prima... ora,
addirittura, stava vagando per la foresta con quella bambina tra le
braccia: la legge in tal proposito era chiara, qualsiasi intromissione
nella vita degli Umani era inaccettabile, gli altri, al suo posto,
avrebbero evitato la piccola fin dall'inizio, anche perché
il Destino, privandola dei genitori nell'attimo stesso in cui era
venuta al mondo, l'aveva chiaramente condannata a morte. Gli anziani
non avrebbero ascoltato, tanto meno accettato, giustificazioni al suo
comportamento, avrebbero potuto condannarla a morte insieme alla
bambina, i suoi figli esiliati dalla foresta... Forse, se avesse
accettato di rimediare al proprio errore senza opporsi, se avesse
abbandonato la piccola in riva al fiume, così che la natura
facesse il suo corso, nelle vesti di un lupo o di un orso affamato, il
branco si sarebbe accontentato di cacciarla, senza fare del male anche
ai suoi figli: ma questa era solo una speranza, non ne poteva avere la
certezza.
Un brivido le attraversò la schiena, una selva di pensieri
confusi le riempì la mente: il suo cuore si
ribellò all'idea della bambina inerme, nelle fauci di un
lupo, d'altra parte non voleva morire, né voleva vedere i
propri figli trattati come traditori e reietti. Guardò il
fiume, l'acqua trascinava rami secchi e detriti con estrema violenza,
si chiese perché rischiare, forse era tutto inutile, forse i
ragazzi erano già morti e non c'era più nessuno
che potesse occuparsi di lei: se l'avesse lasciata cadere da
quell'altezza, in quelle acque vorticose, la bambina avrebbe sofferto
molto meno che straziata dai denti di un lupo, sarebbe finito tutto,
subito, nessuno del branco avrebbe mai saputo la verità...
lo doveva ai suoi figli, ne andava del loro futuro... lo doveva al suo
piccolo Keiron...
… Al mio Keiron salvato dai Maghi...
In un lampo Banrigh rivide Sheira accovacciata a terra, accanto al
più piccolo dei suoi figli, gli teneva la mano, mentre
Cormacc impiastrava le erbe sul suo corpicino debole e febbricitante...
ripensò alla propria felicità, quando gli occhi
d'ambra di suo figlio si erano aperti e le sue piccole dita avevano
stretto con forza la sua mano. Invece di lasciarla cadere nel fiume,
nel disperato tentativo di salvarsi, Banrigh si trovò a
serrare ancora di più la presa sulla piccola Strega, come
aveva stretto a sé Keiron, quel giorno lontano, e come
avrebbe trattenuto i propri figli, se qualcuno avesse cercato di
strapparglieli via.
Non posso... e soprattutto... non voglio farlo...
Banrigh chinò il capo e lo mosse stizzita, per scacciare
quei pensieri contrastanti, gli zoccoli irrequieti colpirono violenti
la terra, sembrava voler pestare le emozioni che la turbavano, non
riusciva a compiere una scelta razionale, tra la legge della sua gente
e ciò che le imponeva il cuore: anche se, come tutti i
Centauri, riusciva a leggere gli arcani corsi e ricorsi del tempo e
riusciva a svelare i piani del Destino, si sentiva smarrita. Il
turbamento che provava era inevitabile, prevedibile, lo sapeva, la sua
gente si teneva alla larga dagli umani anche per questo,
perché interagire con loro significava doversi addentrare
nel terreno del caos, dell'irrazionalità, del dubbio. Il
Centauro respirò a fondo, si voltò, si
allontanò dal baratro per poi tornare indietro,
ripeté quell'andirivieni alcune volte, vittima
dell'incertezza, infine riprese a percorrere il sentiero, il passo via
via più veloce: no, non era una questione di sentimenti, la
sua, non si trattava neppure di una scelta, Banrigh violava la legge,
razionalmente e giustamente, perché, quando i Maghi avevano
salvato il suo Keiron, il Centauro aveva contratto un debito che andava
saldato, a qualsiasi costo. Molte delle conseguenze che la
spaventavano, inoltre, potevano essere evitate, se fosse stata rapida:
raggiunta la Sorgente, senza farsi scoprire, la bambina e i suoi
fratelli sarebbero usciti per sempre dalla sua vita e lei, rientrata
nel branco, avrebbe giustificato la prolungata assenza confessandosi
spaventata e turbata dalla lunga notte di violenza e orrore. Non
sarebbe stata neanche una bugia. Convinta, Banrigh riprese a correre,
senza farsi più distrarre da dubbi e ripensamenti. Per tutta
la notte aveva evitato i sentieri frequentati dalla sua gente e gli
altri percorsi più accessibili, in cui avrebbe potuto
imbattersi in qualcuno degli uomini disperati, dispersi nel bosco; ora
che si era fatto giorno, doveva muoversi con maggiore
rapidità e discrezione, per questo, per raggiungere la
Sorgente, decise di intraprendere la via delle rocce, più
corta e più ostica, per ampi tratti perpendicolare al fiume,
talmente scoscesa che persino gli animali più agili
evitavano di avventurarvisi. L'aveva scoperta presidiando il fiume e la
conosceva nei minimi dettagli, superare le sue mille insidie era
un'impresa ardua per chi l'affrontava con le mani libere, figurarsi per
lei che teneva anche un bambino tra le braccia: il Centauro
rischiò varie volte di scivolare e fu costretta a esitare
spesso, incerta sul bivio migliore da seguire, data la scarsa
consistenza e resistenza del terreno intriso di pioggia, ma non si
perse mai d'animo. S'impose di resistere alla fatica, al caldo, alla
fame, pur di recuperare il tempo perduto, di correre forsennatamente
negli ampi tratti pianeggianti immersi nella boscaglia. Affaticata,
Banrigh riprese via via il controllo delle proprie emozioni, arrivando
persino a elaborare un piano per aiutare i ragazzi a raggiungere le
Terre: giunta nella radura, presso la Sorgente, avrebbe consegnato loro
la bambina e indicato la strada che, circa diciotto anni prima, i
genitori avevano percorso per sfuggire alla Confraternita, li avrebbe
persino accompagnati per un tratto, se fosse stato necessario, avrebbe
spiegato al ragazzo più grande i trucchi per convincere le
“Madadha", le lupe, ad allattare la bambina durante il
viaggio.
Riprese fiato presso una cascatella, si rifocillò con bacche
e acqua fresca, e a un tratto la neonata vagì per la prima
volta, all'inizio timidamente, poi scoppiando a piangere disperata: la
Magia imposta dalla madre per calmarla doveva essersi esaurita e la
bambina, dopo ore di viaggio e di digiuno, era affamata. Quei lamenti
erano pericolosi, Banrigh lo sapeva, rischiavano di attirare le
attenzioni non richieste dei predatori e di eventuali sentinelle ma,
purtroppo, il Centauro non conosceva la Magia per calmarla
né, in quella zona della foresta, sapeva di lupe con
cuccioli cui chiedere di allattarla. Quanto a lei, aveva perduto
l'ultimo dei suoi figli da poche settimane, ma pur potendo avere ancora
del latte, non avrebbe dato a un estraneo, nemmeno per saldare un
debito, ciò che era destinato al suo piccolo. La custode del
fiume cercò una soluzione al problema poi, pur consapevole
dell'inadeguatezza di ciò che stava per fare,
cercò del miele, bagnò le labbra della piccola
con acqua e nettare, la lasciò succhiare, la deterse e la
riavvolse nel mantello. Sedati per un po' i lamenti, Banrigh riprese la
sua corsa, finché la vegetazione variegata si
serrò in un bosco compatto di soli faggi e il sentiero che
lo attraversava iniziò a digradare lievemente, seguendo la
linea più morbida di quello sperone della montagna: il
Centauro si fermò ed emise un sospiro liberatorio, quello
era il fitto bosco che terminava in una piccola radura circondata da un
semicerchio di querce e, ai piedi della ripida parete di roccia che la
chiudeva, sgorgavano le acque della Sorgente, protetta alla vista come
una gemma custodita in uno scrigno. L'ultimo tratto di strada era
coperto dalle fronde ombrose degli alberi, non avrebbe più
sofferto il calore del sole, né avrebbe corso il rischio di
scivolare e spezzarsi l'osso del collo. Gli zoccoli affondarono nel
morbido tappeto di foglie che preannunciava l'autunno ormai prossimo:
era trepidante, si guardò intorno, la natura
lassù non aveva subito le offese della notte, ma tutto,
dagli uccelli che giungevano dalla valle in volo, agli alberi che
ondeggiavano al vento, alle farfalle che danzavano nell'aria,
raccontavano da lontano l'orrore vissuto, il sangue che aveva
imporporato il fiume, la morte violenta che aveva danzato nella
foresta. Motivata e fiduciosa, Banrigh si lanciò al galoppo:
quando il cielo si oscurò, attraversato da un'ombra nera,
levata sopra gli alberi per pochi istanti e subito sparita, il bosco
ammutolì in un silenzio gravido di sinistri presagi e il
Centauro sentì un brivido gelido percorrere tutto il suo
essere. Le era parso di udire delle voci umane al comparire dell'ombra,
ma tentò di non farsi impressionare, doveva essersi trattato
solo di suggestione, dovuta alla paura e alla stanchezza, l'ombra
doveva essere solo una nube che preannunciava un temporale, motivo in
più per affrettarsi a raggiungere il semicerchio di querce.
Voleva tornare a casa, Banrigh. Voleva riabbracciare i propri figli,
lasciarsi quella notte d'orrore alle spalle. Riprese a correre,
caparbia e convinta. Fiduciosa. Inconsapevole di ciò che il
Destino aveva deciso per lei.
***
Non poteva crederci, il vecchio cappellano di Glower non riusciva a
capacitarsi di essere scampato alla morte: barcollando, fradicio di
pioggia, le vecchie gambe intorpidite dal freddo e dalla posizione
scomoda tenuta a lungo in mezzo ai cespugli, Gregorius uscì
dal nascondiglio, in cui aveva trovato riparo dalla ferocia dei lupi e
dalla furia del demonio, e si fece il segno della Croce, cercando nella
Fede la forza di camminare, scovandola in realtà nella paura
che ancora lo attanagliava. Si guardò intorno, aspettandosi
di essere di nuovo attaccato: quel bosco doveva essere l'anticamera
dell'inferno, non c'era altra spiegazione per quello cui aveva
assistito, serpenti che si svegliavano in piena notte e attaccavano,
creature mostruose, generate dall'empio amplesso di uomini e cavalli,
il demonio incarnato in un giovane capace di dominare la
volontà delle bestie. Gregorius chinò il capo,
supplice, ringraziando il Cielo, rabbrividendo ancora al pensiero degli
sguardi di brace dei lupi affamati, dei denti delle serpi che erano
scattati a straziare i corpi dei suoi fedeli: li aveva visti morire,
tutti, tra le sofferenze più atroci, chi ucciso da un veleno
tanto corrosivo da poter essere solo il seme immondo di Satana stesso,
chi sbranato da creature sanguinarie... Quanto al signore di quei
poderi, poi... il monaco chiuse gli occhi, sperando di non rivedere
più la testa mozzata del signore di Glower che rotolava a
terra, ai suoi piedi, e il nobile sangue che gli schizzava addosso,
impiastrandogli il volto e la tonaca. Aveva avuto paura, il vecchio
uomo di Dio. Ed era scappato, inseguito dalle belve. Accerchiato dai
lupi, si era rifugiato, non sapeva neanche come, tra i cespugli.
Lì, si era attaccato al Crocefisso di sua madre, pregando
tra le lacrime fino a perdere la voce, fino a fondere le sue vecchie
mani ossute nel metallo e nel legno del simbolo della vera Fede. Fino a
perdere i sensi. Non sapeva per quanto fosse rimasto incosciente nel
bosco, quando si era svegliato, però, era tutto finito. E
lui era ancora vivo.
Fece di nuovo il segno della Croce e, senza smettere di camminare,
cercò ed estrasse dalla tasca della tonaca il piccolo
crocefisso di avorio cui si era aggrappato tutto il tempo, donato da
sua madre, lady Eibhlin, nel loro castello di Morvedh (1), ormai una vita
prima, quando era partito dai territori di Kernow diretto al monastero
di (2)
Dún Ceartáin, in Irlanda, per volere di suo
padre. Non l'aveva più rivista. Mettendo la mano in tasca,
però, le dita del monaco avevano toccato anche qualcos'altro
e ora, bramose, s'immergevano di nuovo nel tessuto ruvido della tonaca,
per assicurarsi che quella parte dei suoi ricordi non fossero soltanto
frutto di un sogno: sua madre, la paura provata, la gratitudine verso
Dio, tutto svanì dalla sua mente appena sentì
l'oggetto rotondo e tiepido tra le dita. Un brivido di eccitazione
corse a scaldargli le membra intorpidite, la mente contorta da pensieri
che di spirituale avevano ben poco, proprio come la notte precedente,
quando non era stato capace di trattenersi ed era andato a frugare tra
le mani della Strega, il tempo di trovare ciò che cercava.
Ora avanzava distratto nel bosco, senza curarsi di benedire con i
sacramenti i corpi degli uomini massacrati nella notte, straziati da
oscene ferite, esposti alle intemperie e al dileggio delle bestie
selvatiche: sistemato il crocefisso sul petto, mentre il sole penetrava
tra le fronde e riluceva iridescente sulle gocce che imperlavano le
foglie, aveva estratto l'oggetto dalla tasca e ora teneva gli occhi
fissi sulla sua levigata perfezione, la mente lontana dai doveri di un
Uomo di Dio. Si fermò, alzò la mano,
lasciò che il sole colpisse la purezza della pietra verde
incastonata alla semplice verghetta di ferro: estasiato e, al tempo
stesso, spaventato, rigirò l'anello tra le dita, fino a
illuminare i segni incisi all'interno della fedina. Erano chiamate
“Rune” ma erano l'alfabeto del demonio, come aveva
appreso dal priore di Dún Ceartáin, fin dal suo
arrivo in Irlanda.
«Ancora loro... sempre loro...
come sospettavo... le bestie della Confraternita...»
Il sole filtrava tra le fronde e Gregorius tremava, stretto nelle sue
vesti lerce di fango e foglie marce: presto sarebbe tornato al
castello, solo, affamato, ferito, avrebbe raccontato a Milady e al
primo Consigliere quello che era accaduto, la disperazione avrebbe
pervaso il maniero, dal ricco palazzo del signore di Glower e dalle
sudice casupole della più miserabile plebaglia, ovunque si
sarebbero levati i pianti e i lamenti del lutto... Il terrore per una
successione difficile e per una nuova, probabile, guerra avrebbe
spezzato anche l'animo dei più coraggiosi. Il monaco,
però, era già lontano da tutto questo, non aveva
interesse verso gli abitanti del castello in cui viveva e serviva come
predicatore e confessore da vent'anni; i suoi occhi avevano
già smesso di vedere la foresta straziata e i suoi orrori,
correvano invece alla verde terra di Kernow che gli aveva dato i
natali; le sue membra non erano più vecchie e stanche, erano
quelle gracili di un ragazzino di quattordici anni... persino il nome
che risuonava nelle sue orecchie, mentre qualcuno lo chiamava, non era
Gregorius, ma Madron. Uguali a se stessi, restavano solo la paura,
l'odio e la rabbia.
*
A Madron era stato
imposto dal padre, signore di Morvedh, un nome che prometteva fortuna e
felicità; in realtà, fin da bambino, il
primogenito di Lord Gorlas era sempre stato cagionevole di salute, al
punto che, ormai adolescente, tra i guerrieri e i consiglieri di suo
padre, continuava a sembrare solo un moccioso; persino e soprattutto se
messo a confronto con Bithek, l'unico altro figlio maschio,
illegittimo, di suo padre, di appena un anno più grande. In
continua lotta con i vicini bellicosi, persa ogni speranza, dopo anni
di tentativi, di avere un altro figlio maschio dalla pia moglie,
incerto sull'effettiva possibilità di ottenere una
discendenza forte da quell'unico erede legittimo, Gorlas ruppe ogni
indugio e, come regalo per il suo sedicesimo compleanno, disse al
figlio che era inadatto a ereditare nome, titolo e averi, e che il
convento di Dún Ceartáin, nell'ovest
dell'Irlanda, lo avrebbe accolto tra i suoi confratelli. Bithek il
bastardo, a sorpresa, si sentì nominare erede del titolo e
di ogni sostanza del casato al posto del fratello minore. Madron non
desiderava possedere le terre e sapeva che Bithek, così alto
e forte, sarebbe stato un erede più adatto, inoltre amava
studiare e vivere tranquillamente, non immaginava per se stesso un
futuro da condottiero; nonostante tutto questo, però, non
voleva neanche prendere i voti, né vivere la vita che suo
padre aveva scelto per lui: non aveva alcuna vocazione, non voleva
passare la vita a pregare al freddo e al gelo, in piena notte,
né elemosinare un tetto e un pasto caldo facendo il
mendicante di villaggio in villaggio. Soprattutto, non voleva essere
allontanato da lì, dalle persone cui voleva bene, da sua
madre in particolare, l'unica tra tanti a soffrire apertamente della
decisione presa dal marito.
Per settimane Madron
aveva riflettuto, aveva scelto le parole adatte, aveva cercato il
coraggio necessario ad affrontare suo padre, finché gli
aveva chiesto udienza e, pur tremando come una foglia e balbettando
più del solito, alla presenza dei consiglieri, del
cappellano e di suo fratello, gli aveva chiesto il permesso di restare
in quella casa, senza pretendere nulla, offrendosi al contrario di
tenergli in ordine i conti, di vivere come uno degli uomini che
stipendiava, non essendo all'altezza di potersi considerare
suo figlio. Lord Gorlas l'aveva fissato a lungo, all'inizio, poi, a
poco a poco, davanti a ogni parola stentata del sangue del suo sangue,
aveva abbassato gli occhi per non doverlo guardare, gli angoli delle
labbra piegati in un'espressione aspra e feroce. Prima che il giovane
finisse, giudicata sufficiente l'umiliazione subita a causa sua, aveva
chiesto a Piran, lo scemo di corte, che gironzolava per i cortili del
maniero sempre insieme al suo maialetto pezzato, di passargli la corda
legata all'animale e al notaio di prestargli piuma e pergamena, poi si
era alzato, si era avvicinato alla bestia e con il bastone gli aveva
toccato la schiena ruvida, nominandolo “secondo contabile e
scrivano”. Tra le risate generali, schiumante di rabbia, il
signore di Morvedh si era rivolto infine a Madron, rosso in volto per
la vergogna, e gli aveva sputato addosso che il posto richiesto era
appena stato occupato, poi avviandosi con passo spedito e nervoso verso
il fondo della sala, aveva ordinato ad alta voce al cappellano di
prendere accordi con il convento irlandese, così che Madron
partisse non più tardi del giorno di Santo Stefano. Madron
era rimasto sconvolto da quanto era accaduto, non solo per
l'umiliazione subita e la partenza anticipata, ma perché, da
quel momento, il padre impose al resto della famiglia di non
rivolgergli più neanche la parola. La partenza fu fissata
per il giorno di Santo Stefano, due mesi prima del suo diciassettesimo
compleanno, aveva dieci mesi per imparare tutto ciò che gli
era necessario alla vita monastica: di colpo, quel tempo passato
pressoché sempre da solo con i suoi libri di preghiere, in
silenzio, a parte quando recitava i salmi con il cappellano, gli parve
infinito.
C'era solo Kera a
illuminargli per alcuni minuti la giornata, una ragazzina poco
più piccola di lui, giunta dalle colline dei dintorni l'anno
precedente, poco appariscente, ma capace, con la sua risata schietta e
il suo buon cuore, di illuminare la vita delle persone che la
incontravano. Madron ringraziava tutte le sere il Signore per aver
mandato Kera a rendere i suoi giorni meno tristi e disperati, anche se
sapeva che doveva resistere e non pensare a lei, per non soffrire
ancora di più quando se ne fosse andato. Le sue intenzioni
erano buone ma anche inutili, sentiva il suo cuore riempirsi di
felicità solo perché lei cantava facendo il
bucato nel cortile, o perché entrava nella sua stanza,
lasciando sul tavolo un vaso pieno di fiori appena raccolti, o gli
sorrideva, mentre puliva via le tracce di inchiostro dalla scrivania su
cui studiava. Non ebbe mai il coraggio di dirle neanche una parola,
figurarsi tentare di baciarla o sfiorarle una mano, ma sapeva di
essersi innamorato di lei, perché si ritrovava a immaginare
la sua voce e il suo volto, in ogni istante, restando fisso sulla
stessa pagina, per ore e ore, perso in pensieri tutti suoi. Quando
Bithek e la sua orda di amici più grandi capirono che Kera
stava portando un barlume di felicità nella sua vita di
derelitto, iniziarono a dare il tormento a entrambi, prendendoli in
giro senza pietà: di solito si appostavano presso la stanza
di Madron e quando lei usciva la sbeffeggiavano, la sottoponevano a
scherzi crudeli o le riversavano addosso parole oscene e irripetibili,
tentando persino di metterle le mani addosso; quando invece
incrociavano lui, a capo chino, al seguito del cappellano, all'inizio
ridevano e dicevano battute sconce, poi iniziarono a mimare tra loro
gli atti impuri che un uomo fa con una donna, sghignazzando che solo i
veri uomini potevano farlo, mentre lui non avrebbe mai potuto,
perché non era neanche un vero maschio. Madron taceva
sempre, il volto in fiamme, sapeva di non poter fare nient'altro, aveva
paura per sé e per Kera, della reazione che avrebbe potuto
scatenare: era ancora scottato dai risultati dell'aver parlato
apertamente con suo padre. Inoltre sapeva che con suo fratello,
soprattutto quando era con quegli zotici dei suoi amici, ormai non si
ragionava più, non era la stessa persona con cui giovava da
bambino, e la nomina a erede sembrava aver tirato fuori tutte le sue
peggiori inclinazioni. Madron sopportò, ignorò,
sottovalutò per settimane e per mesi. Finché, sul
finire dell'estate, il giorno dell'equinozio d'autunno, tutto
precipitò.
I cieli del Kernow
avevano perso i loro colori fluttuanti per ammantarsi di una coltre di
grigia nebbia che saliva dal mare, rendendo di colpo la giornata breve
e oscura. Madron era stato con il cappellano, quel pomeriggio, a
ripetere a memoria i salmi che avrebbe dovuto cantare a Dún
Ceartáin, di lì a pochi mesi, non si era lasciato
distrarre nemmeno dalle urla di suo fratello e dei suoi compari che
erano salite dalle scuderie per tutto il tempo: non era strano,
esageravano sempre quando Lord Gorlas era fuori, a controllare e
raccogliere le rendite degli amministratori più lontani.
Stando agli stridii del maiale, sembrava che per quel giorno se la
fossero presa con Piran e Madron tirò un sospiro di
sollievo: sapeva di non doversene rallegrare, certo, ma se si erano
già sfogati con quel poveretto, c'erano buone
possibilità che, almeno per quel giorno, avrebbero lasciato
in pace lui e la piccola Kera. Uscito da solo dalla cappella, vide
Carrow, il figlio del fabbro, che vagava per i corridoi un po'
instabile sulle gambe, come fosse ubriaco, Madron accelerò
il passo, avendo cura di strisciare quasi contro la parete, dalla parte
opposta, ben intenzionato a non rivolgergli la parola, né a
guardarlo, per non dargli nessuna scusa per attaccar bottone. Quando
gli passò accanto, però, senza mostrare alcun
rispetto per quello che era pur sempre il figlio del suo signore,
Carrow non si era limitato a sputargli addosso una delle solite
cattiverie, ma gli aveva sbarrato la strada e l'aveva addirittura preso
per la collottola poi, ridendo sguaiatamente, gli aveva messo una mano
sulla bocca per farlo tacere e l'aveva trascinato per un braccio fino
ai sotterranei da dove si accedeva alle scuderie. Madron
provò a opporsi, ma quel giovane, temprato dal lavoro fisico
quotidiano nella fucina del padre, aveva una forza dieci volte
superiore alla sua. Un'intensa sensazione di indefinito pericolo colse
il ragazzo quando si ricordò che quel giorno non c'era
nemmeno Timotheus, il fabbro: Carrow aprì la porta della
scuderia, il maiale di Piran corse fuori a tutta velocità,
trascinandosi dietro un tanfo intenso di escrementi e carne bruciata, e
incespicò su Madron che, già malfermo sulle
gambe, rovinò a terra. Il carceriere scoppiò a
ridere, lo prese per un braccio, lo trascinò dentro e rapido
chiuse la porta dietro di sé. Infreddolito e spaventato, al
buio, il ragazzo non aveva compreso subito la situazione, poi i suoi
occhi si abituarono all'oscurità della stalla e con un tuffo
al cuore si era reso conto che non erano soli: suo fratello e almeno
altri due dei suoi peggiori compari, scarmigliati ed esaltati, a torso
nudo, sudati e ubriachi, si affrettarono a uscire dai loro nascondigli
e a rimettere un catenaccio alla porta, Madron cercò di
sgusciare via dall'uscita laterale che dava sul cortile, ma Carrow gli
fu addosso in un attimo, lo spinse con il viso contro il muro e gli
ficcò da dietro un panno lercio e maleodorante in gola,
perché non gridasse, poi, iniziò a legarlo con
una delle corde che assicuravano i cavalli alla parete.
«Lascialo libero di muoversi, è innocuo! E
sarà più divertente... voglio vederlo
ribellarsi...»
Bithek gli si
avvicinò, lo fissò per alcuni istanti, poi la sua
mano salì a togliergli anche il panno puzzolente dalla bocca.
«Non serve neppure questo... non ha le palle per ribellarsi,
e anche se lo facesse... chi gli presterebbe ascolto?
Ahahahah»
Scoppiò a
ridere, gli altri risero con lui, Madron, libero, tentò di
nuovo di scappare, svelto cercò di raggiungere la porta
laterale e mettersi in salvo, da qualsiasi genere di carognata suo
fratello avesse ideato per lui quel pomeriggio, ma quando
già era sulla porta la nuova risata di Bithek e la voce
rotta di una ragazza gli pietrificarono la mano sull'anta di legno.
«Cosa ti dicevo, puttanella? Guarda come se la dà
a gambe quel coniglio del tuo innamorato! Non gli interessa quello che
può capitarti... anzi... che ti è già
capitato... ahahah...»
Madron si
voltò, Bithek e gli altri stavano ridendo, tra loro c'era
Kera, a terra, in lacrime, con le vesti lacere e insanguinate, il volto
pesto e lividi ovunque riuscisse a posare gli occhi. La vide respirare
male, molto male, gli occhi vuoti, assenti. Due di loro la presero e la
ributtarono nella paglia, Bithek gli rise addosso, e gli diede le
spalle. Anche Carrow non si curò più di lui.
Madron non seppe mai cosa gli accadde in quel momento. Mai. Dove
trovò la forza di non crollare a terra, di non piangere, di
non urlare. Di non scappare. Attorno a lui erano solo risa e lacrime,
la luce tremula di una candela sullo sfondo, il tanfo acre di sangue e
carne bruciata, poi tutto divenne oscurità. Sentì
il legno stretto nella sua mano tremante, il peso del forcone, tale da
poterlo solo trascinare.
Risate, lacrime, urla, risate, urla, risate... Risate, risate...
Sentiva il dolore del
peso estremo, tale da spezzargli il braccio... Sentì il
dolore della spinta del suo corpo contro un altro corpo... Vide il
fiato che usciva dalle labbra incredule di suo fratello, prima
irridenti, poi esangui... Vide il sangue, tanto sangue, che gli
schizzava addosso... La luce di quei suoi occhi, accusatoria, mentre si
spegneva... Alcune mani lo presero, lo colpirono, lo schiaffeggiarono,
lo sbatterono contro la parete, alcuni corpi gli furono addosso, lo
pestarono, i cavalli nitrirono, spaventati dalla violenza e dal sangue,
dalle urla, uno scalciò contro il legno, la parete
vibrò, la vibrazione si propagò e la candela
cadde. La paglia si incendiò. Fu il caos: gli altri
fuggirono, si calpestarono a vicenda, furono calpestati dai cavalli in
fuga, nessuno si curò di lui, o di Bithek o di Kera. Madron
vide uno dei cavalli impazziti alzarsi in piedi, imbizzarrito e
ricadere giù, centrando con lo zoccolo la testa di suo
fratello e scappare. Poi non vide più nulla, non
sentì più nulla.
Si riprese quando un
brivido gelido corse sulla sua pelle nuda, subito dopo
arrivò il suono secco e il dolore feroce della scudisciata
sulle natiche peste. Urlò e sputò sangue e fumo,
con le poche forze che aveva si puntellò sui palmi per
sollevarsi, ma non ci riuscì, rovinò sulle sue
braccia, sotto gli improperi e le urla di chi aveva appena aperto le
porte dei ruderi della scuderia. Non capiva nulla, prima di tutto come
fosse ancora vivo. Non vedeva nulla, la sua testa era confusa, come
quella volta, un paio di anni prima, quando Bithek gli aveva fatto bere
idromele con l'inganno e la fantesca l'aveva trovato riverso a terra,
nel porcile. Con gli occhi appannati riuscì a riconoscere un
mucchietto di vestiti lerci che emergevano dalla paglia davanti a
sé, con orrore riconobbe il grigio tenue della casacca di
Kera: era lei quella cosa bruciacchiata e sanguinolenta che
intravedeva, inerte, ai piedi di Piran, seduto, completamente nudo e
ubriaco, contro la parete della stalla. Non capiva. Cercò di
alzarsi, ci riuscì, si voltò, nudo come un verme,
e si ritrovò davanti suo padre, preda della rabbia
più feroce che gli avesse mai visto, dietro di lui il
cappellano e diversi altri adulti che non riuscì neanche a
riconoscere, che si facevano il segno della Croce davanti al corpo
esanime di suo fratello. Lord Gorlas aveva la frusta in mano ed era
pronto a colpirlo di nuovo, gli urlava contro il nome di suo fratello e
lo strattonava, il ragazzo non capiva, non reagiva, l'uomo in lacrime
gli diede uno schiaffo in faccia tale da girargli la testa dall'altra
parte, poi il cappellano riuscì a fermarlo, e il lord se ne
andò urlando che avrebbe decapitato tutti quanti per
vendicare la morte del suo erede.
Quella sera, mentre le
donne si occupavano del corpo di Bithek, Gorlas convocò i
suoi consiglieri e il cappellano, Madron fu sottoposto a un
interrogatorio serrato, furono coinvolti tutti gli altri giovani
presenti, il quadro di quel pomeriggio di sbornia e depravazione fu
delineato in ogni singolo dettaglio, ma sembrava che il signore di
Morvedh non fosse soddisfatto di quella spiegazione, non riusciva a
credere che Madron, noto a tutti per la sua codardia, avesse ucciso
Bithek per una ragazzetta delle cucine. Ordinò al cappellano
di esprimersi su quanto era accaduto la sera stessa: il vecchio,
intorpidito dalla malattia e dall'abuso d’idromele,
controllò Madron, gli fece delle domande, scuotendo pensoso
la testa e recitando le sue litanie con spirito sempre più
afflitto, poi il ragazzo fu invitato a uscire e condotto nelle sue
stanze, dove restò solo con i propri pensieri fino a tarda
notte. Quando il capo della guardia salì a riprenderlo,
mancava poco all'alba: davanti al padre e ai consiglieri stremati,
Madron sentì il vecchio cappellano sentenziare che Piran era
il responsabile di ogni evento, pur noto a tutti per essere sempre
stato un buon cristiano, pacifico e timorato di dio. Non doveva essere
in sé quando aveva attirato con l'inganno Bithek e i suoi
amici, dividendo con loro il vino che aveva annebbiato le loro
coscienze. Il vino che la serva gli aveva chiesto di portare al giovane
erede di Morvedh. Era lei, perciò, la
“femmina”, la vera responsabile: nessuno ne
conosceva le origini, si presentava in ritardo e malvolentieri alle
funzioni religiose, e nessuna ragazzina, a meno che non fosse una poco
di buono, avrebbe mai tentato di attirare su di sé le
attenzioni di un giovane destinato a consacrarsi a Dio, al punto di
sporcarne l'anima con un delitto. L'oscurità di cui era
serva, aveva incitato i ragazzi coinvolti a esagerare nella lussuria e
nella violenza, diceva il cappellano, finendo con l'esserne lei stessa
vittima.
Lord Gorlas, uomo
particolarmente religioso ma soprattutto superstizioso, sentendo
parlare di oscurità, interruppe la riunione, non volle
sentire altro, condannò Kera e Piran all'abisso, senza altri
indugi, quanto a Madron, ingiunse che partisse immediatamente per
Dún Ceartáin, e ordinò che fossero
recitate preghiere per un anno, nella speranza che la vita del
monastero e i salmi delle pie donne, purificassero quel maniero e
l'anima del figlio macchiata dall'atroce delitto commesso. Il
cappellano per scrupolo, chiese e ottenne di verificare l'eventuale
presenza del segno del diavolo sul corpo della ragazza, che fu denudata
davanti a tutti, fu così che Madron aveva visto per la prima
volta sul petto acerbo e tumefatto di Kera strani
ghirigoro di inchiostro nero: ne decoravano parte del corpo, il collo,
il ventre, le dita dei piedi e delle mani, là dove la
giovane portava sempre delle piccole bende. Il cappellano
alitò facendosi il segno della Croce “la nenia
infernale...” e subito costrinse le guardie a
portarla via, a legarla a un carro di buoi e a prepararsi a condurla al
pozzo. Era l'ultima occasione per Madron di intervenire e salvarla, ma
non lo fece: la sua mente ricordava le parole udite da sua zia, lady
Ailla, sua figlia era stata rapita e disonorata, la notte di Beltane,
in un bosco vicino al loro maniero, da una bestia immonda facente parte
della “Confraternita”...
I tatuati erano pagani,
dediti ancora all'antica religione, figli del demonio da tutti
riconosciuti per i segni che portavano sul corpo, simili a quelli di
Kera: facevano parte di una confraternita sacrilega, vivevano sulle
colline ai margini delle foreste, non si vedevano mai, agivano
nell'oscurità di cui erano servi e ogni tanto uscivano a
rubare nei granai e nei campi, o per rapire le giovani timorate di Dio
per i loro turpi sacrifici. A volte, per qualche motivo, alcuni di loro
venivano allontanati e cercavano, come Kera di vivere tra le persone a
modo, ma prima o poi dimostravano a chi era realmente consacrata la
loro anima. Madron comprese che era colpa di quella Strega se il suo
spirito era stato avvelenato, era stata lei, con le sue malie a far di
tutto perché si ribellasse alla volontà
paterna... Era stata lei a far impazzire suo fratello e i suoi amici.
Convinto di tutto questo, non solo non difese la giovane, ma
addirittura si offrì di accompagnare gli altri per vederla
calare nel pozzo oscuro, il luogo che quei pagani un tempo veneravano,
sotto un cerchio di pietre, che i suoi antenati avevano cercato di
abbattere. Giunti sul posto, la ragazza aveva urlato, anche Piran aveva
urlato, mentre gli altri li schernivano, li maledivano, li
ingiuriavano, e il cappellano cantava le sue litanie, Madron chiese e
ottenne di gettare su di loro la pece, poi accese al braciere
la fiaccola e infine, la gettò nello stretto pozzo. Solo
allora sentì la vicinanza di tutti gli altri, solo allora
non vide scherno o sospetto nei loro volti. La fiammata
risalì fino alla superficie, accompagnata dalle urla dei due
morenti. Madron aveva il volto inondato di lacrime, ma le sue labbra
continuarono a incitare come tutti gli altri al grido di
“morte, morte”... Quando guardò suo
padre, per la prima volta nella sua vita vide un cenno di
soddisfazione. Sua madre si tolse il crocifisso dal collo e glielo pose
dalle mani, per tutta la notte e il giorno seguente pregarono insieme,
finché all'alba, partì sul suo carro, diretto in
Irlanda.
*
Madron prese i voti
definitivi al compimento del sedicesimo anni in Irlanda, dove prese il
nome di Gregorius, suo padre impegnò quasi tutte le risorse
del proprio casato e impose nuove tasse ai suoi sudditi per erigere un
santuario alla Vergine, su una delle scogliere che dall'altopiano di
Morvedh si conficcavano a picco nel mare del Kernow. Il giorno della
consacrazione dell'edificio, Gregorius ottenne di poter far visita alla
sua famiglia, ma sua madre era già morta da alcune
settimane. Ammirò la piccola chiesa, con il piccolo
chiostro, sarebbe stata la sede di una comunità di monaci
irlandesi... Celebrò la funzione e legò quel
luogo al nome di sua madre, poi, prima di ripartire per la sua vita,
camminò a lungo sull'altopiano, vagò,
osservò ciò che restava dell'antica foresta,
abbattuta per volontà di suo padre, per scacciare
definitivamente gli spiriti degli antichi e non permettere
più le immonde feste di Beltane. Arrivò fino alla
pietra forata, le tre oscene pietre, intorno alle quali si celebravano
da secoli riti pagani, attratti dalla chiara simbologia fallica, erano
state abbattute, non si sarebbe più attraversata gattonando
per propiziare la propria fecondità, né per
sanare fanciulli, perché la grazia andava richiesta solo al
Signore... Pesanti non era stato possibile spostarle
né distruggerle, ma Gregorius sapeva che, prima o poi,
l'erba avrebbe coperto tutto quanto e il ricordo sarebbe sopito. Si chinò, raccolse
uno stelo d'erba, lì vicino, nascosta tra erba e terra,
c'era una delle tessera di pietra incisa con gli strani simboli che
aveva visto sulla pelle di Kera, l'alfabeto del diavolo, se ne
trovavano ancora tante nei dintorni... E tutti erano soliti gettarle
nel pozzo oscuro che si apriva nei pressi delle tre pietre. Gregorius la prese, si
incamminò di nuovo tra le pietre, osservò le rune
incise sulla pietra forata, raggiunse il pozzo,
sollevò la mano e gettò la tessera all'interno.
***
Aprì gli occhi, Cuilén. Supino, aprì
gli occhi al gorgheggiare degli uccelli e, come ogni mattina, davanti a
sé, vide solo tanto verde. Infagottato nella sua coperta,
spostò appena lo sguardo e vide il verde degli alberi anche
alla sua sinistra e pure alla sua destra. Tanto verde, certo, ma di una
tonalità stranamente cupa, non il solito verde brillante
riscaldato dal sole che gli accarezzava lo sguardo ad ogni risveglio.
Forse
oggi ci sono le nubi oltre le chiome degli alberi...
Quando voltò del tutto la testa, però, vide poco
sopra di sé un limpido raggio di sole che penetrava tra i
rami, illuminandoli di una luce tenue. Il bambino non capì
il motivo, ma notò subito che c'era qualcosa di strano. Gli
alberi erano strani, erano... anzi “non erano” i
suoi alberi: erano altrettanto alti, certo, e grandi, e... ma erano...
diversi...
Sto ancora sognando?
Il bambino si stiracchiò, percorso da un brivido di freddo,
si chiese dove avesse calciato via la sua pelle di orso, durante la
notte, e perché suo fratello non l'avesse rivestito, come
faceva sempre, visto che gli era rimasto addosso solo il mantello;
sperò che non fosse finita nel fuoco o suo padre, stavolta,
si sarebbe arrabbiato sul serio. Sbadigliò e
iniziò a strofinarsi con energia gli occhi, ancora impastati
di sonno poi, a fatica, si sollevò a sedere, sicuro di
essere finalmente sveglio, le mani appoggiate a terra, dietro di
sé.
«Ahi!»
Si sentì come... pungere... Guardò in basso e si
accorse di non essere sopra la paglia che gli preparava
Dòmhnall, per proteggerlo dall'erba madida di rugiada, ma
sulla terra nuda, o meglio, sulla terra ricoperta da aghi di pino:
nella sua radura c'erano molti alberi, sua madre gli aveva insegnato a
riconoscerli, ma non c'erano mai stati pini, non capiva
perciò da dove venissero tutti quegli aghi. Confuso,
Cuilén alzò gli occhi, si guardò
ancora intorno, stavolta non osservò le chiome ma i loro
fusti. E di nuovo non capì perché fossero
così diversi.
Che cosa è successo alla mia radura?
Non aveva risposte, Cuilén, allora, con
l'ingenuità dei suoi pochi anni, prese il mantello e se lo
tirò fin sotto il mento, si stese di nuovo, sicuro che ci
fosse una sola spiegazione possibile: stava ancora dormendo e sognando,
pertanto non c'era da preoccuparsi, suo fratello dormiva al suo fianco
e presto l'avrebbe svegliato, toccandogli delicatamente un braccio, o
scompigliandogli i capelli.
Ha
promesso di portarmi a provare il richiamo, oggi... e se l'ha detto,
Dòmnhall lo farà...
Si accoccolò sul fianco, chiuse di nuovo gli occhi,
spostò appena una gamba contro il proprio ventre:
sentì qualcosa di appuntito premere sulla sua pancia,
ricordandogli improvvisamente quanto bisogno avesse di fare
pipì. Si tirò su di soprassalto: anche l'altra
volta credeva di sognare e invece... No, sogno o veglia che fosse, non
voleva che finisse come l'ultima volta che suo padre l'aveva trovato a
bagnare il letto. Non voleva essere punito. Non quel giorno. Mentre si
alzava, confuso e come sempre preoccupato dalle reazioni paterne,
Cuilén percepì il fruscio di qualcosa che cadeva
a terra, in mezzo al soffice tappeto di aghi di pino; si
chinò, gli occhi lo videro, la mano lo afferrò,
le dita ne percorsero leggere la superficie liscia, su cui si
rincorrevano intagli precisi. Il cuore iniziò a battere
accelerato, quasi a volergli scoppiare via dal petto.
Che
cosa ci fa il richiamo per uccelli di Dòmhnall, a terra, se
questo è solo un sogno?
Il bambino non capiva, si strofinò ancora una volta gli
occhi e si guardò ancora intorno: era certo di essere
sveglio, era chiaro, quello non era un sogno confuso ma la
realtà, però non capiva perché tutto
fosse così strano. Ricordò i lamenti provenienti
dalla tenda della madre, le spiegazioni di Dòmnhall attorno
al fuoco, il richiamo fatto da suo fratello solo per lui: la sera
precedente era nato loro un fratellino... Un'idea spaventosa
iniziò a farsi largo nella mente del bambino.
No, non è possibile... ma se... invece...
«Dòmnhall!
Dòmnhall! Dove sei?»
Pronunciò il nome di suo fratello, una prima volta piano,
poi lo urlò, una volta, due volte. Non capiva,
Cuilén, mentre la terza volta il nome dell'amato fratello
usciva dalle sue labbra solo come un sospiro, tra le lacrime che
iniziavano a rincorrersi sulle sue guance infuocate. Si
guardò attorno, girò su se stesso, aspettandosi
di vedere apparire il fratello da dietro quei tronchi fitti, ma attorno
a sé c'era solo un silenzio irreale: quando l'avevano
sentito urlare, infatti, le creature della foresta erano ammutolite
tutte insieme e ora restavano in silenzio ad ascoltare il suo pianto.
Cuilén attese, incredulo, si pizzicò una gamba,
per essere sicuro di non dormire, lo ripeté ancora e ancora
e ancora, ma anche se i lividi sbocciavano fitti sulla sua pelle
tenera, non cambiava nulla, lo circondava un silenzio strano e
spaventoso e un mondo diverso da quello che aveva lasciato la sera
precedente: attorno a sé, c'erano solo alberi sconosciuti,
una penombra densa, qua e là rischiarata dalla luce che
filtrava a stento, non c'erano più la tenda di sua madre,
illuminata dalla luce della Fiamma Verde, o il sacco a pelo di
Dòmnhall, steso accanto al suo giaciglio, né i
resti del loro falò, o la voce spaventosa del fiume che
l'aveva sempre terrorizzato, giorno dopo giorno.
Non c'è più neanche l'erba umida di rugiada...
Perché? Dove sono?
Suo padre e suo fratello gli avevano insegnato a fare silenzio nel
bosco, per non far fuggire le prede e non essere individuato dai lupi,
ma Cuilén aveva troppa paura di essersi perduto,
all'improvviso le sue labbra iniziarono a piegarsi e a distendersi a
ripetizione nel nome di sua madre e di suo fratello, l'aria usciva in
grida disperate dal suo corpo, rubandogli tutto il fiato, fino a
lasciarlo sfinito, a terra, preda dei singhiozzi. Violenta lo colse la
paura di essere stato abbandonato nel cuore della notte da quel padre
che non lo amava e non l'aveva mai amato, disperato immaginò
che avesse deciso di lasciarlo in pasto ai lupi, perché ora
aveva un bambino nuovo che avrebbe preso il suo posto, il posto del
figlio che lo deludeva sempre: il terrore lo pietrificò, il
calore del sole che stava ormai scivolandogli addosso, filtrando tra le
fronde, nulla poteva contro il gelo che sentiva nel cuore. Con le
lacrime agli occhi guardò con più insistenza, ma
non c'era nulla da guardare, solo alberi e alberi... tutti uguali e
tutti ignoti, cercò tra i suoi ricordi, ma non era mai stato
portato dai suoi, durante la caccia o la raccolta, in un posto simile.
Per sicurezza, si avvicinò al pino nero sotto il quale si
era svegliato, accarezzò la sua corteccia, si
chinò a raccogliere i suoi aghi, chiuse gli occhi e
ascoltò il fruscio che facevano mentre cadevano, aveva visto
sua madre fare spesso così, come se gli alberi fossero
capaci di parlarle; rimase immobile, ascoltando il silenzio tetro di
quella foresta, in cui nemmeno gli uccelli cantavano più:
per quanto si concentrasse, però, nessun ricordo era
ricollegabile a quelle sensazioni. Cuilén capì di
essere perduto.
Perché Dòmnhall glielo ha lasciato fare?
Dòmhnall mi ha sempre protetto... e ha sempre rispettato le
promesse fatte...
Un'intera foresta si apriva tutto attorno a lui, tutta uguale, non si
vedevano neppure sentieri da seguire, né orme che
indicassero una direzione. Sua madre gli aveva detto molte volte che se
si fosse perduto nel bosco non doveva muoversi, doveva restare fermo in
un posto preciso, trovare un punto riparato e aspettare di essere
trovato. Non era mai accaduto ma sua madre glielo ripeteva sempre e
Cuilén ascoltava, perché era un bambino
ubbidiente. Quel giorno, però, mosse dei passi, nemmeno se
ne accorse, all'inizio: le sue gambe cercavano di portarlo lontano da
lì, dal pino ai cui piedi si era svegliato, dal mantello
che, caduto a terra, indicava dove avesse passato la notte.
Cuilén camminò, deciso a raggiungere un albero di
fronte a lui, ma più camminava, più si trovava
sempre nello stesso punto, come se una mano invisibile rendesse vani i
suoi movimenti. Si voltò e di corsa provò
un'altra direzione e ancora un'altra e ancora un'altra.
Provò e riprovò, ma pur mettendoci tanta energia
e caparbietà, alla fine si ritrovava sempre a pochi passi
dall'imponente pino nero. Qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte,
ora lo sapeva, era stato Dòmnhall a condurlo fin
lì: lo riconosceva, usava quell'incantesimo quando lo
portava con sé a raccogliere erbe o a cacciare, per
proteggerlo da cadute, aggressioni di animali selvatici o altri
incidenti, se si trovavano da soli in un luogo potenzialmente
pericoloso.
Perché Dòmnhall mi ha portato qui in piena notte?
E perché non torna da me, ora, quando lo chiamo?
Affamato, sfinito, spaventato, Cuilén si lasciò
cadere a terra, il viso nascosto tra le braccia, mentre calde le
lacrime gli segnavano il viso e le sue labbra ripetevano quel nome,
sempre più lentamente, sempre più silenziosamente.
«Dòmnhall...»
Si addormentò così, con la schiena appoggiata al
tronco del pino nero e il sole che gli scivolava addosso, scaldandogli
prima i piedi e in seguito, su su, tutto il corpo, fino agli occhi.
Quando sentì un rumore di legna secca calpestata e spezzata,
a pochi passi da lui, rinvenne spaventato, le pupille che si annerivano
velocemente, in allerta: guardò davanti a sé, ma
non vide nulla, il sole filtrava con un'angolazione tale, ormai, da
rendere il suo orizzonte stretto e oscuro. Sentì dei passi
pesanti frusciare sul tappeto di aghi di pino, passi che non avevano
nulla di umano. Si tirò in piedi, Cuilén, di
soprassalto, portando gli occhi a un'altezza sufficiente a uscire dal
raggio di sole e vedere qualcosa: di fronte a lui si ergeva una massa
oscura, pesante e greve, ma non riusciva a metterla a fuoco;
sentì subito il suo cuore accelerare i battiti, preso tra il
terrore e la speranza, quando si rese conto che al suo fianco c'era
anche un uomo. Trattenne un grido e provò a scivolare
rapidamente dietro il tronco del pino, per nascondersi, senza capire
che l'estraneo l'aveva già visto e, soprattutto, l'aveva
udito gridare. Il suo gesto improvviso e concitato, inoltre,
strappò alla massa informe un verso che gli fece rizzare i
peli in mezzo alla schiena, anche perché, nello stesso
istante, la vide avventarsi rapida e furiosa su di lui.
«Buono Heliantòs...
buono! E tu stai fermo, ragazzino... non aver paura...»
L'ombra umana riuscì a far arretrare la massa informe,
sfiorandogli, pareva, una testa munita di becco e dandogli qualcosa da
mangiare, poi tese la mano verso di lui; Cuilén, che al
tentativo di aggressione si era buttato a terra, si
raggomitolò su se stesso, nascondendo di nuovo il capo tra
le braccia, ma lasciando gli occhi sopra l'incavo, così da
vedere cosa stesse accadendo. Un bagliore argenteo impedì
all'uomo, proteso verso di lui, di chinarsi abbastanza da toccarlo,
vide la sua mano ritrarsi, come se fosse stata colpita da una
sensazione dolorosa: lo scudo di Magia che suo fratello gli aveva
eretto intorno stava facendo il suo dovere, e il cuore di
Cuilén si aprì, al pensiero che
Dòmnhall non l'avesse abbandonato, ma l'avesse, come al
solito, protetto. L'uomo, dopo un istante di esitazione, non si diede
per vinto, prese qualcosa dalla cintola, in controluce a
Cuilén parve fosse solo un rametto di legno, la
puntò verso il bambino e pronunciò delle parole
strane, che non assomigliavano a nulla che avesse mai sentito uscire
dalle labbra dei suoi genitori, quando evocavano il fuoco, o curavano
le ferite alle sue ginocchia sbucciate. L'uomo tentò
più volte, con parole diverse, invano, e Cuilén,
via via sempre più rassicurato dall'incapacità di
quell'uomo di raggiungerlo, prese coraggio e alzò la testa
per guardarlo. Ancora una volta il sole gli impedì di
metterlo a fuoco, vedeva soltanto che era molto alto, quasi quanto il
suo papà. All'ennesimo tentativo, però, la mano
dello sconosciuto arrivò su di lui, fino a sfiorargli i
capelli, proprio quando ormai Cuilén era certo di essere al
sicuro, cogliendolo di sorpresa; il bambino urlò,
cercò di alzarsi e fuggire, ma l'uomo, rapido, gli fu
addosso, lo prese per i polsi e lo bloccò, sollevandolo da
terra. Cuilén si divincolò, come facevano i
conigli che Dòmnhall prendeva al laccio, ma esattamente come
loro, la sua resistenza si rivelò presto inutile e
deleteria. Con il fiato reso grosso dalla paura e dall'agitazione,
sfinito, il bambino dovette arrendersi; immobile, riuscì a
mettere a fuoco i tratti del suo aggressore, attraverso lo sgaurdo
pieno di lacrime: era un uomo ancora giovane, dai lunghi capelli
corvini, il volto in buona parte coperto da una fitta barba
cespugliosa, un cacciatore, probabilmente, visti i pugnali che portava
alla cintola e le vesti macchiate di sangue.
«... Stai calmo... Non voglio
farti del male, voglio solo sapere il tuo nome...»
Cuilén girò il volto e non rispose. Voleva sua
madre, la voleva in quel momento, disperatamente. Si morse l'interno
della guancia per non scoppiare a piangere.
«So che sei spaventato...
Dimmi solo sì o no... Sei tu Cuilén, figlio di
Cormacc MacArtgal e di Sheira, figlia di Thon? »
Il bambino si voltò a guardarlo, udendo i nomi dei suoi
genitori, improvvisa avvampò in lui la speranza che
quell'uomo sapesse dove fosse la sua famiglia; doveva essere
così, nessun cacciatore che viveva in quei boschi poteva
sapere tante cose, lui stesso aveva saputo il nome dei suoi nonni solo
spiando suo padre che insegnava a suo fratello un po' di storia della
Confraternita. Cuilén, però, era anche un bambino
ubbidiente e sua madre gli aveva sempre detto di diffidare degli
estranei, perciò, nonostante la speranza, non poteva fare a
meno di chiedersi chi fosse quell'uomo e come facesse a conoscere il
suo nome e quello di suo padre. Aveva paura, come mai ne aveva avuta
prima, nemmeno quando Cormacc, suo padre, l'aveva gettato nel fiume.
Incrociando gli occhi dello sconosciuto, però, qualcosa in
quell'intenso colore grigio impose a Cuilén di fidarsi e non
avere paura; quando poi i suoi occhi scivolarono sul collo sporco e
sudato dell'uomo e notarono Rune simili a quelle che portavano i membri
della sua famiglia, Cuilén non riuscì
più a trattenersi, annuì, chiese della sua mamma
e scoppiò in un pianto dirotto. L'uomo non lo riprese per
quelle lacrime, come faceva sempre suo padre, anzi, gli
passò la mano forte e ruvida sui capelli, toccandolo
delicatamente, come se fosse qualcosa di estremamente prezioso.
Cuilén alzò gli occhi su di lui, il volto
dell'uomo si aprì in un sorriso di incoraggiamento.
«Mio Signore... non dovete
temere... Daghall il Nero è qui per voi, per portarvi a
casa... sano e salvo...»
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno già letto, aggiunto a
preferiti/seguiti/ecc, recensito questa ff. In questo capitolo e nel
prossimo presenterò due nuovi personaggi, Gregorius e
Daghall, che avranno un ruolo nel futuro dei ragazzi e del patriarca
degli Sherton, Hifrig. Riguardo alle note:
1) Morvedh
è l'antico nome cornico di Morvah, una
cittadina della Cornovaglia celebre per un sito dell'età del
bronzo Mên-an-Tol,
che abbiamo già incontrato in That Love (il luogo in cui
Fear e Alshain trovano antiche tessere con incise delle Rune e,
più recentemente, la grotta in cui Lord Voldemort ha tenuto
prigioniero Alshain). Anche tutti gli altri nomi sono tratti dalla
tradizione cornica, Kernow per esempio è l'antico nome della
Cornovaglia.
2) Dún Ceartáin
è il nome gaelico di una località, Gleann an
Ghad, nel nord ovest dell'Irlanda, anch'esso famosa per un cerchio
di pietra.
A presto.
Valeria
Scheda
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Capitolo 9 *** I.008 - TERRE DEL NORD - IL NERO ***
That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.008
- Il Nero
Il Mago rimise a terra il bambino e s’inchinò ai
suoi piedi. Cuilén lo guardò con tale meraviglia,
non riuscendo a capire perché quello sconosciuto gli
riservasse parole e gesti intrisi di deferenza e rispetto, che, pur
libero dalla presa, non tentò di sfuggirgli. Non era neppure
sicuro di riuscirci, a dire il vero, tanto meno avrebbe saputo dove
andare, una volta scappato: prima della comparsa dell'uomo,
Cuilén si era risvegliato solo, in un ignoto punto della
foresta, incapace di allontanarsi dal pino sotto il quale si trovava. A
quel pensiero, sul bambino ripiombarono la paura
dell'oscurità che si celava tra gli alberi, le mille domande
su dove fosse, su come e perché fosse finito lì,
su dove si trovasse la sua famiglia, sul perché quello
straniero, che aveva la stessa Runa di sua madre, si offrisse di
aiutarlo. Più di ogni altra cosa, però, lo
ghermì il terrore per l'ombra minacciosa che aveva tentato
di piombargli addosso, pochi istanti prima. Cuilén
rabbrividì, spaventato. Daghall si rialzò:
immaginando cosa turbasse il bambino, gli mise una mano sulla spalla e
cercò di assumere un'espressione rassicurante,
benché sapesse di avere un aspetto spaventoso e temesse di
dover dare delle difficili risposte. La prima cosa da fare era
tranquillizzarlo, conquistarne la fiducia, trarre tutte le informazioni
utili che possedeva, infine portarlo via con sé: se, come
temeva, Habarcat era dispersa nella foresta, il figlio di Sheira nic
a'Thon era quanto di più sacro restasse alla Confraternita,
l'unico capace, un giorno, di ritrovare la Fiamma e riportarla alla sua
gente. Cuilén fissò gli occhi grigi del Mago: non
lo conosceva ma era certo che fosse sincero quando gli prometteva che
l’avrebbe protetto e l’avrebbe riportato a casa. E
questo era il suo unico desiderio.
«Mi porterai via da qui,
vero?»
«Certo, mio signore, sul mio
onore... sono qui per questo... »
«Dalla mia mamma? E da mio
fratello, da Dòmnhall?»
Daghall non rispose, abbassò gli occhi poi annuì
al bambino che sembrava non sapere nulla. Non lo vide sorridere, pieno
di speranza, non voleva guardarlo mentre gli mentiva, non amava farlo,
ma non aveva neanche la forza o la volontà di dirgli tutto,
perché conosceva il vuoto che l’avrebbe piegato,
una volta scoperta la verità, e non voleva legare il proprio
nome a quel dolore. Tanto meno aveva intenzione di gestire un moccioso
nel pieno della disperazione. Cercò di cambiare discorso:
aveva un compito e intendeva portarlo a termine al più
presto, spettava ad altri occuparsi di tutto il resto. Si
chinò e gli chiese di alzare le braccia, gli girò
intorno, sfiorandolo con la bacchetta, controllando che le vesti non
fossero stracciate o sporche di sangue, segno di ferite nascoste.
«Vi sentite bene, mio signore?
Vi fa male da qualche parte? Non mi sembrate ferito... ma... »
«Ferito? Perché
dovrei? Io non sono caduto... »
Daghall tacque, pensoso: non c’era corrispondenza tra quanto
aveva visto nella foresta e i comportamenti del bambino, era troppo
calmo per aver assistito al massacro. Era così traumatizzato
da aver rimosso i ricordi? O era già lontano, quando tutto
si era compiuto? Se, però, aveva avuto sentore del pericolo,
perché Sheira non aveva difeso anche se stessa e il resto
della famiglia? Chi aveva preso suo figlio e perché l'aveva
lasciato solo tra gli alberi? Dove si trovava adesso? La speranza
illuminò per pochi istanti il Mago, immaginò
l'ignoto salvatore intento a nascondere Habarcat in un luogo sicuro,
peccato fosse un pensiero infondato: la Fiamma era intoccabile per chi
non fosse il suo Custode e Daghall aveva visto morire Sheira con tutta
la sua famiglia, eccetto quel bambino. Habarcat però non era
lì, Cuilén non l'aveva con sé, la
Fiamma era stata nascosta prima, nei paraggi o forse più
lontano. Non lo sapeva: il medaglione del Venerabile, l’unico
manufatto in grado di percepirla, emanava deboli bagliori solo a
tratti, sembrava aver smesso di funzionare.
“O forse funziona, ma...
è il potere della Fiamma Verde che è venuto meno
per sempre... ”
Confuso da tutti quegli interrogativi, Daghall puntò la
bacchetta su Cuilén e la mosse lentamente intorno alla sua
testa: il piccolo sentì uno strano formicolio, una specie di
“solletico ai pensieri”, simile a quando
Dòmnhall gli stuzzicava i piedi o i fianchi per farlo ridere
fino alle lacrime. All'improvviso rivide tutto il giorno precedente, la
tenda di sua madre, illuminata dalla Fiamma Verde, suo fratello
Dòmnhall che gli regalava il richiamo per gli uccelli e gli
prometteva di fargli conoscere, l’indomani, “il
nuovo fratellino”. Poi nulla, fino all'angosciante risveglio
nel bosco.
“La Fiamma era con lei, ieri.
E Sheira ha partorito, per questo era debole! Oh dei, e se...
”
Il Mago scosse la testa, turbato, e ripose alla cintola la sua
bacchetta.
«Non siete ferito e i vostri
ricordi sono intatti, mio signore... andiamo, a casa i Guaritori lo
confermeranno... »
Daghall lo guardò, imponendosi di sorridergli rassicurante,
Cuilén, però, notò che il suo sorriso
era più sfuggente di quello che aveva suo fratello, quando
gli faceva una promessa. Allungò la mano, toccò
la faccia dell'uomo, la barba folta, la linea dritta del naso, poi
scivolò sulla Runa del collo. La fissò e
tornò a scrutarlo negli occhi: il Mago, incapace di reggere
quello sguardo, abbassò la testa.
«La tua Runa è solo
simile a quella della mia mamma... ma non è la stessa... Tu
chi sei?»
Daghall non si aspettava che un bambino vissuto per sei anni nel bosco,
in isolamento, fosse in grado di distinguere così bene i
dettagli delle Rune: sorpreso, non seppe cosa dirgli, si
limitò ad annuire, senza aggiungere altro, senza spiegare
altro, poi si alzò, a disagio, chiedendogli di seguirlo.
«Si sta facendo tardi, mio
signore... vostro nonno vorrebbe accogliervi prima del
tramonto.»
«Ho paura... »
«Di che cosa? Non avete nulla
da temere da me: io servo… vostro nonno, il mio Maestro...
»
«... ho paura... del...
“mostro”!»
Cuilén volse lo sguardo verso il punto estremo della radura,
la vide nascosta tra i cespugli e, con il dito, indicò la
massa oscura che si era avventata su di lui, pochi minuti prima. L'uomo
si guardò intorno senza capire, poi comprese che il dito era
puntato su Heliantòs, l'Ippogrifo con cui aveva sorvolato
quella parte delle Terre del Nord, fino alla radura, attratto dalla
Magia Antica della Strega.
«Non temete, mio signore.
È Heliantòs, è nostro amico:
sarà lui a portarci a casa... »
«La mia casa è
qui... nel bosco... »
«Certo, mio signore,
ma… salite con me sulla sua schiena e voleremo veloci fino a
casa... »
«Volare? Come gli
uccelli?»
«Come gli uccelli...
sorvoleremo foreste e montagne, fino a destinazione... »
«E la mia mamma? Anche la mia
mamma è volata via su… quel... la
“cosa”?»
Daghall, in difficoltà, non sapeva come rispondere, con un
cenno, chiamò a sé la bestia, sperando di
distrarre l'attenzione del bambino dalla madre, concentrandola
sull'imponente e magnifico animale.
«Heliantòs
è un Ippogrifo, mio signore... ne avete mai visto
uno?»
Il bambino negò con la testa, affascinato e terrorizzato da
quell'essere che emerse maestoso e terribile, dal folto della foresta,
e camminò fino a portarsi accanto al suo padrone: quando un
raggio di sole lo colpì illuminandolo in pieno,
però, Cuilén urlò, vedendo quel corpo
per buona parte simile a quello di un cavallo, ma con le ali e la testa
di un'aquila e il petto e le zampe anteriori di un leone.
«Mandalo via! Ho paura!
Mandalo via!»
La bestia s’inalberò, Daghall ebbe
difficoltà a riportarlo alla calma, mentre il bambino
strillava.
«Buono Heliantòs!
Non fate così, mio signore... gli Ippogrifi sono fieri e
pericolosi, certo, ma sono anche validi alleati, quando se ne conquista
il rispetto... buono così, Heliantòs... Sono
creature meravigliose, ci aiutano a pattugliare le Terre come un tempo
facevamo con i Draghi... Un giorno v’insegnerò a
cavalcarne uno, da solo... io l'ho appreso quando ero più
piccolo di voi... fidatevi, salite sulla sua schiena con me: godrete
della carezza del vento sul vostro viso...»
Cuilén, atterrito, vide Daghall prendere qualcosa dalla
bisaccia e lanciarlo all'indirizzo della bestia che saltò
per divorarla, poi s’inchinò di fronte a lui e la
bestia s'inchinò al suo padrone... Heliantòs
annusò la mano del Mago, infine si lasciò
accarezzare il capo, come facevano i lupi addomesticati di
Dòmnhall.
«Fidatevi, i miei allevavano
Ippogrifi e Draghi... avete mai visto un Drago, mio signore?»
Cuilén negò con la testa, incredulo e
terrorizzato ma anche sempre più affascinato.
«Un giorno li cavalcherete...
Voi… voi avete il Sangue degli Antichi nelle vene,
sapete?»
«Che
cos’è il Sangue degli Antichi?»
«Vostro nonno vi attende per
raccontarvi tutto. Ora ripetete i miei gesti: inchinatevi... alzate la
mano, appena... attendete... ecco... non urlate, ora: si sta
avvicinando... bene... così... molto bene…
»
Cuilén, titubante, fece ciò che gli era stato
suggerito e, dopo alcuni minuti di trepidante timore,
affondò le dita nel folto piumaggio dell'animale: colmo di
stupore, si ritrovò a sorridere, entusiasta.
«Non vi agitate, ora: vi isso
sulla sella e resto a terra per condurlo alla radura, da lì
spiccherà il volo. Lo controllo con la Magia, fidatevi di
me... E di lui... »
Il bambino, emozionato, annuì, sembrava aver già
dimenticato la paura, si lasciò issare tra le ali
dell'Ippogrifo ed emise un grido eccitato, quando guardò il
mondo, attorno a sé, dall'alto.
«Ditemi, mio signore,
riconoscete forse la strada fatta per arrivare qua? Ci siete
già stato? Ricordate se vi siete fermato sotto un albero o
vicino a qualcuna di queste pietre, in passato?»
«No... non so come sono
arrivato qui... e non mi sembra di riconoscere questo bosco...
»
Cuilén tornò a guardarsi attorno, curioso,
Daghall annuì, deluso: aveva sperato che il bambino
ricordasse un dettaglio con cui risalire al nascondiglio della Fiamma.
Si guardò intorno, puntò di nuovo la bacchetta
ma, ovunque, c'era solo una silenziosa, sconfinata, verdeggiante
foresta. Guardò il medaglione del Venerabile Thon
McCuilén, tese il braccio, secondo i quattro punti
cardinali, cercando un segno, invano. Allora il Mago
s’inoltrò lentamente nel bosco, il passo sicuro:
controllava il suo Ippogrifo e rispondeva con calma e pazienza alle
mille domande di Cuilén su Heliantòs e sui
Draghi, così che il bambino si tranquillizzasse e prendesse
confidenza con lui. Stava in allerta, però, fissando di
continuo il medaglione, non voleva farsi sfuggire alcun dettaglio. Ad
ogni passo, il Mago si allontanava. Ad ogni passo, Habarcat taceva.
*
Cuilén non era mai stato tanto emozionato. Si stava librando
in volo, sentiva il calore tiepido del sole sul corpo e l'aria fresca
sul viso, i suoi occhi spaziavano sopra un'immensità di
sfumature di verde, su dolci colline e alte montagne fatte di nuda
roccia. Si stava allontanando sempre di più dalla foresta in
cui era vissuto ma, piccolo e ingenuo com'era, nemmeno se ne rendeva
del tutto conto, preso dalle meraviglie di quella straordinaria
avventura: aveva visto un gruppo di caprioli correre in una radura e
aveva gridato tanto forte da metterli in fuga; si erano alzati in alto
e avevano visto da vicino un'aquila in volo. Non aveva paura,
perché con lui c'era l'uomo che lo stava riportando a casa.
Si era spaventato solo all'inizio, vedendo l'aspetto minaccioso di
Heliantòs, ma una volta salito in groppa, Cuilén
aveva provato solo un profondo senso di libertà. Era stato
sicuro di svenire, quando aveva visto il baratro da cui
Heliantòs si sarebbe gettato per spiccare il volo, invece,
quando l'aria non era arrivata ai suoi polmoni e il respiro gli si era
mozzato, si era sentito vivo e forte, come non mai: cadere in
quell'abisso verdeggiante per poi recuperare quota e librarsi in alto
non gli aveva provocato la paura paralizzante che lo coglieva di fronte
al fiume, sembrava anzi che nell'aria avesse trovato il “suo
elemento”, come diceva Dòmnhall. Cuilén
non vedeva l'ora di essere a casa, abbracciare suo fratello, parlargli,
salire su Heliantòs con lui: forse sarebbe stato proprio
Dòmnhall ad aver timore dell'Ippogrifo e sarebbe toccato a
lui insegnargli cosa fare. A quell'idea, il bambino scoppiò
a ridere, elettrizzato, e l'uomo, alle sue spalle, si chinò
al suo orecchio per chiedergli se andasse tutto bene: Cuilén
gli rispose di non essere mai stato tanto felice. Il Mago sorrise,
sapeva come si sentiva quel bambino, ormai era un uomo ma ricordava
ancora la propria emozione, la prima volta che suo padre
l’aveva portato in volo sopra il Kernow, su un giovane
Heliantòs: gliel'aveva donato quel giorno. Il giorno del suo
quinto compleanno.
*
Il sole aveva superato la metà del suo percorso e il picco,
alto nel cielo, quando la corona di montagne davanti a loro si
aprì all'improvviso, lasciando vedere, meravigliosa, una
distesa blu cobalto alle sue spalle, appena increspata da timide
striature dorate, illuminate dal sole.
«Quello è l'oceano,
mio signore... »
Cuilén era già a bocca aperta, meravigliato,
quando Heliantòs scese a capofitto, strappandogli un urlo
euforico. Dietro le montagne non c'era subito il mare ma, gioiello
nascosto alla vista, si apriva un vasto altopiano, circondato da alture
via via più basse e frastagliate, che si rincorrevano
creando un ambiente variegato in cui predominavano il verde dei boschi
e il giallo delle radure. Heliantòs sorvolò la
pianura in tutta la sua lunghezza, ad ampie falcate, scendendo a poco a
poco, tanto che Cuilén s'illuse che si preparasse ad
atterrare, anche perché il mare si avvicinava velocemente e
la terra si riduceva sotto i loro piedi, sempre di più. Di
colpo, invece, l'Ippogrifo riprese velocità e
puntò in picchiata dritto davanti a sé,
finché la terra mancò del tutto sotto di loro e,
improvvisa, luccicò tutto intorno solo la vastità
cobalto. Cuilén serrò le dita sulle redini,
mentre si voltava, terrorizzato, e vedeva l'altopiano sparire alle sue
spalle: si era interrotto in una scogliera ripida che scendeva a picco,
come una lama bianca conficcata verticalmente tra i flutti spumosi.
«Non abbiate timore, mio
signore... sono qui, con voi… »
L’Ippogrifo scese prendendo ancora velocità,
Cuilén pregò che non volesse tuffarsi
nell'oceano, ma sembrava avesse proprio quell'intenzione: vedendosi
circondato da tutta quell'acqua, sempre più vicina, il
bambino s’irrigidì, il sangue gli
imporporò le guance e il respiro gli divenne corto. Non si
mise a piangere, però, anzi, la paura uscì dalla
sua gola in un unico urlo, prolungato e liberatorio. Non si era mai
sentito così, un'energia misteriosa si era liberata dal suo
petto. Il Mago gli strinse una spalla, per infondergli coraggio, mentre
Cuilén tremava, erano ormai a pochi metri dall'acqua e
Heliantòs non accennava a fermarsi. All'improvviso,
finalmente, gli dei l'ascoltarono: arrivato a sfiorare le onde con le
zampe, Heliantòs riprese a volare orizzontalmente e, invece
di gettarsi nel mare, sollevò una pioggerellina salata con
il tocco degli artigli. Il bambino riprese a respirare.
«Non è emozionante
volare con un Ippogrifo, mio signore?»
Il Mago rise e Cuilén gli disse di essere morto di paura: da
sempre l'acqua lo terrorizzava e di solito scoppiava a piangere,
facendo arrabbiare suo padre, stavolta invece aveva urlato e, dopo le
urla, gli sembrava di stare meglio; Daghall annuì, estrasse
la bacchetta e la puntò davanti a sé,
staccò una bolla d'acqua dalla superficie dell'oceano, la
fece volteggiare e la attrasse, portandola al bambino.
«Voi avete paura dell'acqua,
come io ne avevo del fuoco... Trattenetela, se volete
“capirla”.»
«Trattenerla? Non si
può afferrare l'acqua, lei scivola sempre e ricade
giù... »
«Ne siete proprio sicuro, mio
signore? Io la sto trattenendo per porgerla a voi, vedete?»
Heliantòs si era voltato compiendo un ampio semicerchio
sull'acqua, ora volavano lievi sull'oceano, a pochi centimetri dalla
superficie, puntando verso la costa, la bolla librata in aria, davanti
a loro: Daghall iniziò a muovere la bacchetta, imponendo
alla massa, con una serie d’incantesimi silenziosi, di
assumere varie forme, poi, quando le zampe di Heliantòs
toccarono terra, la fece esplodere in una miriade di farfalle umide e
salate, sopra di loro. Una specie di globo luminoso si
staccò da quella pioggia, volando via, simile a un dardo o
un uccello, che sfrecciava alto verso il cielo. Cuilén stava
per chiedere al Mago che cosa fosse, quando l'Ippogrifo si
scrollò via l’acqua di dosso, inzuppandoli una
seconda volta: Daghall e il bambino, fradici, scoppiarono a ridere.
«Come hai fatto? Era
bellissimo!»
«Magia... Una Magia che
imparerete anche voi... tra qualche anno… »
«Perché usi quel
legnetto? La mamma fa le Magie ma non usa i bastoncini, solo le mani...
»
«Il legno serve solo a
indirizzare meglio la Magia che sta nelle nostre mani, mio signore...
»
Il Mago gli sorrise ma non gli disse altro: ancora umido di acqua di
mare, Daghall saltò giù da Heliantòs,
poi impose all’Ippogrifo di chinarsi per far scendere anche
il bambino. Catturato dall'esperienza del volo e dell'acqua, fino a
quel momento Cuilén non si era guardato intorno, ora
però, mentre i suoi piedi toccavano la sabbia, si
ritrovò a osservare una caletta stretta, a ridosso della
parete a strapiombo della scogliera: era così minuscola e
piena di rocce e massi, che, dall'alto, non era visibile. Il bambino
alzò gli occhi, fino alla cima, la parete appariva liscia e
compatta, si chiese da che parte si uscisse da lì, senza un
Ippogrifo con cui andarsene in volo.
«Dove siamo? Non
c’è nulla di simile vicino a casa mia...
»
«Prima di portarvi da vostro
nonno, devo... incontrare una persona... mi scusate, vero?»
«Non mi lasciare qui da solo,
però... non lo farai, vero?»
«No, non temete, mio signore,
voi verrete con me: devo presentare voi, a quella persona…
»
Il bambino lo guardò incuriosito, mentre l’uomo
gli puntava la bacchetta addosso per asciugarlo e pulirgli il viso e le
vesti, poi si spogliò degli abiti lerci, rimanendo con una
strana tunica fatta di metallo, sopra quella di lana, e un vistoso
medaglione al collo. Si tolse tutto e, ormai nudo, cancellò
con la bacchetta polvere, sangue e sudore dal suo corpo; prese dalla
sacca una tunica più leggera, grigia, indossò di
nuovo la cotta e sopra infilò una corta toga verde, dagli
intarsi elaborati. Il bambino era rimasto a bocca aperta a guardarlo,
impressionato dalle Rune: mentre si cambiava, l'uomo gli aveva
ricordato suo padre, per quella barba folta, il corpo muscoloso, i
capelli resi ricci dall’acqua, i ghirigori
d’inchiostro che decoravano tutta la sua pelle. Era la
versione più giovane di suo padre o quella più
vecchia di suo fratello, a scelta. Continuava a chiedersi chi fosse,
magari era uno zio…
«Andiamo, mio signore, ci
aspettano... »
Daghall aveva finito di vestirsi, si era fissato alla cintola il fodero
della lama e aveva sistemato sulla schiena un arco e una faretra piena
di frecce, più elaborate di quelle che usava
Dòmnhall per la caccia: li aveva estratti dalla bisaccia
legata alla sella di Heliantòs, quando gli aveva dato un
paio di furetti per pranzo. Cuilén non capiva come tutta
quella roba potesse stare in una sacca tanto piccola.
«Heliantòs non
viene con noi?»
«Ci raggiungerà
dopo... per la strada che dobbiamo fare... non riuscirebbe a passare...
»
Il bambino non chiese altro, l'uomo sembrava teso, poco disposto a
parlare. A volte facevano così anche suo fratello e i suoi
genitori e Cuilén sapeva che in quei momenti era meglio
lasciarli in pace, tanto non riusciva a strappar loro mezza parola.
Nonostante le pesanti armi indossate, l'uomo si diresse rapido verso le
rocce, doveva esserci un sentiero, invisibile dalla spiaggetta:
s’inerpicò tra i massi, rivelando che la parete
era compatta solo in apparenza. Cuilén iniziò a
seguirlo, con difficoltà, facendo attenzione a non cadere e
osservando di tanto in tanto il mare, sempre più basso sotto
di lui. All’improvviso, si aprì un varco tra le
pietre. Il bambino guardò la spiaggia deserta ancora una
volta: Heliantòs si librava tra terra e mare, a caccia di
gabbiani.
***
La notte precedente...
... Lucretia...
Nella stanza immersa nel silenzio, un braciere rifletteva bagliori
morenti e la luce rossastra dei tizzoni scivolava tremula sul corpo
nudo di un uomo addormentato, le pelli d’orso calciate via, a
terra. Era ancora buio, quando colpi concitati fecero vibrare la
pesante porta di quercia, al piano di sotto. Il Mago
mugugnò, infastidito, provò a nascondere il capo
sotto il cuscino, lottando per trattenere i sogni, per non farli
affievolire e diventare polvere. Dopo alcuni istanti di smarrimento,
però, la ripida parete rocciosa che stava scalando si
sciolse sotto le sue dita e divenne fumo, si sentì cadere
nel vuoto e i suoi occhi si aprirono di colpo sulla vista di un
baldacchino sfatto e di quattro pareti spoglie. Col cuore in gola,
tornato alla realtà di soprassalto, l'uomo prese un respiro
fondo, ricacciò indietro i nomi che teneva sulle labbra, si
deterse il sudore con la Magia e scivolò fuori dal giaciglio
e dai tendaggi che proteggevano il suo letto. Si avvicinò
alla finestra e vide la notte da poco giunta al suo culmine. Si
chinò ad afferrare il mantello abbandonato a terra, se lo
gettò sulla schiena accaldata, drappeggiandoselo addosso,
per coprirsi alla meglio. Infine, scese la scala di legno, ravviandosi
le ciocche corvine con la mano impreziosita da Rune e anelli.
Non fu sorpreso nel trovarsi di fronte Thon McCuilén: pochi
si avvicinavano alla sua porta di giorno; nessuno, a
quell’ora della notte, a parte il “Venerabile della
Confraternita”, il membro più anziano e importante
del Consiglio dei Saggi. Il vecchio aveva un profondo legame con il
Mago da quando, dieci anni prima, l'aveva preso sotto la sua
protezione, appena tredicenne, giunto nelle Terre del Nord in sella a
un Ippogrifo, Heliantòs, in fuga dalla guerra che stava
sconvolgendo il Kernow (1).
Da quel momento, Thon McCuilén aveva raccolto le confidenze
del ragazzo, scoprendone la storia e celandone a tutti, per
proteggerlo, l’identità, l’aveva
preparato di persona al Cammino del Nord e l'aveva accolto nella sua
famiglia come un figlio, dandogli persino la Runa della sua stirpe e il
suo nome, un nome delle Terre del Nord: Daghall McThon. Quasi nessun
altro, nel villaggio, si era avvicinato volentieri al giovane, il
disinteresse anzi si era trasformato in ostilità nel corso
dei primi anni, a mano a mano che l'intruso assumeva atteggiamenti
ribelli; in seguito, quando, per volontà del Venerabile,
aveva acquisito potere e autorità, avevano iniziato a
circolare delle dicerie, secondo le quali il giovane era stato inviato
dai Maghi del Sud per rubare Habarcat, approfittando che fosse dispersa
sul massiccio di Am Monadh. Per questo, dopo anni, nonostante
l'agiatezza e una vita ormai irreprensibile, molti uomini della
Confraternita si ostinavano a isolare il giovane, a negargli la mano
delle proprie figlie, come aveva fatto Cinàed il Pozionista,
e il nome delle Terre chiamandolo per sfregio “Daghall il
Nero”, lo straniero dalle chiome corvine. Daghall sembrava
non curarsene più, ormai si presentava per primo, a tutti,
come “Il Nero”; da giovane, invece, aveva sofferto
del silenzio e del disprezzo degli altri e, in una notte di follia e
alterazione, si era inciso una A, la prima lettera del suo vero nome,
sopra la Runa del collo, con una vecchia lama arrugginita, per
affermare l'appartenenza a se stesso e al suo vero mondo. Solo
l'intervento disperato del vecchio l'aveva salvato da morte certa.
Senza scambiarsi una parola, Daghall si fece da parte e Thon
entrò, seguito da un altro Mago, rimasto
nell'oscurità fino a quel momento: Padraig, originario di
Árd Macha (2),
in Irlanda, era un altro dei saggi, un uomo arcigno, alto e
rinsecchito, stretto nella sua toga, grigia come il suo incarnato
smunto, il cappuccio tirato su a mascherare il volto butterato. Il
Venerabile, esile come un fuscello e piegato dall'età e dai
pensieri, si avvicinò lentamente al tavolo e si
guardò intorno, il nobile e austero cipiglio intriso di
disapprovazione, appena gli occhi velati dalla vecchiaia misero a fuoco
le ceneri fumanti nel camino: lo addolorava rendersi conto che il suo
pupillo, nonostante i tanti insegnamenti e i consigli, cedeva ancora
alle emozioni e cercava rifugio dal dolore nello stordimento delle
erbe. Il Nero se ne accorse e incrociò le braccia al petto,
come faceva da ragazzino, in un gesto d'istintiva difesa: era un uomo,
ormai, e nessuno poteva più interferire nella sua vita.
Fissò per alcuni istanti il Maestro, poi rammentò
a se stesso che quello non era più solo il suo
“padrino” e lui stesso non era più solo
un figlioccio. L’inaspettata, inattesa visita, nel cuore
della notte, del Venerabile Thon McCuilén a Daghall McThon,
detto il Nero, Capo della Guarnigione era tutt’altro che una
questione privata, era la prova che un fatto d’inaudita
gravità era avvenuto nelle Terre e che la sua gente aveva
bisogno del suo intervento. Daghall invitò il Venerabile ad
accomodarsi, lo guidò a una sedia, sostenendogli il braccio,
sotto lo sguardo di Padraig, indeciso se avvicinarsi o restare sulla
porta. Il Nero andò alla dispensa, versò
dell'idromele e l’offrì agli ospiti: il vecchio
rifiutò con un cenno del capo, l'irlandese bevve tutto in un
solo sorso. Daghall notò che le mani del Saggio Padraig, un
pomposo individuo, famoso per non mostrarsi mai in pubblico privo della
sua arrogante sicurezza, in quel momento tremavano e iniziò
a preoccuparsi. Con gli occhi fissi a terra, per secondi interminabili,
nessuno dei tre fu in grado di iniziare un discorso, finché
Thon McCuilén, pallido, alzò lo sguardo d'acciaio
sul suo pupillo, in piedi di fronte a lui, e librò la voce
cantilenante di Divinatore, spezzando il silenzio teso.
«La Notte ha assunto il Volto
della Morte, figlio mio... tu l'avevi visto per tempo ma noi, poveri
sciocchi... non abbiamo agito! Ora la Morte danza nella foresta e la
Verde Reliquia... »
«Il Maestro vuole dire...
»
Il Nero non aspettò le spiegazioni di Padraig, che aveva il
compito di tradurre e spiegare alla comunità, con parole
semplici, i vaticini del Venerabile: Daghall non ne aveva mai avuto
bisogno, inoltre temeva e si aspettava quel momento da settimane. Corse
alla finestra, scrutò il cielo, sentì il respiro
mozzarglisi in gola quando vide Marte ergersi livido nel cielo nero,
come un cuore grondante sangue. Il giovane era stato il primo a notare
la luce sinistra e a capire che gli eventi stavano precipitando, dando
l'allarme, più di un mese prima: da allora, notte dopo
notte, Marte aveva gridato sempre più forte la propria
collera, rimanendo inascoltato dalle genti delle Terre.
«... la luce di Marte
stanotte... »
«Lo so... lo vedo... ve l'ho
ripetuto io stesso per settimane, Padraig... ve ne
rammentate?»
Daghall interruppe il saggio, furioso: conosceva il significato della
strana luce rossa dell'astro, ne aveva visto le conseguenze con i
propri occhi, da ragazzino, per questo aveva chiesto di parlare al
Consiglio; nessuno, però, pur riconoscendo la stranezza del
fenomeno, gli aveva prestato ascolto, confidando nel fatto che le
profezie delle Pietre Veggenti (3)
non prevedevano “sciagure” per la Confraternita
nell'“era” che stavano vivendo. Il giovane non
aveva replicato, non si aspettava di essere creduto da tutti loro, ma
sperava di far breccia almeno nel Venerabile McCuilén... Il
Nero scolò l'idromele e fissò i profondi occhi
grigi colmi di risentimento su Padraig: dal suo arrivo nelle Terre,
quell'uomo di mezza età, presuntuoso e ottuso, aveva colto
ogni occasione per screditarlo, opera sua e del suo degno compare,
Cinàed il Pozionista, era anzi la maggior parte delle
malignità messe in giro sul suo conto. Aveva avuto
dimostrazione della fondatezza dei suoi sospetti quando aveva spiegato
i propri timori al Venerabile, invitandolo ad agire, ma l'irlandese
aveva fatto di tutto per intromettersi e boicottarlo, isolandolo ancora
di più con nuove maldicenze.
«Se non godi di un briciolo di
credibilità, non è colpa mia! Vivi nei boschi,
come un eremita… a parte il tuo lavoro, non fai nulla per
gli altri… cedi a certe... debolezze...
l’altisonante nome che porti non basta più a
celare le tue mancanze, Daghall, perciò prenditela con te
stesso!»
Padraig si era avvicinato al camino, si era chinato a raccogliere la
cenere e l'aveva annusata, fissandolo disgustato. Daghall era scoppiato
a ridere, beffardo, per celare il proprio nervosismo.
«Avete ragione… non
bastano né il nome, né le azioni, quando
c’è chi infarcisce le tue presunte mancanze con le
proprie fantasiose falsità... dico bene, Saggio
Padraig?»
«Basta
così!»
Thon McCuilén, tremante, si alzò, facendoli
tacere, il Nero sibilò un ultimo insulto contro l'irlandese,
ben misera soddisfazione, lo sapeva, ma l’unica che potesse
prendersi: avrebbe voluto sbattere quel viscido individuo fuori dalla
sua casa e dargli la lezione che meritava, a trattenerlo,
però, c’erano il debito di riconoscenza che lo
legava al vecchio e l’idea dell’espressione
trionfante di Padraig appena fosse riuscito nello scopo di cacciarlo
dalle Terre. A dire il vero, se non fosse stato per
l’orgoglio e per la volontà di difendere l'uomo
che l'aveva cresciuto e protetto, Daghall se ne sarebbe andato
già da un pezzo, quei luoghi non erano la sua casa; per Thon
McCuilén, però, non solo era rimasto, ma aveva
persino accettato di guidare la Guarnigione, quando
gliel’aveva chiesto. La sua vita era cambiata da allora, non
aveva soffocato e vinto la sua rabbia, ma aveva trovato il modo di
indirizzarla in maniera costruttiva. Anche le sue relazioni erano
migliorate, Daghall aveva assegnato ruoli e turni ai suoi uomini
“secondo giustizia e imparzialità”,
ottenendo da loro se non amicizia almeno lealtà e rispetto;
aveva riservato a se stesso le pattuglie notturne sui pericolosi
confini settentrionali, da tutti rifiutati, desideroso com'era di
solitudine e silenzio. Impartiti gli ordini agli altri, si allontanava
in sella al suo fido Heliantòs, al tramonto, per ritornare
solo l'indomani, quando il sole era già alto; vagava per i
boschi, controllando le colonie dei Thestral, le rive del lago, i
confini che separavano la Confraternita dai Centauri,
l'immensità dell'oceano e le coste frastagliate. Quel
compito gli consentiva di passare la maggior parte delle notti da solo,
all'aperto, lontano dagli altri e Daghall ne approfittava per ritrovare
la sua pace interiore, secondo gli insegnamenti del Maestro. Lo
esponeva, però, anche a nuove chiacchiere e maldicenze cui
cercava di non pensare. Saliva sulle alture, sopra i boschi, sopra le
ripide scogliere, fermandosi sull'altopiano battuto dal vento
settentrionale, dove attendeva il sorgere del nuovo giorno, ammirando
gli astri, come faceva da bambino. Anche se, secondo i Saggi del Nord,
“non aveva il Dono della Divinazione”, Daghall
amava leggere le stelle, consapevole che erano gli altri a non voler
riconoscere la sua abilità nell'interpretare i segni. A
volte, raggiungeva la placida quiete della Sorgente (4) e lì,
seduto sotto gli alberi, pensava, ammirando il lento sgorgare
dell'acqua dalla polla: immerso nel silenzio e nella solitudine,
ipnotizzato dal fluire dell'acqua, la memoria di Daghall scivolava a
scalfire la sua anima, riportandolo indietro, allo stesso cielo ma a
una terra diversa; a sua sorella Laetitia, dai boccoli dorati; a suo
padre, di cui portava lo stesso nome, un nome di stella; ad Attius, il
precettore dalle chiome leonine: era stato lui a insegnargli a
cavalcare gli Ippogrifi, a governare la Magia con la bacchetta, a
studiare Marte dalle scogliere di Zennor.
Zennor…
Il Nero si sentì mancare il respiro, strinse i pugni e si
fece avanti, consapevole di essere sul punto di perdere il controllo,
s'inginocchiò rispettoso davanti al suo Maestro e nascose il
volto contro la seta verde della sua ricca toga, come se la volesse
baciare, in segno di deferenza.
«Maestro, cosa vi fa credere
che il pericolo sia nella foresta e non qui? Potrebbe…
»
«Sheira… mia
figlia… mi è apparsa in sogno…
chiedeva aiuto… sprofondava nel sangue…»
Daghall percepì un brivido gelido lungo la schiena, non
disse nulla, si limitò ad annuire.
«Volete che vada solo,
Maestro, o devo portare la Guarnigione? Quando volete che
parta?»
Il vecchio lo fissò, alzò una mano tremante e la
poggiò sul capo di quel suo “figlio”,
l'unico che gli restasse; la vita gli aveva dato molto in
gioventù, l'onore, la gloria, il potere, una famiglia
numerosa, ma il destino della sua stirpe era da sempre segnato: un
unico ramo poteva sopravvivere (5).
Con la maturità, erano aumentati gli acciacchi e, uno dopo
l'altro, erano diminuiti i figli. Insieme alle forze. Il dolore
più grande, però, restava lei: la figlia
più preziosa, la sacerdotessa di Habarcat, quella Sheira che
l’aveva tradito, rubando la sacra Fiamma e infrangendo i
voti, solo per amore (6).
Per il grande Thon, che aveva sconfitto in gioventù persino
il gigante Harkmut, guadagnandosi la stima del suo popolo, quello era
stato un colpo tremendo: da quel giorno la sua mente non era
più stata lucida, la sua autorevolezza e il suo potere erano
stati messi in discussione. Quando il giovane profugo del Sud era
giunto alla sua porta, però, qualcosa era cambiato, non
aveva voluto ascoltare i timori e i consigli degli altri Saggi, aveva
agito d'istinto, seguendo il cuore: aveva visto in quel piccolo orfano
il riscatto dai suoi tanti dolori, un significato, un senso per le sue
giornate inesorabilmente vuote. Non si sentiva più morto
dentro, quando vagava per i boschi con lui, insegnandogli a riconoscere
le orme e svelandogli i segreti del Nord. Ora quel ragazzino sconvolto
dalla guerra era diventato un uomo forte e coraggioso, forgiato dal
dolore e dalle avversità, giusto ma anche profondamente
umano, tanto da cedere e sbagliare ancora, posto di fronte ai fantasmi
del suo passato. Thon McCuilén annuì, turbato,
fissando quegli occhi grigi: voleva intervenire e salvare Sheira,
più di ogni cosa, anche se in apparenza avrebbe agito solo
per ricondurre Habarcat in seno alla Confraternita, e
l’avrebbe fatto anche senza il consenso del Consiglio, pronto
a pagarne le conseguenze. Non era disposto, però, a
compromettere altri con le sue azioni, per questo il Venerabile esitava
all’idea di coinvolgere il suo figlioccio, benché
non potesse fidarsi di nessun altro, come gli aveva opportunamente
ricordato Padraig.
«Agire porterebbe conseguenze
spiacevoli a entrambi, Daghall... e tu… hai già
pagato... »
«Non c'è altro
modo, Maestro: il Saggio Eoghan (7)
ha fissato la partenza per vostro nipote alla prossima luna nuova, ma
mancano ancora tre settimane e muovendosi con la barca, non
sarà là prima di un mese... Marte dice che
qualcosa sta per accadere, perciò…
partirò alle prime luci... »
«Devi partire adesso, Daghall!
Le Pietre Veggenti... Diteglielo, Maestro! Quello che deve accadere,
sta accadendo ora... Non tra un mese, o tra una settimana, o tra un
giorno... adesso!»
Il vecchio chinò il capo, strinse i pugni e si
colpì la fronte, devastato dalla lotta interiore, Padraig
pallido gli porse la solita pozione calmante ma il vecchio
rifiutò, ormai non più lucido. Daghall
fissò entrambi, il sudore gelido iniziava a imperlargli la
fronte: aveva un brutto presentimento.
«Se indugerai, Daghall, il
tempo della Magia finirà: Habarcat deve tornare nel suo
giaciglio entro il tramonto. Altrimenti si spegnerà, come la
Fiamma di Dùn Ceartáin... »
Il Nero annuì, conosceva le leggende di Lugh (8), sapeva che,
oltre Habarcat, erano state donate agli Antichi altre due reliquie
simili e che la Rossa Fiamma di Ériu aveva già
esaurito tutto il suo potere. Non sapeva come ciò fosse
accaduto ma non voleva correre il rischio di vederlo con i suoi occhi.
«Vado a preparare
Heliantòs. Maestro… nessuno… deve
sapere... dico bene?»
Il vecchio annuì, il colore terreo del volto
lasciò il posto al rossore della vergogna: aveva sempre
usato la propria autorità per il bene degli altri, aveva
sempre ricordato a se stesso di essere il Custode della Fiamma prima di
essere un padre, un marito, un uomo… e ora che, per la prima
volta, cercava di ottenere qualcosa per se stesso, gli sembrava di
commettere un’empietà.
«Riportameli, figlio
mio… te ne prego… riportameli tutti…
»
«Farò tutto
ciò che è in mio potere per riportarveli, ve lo
giuro, Maestro… »
Il Nero, in imbarazzo di fronte a quella manifestazione di sentimenti,
si voltò, evocò l'Elfo Kriantòs, che
gli preparò la borraccia e i viveri per il viaggio,
salì a indossare le vesti da caccia sopra la cotta di
maglia, nascose l’arco e una daga nella sacca magica,
perché non sapeva che cosa avrebbe trovato nella foresta, ma
era in grado di affrontare di tutto, sapeva combattere con la Magia e
alla maniera dei Babbani. Era stato Attius a insegnarglielo, gli aveva
spiegato come nascondere la Magia, perché nella terra in cui
era nato, confondersi con i Babbani significava sopravvivere, svelare
la propria natura, al contrario, portava a morte certa. Mise i calzari
pesanti, si avvolse nel mantello di lana, sollevò il
cappuccio e annodò il bavero, per affrontare il rigore della
notte. Quando tornò dai suoi ospiti, vide con fastidio che,
viscido, Padraig sussurrava all'orecchio del vecchio: temendo un
inganno, decise di usare la Magia per raggiungere le scuderie. Il
Venerabile lo benedì, poi si trascinò alla
finestra a osservare le stelle, Daghall, impaziente, si diresse alla
porta. Lì Padraig lo raggiunse, lo afferrò per un
polso e lo bloccò, sussurrandogli all’orecchio.
*
Daghall raggiunse la scuderia Materializzandosi davanti al recinto, in
allerta. Trovò Heliantòs già sveglio,
sembrava sentire sempre in anticipo l’arrivo del suo
amico-padrone: l'uomo accarezzò la testa dell'animale e
affondò le dita nel suo folto piumaggio, ricevendo in cambio
un leggero colpetto del muso sulla spalla. Heliantòs non si
limitava a percepirne la presenza, lo sapeva, sentiva la sua
preoccupazione e sembrava volergli dire che poteva sempre contare sul
suo aiuto. Gli dei solo sapevano quanto ne avrebbe avuto bisogno quella
notte. Il Nero sistemò la sella e la bisaccia piena di
furetti cacciati per placare la fame e la furia
dell’Ippogrifo poi, dopo averlo tranquillizzato e nutrito, si
levarono finalmente in volo. Il silenzio e la solitudine avrebbero
acceso la mente di Daghall, il Mago sperava di riuscire a capire cosa
fosse meglio fare prima di raggiungere Am Monadh e trovarsi di fronte
la Strega, perché una volta sul posto sarebbe stato troppo
impegnato a salvarsi la pelle per definire un piano. Volò
veloce, incitando Heliantòs a dare tutto se stesso, come
aveva fatto anni prima, quando gli aveva chiesto di attraversare tutta
la Britannia: superarono montagne solitarie e foreste tenebrose,
nascosti nell’oscurità carica di una notte che
annunciava tempesta. Era appena in vista della meta, l’alto e
scabro massiccio di Am Monadh faceva intravedere il suo profilo nella
luce livida che anticipava l’aurora, quando Daghall
capì che i guai sarebbero iniziati ben prima di trovare
Sheira: una densa nuvola di fumo si levava alta sopra gli alberi,
dall'altro lato del massiccio, illuminando l'ultima oscurità
della notte di bagliori rossastri. Più si avvicinava,
più Daghall riconosceva nelle voci della foresta il racconto
di una notte di orrore, poi l'intenso e acre odore del fumo
rischiò di ottenebrargli i sensi. Il Nero odiava il fuoco,
tutti i suoi familiari lo odiavano, quasi a dare fondatezza
all’antica leggenda secondo la quale il nome della sua
“gens” derivava dalla tortura inflitta a tanti suoi
antenati, morti bruciati sulle pire. Giunto nelle Terre del Nord,
nell’apprendere il controllo dei quattro elementi naturali,
il fuoco era stato quello che aveva dato più problemi a
Daghall: alla fine, però, aveva superato le sue paure e le
sue difficoltà, era diventato un Mago del Nord e sul suo
petto ormai campeggiava imperiosa la Runa legata alla padronanza del
fuoco.
Il Mago eseguì un incantesimo con cui protesse se stesso e
Heliantòs dal calore e dal fumo, si avvicinò e
superò la cima della montagna, scivolò sull'altro
lato, scendendo in un ampio volteggiare sopra gli alberi fino a
raggiungere il letto di un fiume. Smontò nei pressi di una
radura protetta e lasciò l'Ippogrifo a cacciare
lì, si tolse il mantello, estrasse l’arco e la
faretra dalla sacca magica e se li sistemò sulle spalle.
Fissò la daga alla cintola e sguainò la bacchetta
poi, servendosi delle ultime indicazioni del Venerabile e di Padraig e
guidato dal medaglione ricevuto dal vecchio, un manufatto creato a
posta da Thon McCuilén per sentire la Magia di Sheira,
s’inoltrò guardingo nella boscaglia, fino ai resti
di un accampamento. Ovunque si voltasse, tutto raccontava lo scempio
messo in atto da uomini senza rispetto per la vita: un brivido percorse
la schiena di Daghall, quando comprese che l'orrore annunciato da Marte
era figlio di un’orda di Babbani armati. La mente del Mago
vacillò, rivide una scogliera a picco sul mare, le sue dita
sanguinanti, premute su pietre taglienti; il respiro di Daghall si fece
corto, sentiva il dolore, il proprio peso concentrato su quelle dita
piagate... mentre tutto intorno, proveniente dal passato, era un
sibilare di frecce che, rapide, passavano vicino al suo orecchio e
cadevano, rimbalzando sulla pietra.
Muoviti Laetitia! Muoviti...
Mamma... mamma…
Si riscosse. Le sue labbra erano ancora contorte nel nome di sua
sorella, mentre stava chino su un falò ormai spento, le mani
immerse nella cenere, gli occhi chiusi. Non aveva bisogno della Magia
per capire che quel fuoco era stato spento ormai da diverse ore, forse
tutto si era compiuto quando ancora dormiva a casa sua, ancora prima
che il Venerabile bussasse alla sua porta. Non sapeva cosa ne fosse di
Sheira e degli altri, ma la loro salvezza, ormai ne era consapevole,
non era mai dipesa dalla sua volontà e dalle sue azioni,
almeno non quelle che poteva compiere quella notte.
Dove sono? Dove hanno portato
Habarcat?
Daghall estrasse il medaglione, vide il suo luccichio debole accendersi
in direzione dei resti di una tenda, il Mago avanzò rapido
tra cenere e detriti, scansò a mani nude ciò che
restava di coperte e paglia bruciata, annusò la polvere, ma
non trovò nulla che potesse riferirsi alla Fiamma, neppure
la presenza di cadaveri di eventuali Babbani che avessero tentato,
incauti, di toccarla.
È stata qui… per
tanto tempo, è stata qui, ma è stata spostata, da
Sheira o dal bambino...
Cercò tracce a terra per capire in quale direzione andare e
notò un odore che lo lasciò interdetto:
nonostante tutto fosse ricoperto di cenere e intriso di fumo, l'odore
metallico, che sentiva attorno a sé, era chiaro segno della
presenza di sangue, tanto sangue, qualcuno in quella tenda era stato
ferito ma, non essendoci nessun corpo nei dintorni, doveva essere stato
spostato e, soprattutto, doveva aver lasciato tracce, che ora doveva
trovare e che poteva seguire. Incoraggiato da un primo segno, Daghall
puntò la bacchetta a terra e cercò e quando
infine le trovò, tanto sottili da essere quasi invisibili al
buio, ringraziò gli dei perché senza la sua
bacchetta, non ci sarebbe mai riuscito.
Un tuono squassò le tenebre e, pochi istanti dopo, violenta,
la pioggia si abbatté sulla foresta: Daghall ne era lieto,
perché avrebbe spento rapidamente gli ultimi focolai
d’incendio, d'altra parte, sarebbe stato più
difficile ritrovare le tracce da seguire, se l'acqua avesse sciolto il
sangue. Iniziò a camminare lentamente, intento ad ascoltare
ogni suono attorno a sé, vigile contro eventuali minacce
nascoste e attento a non scivolare sul terreno che diventava fango,
tutto proteso a cercare le ultime stille rubino sulle foglie, inzuppato
come se fosse caduto nel fiume. All’improvviso, dal fogliame,
vide emergere un piede: si acquattò, in allerta,
scivolò tra i cespugli, scostò delicatamente le
foglie per vedere chi avesse di fronte e subito sentì la
cena e il vino della sera precedente forzargli lo stomaco, imperiose,
tanto da costringerlo a rigettare. Si portò la mano al naso
per non sentire più il fetore e non rigettare ancora: lo
spettacolo, o meglio lo scempio, che aveva di fronte era
così improvviso, orribile e devastante che si
sentì smarrito come quando, a otto anni, aveva visto il
primo morto ammazzato della sua vita; solo in seguito, corpi a pezzi e
orrendamente mutilati erano diventati la norma, per lui, e per cinque
lunghi anni non aveva visto altro. In quel momento, sconvolto dalla
debolezza che l’aveva travolto, si rese conto di aver vissuto
per dieci anni in una bolla ovattata, la vita comoda delle Terre
l'aveva cambiato e rammollito. Smise di filosofeggiare e
studiò il corpo: era un Babbano, un fante privo di armature
difensive, non era morto per una ferita da battaglia, ma dissanguato
per uno squarcio alla gola, forse il morso di un lupo; del suo
equipaggiamento restava solo una faretra: Daghall si chinò e
si rifornì di frecce. Il Mago procedette, la bacchetta nella
destra e gli occhi fissi sul medaglione, il cui luccichio era sempre
più flebile. Camminò a lungo, ovunque vide i
segni del passaggio degli uomini armati, ovunque la pioggia spegneva
gli ultimi roghi: la foresta soffriva per l'inferno di fuoco, da ogni
parte emergevano cadaveri di soldati mutilati, per lo più
attaccati al ventre e al collo. Nella foresta, per qualche motivo
incomprensibile, i lupi avevano fatto strage di uomini. Daghall,
però, pensò seriamente a un intervento della
Magia solo quando vide un uomo orribilmente sfigurato e mutilato dai
numerosi morsi di serpente, che si erano accaniti selvaggiamente su
tutto il suo corpo (9).
I serpenti veri, che io sappia,
dormono, di notte…
Pronunciò un incantesimo di Disillusione, per sicurezza, e
riprese a camminare sotto la pioggia.
*
Quando l’aveva vista, tra le foglie cadute, per alcuni
istanti il Mago si era illuso che la Strega fosse addormentata, tanta
era la pace che irradiava dal suo volto. Non l’aveva mai
vista prima, Daghall era solo un bambino di sette anni, che giocava
sicuro e felice nel palazzo di suo padre, a Zennor, quando Sheira nic
a'Thon era fuggita dal villaggio e dal suo destino, per inseguire la
vita e l’amore, durante la festa di Samhain. In quei dieci
anni, da quando era giunto nelle Terre, Daghall aveva immaginato in
mille modi diversi il loro primo incontro: benché tutti
parlassero male di lei, infatti, il Mago desiderava incontrarla, per
dividere con la Sacerdotessa il proprio antico sapere.
Invece il nostro primo e unico incontro
è stato questo…
Il Mago stava lì, sotto la pioggia, accosciato davanti al
suo corpo, la osservava non sapeva neppure più da quanti
minuti, attratto da quel bagliore luminoso che era ancora imprigionato
nei suoi occhi. Non sapeva cosa fare: forse il vecchio avrebbe voluto
darle una sepoltura degna del suo rango, al villaggio, ma sarebbe
successo il finimondo, se l’avesse riportata indietro con
sé.
Alcuni, i soliti, arriverebbero persino
a pensare e a dire che sono stato io a ridurti
così...
Daghall si sollevò, affondò le mani tra i capelli
zuppi di pioggia e senza volerlo s’impiastrò la
faccia di sangue. Tremò, ricordando il momento in cui aveva
allungato la mano, per toccarla… Chiuse gli occhi,
deglutì con difficoltà, cercando di soffocare e
controllare l’odio che sentiva montargli dentro. Aveva capito
subito che non avrebbe trovato sulla Strega ferite visibili, tutta la
parte inferiore delle sue vesti era impregnata di sangue e Daghall
aveva imparato fin troppo bene, da bambino, negli anni della guerra, il
significato di “quel” sangue, aveva visto
un'infinità di donne morire in quel modo, uccise dalla
peggiore e più umiliante delle violenze. Sentì
l'odio librarsi in lui, un odio antico, un odio che non aveva mai
smesso di provare, si voltò contro il bastardo che
l’aveva uccisa, il suo corpo decapitato (10) giaceva a pochi
passi da lei. Daghall estrasse la bacchetta e con le lacrime agli occhi
ruggì l’incantesimo con cui diede alle fiamme quel
mostro: lo vide bruciare, lo vide scomporsi, ma la rabbia e il dolore,
dentro di lui, non si placavano ancora.
Non si placheranno mai… non
mi placherò mai…
Si voltò, non voleva vedere, respirò
profondamente, cercò di contenere la rabbia e dare un senso
al dolore. Fece un incantesimo alla terra, perché una
porzione si asciugasse, estrasse il mantello dalla sacca magica e lo
stese, si avvicinò alla Strega, la sollevò,
asciugò il suo corpo e i suoi capelli con la Magia,
trasfigurò le sue vesti lacere e sporche in una toga simile
a quella che indossava sua madre, l’ultima volta che
l’aveva vista, annodò i suoi capelli nella stessa
foggia. Infine, sconvolto al pensiero di non essere riuscito a fare
tutto questo per la donna che l’aveva messo al mondo, la
avvolse nel mantello. Si guardò intorno, vide una robusta
quercia adatta ai suoi scopi, appoggiò le mani sul tronco,
pronunciò un’antica Magia delle sue terre,
preoccupato che lì gli alberi non l’avrebbero
ascoltato, se avesse parlato in lingua cornica. Con stupore, invece,
vide le radici della quercia sollevarsi fino a creare un varco
sufficiente a ospitare il corpo della donna.
La lingua è diversa, ma siamo
e restiamo Daur, figli delle querce…
«Torna agli alberi che ti
hanno creato, mia Signora; Madre Terra ti sia lieve e ti
protegga… »
Con sorpresa, dopo aver deposto in quel luogo sicuro la Strega, le
radici della quercia non tornarono ad affondare nel terreno. Nervoso,
Daghall pensò a come trasportare in breve tempo terra
sufficiente a sotterrarla, poi ricordò di aver
già visto una quercia comportarsi così e,
soprattutto, ne rammentò il motivo. Rapido, con la bacchetta
in mano, iniziò a frugare tra i cespugli, invano, sempre
più fradicio di pioggia, andò avanti in una
porzione via via più ampia di terreno, trovando sempre
più corpi di Babbani straziati, ma non quello che stava
cercando. Daghall tornò sui suoi passi, fino
all’uomo ucciso dai serpenti e lì, a poca
distanza, trovò il corpo di Cormacc MacArtgal: dovette
chinarsi a voltargli il capo, mettendo allo scoperto la Runa del collo,
per riconoscerlo, perché il corpo del Mago era stato
trafitto e colpito così tante volte che sul suo petto era
ormai scomparsa ogni traccia della imperiosa Runa che doveva
campeggiarvi.
Per fortuna ti ho trovato…
ora ti deporrò accanto a lei, altrimenti senza la tua Runa e
senza la tua donna a indicarti la strada, avresti vagato
nell’oblio oscuro per tutta
l’eternità…
Lo sollevò con difficoltà e lo portò
alla quercia, non aveva un altro mantello con sé, con cui
avvolgerne il corpo, riuscì, però, a
trasfigurargli il poco che indossava e a creare un telo con le foglie
di quercia, lo depose accanto alla sposa e, finalmente, le radici
s’immersero nel terreno, celando e proteggendo i due sposi
per sempre. Daghall sospirò, stanco ma soddisfatto e
sollevato.
Ciò significa che non
è questo il posto per il resto della famiglia… i
ragazzi sono vivi…
Doveva essere accaduto di tutto, quella notte: l'uomo forse era rimasto
indietro a coprire la fuga della sua famiglia, ma la Strega era stata
catturata e aggredita e quando il Mago se ne era accorto, aveva
decapitato il Babbano, senza avere però il tempo di
salvarla, né di salvare se stesso. La sua furia e il suo
dolore bastavano a spiegare i serpenti svegli nella notte e la ferocia
dei lupi. In tutto questo, i due ragazzi ce l’avevano fatta e
ora, in fuga, erano nascosti con Habarcat, nella foresta.
Vi troverò...
tornerò indietro e sorvolerò la foresta. Col
medaglione, riuscirò a trovarvi! DEVO!
*
«Qualsiasi cosa accada, non
farti sottrarre la Fiamma e il moccioso! Hai capito?»
«Mi credete un idiota,
Padraig? Vado per questo! Porterò altri Ippogrifi per la
famiglia... »
«No... gli altri non
verranno!»
«Cosa diavolo state
architettando? Avete sentito, l’ho appena giurato al
vecchio!»
«Il Consiglio non vuole che
Sheira e Cormacc ritornino: hanno tradito, devono pagare. Per rispetto
verso Thon, nessuno ha mai tradotto le parole in atti; ora,
però, il Destino ha deciso che Sheira muoia: accettiamo la
sua volontà e otterremo giustizia, senza neanche sporcarci
le mani!»
«E il ragazzo? Quello che
dovremmo portare qui tra un mese? Quali colpe dovrebbe scontare
quell'innocente, di grazia?»
«Un solo ramo, ricordi? Un
solo ramo! Il loro Destino è sempre stato quello…
»
«NO! Voi lo vorreste morto per
opporvi a ciò che le Profezie dicono di lui… Due
figli: uno sarà Custode della Fiamma, l’altro il
più grande Mago di tutti i tempi… Non lo
farò, non m’interessa la volontà del
Consiglio, non agirò contro il vecchio! Sapete cosa penso,
Padraig? Che sia la vostra brillante idea, la sciagura su cui ci mette
in guardia Marte: non c’è nessun pericolo da cui
salvarli, nella foresta, sono io che, andando a prendere solo il
bambino e Habarcat potrei scatenare la furia di Sheira, del marito e di
suo figlio contro tutti noi! Io non provocherò la vostra
guerra!»
«Vedo che inizi a capire per
quale motivo tutti gli altri devono per forza morire… Senza
la morte di sua madre, il figlio non può diventare il nuovo
Custode, non prima dei 16 anni!»
«Io non intendo essere la mano
del “Vostro Destino”, Padraig…»
*
Daghall si sentiva svuotato: la ricerca non stava portando a niente, i
ragazzi sembravano spariti, Habarcat non dava segni della propria
presenza. La realtà che si era trovato di fronte
raggiungendo la radura era ben diversa dalle idee che aveva
all’inizio, aveva creduto sinceramente che il problema fosse
solo la follia di Padraig, che sarebbe bastato parlare con la Strega
del desiderio del Vecchio di conoscere il nipote, per disinnescare la
tensione, aveva sperato in cuor suo, nonostante le parole del Saggio
Padraig, di poter mantenere il giuramento fatto al vecchio, riportando
indietro Sheira e la sua famiglia. Invece… Non riusciva a
sopportare l’idea che la Strega fosse morta, non voleva dire
al vecchio che non era riuscito a mantenere la promessa.
Un’altra promessa
mancata…
Il Mago stava tornando indietro, rapido, verso la radura, deciso a
controllare la foresta dall’alto in sella a
Heliantòs, quando un grido gli fece accapponare la pelle,
immobilizzandolo dove si trovava. Era ormai a metà del
sentiero, in discesa, diretto verso il fiume: si gettò a
terra, nascondendosi tra i cespugli, mentre il terreno vibrava e
l’urlo che aveva travolto il bosco silenzioso si ripeteva, si
moltiplicava, avvicinandosi, in una cacofonia caotica che sembrava
sempre più terrificante.
Centauri arrabbiati… e visto
che cosa è avvenuto qui stanotte, non hanno tutti i
torti…
Il Mago pronunciò di nuovo l’incantesimo di
Disillusione e avanzò in direzione delle urla, lo scalpiccio
era passato a poca distanza da dove si trovava e pareva diretto verso
il fiume: doveva trattarsi di almeno una dozzina di esemplari e il
baccano che avevano prodotto era stato tale che Daghall non aveva
capito nulla di cosa si stessero urlando. Protetto
dall’incantesimo, rassicurato dalle vibrazioni e dai suoni
che non ci fossero altri Centauri sulla scia dei primi,
seguì le tracce lasciate, lanciandosi
all’inseguimento, la mano sinistra intorno alla bacchetta e
la destra pronta sul pomolo della daga. Improvvise le urla ripresero,
sembrava che si fossero fermati, il Mago pronunciò un
incantesimo silenzioso, per attutire il suono dei suoi passi nella
boscaglia. Fu rapido, troppo: quando, di corsa, lasciò il
sentiero tracciato per immergersi nella boscaglia più fitta
e il bosco si aprì all’improvviso sullo strapiombo
sotto di lui, riuscì a non precipitare di sotto solo per
miracolo. Trattenne un urlo di terrore quando i piedi slittarono sul
terreno viscido, trascinandolo a terra. Veloce, con la forza della
disperazione, aveva intrecciato la bacchetta a un groviglio di
rampicanti ma con la coda dell’occhio aveva visto le sottili
radici sfilarsi dal terreno velocemente, una dopo l’altra.
Allora, mentre ondeggiava pericolosamente nel vuoto con le gambe e
buona parte del busto, sguainò la daga e con tutta la forza
e il fiato che gli restavano scattò e fece ruotare il
braccio, conficcando profondamente la lama nel terreno. Servendosi
della Magia, cercò di aumentare il più possibile
la resistenza e la compattezza del terreno, così che la daga
non si sfilasse, e facendosi forza sulle braccia e sforzando il fiato
fin quasi a sputare i polmoni, riuscì a tirarsi su, al
sicuro. Restò bocconi a terra, per secondi interminabili,
cercando di riprendere fiato, il cuore che pompava così
veloce da fargli temere che stesse per scoppiargli.
Maledetta pioggia!
Fradicio e infreddolito, inzaccherato di fango, esausto, Daghall si
mosse tra gli alberi fino a portarsi a breve distanza dalle voci, si
addossò di schiena contro una quercia, il fiato ancora
corto, appoggiò la testa, non riusciva a vederli ma ora
poteva ascoltare i loro discorsi. Cercò di regolarizzare il
respiro e pregò tra sé che tutto questo non fosse
solo una perdita di tempo.
«Maledetti…
sudicie, immonde bestie! L’avete fatto scappare! È
tutta colpa vostra!»
Daghall scattò subito, attento, riconoscendo una voce umana
tra le grida bellicose degli ibridi.
«Silenzio! La tua razza ha
causato gli orrori di questa notte… Avevate preso un
impegno!»
«Stupidi, stupidi mostri,
lasciatemi! Devo ucciderli! Lasciatemi andare,
immediatamente!»
«Per averci tradito, noi ti
condanniamo, figlio di Daur, a… »
«Ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh»
La freccia attraversò rapida l’aria e
andò a conficcarsi nel quarto posteriore del Centauro
più arretrato: il cerchio degli ibridi vibrò e si
frammentò, sorpresi i Centauri si voltarono, si guardarono
intorno senza capire, finché Daghall uscì dalla
boscaglia, l’arco teso nelle mani, la seconda freccia
già incoccata, pronta per un nuovo lancio, avanzando sicuro
e minaccioso.
«Lasciatelo andare!
Adesso!»
Quattro Centauri si staccarono dal gruppo, andandogli contro, altri due
soccorsero il compagno ferito: Daghall scoccò la seconda
freccia che colpì uno dei quattro assalitori alla zampa
anteriore destra, scoccò altri due dardi di avvertimento
prima di lasciare l’arco ed estrarre la daga, tenendo intanto
la bacchetta nella mano destra e lanciando incantesimi a terra per far
arretrare gli ibridi.
«Fermatevi! Adesso! Lasciate
il ragazzo a me! Ora! Fermatevi vi ho detto!»
Non ottenne risultato: il suo sguardo spaziò nella luce
livida del mattino e vide il figlio maggiore di Sheira vicinissimo al
baratro, era ferito, aveva una freccia ancora piantata sul braccio
destro e la lunga catena di una mazza chiodata dei Babbani gli teneva
strette le mani dietro la schiena, il volto era pieno di lividi e
graffi, sanguinava copiosamente da uno zigomo. Nonostante tutto questo,
lottava come una tigre per liberarsi dalla presa del suo carceriere al
punto che, approfittando della confusione creata da Daghall, con uno
strattone, riuscì a liberarsi e a scappare tra gli alberi.
«Prendetelo!»
«Lasciatelo andare!»
I tre Centauri rimasti furono addosso a Daghall,
s’impennarono e cercarono di caricarlo con gli zoccoli da tre
diverse angolazioni, il Mago lanciò un incantesimo che
mirava a sbilanciarli, uno dei tre cadde all’indietro,
Daghall colpì ancora e l’ibrido si
ritrovò con una zampa rotta, annaspava disperatamente,
cercando, invano, di rimettersi in piedi. Il Mago sentì un
sibilo, si acquattò all’ultimo istante, in tempo
per non farsi centrare alla tempia: con la coda dell’occhio
vide avvicinarsi da sinistra un’altra decina di Centauri,
pronti, con archi e frecce, alcuni avevano anche delle spade strappate
ai Babbani, li vide caricare e slanciarglisi addosso. Daghall
puntò la bacchetta davanti a sé, i Centauri si
disposero in un ampio cerchio per aumentare la superficie che avrebbe
dovuto colpire, il Mago, però, a sorpresa, levò
la mano a destra e il Centauro che gli era più vicino si
ritrovò a scalciare a terra, avvinghiato da rampicanti che
gli serrarono con forza le braccia e le zampe. Apertosi un varco con
l’astuzia, Daghall corse in quella direzione, non solo per
fuggire ma anche per vedere cosa ne fosse del figlio della Strega.
Dietro di lui, sentì gli zoccoli scalpicciare
all’inseguimento: Daghall iniziava a essere stanco della loro
ostinazione, non aveva intenzione di battersi e non poteva perdere
altro tempo con loro. Levò la bacchetta, a destra e a
sinistra, e una ventina di rami si staccò dagli alberi e
crollò a terra, creando una barriera di legna alle sue
spalle, non prima di aver colpito e tramortito un buon numero di
Centauri. Daghall continuò a correre, lasciando dietro di
sé la boscaglia scossa dalle urla degli ibridi feriti. Era
riuscito a rallentare il grosso degli inseguitori e aumentato il
vantaggio, ma altri Centauri, che prima inseguivano solo il ragazzo,
ora si erano messi sulla sua scia.
Questo significa che, per lo meno, sto
andando ancora nella direzione giusta…
Fece altre due volte lo scherzo dei rami, ma gli ibridi non erano
più impreparati, ora si muovevano zigzagando e non erano
più ammassati ma disposti ad ampio raggio dietro di lui,
sempre più vicini, rassicurati anche dal fatto che i suoi
attacchi mirassero a rallentarli ma non a ucciderli.
Voi invece sareste pronti a gettarmi di
sotto, se riusciste a mettermi le mani addosso…
Sentì altre urla, davanti a sé, cercò
di fare più in fretta, il ragazzo era stato raggiunto:
legato, privo di forze, ferito, forse il figlio di Sheira non riusciva
a concentrarsi abbastanza da evocare la sua Magia e difendersi. Non
poteva lasciare che lo prendessero e gli facessero del male, era
ciò che restava della famiglia del Venerabile,
l’unico che forse sapesse qualcosa su Habarcat e il bambino.
Daghall prese la sua decisione, sospirò profondamente,
abbassò gli occhi a terra, poi si fermò, si
voltò e si limitò ad alzare la mano, mentre la
sua bocca si contorceva in un ghigno strano e la sua lingua recitava un
incantesimo oscuro: i Centauri che lo inseguivano crollarono a terra,
le loro zampe sembravano non contenere più ossa in grado di
sorreggere il loro peso. Uno di loro, annaspando, nonostante tutto
riuscì a tendere l’arco e incoccare la freccia,
tirò e per poco non prese in pieno il Mago, ferendolo di
striscio al collo: Daghall li credeva ormai incapaci di reagire, invece
sentì il sangue fluirgli caldo sul collo e la vista
annebbiarsi, sollevò la mano e la portò poco
sotto la Runa, incredulo la ritirò intrisa di sangue. Il
Mago alzò di nuovo la mano e i Centauri stavolta persero
anche il controllo delle proprie braccia. Poi si avvicinò
all’ibrido che l’aveva ferito, quello
iniziò ad agitarsi, minacciandolo, ma Daghall rimase
impassibile, lo prese per i capelli con la sinistra e lo
sollevò un poco, esponendo per bene il collo, quindi gli
fece scivolare lentamente la lama da sinistra a destra sulla gola, in
profondità, inzuppandosi da capo a piedi del sangue della
bestia, fino a rimanere con la sua testa in mano, sotto gli occhi
terrorizzati degli altri Centauri, increduli davanti a quella morte
improvvisa e insensata.
«Al tramonto avrebbe
recuperato l’uso dei propri arti, come tutti voi…
Siete stai voi, è stato lui, a costringermi... »
Si voltò, riprese a correre, voleva raggiungere il ragazzo e
salvarlo: dietro di lui, la foresta si riempì dei pianti e
delle maledizioni dei Centauri. Piangevano Magorian, primogenito di
Banrigh.
*
«… Non intendo essere la mano del
“vostro Destino”, Padraig… Ho fatto un
giuramento! Qualsiasi cosa vada contro la volontà del
Venerabile… è un vile tradimento!»
«Tradimento… se non erro, è usanza
della tua gente, dico bene? Per questo sei orfano... perché
da voi i fratelli tradiscono i fratelli, i figli i padri... Se stessi
ordendo un complotto, pensi che potrei affidarmi a un uomo come te, che
ha il tradimento nel sangue, Daghall? Non sono così sciocco:
ti farei controllare dai miei uomini o ti farei tagliare la gola nel
sonno. Invece, poiché ho a cuore la Confraternita e la buona
riuscita della missione, intendo aiutarti… iniziando col
ridarti questa… »
Padraig aveva scostato
un lembo del mantello e dall'ampia tunica aveva estratto una bacchetta
di ebano. Il Nero aveva sentito il proprio respiro sospendersi, il
cuore accelerare, la testa turbinare, aveva fissato con desiderio la
superficie lucida del bastoncino: dopo dieci anni rivedeva la bacchetta
che gli aveva donato suo padre al compimento degli undici anni, unico
ricordo della sua infanzia, oltre a Heliantòs, con cui era
fuggito dal suo Kernow. Aveva sentito risuonare nelle orecchie la voce
di Attius, mentre lo spingeva sull'Ippogrifo e gli stringeva la
bacchetta tra le dita.
“Mai, per nessun motivo, dovrai permettere a qualcuno di
privarti della tua bacchetta!”
“Farò ogni cosa in mio potere, per difendere la
bacchetta di mio padre, Attius, lo giuro!”
Daghall credeva di
averla persa in volo, di non aver saputo mantenere neppure quella,
insieme a tante altre promesse fatte a suo padre. Aveva pianto tutte le
sue lacrime, per quella bacchetta, perderla era stato rivivere lo
strazio del suo popolo. Il senso di colpa gli aveva tolto il sonno e
gli incubi l'avevano perseguitato. Tutto questo era durato anni. E
Padraig… Padraig sapeva tutto... era responsabile di
tutto...
«Maledetto, sporco ladro! Come hai potuto…
come… »
«Ho viaggiato, straniero, so quanto valore hanno questi
stupidi pezzi di legno per quelli come te. Io ti renderò la
Bacchetta e tu farai quello che ti ho chiesto, così la voce
di tuo padre smetterà di tormentarti, accusandoti di aver
dimenticato chi sei e il suo nome… »
«Voi siete un pazzo, Padraig… Io non sono in
vendita!»
«Molto bene... chiederò a qualcun altro di
aiutarmi, allora… Se è questo ciò che
vuoi... »
Padraig aveva preso la
bacchetta con entrambe le mani, aveva premuto i pollici al centro,
Daghall l’aveva vista incurvarsi sempre più,
pericolosamente: non poteva pensare, figurarsi vedere l'unica
eredità di suo padre ridotta in pezzi, sarebbe stato peggio
di una pugnalata al cuore. Così, quando non aveva ancora
deciso come comportarsi, aveva sentito la propria voce supplicare
“Non fatelo!” e la sua mano era corsa a strappare
il legno dalle mani del Saggio: il bastardo l’aveva deriso,
vittorioso, certo di averlo piegato. Daghall aveva guardato l'ebano
lucido tra le sue dita: la bacchetta, nelle sue mani di adulto, non
sembrava più tanto grande e imperiosa. Non sembrava
più nemmeno la stessa. Era lei, però. Era lei:
gli fu sufficiente stringerla nel pugno, per sentire la forza che
ricordava, quell'unione perfetta e unica che lega un Mago al legno che
l'ha scelto.
«Sapevo che avresti fatto la cosa giusta… tutti
hanno un prezzo e tu non sei diverso dagli altri. Prenderai il bambino,
gli farai portar via la Fiamma e sistemerai tutto, come va fatto!
Portamelo alla spiaggia, ti aspetterò fino al tramonto. Non
qui, hai capito? Alla spiaggia… E se stessi pensando di fare
il furbo, straniero, se pensassi di svignartela… ricorda che
mi occupo io del Venerabile e che a un uomo di
quell’età, così debole e anziano,
può facilmente capitare di tutto…»
Daghall aveva stretto
forte la bacchetta, la rabbia stava montando in lui con violenza;
presto gli sarebbe saltato alla gola, senza curarsi più
delle conseguenze delle proprie azioni. Si conosceva.
«Anche a te può capitare qualcosa di grave,
Padraig, di molto grave. Lo sai, vero?»
«Lo so. È per questo che ringrazio gli dei di
dover provvedere solo a me stesso, al contrario di…
altri… Conosco i tuoi segreti e le tue debolezze, figlio di
Zennor… sai… Padraig di Árd Macha non
taglia mai la gola a un uomo se… può tenerlo
saldamente per le palle… Ahahahah… »
***
«È ancora molto
lontano?»
«No, mio signore, siamo quasi
arrivati… ora scenderemo questo scoglio a forma di cresta e
saremo a destinazione… »
Avevano superato il varco nella roccia almeno un paio di ore prima e
continuavano a camminare, in un saliscendi di scogli più o
meno scivolosi e ampi tratti di spiaggia. A un certo punto, Daghall era
persino entrato in una specie di grotta semi sommersa e ne era uscito
con una macilenta barchetta, l’aveva aiutato a salire e aveva
vogato per un tempo infinito. Cuilén era stato buono e
tranquillo a osservarlo, ad ammirare i pesci che nuotavano vicino alla
superficie, e soprattutto lo scenario che aveva di fronte, irte
scogliere che si tuffavano in mare e ampie spiagge più o
meno sabbiose e ricche d’insenature e grotte. Quando Daghall
aveva portato a terra la barca, aveva puntato la bacchetta e quella era
scomparsa, poi si erano incamminati, stavolta raggiungendo la boscaglia
e percorrendo un ampio tratto nella frescura prima di ridiscendere
lungo la scogliera.
«Non potevamo volare fin qua,
con Heliantòs?»
«Ci sono le vedette e gli
incantesimi, sulle alture. Non volevo che ci vedessero
arrivare… »
«Perché? E chi
è che vuole conoscermi?»
«Tutti vi vogliono conoscere,
mio signore… qualcuno ha più fretta di
altri… »
Cuilén lo guardò senza capire e
continuò a camminare, sbuffando per il male a un piede.
«Voglio la mia
mamma… »
«Lo so… tra poco
arriveremo… Ascoltatemi, mio signore… mi
raccomando ancora una volta… vi ho detto cosa vorrei che
faceste quando saremo arrivati: è importante…
»
«Non devo parlare…
devo far finta di avere sonno… tanto sonno…
»
«Esatto… non dite
di Heliantòs, dei giochi con l’acqua e della
piccola spiaggetta… »
«Va bene… ma
perché?»
«Perché…
quello è un posto segreto, mio signore… un
segreto tra voi e me… se mi promettete di non dire nulla, io
vi porterò ancora laggiù, ogni volta che lo
vorrete… vi farò volare sul mare, in groppa a
Heliantòs e v’insegnerò tutto
ciò che vorrete… tutto… »
«Allora… io non
dico niente, così poi torniamo… domani! E
portiamo anche Dòmnhall!»
Daghall abbassò gli occhi e bofonchiò piano.
« Forse già domani,
sì... »
Il bambino si lanciò contro le gambe del Mago, felice, poi
tranquillo e speranzoso, gli diede la mano e scese ancora con lui tra
gli scogli, fino a raggiungere un ultimo masso dietro al quale si
apriva una profonda insenatura: lì la spiaggia era grande e
sabbiosa, si estendeva a perdita d’occhio, per un ampio
tratto pianeggiante, circondata dalla boscaglia. Cuilén
pensò che lì sarebbe stato bellissimo costruire i
castelli con Dòmnhall, quando aveva tempo, suo fratello
riusciva a costruire con la poca sabbia del fiume delle forme
bellissime, se avesse avuto in mano quella sabbia così
fine…
«Bentornato,
Daghall… Ti aspettavo, impaziente... »
Il bambino si schermò gli occhi, il sole era quasi
all’altezza della sua faccia, ormai, e non riusciva a vedere
bene di chi fosse la voce che aveva chiamato il suo
“salvatore”; nel punto estremo della spiaggia, a
ridosso della scogliera e degli alberi, c’era una specie di
catapecchia fatta di tronchi d'albero trascinati a riva dal mare e
cortecce intrecciate. In piedi, accanto all’uscio, simile a
un tronco pallido, c’era un uomo, avvolto in un mantello
scuro, il cappuccio tirato su, a celare in buona parte la faccia.
Seduta a terra, una donna sdentata, dai capelli gialli e scarmigliati e
gli occhi vacui, tipici dell'età avanzata, stava rimestando
qualcosa dal fetido odore dentro un calderone.
«Molto bene,
Daghall… ora avvicinatevi… e digli di
consegnarmi la Fiamma… »
*continua*
NdA:
1) Kernow: è l'antico nome cornico del Cornwall, o
Cornovaglia se preferite. Tutti i nomi cercano di rispettare le
provenienze geografiche, così ci sono nomi Irlandesi per i
personaggi irlandesi, scozzesi per gli scozzesi e cornici per quelli
della Cornovaglia. Più avanti vedrete dei nomi di origine
"latina": ho immaginato che, anche nelle famiglie nobili magiche, non
solo in quelle Babbane, nel pieno Medioevo, ci fosse ancora l'usanza di
dare ai figli i nomi dei propri antenati.
2) Árd Macha: è il nome gaelico di Armagh, una
cittadina dell'Irlanda del Nord, nota agli amanti di Merlin come
città natale di Colin Morgan, interprete del giovane Mago...
3-4-5) Pietre Veggenti, Sorgente e "unico ramo" sono tre richiami alla
storia madre, That Love: le Pietre Veggenti sono citate
spesso da Alshain Sherton come strumento di cui la sua famiglia si
è servita e si serve per interpretare i segni e potenziare
le abilità divinatorie in quei componenti della famiglia che
son portati per la Divinazione, già ai tempi di Salazar, gli
antenati degli Sherton possedevano questo strumento; la Sorgente
è, come dice il nome, una fonte di acqua: la prima volta
appare in un sogno di Alshain e sappiamo che le sue acque sono
considerate "sacre" dalla Confraternita. Infine qui abbiamo il primo
cenno della condanna "dell'unico ramo": la famiglia Sherton
è sempre riuscita a salvarsi, nel corso della storia,
generazione dopo generazione, dinanzi a ogni tipo di
avversità, ma il prezzo da pagare è sempre stato
una profonda "solitudine", non sono mai stati una famiglia numerosa e a
ogni generazione, a portare avanti il nome e il sangue, è
rimasto sempre e soltanto un unico figlio.
6-7-8) Sheira e Cormacc, Eoghan, Lugh: La storia di Sheira e Cormacc e
altre info su personaggi e vicende si trova in
questo capitolo.
9-10) L'uomo decapitato è Áed, signore di Glower,
e l'uomo attaccato dai serpenti il suo scudiero Kenneth.
Ringrazio tutti per letture e commenti. A presto.
Valeria
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