Vogliamo esulare da un’ardita quanto dolorosa ma sincera constatazione, il pensiero fisso di qualcuno che legge e comprende di chi invece si rifiuta di farlo?
Iniziamo allora da qualcosa di semplice, di sodato.
“Do you know, darling? When you became involved with others you quite possibly stepped down a level or two, but if you
become involved with me, you will be throwing yourself into the abyss.”
-Kafka, Letters to Milena.
Kafka ci viene in aiuto, lo ha sempre fatto in ogni caso, anche quando era non richiesto. E’ stato un profeta ed è stato spietato, ha letto nelle pagine della sua vita qualcosa che sarebbe stato destinato a ripetersi una, due, mille volte, anche se ora è una in particolare quella che ci interessa, quella su cui ci si deve focalizzare. Abbiamo detto di accantonare per un attimo il core dell’intera vicenda, di osservare per una volta le periferie piuttosto che il centro, fochettare con la lente verso l’angolo più angusto del campo per mettere a fuoco il dettaglio. Questo è corretto, ma non bisogna comunque dimenticare il contesto, la necessità di considerare tutto nel suo insieme per comprenderne a pieno il significato.
Focalizziamo l’attenzione sul campione #12, su di Alexandra Wesker. Esuliamo dal fatto che il cuore di tutto sia Albert: osserviamo il distretto periferico, la conseguenza di un legame tanto forte e indissolubile, l’abisso. Ecco che interviene Kafka, che ci dice che non è il punto occuparsi del pattern esterno, potrà esserci stato un certo trend di contaminazione dal momento che si è scelto di confrontarsi con gli altri, ma il vero crollo è da ricercare all’interno, a ciò che si ha di più caro. Alex si è strappata perché la forbice weskeriana l’ha concesso, da parte sua questa volta, non di Albert.
Possiamo considerare Albert ed essere sicuri di affibigliarli la colpa, in fondo è lui che ha voluto intraprendere la via del villain; eppure ne risulterebbe un’analisi incompleta: dopotutto, se una pestilenza esiste è perché qualcuno è pronto a farsi contagiare. Il vero problema è Alex, qui. Una donna che si è lasciata travolgere dalla corrente, pesce fuor d’acqua all’ora della bassa marea; Alex non ha fatto nulla per vincere nel corso della sua vita, quando il destino ha strappato il tributo non ha scelto di andare avanti insieme al resto del mondo, si è accasciata e ha deciso di lasciarsi morire. Alex è stata debole.
Eppure, come già detto, prima di elargire sentenze bisogna necessariamente contestualizzare. Sì, una donna è colpevole e reiteratrice di debolezza perché ha perso ogni cosa per cui fosse richiesto lottare: Alex ha perso Albert, ed è questa la frase in chiave della storia altrimenti non staremmo nemmeno qui a parlarne, non sarebbe nemmeno una disgraziata degna di clemenza se non si trattasse di un amore imperituro bruciato in un vulcano o sulla cima di una torre, che dir si voglia. Stiamo nuovamente tornando al nucleo da cui dovevamo esulare perché è così tanto ovvio che non serve che stia io qui a raccontarlo: è già tutto scritto nei gesti, nelle parole, nelle espressioni di persone che vivono perché sono costrette a farlo, senza possibilità -o volontà- di morire, e che hanno trovato il modo di raggiungere la massima perfezione a loro concessa in una vita l’uno accanto all’altra.
Non esistono prove a sostegno della donna incriminata, nessun alibi: tutto è andato perduto nel ventre della terra e i suoi resti, violati nel fuoco della torre. Non ci sono ossa da recuperare, qualcosa le ha già trafugate, qualcosa di oscuro. Non c’è pace per una donna come Alex, che inverte il significato di vita come siamo considerati a conoscerlo e decide di fuggire dalla morte tramite la morte: il suo biglietto, la sua sopravvivenza, stracciati da un virus infido, dalla figura di un controllore che multa il passeggero dal biglietto contraffatto. Luce lampeggiante, qualcosa non va; luce rossa, fine della corsa. O inizio di una nuova gara, dipende sempre dal punto di vista -non bisogna farsi ingannare.
E’ peggio di un ergastolo la condanna di Alex, un “fine pena mai” ai lavori forzati, in tutta solitudine. Cent’anni o più di solitudine.
“Vuoi forse occupare la mia mente invece che quella della ragazzina? L’ho già fatto, Albert, l’ho già fatto.”
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“Mi sento così sola”
Quanta lontananza. E quanta tristezza.
Quale giudice può additare una donna e infangarla col nome di mostro quando è la solitudine che sta uccidendo quel mostro, quando sono stati i ricordi felici che lo hanno reso ciò che è, quando parla da sola, di notte, a uno specchio che somiglia così tanto all’uomo che ama. La verità è che non c’è mai stata giustizia per Alex Wesker, è questo il riassunto della sentenza. Giochiamo a sconfiggere il mostro, a ferirlo con spade e fucili, ma davvero non ci accorgiamo di come non ce ne sia bisogno, di come il suo povero corpo sia già martoriato da graffi e bruciature che esso stesso si è inferto, ricordando il passato e odiando il presente. Non rimane nulla a questa donna che striscia ai piedi del trono che avrebbe dovuto dominare, la più lurida e schifosa dei mendicanti che nemmeno da lontano vorremmo vedere, tantomeno incontrare, con cui proveremmo ribrezzo perfino a condividere l’aria per paura di diventare come lei… quando prima avremmo tremato al suo cospetto, l’avremmo riverita e benedetta nella sua infinita potenza, bestemmiata nell'invidia, temuta nel nostro infinito terrore. Ma chi è qui, il mostro?
Voglia di amare, solitudine, tristezza, felicità: potrei uscire e chiedere a chiunque di classificare queste espressioni e non avrei alcun dubbio che il loro pensiero andrebbe automaticamente a descriverle come umane; eppure noi sappiamo che appartengono a un mostro. Non ci resta allora che affermare, con grande sorpresa, che Alexandra Wesker mostro non è mai stata più umana, che le sue lacrime orripilanti sono tanto belle e sincere quanto quelle della donna elegante e bellissima che fino a poco tempo prima lo portava nascosto dentro, quel mostro. Finché è stata Era, tutti l’hanno venerata; quando si è rivelata Eris l’hanno bestemmiata; infine, quando è decaduta a gorgone, l’hanno insultata, derisa, uccisa. Tutti, tranne un uomo: quello che di giorno la accompagna e le sta accanto, quello che di notte l’abbraccia e la bacia perché vede con gli occhi del cuore la donna che piange dietro la maschera, la donna che ama e che muore e risorge per lui. Poco importa dunque che siano due persone che si fanno chiamare Wesker: per una volta, lasciamoli liberi da questa maledizione e consideriamoli per quello che sono, Albert e Alex, un uomo e una donna malati e innamorati, perfetti nella loro imperfezione che permette loro di evolvere e fortificarsi, metamorfosare in ciò che non sono mai potuti essere. Come il brutto anatroccolo che con un bacio diventa il più bello dei cigni.
“I’m thinking only of my illness and my health, though both, the first as well as the second, are you.”
-Kafka, Letters to Milena. (Recensione modificata il 21/01/2017 - 11:35 am) |