In clamoroso ritardo, ma giungo anche io a lasciarti un commentino su questo primo capitolo, che definire bellissimo è davvero riduttivo e svogliato. E sapere che questo racconto è (anche) colpa mia, mi rende felicissima (mi hanno accusato di tutto, pure del buco dell'Ozono. Che si è richiuso da sé, tiè) e mi ripaga di una serie di sfighe e sfighette con cui l'anno scorso ha deciso di congedarsi (che fai, nun te ne vai cor botto, signò?!) e con cui quello appena entrato ha dato prova di come saranno i mesi a seguire (e che vogliamo essere da meno di chi ci ha preceduti? Poi facciamo la figura dei peracottari...).
Ai matti, ai rimbambiti e agli squinternati si dà sempre ragione, ma alle volte basta solo una spintarella piccina picciò per fare quello che ci siamo ripromessi di cominciare da un po'. E sono felicissima che l'hanafuda sia stata la quadratura di un cerchio (ricordami che dovremo giocare una partita, prima o poi!). E la Boccia dei Pesci Rossi non è un cerchio, se osservata tramite proiezione ortogonale?
Come sai, e come ho avuto modo di anticiparti in separata sede, la sottoscritta ha una fissa: l'etimologia, specie quella onomastica. L'idea che i nomi siano a modo loro parlanti mi intriga da matti e posso ingarellarmi (termine tecnico, da utilizzarsi solo ed esclusivamente in forma riflessiva) ad libitum sul significato che il nome X ha perché le sue radici sono nella parola Y che significa Z.
Quindi, come potrai intuire, al di là della bellezza della tua prosa e delle scene tanto incisive quanto delicate che tu ci hai mostrato in questo primo capitolo (mi è sembrato di pattinare sul ghiaccio come avrebbe potuto fare Evgenij Pljuščenko, ed io sono negata. Senza appello.), sono impazzita appresso all'onomastica da te scelta.
I nomi che dici, che chiami ad alta voce, sono tre e tutti di donna.
Sara (senza h?) per Shaina merita un roboante "sì", con pletora di punti esclamativi al seguito, perché, per riprendere le tue stesse parole, Shaina ha da essere più ebrea di Giuda. E perché Sarah significa sì principessa, ma prima che l'Onnipotente le cambiasse nome, la moglie di Abramo si chiamava Saray, che significa litigiosa. Nome che calza a pennello alla nostra serpentina che guarda tutti dall'alto in basso e che non fa mistero di voler attaccare briga con Marin, anche solo ricordandole che lei è la xenia, la straniera. Con buona pace del concetto stesso di xenia che qui al santuario sembrerebbe esssere stato messo in soffitta a prendere polvere.
Irini, che addita Aiolia a Kyoko e che le confessa come le colpe dei fratelli siano alle volte più pesanti ed annichilenti di quelle dei padri - tanto per mettere le cose in chiaro: non c'è pace tra gli ulivi -, significa "pace", appunto, ed è triste ed al contempo bellissimo vedere come la pace muoia. Sì, ci sarà scappato il morto, prima o poi, e per le ragioni più stupide: se ci pensiamo, morire per un graffio con un chiodo arrugginito è roba da Ottocento, prime decadi del Novecento. Ma i nostri Santi non campano in un contesto atemporale, dove anche le malattie continuano a farla da padrone e dove non credo ci si preoccupi di fare il richiamo per l'antitetanica?
Sì, ci sarà scappato il morto, strada facendo,, ché altrimenti l'addestramento disumano a cui si sottopongono i Santi non sarebbe tale. E sì, loro saranno pure guerrieri della Speranza, ma non puoi sperare di combattere per la pace, è come fottere per la verginità, diceva John Lennon (sempre se il mio cervello non si è rimbambito del tutto). Se combatti, uccidi la pace.
E poi c'è lei, la nostra protagonista dalla maschera bianca. Kyoko.
Ora, poiché il giapponese è una lingua piena di omofoni, una data emissione di fiato (una combriccola di due sillabe, in questo caso) la puoi scrivere in mille modi diversi ed avere altrettanti esiti differenti. Matsu significa tanto pino se lo scrivi così (松), quanto aspettare se usi quest'altro ideogramma (待つ), e sorvoliamo sul fatto che i nomi, specie quelli femminilli, li si può scrivere anche con il sillabario hiragana (recentemente pure con il katakana), tanto per semplificarsi la vita...
Così, dicevo, il nome Kyoko, per me, si scrive generalmente con il kanji 響子, la cui prima parte significa "rispettosa" e la seconda "ragazza". (Come Kyoko Otonashi, hai presente?) Al massimo, arrivo a 杏子, albicocca, ma siccome nessuno dei due significati pareva calzare a pennello alla nostra Marinella, mi sono messa a scartabellare l'elenco dei modi con cui si può scrivere il "Kyo", e non ti dico la folgorazione di quando ho visto che si può utilizzare il kanji di specchio, kagami (鏡)! Perché sì, non poteva essere altro che uno specchio il nomen omen della nostra Aquilotta, (e tu ci hai dato un indizio nella stesura del capitolo, ché tutto ciò che vediamo succedere è mostrato attraverso Marin, più che attraverso i suoi occhi, come se lei fosse una sorta di finestra sul mondo che la circonda, ma come se fosse anche uno specchio su cui si riflette l'indole altrui. Aphrodite compreso.
Chapeau per aver pensato a questo escamotage e per averlo reso funzionale, dando un senso a quella maschera bianca.
Insomma, io sono qui che ne chiedo ancora, un bis, un tris e anche un quater. Senza ritegno e senza decenza, ché difficilmente capita di imbattersi in qualcosa di tanto delicato che racconta, però, di sangue e merda, letteralmente. La descrizione del menarca della piccola Kyoko è tanto delicato quanto incisivo; non credo di ricordare descrizioni tanti eleganti quanto incisive, ed è un grandissimo pregio che ti invidio sinceramente. In un'epoca in cui si rincorre il crudo e l'esplicito a tutti i costi, questo capitolo dimostra come si possono dire tante - tantissime -cose senza scadere nella mera elencazione anatomica o nello spalmare il sangue e la merda in faccia al lettore.
Ci sono. Esistono. Sono fatti della vita, così come le rose e la rugiada; ma la vera penna, quella capace, non ha bisogno di nominare - di gridare a gran voce - sangue e merda e un'altra mezza chilata di aspetti poco piacevoli. Li dice, li nomina, se e quando sarà il caso, ma lasciandoti sentire il loro afrore. Che s'instrada nel tuo cervello più di quanto possano fare delle chiazze d'umore buttate alla rinfusa, ché alla fine nemmeno ci fai più caso.
Aspetto con ansia il prossimo capitolo.
No, non è una minaccia, ma una promessa. |