Io non sono una persona che ama le attese – non quando sono imposte dai ritmi altrui, almeno, perché se sono io a dettare i tempi: ah, quanto cambiano le cose allora!
Tuttavia alle volte aspettare vale proprio la pena: lasciami dire che tu rientri a pieno titolo nell’insieme di ciò che è giusto attendere. Avrai i tuoi tempi (biblici quanto vuoi) ma se quello che alla fine restituisci è questo, Cristo, prenditi tutti i mesi che ti servono (scherzo, non prendermi alla lettera…)!
C’è un ritmo in questo capitolo che mi ha fatta impazzire; anzi, “ritmo” al singolare non funziona in quanto si tratta di “andamenti ritmici”. Si parte con un movimento sostenuto per inquadrare chi sia Ed e chi è la persona a cui sta confessando un amore ubriaco (io ho adorato questa prima scena; letteralmente adorato per la ragione che, in realtà, abbraccia il capitolo nella sua interezza e che esporrò alla fine); poi il tempo si arresta e si dilata nella scena del bagno; una nuova sferzata sveglia e scuote il lettore non appena esce assieme a Beth dall’edificio e il sospetto di un’ulteriore presenza, oltre a quelle dichiarate, si affaccia; e, infine, ecco che torna disteso, senza smanie, quando ci ritroviamo ad accompagnare Crowley, sano e salvo, a Mayfair assieme alla nostra cara ragazza. Dosi tutto sempre con estrema sapienza: attese e rivelazioni, dissemini enigmi e, nell’esatto momento in cui necessitano risoluzione, dai le risposte. Mai troppo presto, mai troppo tardi: solo nel momento squisitamente perfetto (a livello narrativo, s’intende, lasciando lo “spettatore” – e uso questo termine perché chi legge le tue scene VEDE i personaggi e i loro ambienti – avvinghiato fino all’ultima parola senza che sopraggiunga noia o frustrazione).
Cosa mi fa impazzire, cosa ho adorato? Il ritratto della normalità, della quotidianità di una vita apparentemente misera (e di una professione che i più vorrebbero penosa, ma poi, se è una scelta ed è regolamentata, perché mai…?). Il ritratto di una Beth alle prese con un’esistenza (fino ad ora) anonima, e il momento nel bagno assieme all’amica e alle colleghe (il mio preferito per la sua autenticità e dichiarata normalità) elevato ad arte. Mi ha ricordato, per la sua “superfluità” (tra mille virgolette sarcastiche), la celeberrima scena del risveglio della servetta Maria in “Umberto D.” (grande film neorealista, che non so se hai mai visto, diretto dall’immenso Vittorio De Sica) su cui molto la critica cinematografica ha scritto a suo tempo e continua a scrivere tutt’oggi: l’affresco di un momento banale, comune, “inutile”. E vero. Vero come è la tua scrittura; veri come sono i tuoi personaggi; vere come sono le situazioni in cui li cali; veri come sono i loro sentimenti, i loro dubbi, le loro forze e le loro fragilità. E, perdonami davvero, per un’amante della Verità sopra ogni atra cosa, per una che si batterà sempre ogni giorno un po’ di più per dar diritto di cittadinanza all’onestà di un vivere comune, alla poeticità del (almeno in apparenza) non-poetico, che condanna gli strilloni, gli imbonitori, le metafore inutili, i pietismi e quant’altro, trovare la mia intera filosofia esistenziale nella tua scrittura è un regalo per cui non posso che dirti grazie. Umilmente, chinando il capo, in un sussurro – ché a urlare c’è tanta gente e noi parliamo piano, per chi sa e vuole ascoltare.
Sei brava. Brava in modo raro.
“Perché erano state ogni cosa, eppure non erano mai state niente di più”: su questa frase ci potrei scrivere un romanzo intero… Immensa. |