ciuri di gersuminu rampicanti
si tu di notti a mia cantari senti
nun cantu n'e' p'amuri n'e' p'amanti
ma cantu pi vagarimi la menti
Sì, sì, sì, sì!
Dire che ho amato questa storia dalle prime righe è riduttivo. Confesso, con le guance arrossate, che è stato quel nome, Kalevi, dal profumo di pino e neve a prendermi per mano e trascinarmi fuori, in una notte troppo umida e troppo caotica per sembrare una notte d’inverno. E ho seguito Angelo a ritroso nella sua infanzia, giù per i qanat, dentro a quel pozzo con il Sole e l’odore di limoni, di fiori lasciati a marcire, di zagare e liquirizia, e sale e mare e sangue. E mi è piaciuto perdermi nella ragnatela intricata dei suoi ricordi, stretti ed ammonticchiati come i vicoli di Palermo, alla ricerca di un tempo perduto fatto di processioni, medagliette al collo e la bocca piena di limoni verdi. E le sue risate. Quelle del monello scapigliato, con le ginocchia e i gomiti pieni di graffi che azzeccava i morti alla Zisa, e quelle del guerriero, bastardo e infame, che rideva davanti alle sue vittime. Per dimostrare loro di essere un gatto che gioca con il topo, certo. Ed il riso amaro, quello di chi ha qualche conto in sospeso con qualcuno che puzza di zolfo e whiskey torbato.
E la redenzione, che passa per gli occhi dolci di una ragazza. Il bello, il capolavoro, sta qui. Nella redenzione e nel perdono che Athena dona al suo Santo, forse al più problematico di tutti e dodici i suoi guerrieri della casta più alta. Non c’è sangue versato né teneri agnelli immolati ad una Volontà superiore, come insegnava, probabilmente, don Bastiano lanciando strali dal pulpito la domenica mattina alla messa delle dieci. C’è un umanissimo perdono, così puro e assoluto e difficile da mettere in pratica per noi miseri mortali, che ha la stessa forza dell’evangelico porgere l’altra guancia. E la stessa divina salvezza.
Fortissimo è anche Kalevi, quel bambino piccolo che ti guardava con il nasino all’insù e sbatteva i piedi se non lo stavi a sentire. Quel bambino che aveva in sé un altro mare, un altro odore e un'altra costa, ma che era fatto di terra e mare, proprio come lui. Un bambino che sarebbe dovuto durare due giorni, ed invece aveva sbaragliato le più fosche previsioni, come l’onda che torna e ritorna sulla battigia, in eterno battere e levare. Un ragazzo tanto bello quanto impossibile e quanto paziente, che i entra dentro, piano piano, col suo persistente profumo di rose, che quando te ne accorgi lui è già parte di te, ed è impossibile cancellarlo via, come una scritta col gesso sull'ardesia di una lavagna.
La tua storia è uno spaccato vero e verace sull’amicizia, e ci fa vedere, senza troppi giri di parole, che l’amicizia è scegliersi, riconoscersi simili tra la massa; e poco importa se si nasce a latitudini diverse, o si è uno gatto e l’altro topo. Ci si riconosce. Ed è questo quello che conta, in un mondo dove siamo tutti pupi, come Orlando, Gano e Angelica; solo che loro sanno di essere legati ad un filo, noi ci illudiamo di potercene andare liberi per la strade.
Io non so quanto vi sia di vero circa la psicologia di questo personaggio ed il suo rapporto con il riso. Nella mia versione delle cose, lui è sempre stato un bastardo nato così. Bastardo perché sì. Perché come ce lo mostra Kurumada – vigliacco, irascibile, sanguinario e malvagio fino al midollo (e molto, molto stupido) – è difficile credere che ci si trovi davanti all’ennesima anima candida toccata dal male e corrotta. Non ci posso credere. Ho sempre pensato che fosse irrimediabilmente malvagio, solo per il puro gusto di esserlo. Forte col debole e debole col forte, così come solo i vigliacchi sanno essere, e talmente accecato da se stesso e dalla propria forza da non accorgersi di aver tirato troppo la metaforica corda. Ed essersi impiccato con le proprie mani. Perché niente e nessuno mi toglierà mai dalla testa l’idea che non sia stato Shiryu a vincere Mask, quanto che sia stata l’Armatura del Cancro ad averne le tasche piene di lui e ad abbandonarlo al destino che aveva tracciato con le sue stesse mani.
Però? Però quando arriva in scena Manigoldo, un personaggio che parte dagli stessi presupposti di Mask, ma che riesce a trovare una solarità tale che gli permette di scherzare con la morte, lo stesso Kurumada decide di rivelare al mondo che Manigoldo è come sarebbe stato Mask se avesse trovato delle brave persone sul suo cammino. E per una volta, sono d’accordo con lui. Perché di Eric Magnus Lehnsherr ce ne può essere uno. E per quanto sia, Magneto persegue un suo ideale, complesso, articolato e pieno di sfaccettature da risultare credibile e, per alcuni soggetti, condivisibile. Non è il manifesto del sono forte, ergo ti pesto come l’uva.
In Mask, nella versione di Kurumada, tutto questo non c’è. È dato per assodato, dopo venticinque anni di distanza dalla sua prima apparizione. E la tentazione di costruirgli un passato che giustifichi questa sua pazzia, questa sua vigliaccheria c’è, ed è molto forte. Lo capisco. Ma sarebbe snaturare il personaggio, dandogli un odioso alibi a giustificazione delle sue colpe e dei suoi crimini. Ora, per quanto sia forte qualsiasi esperienza Mask abbia potuto provare da ragazzino, fornirgli un alibi è come dire “Povera creatura! Cercate di capirlo, ha ammazzato tutte quelle persone perché da piccolo gli è successo questo, questo e quest’altro.”. Nessun'esperienza traumatica può giustificare le malefatte commesse.
In questa storia, invece, tu non gli dai nessun alibi, nessuno quartiere dove rifugiarsi. Lui ha scelto di essere un sadico. Ci mostri come i suoi piedi si sono mossi con consapevolezza lungo quel percorso. Di propria sponte. Ridendo, pure. Perché lui ama giocare con chi si trova di fronte (ed è più debole di lui, sia chiaro), come farebbe un gatto col topo. Per noia, uggia o divertimento. Per ammazzare il tempo ammazzando il nemico. Perché il nemico che si para dinnanzi a lui non può nulla di fronte alla sua forza, giusto? E allora lui ride. Come fa un padre – o uno zio o un fratello maggiore – quando si azzuffa per gioco con il figlio – il nipote o il fratellino – sul divano di casa.
Ho adorato questa storia e la tua penna, che mi ha regalato una vista privilegiata sul passato e il presente di quest’uomo tanto complicato, e sul suo futuro. Con Kalevi a fargli da paziente contraltare. Un po’ come Franco e Ciccio. |