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Autore: Noth    15/04/2012    15 recensioni
La seconda ipotesi sembrava di gran lunga la più accreditata, ma come aveva fatto a non accorgersi prima che qualcosa non andava?
Perché sei un maledetto egocentrico, Sherlock Holmes, ecco perché.
« Sei stato all’ospedale. » affermò infine, lanciandogli la solita occhiata che stava a significare che lo aveva appena letto come un libro aperto nella pagina più interessante.
« Cos... Com... Oh, Sherlock, dovresti veramente smetterla di farlo. » commentò John, esasperato.
« Fare cosa? » domandò l’altro, confuso.
« Guardarmi come se fossi un cavolo di corpo morto a terra e dovessi trarre le somme di un caso particolarmente difficile. »
Sherlock arricciò il naso e si buttò indietro, appoggiandosi al divano ed apprezzando l’effetto terapeutico del cuscino morbido sulla sua schiena tesa e dolorante.
« Se non lo faccio io chi lo fa? » rispose, e John alzò gli occhi al cielo prima di prendere fiato e continuare.
« Come avrai sicuramente scoperto da qualche insulso dettaglio del mio aspetto fisico che non voglio sapere, sì, sono stato in ospedale... »
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Look After Me.









« John, andiamo, non puoi avere dimenticato dove hai messo i miei cerotti alla nicotina, non sto scherzando, mi servono. »

Sherlock sbraitava nervoso nel salotto disordinato, andando avanti e indietro freneticamente, cercando con lo sguardo una scatola di una delle poche cose di cui non poteva fare a meno se si contavano i cerotti, un buon caso intricato su cui investigare e John.

L’altro lo guardava con aria confusa, sconcertata, sconvolta ed aveva quasi perso quella sua espressione innocente e pacifica che lo aveva sempre caratterizzato.

« No, Sherlock, non sto scherzando. Io... io davvero non me lo ricordo. » disse, grattandosi la testa e guardandosi attorno, come se guardare ancora una volta la stanza avesse potuto fargli tornare in
mente ciò che cercava in una sorta di flash o miracolo.

« Oh, andiamo John, vuoi che mi metta a fumare? Non so nemmeno dove diavolo Mrs Hudson abbia nascosto la mia scorta d’emergenza di... »

« Ti sto dicendo che non me lo ricordo più, cazzo! Fino a ieri lo sapevo, sono sicuro, ma ora non lo so... »

John boccheggiava, tenendosi la testa e concentrandosi meglio, con la sensazione che gli fosse stato rubato qualcosa.

« Ma non è possibile. » sbottò Sherlock, « Tu ti ricordi anche il numero di scarpe di tua sorella, cristo. »

John alzò lo sguardo, fissando Sherlock che capì all’istante quanto non fosse una di quelle situazioni nelle quali si poteva blandamente scherzare o in cui potesse usare la sua pungente ironia. Qualcosa
stava succedendo, e quel qualcosa non sarebbe stato bello.

« Non me lo ricordo. » ripeté l’uomo più basso, sedendosi sulla poltrona ed abbandonandosi sullo schienale mentre si continuava a tenere la testa tra le mani.

Era il caso di alleggerire l’atmosfera troppo tesa, e comunque Sherlock odiava vedere John nervoso. Lo metteva di cattivo umore e lo agitava, il che non faceva bene al suo cervello né alle sue
deduzioni.

« Vorrà dire che andrò a comprarli, va bene? » si sedette sul divano di fronte al compagno e congiunse le mani sopra le ginocchia. Se non fosse stato Sherlock Holmes qualcuno avrebbe potuto dire che
stava pregando.

John scosse la testa, sospirando.

« Non è la prima volta che succede Sherlock. Negli ultimi tempi... è come se mi si stessero aprendo dei buchi nella mente e le cose vi stessero lentamente scivolando dentro. »

Quello più alto sussultò internamente, ma non ne fece affatto mostra all’esterno.

Dimenticare, bè era una cosa che capitava a tutti, nessuno era infallibile. Escluso forse lui.

Il viso di John era contratto, preoccupato, e per quanto Sherlock avrebbe voluto essere calmo e pacato, se l’amico manteneva quell’espressione gli riusciva molto difficile.

Lui non perdeva quasi mai le staffe, o almeno gli piaceva crederlo, ma con John era difficile mantenere il controllo in quasi tutti i sensi. Si era instaurato tra loro un legame insolito, di cieca fiducia ed
amicizia, di lavoro e collaborazione, di sincerità e conforto. Sherlock non sapeva dare un nome a quella sensazione e non voleva nemmeno, perché i nomi rovinavano i rapporti e basta. Perché erano
stati inventati? Ah, già, l’umanità era stupida e, se qualcosa poteva essere rovinato, non perdeva tempo. Inutili esserini che si affannavano a rendere le loro vite migliori, distruggendole.

Lui era diverso.

Invece John era ordinario, ma era quel suo essere ordinario che lo aveva reso agli occhi di Sherlock così speciale.

Un migliore amico,

un compagno,

un...

« Come non è la prima volta? Tu ricordi sempre tutto. Sei un feticista della memoria. »

John non gli lanciò un’occhiata piccata come avrebbe fatto se tutto fosse stato normale. Si limitò a sorridere malinconicamente senza guardarlo.

« Qualcosa non va. » disse Sherlock, sporgendosi lievemente in avanti.

Poi osservò John, cosa che oramai gli veniva automatica, ma che per qualche ragione ultimamente aveva smesso di fare.

Aveva addosso gli stessi vestiti del giorno prima e di quello prima ancora, questo escludeva che fosse uscito ancora con delle donne, altrimenti si sarebbe cambiato e non avrebbe mai messo quella
camicia a quadri che faceva tanto cowboy fallito. Aveva le occhiaie, occhiaie che aveva cercato di coprire con del correttore che John non usava mai. Già da quello Sherlock avrebbe dovuto capire che
qualcosa non andava. La giacca era stropicciata e macchiata di caffè, questo significava che doveva essersela tolta e rimessa più volte e che doveva aver bevuto del caffè fuori casa, dato che altrimenti
non avrebbe avuto ragione di tenere il cappotto. Ma John odiava il caffè dei bar, infatti fuori prendeva sempre solo del tè, questo significava che doveva essere davvero stato molto nervoso, e quindi
probabilmente aveva sbagliato ad ordinare, oppure era stato all’ospedale, dove diceva sempre che il tè delle macchinette era terribile e che non riusciva nemmeno a sopportarne l’odore, per quello
poteva aver schiacciato, riluttante, il pulsante che avrebbe fatto uscire il bicchiere fumante colmo di liquido nero.

La seconda ipotesi sembrava di gran lunga la più accreditata, ma come aveva fatto a non accorgersi prima che qualcosa non andava?

Perché sei un maledetto egocentrico, Sherlock Holmes, ecco perché.

« Sei stato all’ospedale. » affermò infine, lanciandogli la solita occhiata che stava a significare che lo aveva appena letto come un libro aperto nella pagina più interessante.

« Cos... Com... Oh, Sherlock, dovresti veramente smetterla di farlo. » commentò John, esasperato.

« Fare cosa? » domandò l’altro, confuso.

« Guardarmi come se fossi un cavolo di corpo morto a terra e dovessi trarre le somme di un caso particolarmente difficile. »

Sherlock arricciò il naso e si buttò indietro, appoggiandosi al divano ed apprezzando l’effetto terapeutico del cuscino morbido sulla sua schiena tesa e dolorante.

« Se non lo faccio io chi lo fa? » rispose, e John alzò gli occhi al cielo prima di prendere fiato e continuare.

« Come avrai sicuramente scoperto da qualche insulso dettaglio del mio aspetto fisico che non voglio sapere, sì, sono stato in ospedale... »

« Per? » lo interruppe Sherlock alzando un sopracciglio e nascondendo alla meglio la preoccupazione che gli stava crescendo nel petto e che cercava di soffocare come meglio poteva. John non era una
persona che si preoccupava della sua salute, non lo aveva mai fatto. Era un soldato, era un uomo forte. Perché mai sarebbe dovuto andare in ospedale? Soprattutto contando che era un medico
militare.

« Per, » continuò John, sospirando alla sua interruzione. « un controllo. »

« A cosa? »

« Al cervello. » rispose.

Sherlock sbattè più volte le palpebre, mantenendo un’espressione quasi impassibile.

« Al cervello? »

John annuì.

« Ho l’Alzheimer, Sherlock. »

Tre parole sussurrate con la voce tremante, tre parole che avevano aperto una crepa nel petto del sociopatico e avevano risucchiato tutto ciò che c’era attorno. Cercò nella sua mente tutto quello che
riguardava l’argomento, come un’enciclopedia.

“Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa invalidante. La sua ampia e crescente diffusione nella popolazione, la limitata e comunque non risolutiva efficacia delle
terapie disponibili, e le enormi risorse necessarie per la sua gestione (sociali, emotive, organizzative ed economiche), che ricadono in gran parte sui familiari dei malati, la rendono una delle
patologie a più grave impatto sociale del mondo. A livello neurologico macroscopico, la malattia è caratterizzata da una diminuzione nel peso e nel volume del cervello, dovuta ad atrofia
corticale, visibile anche in un allargamento dei solchi e corrispondente appiattimento delle circonvoluzioni. Nelle prime fasi, il sintomo più comune è l'incapacità di acquisire nuovi ricordi e la
difficoltà nel ricordare eventi osservati recentemente. Con l'avanzare della malattia, il quadro clinico può prevedere confusione, irritabilità e aggressività, sbalzi di umore, difficoltà nel linguaggio,
perdita della memoria a lungo termine e progressive disfunzioni sensoriali. Non esiste una cura efficace.”


Sherlock scoppiò a ridere.

« Ma dai, John, di non ricordarsi qualcosa capita a tutti, certo magari non a me, ma tu sei normale. Voglio dire non è che perché non sai dove hai messo i miei cerotti hai l’Alzheimer. » commentò, con
un’espressione disperata malamente celata da una risata isterica.

« L’altro giorno non ricordavo dove mi trovassi, una settimana fa il nome di mia madre e lunedì non riuscivo a ricordarmi che una penna fosse... una penna. Non ne conoscevo il nome. Quasi non
riuscivo a firmare per una raccomandata l’altro giorno. Non sapevo come si firmasse. » specificò John, non riuscendo a guardare Sherlock negli occhi nemmeno per un secondo.

Non esiste una cura efficace.

« I medici cos’hanno detto? » domandò, senza volerlo sapere davvero perché conosceva già tutto a riguardo, ma semplicemente per non stare zitto come un idiota qualsiasi.

Lui non era un idiota qualsiasi, era Sherlock Holmes.

« Dicono che mi prescriveranno dei farmaci, ma che la perdita della memoria e delle funzioni motorie sarà progressiva ed irreversibile. Non esiste una cura efficace. »

Sherlock lo sapeva, ma trasalì comunque, sentendo la pelle strapparsi dalle sue ossa, ricordandogli la solitudine, ricordandogli quanto John fosse importante per lui.

Rammentava distintamente come fosse sempre stato detestato da tutti, nonostante le persone avessero comunque continuato a cercarlo per la sua intelligenza superiore. Non gliene era mai
importato, forse non gli importava neanche adesso, le creature inferiori finivano sempre per invidiare coloro che gli erano superiori, è un difetto dell’umanità, per questo Sherlock era diverso. Giocava a fare l’umano ma non si era mai sentito tale neanche un po’.

Non finchè John non gli aveva mostrato quanto, tutto sommato, fosse bello essere tale.

Gli era stato accanto anche quando tutti quanti avrebbero voluto prenderlo a calci. Magari a volte avrebbe voluto farlo anche lui, ma non lo aveva comunque mai fatto veramente.

Ed ora stava dimenticando le cose, avrebbe smesso di parlare, quasi, avrebbe smesso di camminare e di muoversi e di guardarlo con quello sguardo sveglio e curioso che aveva sempre avuto.

Che cosa sarebbe rimasto del John Watson che conosceva?

« Quindi? » domandò infine, non avendo nulla di brillante da dire per la prima volta nella sua vita.

« Quindi aspettiamo, e godiamoci il tempo che resta. » disse, rassegnato come poche volte gli era capitato di essere in vita sua.

« Va bene. » disse, ma dentro di lui, per la prima volta, qualcosa stava graffiando, stava urlando, e Sherlock fece del suo meglio per non ascoltarla, per metterla a tacere e non rendere le cose ancora
più difficili per John.

« Mi dispiace per i cerotti. » disse poi l’altro, alzandosi e dirigendosi verso il bagno.

Il Consulting Detective sorrise forzatamente, ma l’amico non se ne accorse.

« Non ti preoccupare. » rispose, e quando John fu scomparso aggiunse. « Anche se ne avrei bisogno mi è comunque passata la voglia. »

 

***

 

Erano passati diversi mesi, Sherlock aveva perso il conto di quanti fossero stati realmente, non aveva neanche voluto contarli. Perché farlo significava mettere una data di scadenza a John.

Ormai il compagno era confinato sul divano, con una coperta di dubbio gusto sulle gambe e due cuscini dietro la schiena.

Sherlock risolveva i casi molto più in fretta del normale, per poter tornare a casa e fingere che fosse tutto normale e che John avesse solo un’influenza particolarmente lunga.

Quel giorno rientrò a casa verso le nove, visto che Lestrade aveva insistito perchè compilasse un paio di carte per via del fatto che le sue spiegazioni sui delitti si erano fatte sempre più difficili da
comprendere e nessuno riusciva a completare le pratiche in modo sensato.

Salutò Mrs Hudson che se ne stava al piano inferiore, intenta a fare del tè, probabilmente pensando a John al quale piaceva tanto. Lei gli fece un cenno ed un sorriso mentre Sherlock correva al piano
superiore.

Aprì la porta e si precipitò dentro. John era ancora disteso nel divano e dormiva pacifico. Erano solo le sette e mezza di sera ma, ultimamente, si stancava molto facilmente, e Sherlock non ebbe il cuore
di svegliarlo. Anche se avrebbe voluto sentire la sua voce solo per sapere che stava bene, per assicurarsi che sapesse ancora parlare e che lo ascoltasse mentre blaterava degli ultimi casi risolti. Chissà
se poi gli interessavano davvero.

Fece per sedersi sulla poltrona ed osservarlo mentre dormiva beato, però la sua schiena incontrò un libro e vi premette la carne sullo spigolo. Il dolore fu così acuto che non potè fare a meno di
imprecare sottovoce, svegliando John che sussultò sbattendo più volte le palpebre con aria confusa.

« Scusa, John, non era mia intenzione svegliarti. » borbottò, togliendo di mezzo il libro con un gesto nervoso.

John sbadigliò, facendo saettare gli occhi per la stanza.

« Non ti preoccupare. » rispose, cercando di abituare gli occhi alla luce.

Il silenzio imbarazzante avvolse la stanza. Sherlock solitamente qualcosa da dire lo aveva sempre trovato, ma ultimamente aveva sempre paura di aprire bocca.

John si consumava come un filo che sfregava sull’angolo di una porta, e lui aveva il terrore di scoprire quanto sarebbe stato forte quel filo. Continuava ad osservarlo mentre si consumava, impotente,
con il petto che doleva di più ad ogni grattata.

« Scusami se te lo chiedo, ma tu chi sei? » domandò poi John, rompendo il silenzio, e Sherlock, che era intento a sospirare, iniziò a tossire freneticamente, come se gli fosse stata tolta l’aria.

« Come prego? » domandò automaticamente, mentre cercava di non lasciare cadere le lacrime dagli occhi che gli bruciavano. Solo non capiva se per la tosse o per la frase appena sentita.

« Uhm, ecco, chi sei tu? Ti conosco? » domandò, con un’aria talmente ingenua che a Sherlock si spezzò il cuore che pensava di non avere.

«  John, non è divertente. »

« Cosa? »

« Questo scherzo. Non è divertente. »

Lui sembrò confuso, e lo squadrò socchiudendo gli occhi concentrato.

« Io... »

« Sono Sherlock. Sherlock Holmes. Il tuo compagno di appartamento, l’unico Consulting Detective al mondo, il tuo migliore amico. Viviamo assieme da quasi due anni. » spiegò Sherlock, i denti stretti
ed un’espressione speranzosa sul volto.

« Sherlock. » ripeté John, come se facesse fatica a pronunciare quella parola.

« Esatto. » sussurrò lui, avvicinandosi a John con le mani che tremavano.

Non poteva essersi dimenticato di lui, non poteva essere. L’unica persona al mondo della quale gli importasse, l’unica persona che lo considerasse un essere umano, l’uomo che lo aveva salvato dalla
solitudine che lui stesso si era creato. Lui che era tutto per Sherlock, con il quale aveva imparato a convivere e del quale sapeva ogni cosa.

John, il suo tutto.

Si buttò in ginocchio davanti al divano, crollando sul bracciolo con la testa, non sapendo nemmeno come sentirsi. Se John si fosse dimenticato di lui, cosa poteva fare? Vivere ogni giorno con lui solo
perché non sarebbe stato capace di sopravvivere senza?

« John, ti prego... sono Sherlock, sono io. » mormorò, la bocca appoggiata sulla stoffa del divano, e le lacrime che minacciavano di spaccargli il muro che aveva creato sugli occhi. Si era ripromesso anni
e anni prima di non piangere mai più. Mai. Ma ora non era sicuro di riuscire a mantenere la promessa.

John posò una mano sui suoi capelli scuri, la tenne lì, immobile, come se fosse confuso sul da farsi, poi gli alzò il viso e guardò gli occhi di Sherlock, come se stesse leggendo un libro con la sensazione di
aver già visto quella scena.

« Oh, Sherlock. » disse poi, spalancando la bocca e gli occhi gli si fecero lucidi. « Come ho potuto dimenticarmene? » mormorò, mordendosi il labbro inferiore.

Sherlock non riusciva a parlare, apriva la bocca ma era a corto di parole, a corto di emozioni, a corto di forze.

Era successo per un istante ed era stato un incubo. Quando sarebbe successo per sempre cosa avrebbe fatto?

« Scusami, John, scusami... » disse, e non sapeva nemmeno perché si stesse scusando, ma quando non si sa cosa dire e si sta male solitamente è quello si era soliti fare. Non avrebbe mai creduto di
essere tanto umano.

Alla fin fine era anche lui fatto di carne.

« Per cosa? » domandò l’altro, gli occhi spalancati per la sorpresa, mentre passava i pollici sugli zigomi sporgenti di Sherlock.

Il sociopatico non rispose, al contrario dentro di lui crebbe un’emozione come un impeto, come un’onda. Si scagliò su John, allungandosi ad abbracciarlo, aggrappandosi a lui come se fosse stato lui
quello che sarebbe morto presto, che non avrebbe ricordato, che avrebbe smesso di fare la vita che aveva sempre sognato, che se ne sarebbe andato.

« John mi prometti una cosa? » domandò, il tono di voce basso come poche volte.

John tremò al suono di quel timbro così vicino al suo orecchio, mentre ricambiava confuso l’abbraccio.

« Se posso, cioè, voglio dire... ci proverò. »

Sherlock si morse l’interno della guancia per non gridare o piangere.

« Promettimi che quando sentirai che è il tuo momento mi avviserai. »

Era una promessa impossibile, come avrebbe fatto John a capire quando se ne sarebbe andato? Solo perché la malattia lo consumava? No, era impossibile.

Ma doveva prepararsi, era convinto che se fosse stato preparato non avrebbe sofferto.

“Tutte le vite finiscono. Tutti i cuori si spezzano. Importarsene non è un vantaggio, Sherlock.”

Mycroft quella volta aveva avuto veramente ragione.

John smise di respirare per qualche secondo, e gli passò davanti tutto ciò che si ricordava di Sherlock. Strinse i denti.

« Ci proverò. » sussurrò, ed iniziò a temere come non mai il momento in cui se ne sarebbe andato, in cui la malattia lo avrebbe consumato definitivamente. Non avrebbe più visto Sherlock, né lo
avrebbe avuto al suo fianco. Tutto ciò era insopportabile.

Nessuno dei due sapeva che quello sarebbe stato uno dei loro ultimi momenti assieme.

 

***

 

Per ognuno dei giorni seguenti John doveva dire un ricordo che aveva di loro due, così da tenere la memoria in allenamento, aiutata dai farmaci che era costretto a prendere. Sherlock lo osservava
tutti i giorni con un’espressione seria, ed annuiva ad ogni memoria, sorridendo appena.

« Un giorno ti ho preso a pugni perché tu me lo avevi chiesto. »

« Mi ricordo quando credevi che mia sorella fosse un uomo. »

« Ah, oppure c’è stata quella volta in cui mi hai chiuso in una stanza in balia di un animale che mi stavo immaginando, ed il tutto solo per un tuo stupido esperimento! »

« Quando sei arrivato in ritardo e dei tipi che mi avevano scambiato per te volevano farmi saltare la testa. »

« Una volta trovai una testa nel frigo. Roba tua. »

Ormai erano passate due settimane, e Sherlock a malapena si era concentrato su omicidi seriali e furti, non riusciva più a pensare ad altro, la sua intelligenza era tutta concentrata su John che giaceva
quasi inerte sul letto a casa e faceva ogni giorno più fatica a parlare.

Quel giorno tornò a casa presto, come al solito dato che si rifiutava di fermarsi a lungo con Lestrade, che sapeva di John, e lo lasciava sempre scappare a casa con il primo taxi disponibile.

Si precipitò nell’appartamento con una gran brutta sensazione. Come se avesse sentito l’odore del pericolo nell’aria.

Le sue doti deduttive sembravano essersi fatte più acute con tutta la tensione dell’ultimo periodo, nemmeno i cerotti alla nicotina bastavano più a calmarlo.

Entrò nell’appartamento al piano superiore e trovò John che respirava faticosamente, il corpo abbandonato sul divano come se gli avessero staccato i fili, gli occhi spalancati che tendevano a chiudersi
mentre lui lottava per tenerli aperti.

« John! » gridò Sherlock, precipitandosi davanti a lui ed inginocchiandosi per raggiungere la sua altezza. L’espressione preoccupata che aveva in volto stonava con il suo viso privo di rughe.

« Sh-Sherlock... » mormorò John in un sussurro spezzato, ed afferrò debolmente la mano dell’amico. « Ti ho aspettato. » disse.

Le lacrime non riuscirono a restare dentro agli occhi del sociopatico quando capì a cosa si riferiva, e bagnarono quel viso che era stato arido e deserto per così tanto tempo.

Avrebbero dovuto risultare estranee in quel quadro eppure non lo erano.

« No, N-no. Adesso chiamo l’ospedale. » disse Sherlock, ma John strinse appena la presa sulla sua mano, bloccandolo.

« N-non farlo... Va bene così... Mi ricordo ancora di te... E’ così che voglio che sia... da solo... con te... » mormorò sorridendo, nel suo viso nessuna lacrima.

Sherlock si sentì morire. Il petto gli si schiacciò, le gambe iniziarono a tremargli e non poteva credere di essere in grado di provare tante emozioni. Non avrebbe dovuto esserne capace. Non vi era
abituato, ed era troppo per lui in una volta sola.

John non poteva lasciarlo così nel mezzo della sua vita, a dover avere a che fare con la sua solitudine, la sua sociopatia, il suo bisogno di parlare con qualcuno, di volerlo vedere alle sue spalle con quello
sguardo fiero e curioso quando deduceva qualcosa di strabiliante. Come avrebbe fatto ora? Che ne sarebbe stato di tutto quello?

« Non piangere, Sher-Sherlock... » sussurrò John, mentre tutto diventava sfuocato davanti a lui.

Si strinsero assieme un’ultima volta, il cuore di entrambi batteva freneticamente e in quell’istante capirono che quell’amicizia era molto di più, anche se non avevano mai avuto il coraggio di dargli un
nome. Era diventata qualcosa di definitivamente troppo forte. Qualcosa che entrambi ora avrebbero perso per sempre.

« Ti prego, » disse Sherlock, « ti prego dovunque tu vada, se andrai da qualche parte, in qualsiasi luogo, paradiso, limbo, o che ne so io... ti prego veglia su di me. » disse.

John sorrise, e si sporse in avanti con immensa fatica per sfiorare le labbra del compagno con le sue. Questione di un secondo, prima che si allontanasse e, con un ultimo sguardo orgoglioso, chiudesse
gli occhi smettendo definitivamente di respirare, mentre Sherlock gridava come non aveva mai osato fare, incontrollabilmente, prima di crollare sul corpo di John scosso dai singhiozzi e dilaniato
nell’anima come mai avrebbe immaginato potesse accadere a lui.

Mrs Hudson osservò la scena dalla porta, con una mano davanti alla bocca e le lacrime lungo le guance. Non ebbe il cuore di intervenire.

 

***

 

Sono Sherlock Holmes, e sono un Consulting Detective. Una volta avevo un assistente, un migliore amico, un compagno. Una volta amavo un uomo e non lo sapevo. Una volta non ero solo, una volta la
mia risata faceva eco ad un’altra. Una volta amavo essere insopportabile per sapere cosa avrebbe detto lui. Una volta ero felice.

Ora, mentre aspiro da questa sigaretta che ho osato permettermi, penso che sono stato un uomo fortunato, e che non lo ho mai meritato. Però è stato mio, è stato mio e lo resterà per sempre. Ed io lo
ho amato, e lo amerò per sempre, e questo non potrà mai dimenticarlo.































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Spazio Autrice:
Innanzitutto voglio dedicare questa storia alla mitica Fireplace_ che amo ed adoro con tutto il cuore.

In secondo luogo voglio scusarmi per questo tripudio di angst, cioè, esce angst da tutte le parti.

Poi vorrei scusarmi se non sono stata precisissima con la storia dell'Alzheimer, mi sono documentata al meglio ma non sono un medico.

La part della spiegazione della malattia è presa da Wikipedia e... Bè, che dire, sono un po' a pezzi e non so bene che scrivere.

Se siete Klainer che seguono le mie storie non vi preoccupate, non inizierò a scrivere su questo fandom per ora, continuerò con le mie solite storie.
Avevo solo bisogno di scrivere questa.

Noth
   
 
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