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Autore: Nyappy    19/04/2012    2 recensioni
«Tu sei..?» il teschio del coniglio s’inclina e sento con chiarezza la voce stanca della donna, nonostante la musica. Beh, dato che sono una sua dipendente, meglio che risponda.
«Sasha Novak.» mi presento, raddrizzando le spalle. Poteva leggere il cartellino che ho appuntato alla giacca.
«E sai a chi stai causando problemi?» oh, che tono autoritario. Sembrava una vecchietta tanto tranquilla, quando era con quelle ragazze. Notevole, comunque: la sua coscienza sta interagendo con me anche se non l’ho intrappolata. Deve avere qualche patch speciale al sistema operativo, so che i dirigenti accumulano privilegi così.
«Non lo so.» rispondo, mentre le orecchie del coniglio si drizzano «Agisco in merito ad ogni caso che mi viene affidato senza fare ricerche preliminari.»
Vuole che usi i paroloni? Non ho problemi a farlo.
«Se le avessi fatte, avresti scoperto che alla Direttrice Generale Ostojić non piacciono queste sorprese.»
…ops. È davvero un pezzo grosso. E l’ho pure multata per l’età. Comunque, ho tutto il diritto di farlo.

[Accenni di sci-fi, allucinazioni e deliri]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Agrimonia Eupatoria'
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Pesce

Le urla di un bambino mi fanno aprire gli occhi di scatto.
«Mamma!» grida con voce disperata «Mamma!»
Oh, è ancora quella stupida pubblicità. Anche se è da giorni che viene trasmessa tra un programma e l’altro, riesce sempre a svegliarmi.
Mi sporgo dal sedile per specchiarmi sul pavimento lucido, venato da cavi: sembra che le luci artificiali della navetta mi scavino il viso. Rendono spiritati tutti, anche il gruppetto di studentesse in fondo al vagone, con l’uniforme blu del mio vecchio liceo.
«Beh, non mi piace, non mi piace per niente.» accanto a me è seduta una donna di mezz’età, con la gonna dello stesso indaco del mio tailleur; incrocia le braccia e fissa con una smorfia gli altoparlanti sopra le nostre teste.
«Ssht!» le intima un’altra, in piedi, con un fazzoletto a coprirle i capelli ed il viso percorso da una fitta rete di rughe.
Giusto, non possono parlare se sono loro così vicina.
Una voce dolce e materna si sostituisce agli strilli del bimbo «Con il nuovo chip SnoviDD•Djeca ora anche i vostri bimbi possono essere protetti dagli incubi.»
Le donne accanto a me scrollano il capo, disgustate, ma non aggiungono altro. Sono abbastanza vecchie per essere sconcertate dal progresso degli ultimi anni e abbastanza giovani da essere sfuggite alle epurazioni annuali.
«Ancora più sicuro, ancora più semplice da installare.»
Mi unisco a loro nel fissare con disgusto l’altoparlante. Credo siano un po’ sorprese dalla mia reazione così simile alla loro – i dipendenti della SnoviDD vengono visti come burattini nelle mani del Sistema da tutti, ormai, ed il cartellino appuntato sulla mia giacca è eloquente a riguardo.
Mi sistemo la gonna indaco e guardo fuori dalle vetrate della porta. La città sfreccia sotto di  noi e riesco a cogliere solo pochi dettagli dei quartieri bassi: le troppe luci colorate, i cartelloni pubblicitari sempre più grandi, le finestre rotte dei palazzi.
Mi manca il giorno, in questa notte eterna di città.
«SnoviDD, per sonni tranquilli e sereni.» le ultime parole della pubblicità sono seguite dal jingle infernale che infesta i corridoi della società da mesi.
Mi sfugge un sospiro.
«Se avete nipotini, è bene che compriate il nuovo chip Djeca.» la mia è la prossima fermata e mi sento molto buona nei confronti di quelle anziane «Prima che siano le multe a farvelo acquistare.»
Mi alzo e mi sistemo le maniche della giacca, avvicinandomi alla porta. Non è un mistero che la SnoviDD sia riuscita ad ottenere il monopolio grazie a favoreggiamenti e leggi retroattive ad hoc, anzi, è una delle notizie che sempre vengono discusse e sempre si discuteranno, senza agire veramente per cambiare la situazione.
Le due non mi rispondono e la navetta rallenta. Stringo la maniglia accanto e la mia figura viene riflessa dalle porte di metallo e dai vetri dell’uscita. Ieri potevo andare dal parrucchiere, oggi è troppo tardi. Dovrò morire con questo caschetto appena sotto le orecchie e la frangia perfetta che andava di moda un mese fa.
Potevo farmi bionda, almeno.

*

«Sasha, cara!»
Mi scosto appena in tempo per evitare una figura piccola e massiccia che spunta dalla porta del mio ufficio, con un completo del mio stesso indaco.
«Direttore.» lo saluto con un cenno del capo, trattenendo una smorfia di fastidio che lui non sembra notare «Chiamami Vlatko, cara.» mi ripete, come ogni giorno, sistemandosi  riccioli unti sulla fronte e sorridendo in modo ebete.
Nonostante all’apparenza sembri un inetto, è il capo indiscusso della filiale madre della regione, l’uomo che prende tutte le decisioni e distribuisce personalmente i premi aziendali; oggi, a sua insaputa, mi farà uno dei favori più grossi della mia vita.
«Vlatko.» cerco di sorridergli, mentre mi si avvinghia al braccio, tutto premuroso.
«Allora, Sasha, ho saputo che hai chiesto degli straordinari, per oggi. Non ti sembra di esagerare?» cinguetta con fare bonario.
«Mi piace il mio lavoro.» rispondo, ed in un certo senso è la verità. Mi piace introdurmi nella mente degli altri e rompere quell’apparente armonia – le multe sono la parte peggiore, invece.
«Che brava ragazza.» mi è praticamente appiccicato addosso. E cosa ci faceva, prima, nel mio ufficio? «Brava, brava davvero.»
Dopo anni, credo che si diverta a vedermi a disagio ogni volta che si aggrappa al mio braccio, dato che sono immobile e rigida.
«Però, Sasha cara, negli ultimi tempi stai davvero lavorando troppo.» in un secondo la sua voce cambia. Non è più petulante come prima, anche se rimane simile ad una cantilena. Stringe di più il mio braccio e continua «Non sarai affamata di sogni, vero?»
La mia espressione non muta di una virgola «Assolutamente no. Come ho già detto, amo il mio lavoro.» spiego e lo scrollo leggermente. Lui mi lascia e arretra di un passo, con un sorriso smagliante «Ma certo, ma certo. Buon lavoro, in questo caso, cara.»
È la prima volta che dà a vedere di sospettare qualcosa.
«Signor Ivanec– Vlatko.» mi correggo subito «Mi stavo chiedendo… potrebbe fare qualcosa per la porta?»
Lui sbatte gli occhi «La porta?» domanda, inclinando il capo. I ricci neri – più gel che capelli – gli rimangono incollati sulla fronte, quasi fossero disegnati.
«Sono l’unica del dipartimento a non avere il riconoscimento automatico.» rispondo. Solo perché sono giovane, ovviamente. È stupido lamentarsi per la porta dell’ufficio, ma chiunque intenzionato a lavorarci ancora lo farebbe, no? Potevo pensarci prima.
«Oh, giusto.» il Direttore batte le mani, tutto contento «Potrei fartela avere domani…» mi strizza l’occhio, complice.
«Non vedo l’ora!» sorridi, Sasha. In modo naturale, per piacere. Appoggio una mano sullo stipite e sventolo l’altra nella sua direzione, rifugiandomi nel mio ufficio. Ivanec ha spento tutte le luci e la cosa non mi piace.
«Tatianna.» chiamo a voce alta. Il chip impiantato nella mia testa risponde alla mia voce e cerca il compagno.
«Sincronizzazione attivata.» anche dopo tre anni, la voce di mia sorella è ancora la stessa. Ne curo personalmente la manutenzione giornaliera «Sono operativa.»
Non appena Tatianna termina di parlare, le luci del mio ufficio mi accecano. Strizzo gli occhi, mentre lei si avvicina, con i lunghi capelli castani raccolti in una coda morbida. Forse devo oliarle il ginocchio sinistro, scricchiola leggermente.
«Prima è entrato il Direttore.» i neon colorati dei quartieri bassi raggiungono anche le vetrate della mia stanza, riflettendosi sulle pareti lucide come specchi e rimbalzando sugli schermi della scrivania.
«Il signor Ivanec si è guardato attorno, ha fatto degli apprezzamenti circa la vista sulla città ed ha spento le luci.» mi risponde lei, senza che la sua espressione malinconica muti, senza che quei grandi occhi scuri vengano illuminati dalla scintilla della vita.
«Vieni.» chiudo a chiave la porta e mi avvicino alla parete divisoria. Tatianna mi segue, obbediente, con l’ampia veste bianca che svolazza, tutta pizzi e ricami.
Il mio chip si sincronizza con quello della mia vera area di lavoro; un pannello metallico scivola indietro e scorre per rivelare un’entrata.
Tatianna mi prende la mano ed assieme raggiungiamo il cuore del mio ufficio: una piccola stanzetta occupata da un armadio, con dei cuscini a terra; la macchina dei sogni è collegata al suo pannello di controllo, che occupa un’intera parete.
Faccio accomodare mia sorella sui cuscini e raggiungo l’armadio. Ormai è una tradizione, non posso lavorare se prima non passo un po’ di tempo con lei, da sorella e non da superiore.
Le ante di ciliegio sono lisce e decorate con un sacco di videosticker: io e Tatianna al liceo, che ci prepariamo la cartella, con la gonna dell’uniforme blu arrotolata per accorciarla; i nostri genitori che ci portano a spalle, quando siamo ancora bambine; lei con il tailleur d’ordinanza della SnoviDD e io ancora con l’uniforme.
Apro l’armadio e prendo la scatola con il pettine e gli elastici; Tatianna si è già seduta e si sta liberando i capelli.
Appoggio gli oggetti sui cuscini e mi siedo dietro di lei, accarezzandole il capo. Le mie dita non si sono ancora abituate ai suoi capelli artificiali. Li amavo, quando era ancora in vita: erano sottili e setosi, e ogni sera li pettinavo, chiacchierando con lei. Credo sia per masochismo che lo faccio tuttora, anche se sono perfetti e non hanno bisogno della spazzola.
«Voglio farti le trecce.» prendo due elastici dalla scatola, uno bianco come il suo vestito ed uno nero come la fascia che ha legata in vita.
Tatianna non risponde. Cosa potrebbe rispondere? È morta e io sono una masochista. È una bambola e io mi faccio del male ogni giorno, ogni giorno prima di lavorare davvero ed infliggere a mia volta sofferenza.
Come ogni mattina, nella notte senza fine di Zagreb, mi metto a raccontarle di quando era ancora viva. Non può ricordare nulla, lei, le è stato asportato il cervello. Nemmeno i suoi organi hanno più memoria di quello che era: Tatianna non è più.
Inizio a pettinarle i capelli «Ehi, ti ricordi quando ti hanno assunta?»
Ho un ricordo di lei davanti allo specchio nella nostra vecchia camera, con gli occhi brillanti ed i capelli raccolti sulla nuca.
Il tailleur indaco le stava un incanto, ed era la prima della famiglia ad avere impiantato il chip cerebrale. L’unica cosa che guastava il suo aspetto glorioso, i primi tempi, era proprio un cerotto sulla tempia, che riusciva però a nascondere con il ciuffo.
«Poi non ci siamo viste per molto, molto tempo.» le divido i capelli in due bande e recupero l’elastico bianco.
Tatianna annuisce. Lei sa che quelli sono i suoi ricordi, sa di essere stata mia sorella, ma non le importa più, è una macchina. I computer devono ancora sviluppare dei sentimenti.
Stiamo vivendo l’obbligatorietà dei chip cerebrali, impiantati pochi mesi dopo la nascita; stiamo vivendo la malattia di uno Stato nel quale i sogni sono diventati fuorilegge e l’ideologia da seguire è una sola.
Inizio ad intrecciarle le tre ciocche che ho diviso e mi sfugge un sospiro. Aiuto lo stesso Stato che disprezzo. Ogni giorno parlo con un androide ricavato dal cadavere di mia sorella, invece di pagare uno psicologo. Dopotutto, c’è crisi.
Un altro sospiro e mi tremano le mani.
«…di’ qualcosa.» la prego.
«Hai diversi accettato diversi casi. I sospetti potrebbero potenzialmente manifestarsi anche in questo momento.» la sua voce è dolce e calda, eppure rimane monocorde «Ti consiglio di attivare i macchinari al più presto ed iniziare a svolgere le tue mansioni.»
La treccia è finita. La assicuro con l’elastico bianco ed ammiro il risultato. Non un capello fuori posto. Tatianna sembra una modella, come quelle che popolano i cartelloni pubblicitari dei bassifondi – finte, così finte. Anche la sua pelle è finta, i suoi capelli lo sono, il suo scheletro ed il suo cuore.
Hanno ucciso mia sorella e io non ho potuto fare nulla. Non posso fare più nulla.
Tra un paio d’ore non me ne preoccuperò più.

*

«Primi impulsi in arrivo.» Tatianna è davanti al pannello di controllo della stanza, con le lunghe trecce che riposano sulla sua schiena.
«Ricevuto. Avvio procedura.» raggiungo la poltrona collegata al macchinario e mi accomodo. Non appena appoggio la testa allo schienale, un braccio meccanico appoggia un magnete sulla mia tempia – è freddo, diamine. Dovevo riscaldarla.
«Sasha?» domanda Tatianna. Chiudo gli occhi ed ignoro la sensazione sgradevole dei cavi che si connettono alle porte sulla mia nuca.
«Spero sia divertente.» e con queste parole sembro perdere conoscenza, come se qualcuno mi avesse colpito. Una scarica elettrica, per la precisione.
 
A differenza dei miei colleghi, non raccolgo informazioni riguardo la vita dei soggetti che devo sanzionare. Sono i dilettanti a fare quello, invece di interpretare sul momento e collegare i dettagli tra loro, domandando nel mentre un paio di informazioni come l’età. A volte non c’è nemmeno bisogno di interpretare i particolari: i sogni hanno una perversione chirurgica che è facile da individuare, così come l’elemento che rompe l’armonia è solitamente semplice da riconoscere.
La prima cosa che mi accoglie nella mente in cui mi sono intrufolata è una canzone: una voce riverberata canta in una lingua che non conosco, accompagnata a bassi ritmati. Non male, i sogni musicali sono così rari che ne ho incontrati solo un paio in tre anni di lavoro. È bello cambiare, ogni tanto – anche se è l’ultimo giorno in cui posso farlo.
Appaiono degli altoparlanti vecchio stile, negli angoli di una stanza che si sta formando. Inizio a camminare ed i tacchi, pur pestando un pavimento a scacchi in marmo, non fanno rumore.
La stanza si rivela gradualmente: le luci sono tonde, sostenute da bracci dorati; le nicchie alle pareti sono occupate da piante di un verde brillante, che rovesciano cascate di foglie sul muro.
È un luogo che non si vede tutti i giorni, è antico. Questo sogno appartiene a qualcuno che ha vissuto l’epoca splendente del Secondo Rinascimento: riconosco il fitto mosaico sui toni dell’azzurro che decora il tavolo e le sedie vicino a me.
…oppure lavora nel dipartimento dedicato di un museo di storia, ma mi sembra un’ipotesi troppo elaborata.
Mi guardo attorno: dietro alle mie spalle si apre un immenso corridoio con il soffitto di vetro. Da quant’è che non vedo più il cielo blu? Mi perdo un attimo nei riflessi sull’acqua della fontana che occupa gran parte del corridoio. Sono circondata dal lusso, da marmi e intarsi alle pareti, che formano decorazioni floreali quasi astratte.
È un luogo esistente? Sono stata nella maggior parte dei musei di storia della regione e non ho mai visto riproduzioni così grandi di edifici del Secondo Rinascimento. Se la persona di cui sono ospite li ha visitati di persona, è troppo vecchia per essere in vita. Come ha fatto a sfuggire alle epurazioni annuali?
«Tatianna.» nonostante la musica non sia troppo alta, copre completamente la mia voce «Età e sesso del soggetto, grazie.»
«Femmina, età non verificabile.» cosa? «Compresa tra i sessanta e gli ottant’anni.»
Merda. Solo una dirigente può essere così vecchia e così agiata da aver interagito con questo luogo – perché diavolo una persona tale sta sognando in modo abusivo?
«Tatianna.» mi sto ufficialmente mettendo nei guai – o meglio: lo farei se sopravvivessi a stasera «Procedi nel multare. Causale A.»
«Ricevuto.»
È davvero interessante, però. È un sogno preciso, sembra quasi finto. Mi guardo attorno ancora per memorizzare i dettagli «Integrami.» ordino a Tatianna, ed in un battito di ciglia mi ritrovo circondata dalla folla.
Sono ombre scure, non persone, silhouettes tridimensionali che brulicano nel corridoio e circondano la lunga fontana. Mi passano attraverso, senza urtarmi – i privilegi della dimensione onirica.
Mi volto vedo le uniche figure dalle fattezze umane, radunate attorno al tavolo decorato di prima, ricolmo di borse e sacchetti bianchi.
Una signora anziana, con il mio stesso tailleur indaco, sorride alle altre donne, con le mani raccolte in grembo ed i capelli bianchi pettinati in morbidi ricci che le circondano il viso. Una dirigente della SnoviDD, forse?
Le sue amiche sono giovani ed indossano vestiti larghi e colorati – quello è un ricordo. Nessuno oggi si metterebbe più quegli abiti antichi, anche se la stoffa sembra molto bella. Starebbe bene a Tatianna.
Ora il mio compito si riduce a cercare l’elemento che spezza quella precisione: raggiungere ed intrappolare la coscienza della donna. E multarla una seconda volta. Tanto i soldi non dovrebbero mancarle…
Raggiungo il gruppo al tavolo; la musica si fa più vivace e m’impedisce di sentire le loro parole; non che siano importanti.
Dove sei, piccolo dettaglio fuoriposto? Scommetto che se non ci fossero tutte queste ombre che, come formiche, riempiono il corridoio, sarebbe facile individuare la vera essenza della donna.
«Sasha, ricevo impulsi anche da un secondo soggetto.»
Diamine! Tutti in contemporanea devono addormentarsi. Potrei passarlo a Capan dell’ufficio vicino, ma dovrei recuperare chiedendo un altro straordinario.
«Avvia la procedura di blocco temporaneo.» le ordino. È rischioso costringere a distanza un chip cerebrale a ripetere l’ultimo pacchetto di dati prodotto, ma non posso fare altro.
Non posso tardare.
«Ricevuto.»
Ci sono giorni in cui resto a pettinare Tatianna per ore prima di lavorare e giorni come questo, in cui con tutti gli straordinari che ho richiesto mi dovrei sdoppiare. Tanto non mi devo più preoccupare di raggiungere un equilibrio.
Poi lo sento. Chiudo gli occhi di scatto: qualcosa mi ha appena colpito la fronte, facendomi sbilanciare. Torno in piedi e mi volto: eccola, l’unica cosa che mi può toccare, la coscienza della donna.
Le ombre inghiottiscono un mucchietto di ossa che saltella – uno scheletro. Allegro!
Inizio a rincorrerlo, passando attraverso le figure scure. La scatola cranica è allungata e la lunga spina dorsale termina in una coda. Sul teschio vuoto spuntano delle orecchie di coniglio – ma quanto è veloce?
Si tratta solo di raggiungerlo, anche se ho i tacchi, catturarlo e leggergli i propri diritti. Ops, leggerle. Anche se potrei anche evitare, ormai non lo fa più nessuno.
«Ti ordino di fermarti!» la musica è cambiata, sono bassi e percussioni convulse. Non mi può né vuole sentire.
Faccio un passo più lungo e spicco un balzo, raggiungendo il bordo della fontana. Il coniglio scheletrico è seduto sul getto d’acqua, immobile ed incurante del fatto che nel mondo reale non potrebbe stare lì.
Però ha obbedito – forse.
«Tu sei..?» il teschio del coniglio s’inclina e sento con chiarezza la voce stanca della donna, nonostante la musica. Beh, dato che sono una sua dipendente, meglio che risponda.
«Sasha Novak.» mi presento, raddrizzando le spalle. Poteva leggere il cartellino che ho appuntato alla giacca.
«E sai a chi stai causando problemi?» oh, che tono autoritario. Sembrava una vecchietta tanto tranquilla, quando era con quelle ragazze. Notevole, comunque: la sua coscienza sta interagendo con me anche se non l’ho intrappolata. Deve avere qualche patch speciale al sistema operativo, so che i dirigenti accumulano privilegi così.
«Non lo so.» rispondo, mentre le orecchie del coniglio si drizzano «Agisco in merito ad ogni caso che mi viene affidato senza fare ricerche preliminari.»
Vuole che usi i paroloni? Non ho problemi a farlo.
«Se le avessi fatte, avresti scoperto che alla Direttrice Generale Ostojić non piacciono queste sorprese.»
…ops. È davvero un pezzo grosso. E l’ho pure multata per l’età. Comunque, ho tutto il diritto di farlo.
«Il suo sogno non è regolamentare, Direttrice Ostojić.» le ricordo. O si collega ai pannelli di controllo della Chiesa ed accetta il rallentamento del sistema per il suo sogno settimanale, o inserisce il codice ed usufruisce di un’ora di attività onirica regolamentare. Non dovrebbe essere difficile per lei ottenerne uno.
È un aut-aut e lei non ha fatto nessuna di queste due cose.
«Sono una tua superiore, Novak.» mi dice, facendo agitare la coda scheletrica del coniglio.
Mi verrebbe da replicare con una battuta, ma mi trattengo. Anche se stasera sarà tutto finito, non devo destare sospetti durante la giornata – che è proprio iniziata in bellezza.
«Proprio per questo dovrebbe essere la prima ad accettare una sanzione che si merita.» ribatto. Magari lei stessa ha votato per irrigidire le norme che riguardano i sogni.
Il coniglio si solleva sulle zampe posteriori e salta verso di me. Non ho intenzione di spostarmi. Rimango immobile, mentre questo termina il suo volo davanti a me, fluttuando.
Le sue ossa sono così pulite e lucide da riflettere le nuvole del cielo, visibile dalla volta in vetro.
«Novak, è in mio potere decidere quando rispettare o no le regole.» le orecchie pelose del coniglio si piegano – ho voglia di strappargliele. Stupida vecchia.
«È in mio potere sanzionarla per aver deciso di non rispettarle.» rispondo. Non mi sorprendo se ci sono sempre più casi di malfunzionamento dei chip a causa dei blocchi della Chiesa: le gente sopporta quelle restrizioni pur di sognare un po’, senza consumare mezzo stipendio per un codice. E chi dobbiamo ringraziare per il costo esorbitato e per le sanzioni folli? Questa signora, la prima a non rispettare la Legge.
«Domani, Novak, aspettati un richiamo ufficiale.»
«Mi chiami pure Sasha, prego.» le sorrido. Io non ho un domani. Forse è per questo che la sua infrazione mi dà così tanto fastidio «Tatianna, causale B.» continuo.
L’ultima cosa che vedo, prima che il buio cancelli i pavimenti di marmo, l’acqua che zampilla ed il cielo, è l’orbita vuota del coniglio.
Non posso nemmeno prendermi una pausa, dato che ho un altro caso in pausa che mi attende «Tatianna, procedi allo sblocco del prossimo soggetto.»

* *

Mi manca un ultimo caso prima di terminare gli straordinari di oggi, gli ultimi. Apro gli occhi e mi ritrovo sulla poltrona morbida del mio ufficio, ancora collegata al computer.
Sono tutta indolenzita e inizio a sentire i frutti di tutto quel lavoro: un delizioso mal di testa che mi accompagnerà nei miei ultimi minuti di vita – che bellezza.
Tatianna mi si avvicina, con i suoi grandi occhi malinconici che non mi vedono e non mi possono vedere, e mi porge due capsule: i due sogni legali che ho guadagnato dopo aver multato quattordici persone. Le trecce che le ho fatto prima sono ancora perfette.
Il magnete ormai caldo viene rimosso dalla mia tempia e il mal di testa si fa più leggero.
«Con questi ne hai accumulati quarantanove.» mi dice. Cerco con la mano l’unico pulsante sul bracciolo della poltrona e lo premo: una sensazione di fresco sulla nuca, un paio di cling e i cavi collegati con il mio cervello tornano nella macchina.
«Bene.» prendo le capsule e mi sollevo i capelli corti, cercando con le dita le porte giuste. Inserisco una capsula e aspetto che sulla retina mi venga proiettato il solito messaggio: voglio sognare subito o accumulare il mio premio nella memoria?
Mi manca un ultimo caso, un ultimo sogno e poi basta.
Basta vita. Basta pettinare Tatianna tutti i giorni, facendo finta che sia viva. Basta rispettare la Legge solo perché è così che si deve fare, anche se la disprezzo.
Sono una vigliacca, in fondo. Rispetto le norme che hanno ucciso mia sorella, faccio le veci di uno Stato che odio e che ho sempre supportato. Sei ipocrita come pochi, Sasha.
Sospiro e mi sollevo. Devo muovermi un po’ prima che il computer del mio ufficio riceva gli ultimi impulsi di cui mi occuperò nella mia vita. Getto le capsule ora inutili nel cestino dietro alla poltrona.
«Sasha.» mi chiama mia sorella. Mi alzo in piedi e stiro le braccia «Dimmi.»
«Il mio consiglio è di non attuare la tua idea.»
Oh, Tatianna. Quando fai così mi sembri quasi viva, invece è solo la patch intuitiva che ho comprato con i risparmi di anni. Sembra quasi che si preoccupi davvero, come quando si rifiutava di accettare le capsule-premio perché sarebbero state inutili. Gli androidi non sognano.
Sei davvero masochista, Sasha.
Mi avvicino a lei e le appoggio il mento sulla spalla, avvolgendola con le mie braccia.
«Non so cosa accadrà di te.» chiudo gli occhi. Tatianna non respira. Il suo cuore non batte. Il calore che proviene dal suo corpo è dovuto al naturale surriscaldamento del suo sistema – eppure rimane mia sorella.
«Non voglio che ti uccidino.» anche se sarebbe più corretto dire “smantellino”. Dovrei essere io a disattivare il suo sistema. Dovrei essere io ad occuparmi dello smaltimento dei componenti del suo corpo, ma non posso.
Non posso.
Ho rimandato per mesi, limitandomi a pettinarle i capelli, truccarla e farle indossare gli abiti che le piacevano di più quando era in vita. Per tre anni lei è stato il cardine della mia esistenza.
È stato per lei che ho deciso di lavorare per la SnoviDD. È stato perché lei ci credeva che ho continuato ad obbedire alle nuove direttive. Ora viviamo in una dittatura, una stupida plutocrazia e io, come un cane, continuo a servire lo Stato fino ai miei ultimi istanti di vita.
«Perché vuoi morire?» mi chiede. Oh, questo è il patch dell’apprensione. Il suo tono di voce non cambia mentre mi pone questa domanda. Non le importa davvero.
«Ho sempre rispettato la Legge.» inizio con un sospiro. È bene ordinare i propri pensieri, ogni tanto «Anche se non la approvo, la faccio rispettare. Sai quante persone ho sanzionato per un malfunzionamento nel loro chip?»
«Duemil–» inizia Tatianna, ma la interrompo. Non sa riconoscere una domanda reale da una retorica «Sai quanti, incapaci di pagare, indebitati e disperati, si sono tolti la vita?»
Sognare è pericoloso. Sognare è una droga. Perché i giovani assumevano sostanze stupefacenti, decenni fa? Per vivere deliri ad occhi aperti. Perché le anziane andavano in chiesa? Per sognare di raggiungere il Paradiso una volta morte.
Ora la Chiesa e lo Stato sono le uniche cose che permettono di fantasticare senza esserne coscienti. Aumenta la produttività, vietare gli svaghi. Spaventa i bambini, sognare. Rovina il sonno. Crea illusioni e ambizioni troppo frivole, che impediscono al lavoro di essere continuo e svolto sempre concentrati.
All’inizio non era così. Tatianna credeva nella missione dello Stato – la diffusione del benessere, un controllo continuo della salute. Lei era convinta di operare a favore dei tossicodipendenti.
Poi è stata l’intera società a diventare dipendente dai sogni.
E l’hanno uccisa.
«Ricezione di impulsi preliminari.» la voce di Tatianna mi fa aprire gli occhi. Ero così persa nei miei pensieri che mi ero dimenticata di essere ancora abbracciata a lei. La libero dalla mia stretta e mi avvicino alla poltrona «Avvia la procedura.»
Cling, cling! sono collegata alla macchina. Il magnete torna a farmi pulsar la testa ad ogni respiro.
Resisti, Sasha, quello è il tuo ultimo compito.
 
Sono su qualcosa in movimento. Fletto appena le ginocchia per non cadere, mentre il vento mi scompiglia i capelli corti, che per fortuna non mi finiscono sugli occhi.
Il sogno si sta rivelando pian piano, come sempre.
«Oh!» trattengo il fiato. Il cielo. Sono sospesa nel cielo blu, costellato da nuvole soffici. Lontano, il sole mi scalda il viso con i suoi raggi. Da quant’è che non lo vedo? Non posso fare a meno di trattenere un sorriso.
In un battito di ciglia scopro di essere sul pontile di una nave, una nave che viaggia nel cielo. L’albero maestro è poco distante da me e la vela bianca è enorme e tesa. Non vedo attorno sartiame o corde varie – ovvio, siamo in un sogno. Quindi niente dettagli realistici e salvavita, questo ha tutta l’aria di essere un primo sogno illegale.
Mi guardo attorno; le assi sono nuove ed il colore del legno è caldo. Tutto è molto semplice, tutto tranne il cielo. Se non dovessi lavorare, mi perderei di certo a cercare forme strane nelle nuvole, è anni che non posso farlo.
Al posto della porta per entrare nella stiva c’è una strana apertura metallica. Mi avvicino e il suono dei miei passi sulle assi mi rassicura. È tonda e chiusa da spicchi metallici simili a petali, che per ritrarsi devono compiere un movimento semicircolare. Assomiglia vagamente… meglio di no.
«Integrami.» chiedo a Tatianna.
Il metallo scivola sul metallo e l’apertura tonda davanti a me mi rivela l’interno scuro della stiva; devo entrare? Assomiglia ad una caverna.
Un fischio mi fa arretrare: c’è qualcosa che si sta muovendo all’interno. È un palloncino sgonfio, che sfreccia verso l’esterno. Mi supera ed alzo il viso per esaminarlo meglio: è completamente rosso ed il suo moto non è certo naturale.
Si appoggia con delicatezza su una cassa che non avevo visto, appoggiata ai corrimani. Corrimani?
L’apertura dietro di me si richiude di scatto ed il palloncino inizia a muoversi. Cosa sta facendo? Mi mantengo a distanza. Sta iniziando a gonfiarsi, mentre l’estremità aperta si fonde con il legno della cassa.
Ehi, chiunque tu stia sognando, spiegami come fa della plastica a diventare legno. Assume una forma allungata ed inizia a schiarirsi, mentre la punta rimane rossa.
Sasha, non sarai incappata in un pervertito, vero?
Davanti ai miei occhi, da una cassa, spunta un membro maschile grande come il mio avambraccio, con le vene in rilievo, gonfie e pulsanti. È un mostro.
Sbuffo e distolgo lo sguardo. Non che sia nuova a sogni del genere, ma… su una cassa, senza il resto del corpo…
Un bambino si lamenta. Sollevo il capo e «Ah!» c’è un infante che sta cadendo dall’albero maestro. Faccio per avvicinarmi, poi mi ricordo che è un sogno e non posso interferire. Non posso materialmente farlo.
Il bambino colpisce il ponte con il pannolino bianco, atterrando da seduto, senza un suono. Sembra quasi che non sia caduto. Il suo corpicino è grassoccio e si rialza senza problemi – e senza che le schegge di legno gli si conficchino nei palmi. I sogni sono così comodi.
Sgambetta verso la cassa ed inizio ad avere una brutta, brutta sensazione. Non voglio che la mia vita termini con immagini spiacevoli in testa.
«Tatianna, età del soggetto.» le chiedo. Sono abbastanza sicura che sia un uomo.
«Cinquantasei anni.» risponde. I casi sono due: o ha enormi complessi riguardo alla percezione di sé – dopotutto sta sognando una nave – o è un pedofilo e sarò ben contenta di privarlo di ogni centesimo che possiede.
Il bimbo appoggia le manine sul bordo della cassa e con un balzo degno del miglior atleta si ritrova seduto accanto a quel mostro, dandomi ancora le spalle.
Mi accorgo di stringere i denti dalla tensione. Cosa farà? Sono pronta ad interrompere il sogno e multare senza continuare. Avrei già materiale a sufficienza, ma se posso morire sapendo che la condanna di uno ha evitato sofferenze a tanti, ben venga.
Il bimbo si trascina verso il pene e lo abbraccia.
Amico, ho intenzione di farti finire nel prossimo programma epurativo con quattro anni di anticipo.
Poi l’infante si volta.
«Direttore?» spalanco gli occhi. C’è il viso anziano di Ivanec al posto di quello del bambino. Ha gli occhi rovesciati e mi sorride; la sua espressione è quasi deformata, è…
«Sasha, cara!» cinguetta, appoggiando la guancia su una vena in rilievo. È cosciente?
«Direttore… Vlatko.» mi correggo «Sta sognando illegalmente.» lo avviso. Come ho multato la Direttrice Ostojić, sanzionerò lui.
«Lo so bene, carissima.» sfrega il viso contro quel mostro e mi provoca un brivido di disgusto. Chiamarlo mostro, nella mia testa, mi aiuta «Pensavo che, prima della tua dipartita, volessi divertirti un po’.»
Ci metto un attimo a collegare il tutto. Ivanec sa che morirò – ed il suo, lo so bene, è un ultimatum.
«Lo crede davvero?» stringo i pugni e sento le unghie che mi si conficcano nella carne. Questa farsa è l’insulto più grande mai ricevuto. Dovrei divertirmi con lui? Dov’è il suo rispetto?
«Ma certo.» trilla, mentre il suo sguardo schizza da tutte le parti «Sei sempre così sola, cara Sasha, sempre così devota al lavoro… una ragazza come te non dovrebbe sprecare il suo tempo sola in quell’ufficio.»
Non sono mai da sola, lurido scarto umano. Tatianna è sempre con me.
«Se io ti offrissi, vediamo, un posto come mia segretaria personale… dimmi, accetteresti?»
«Non sono una prostituta.» raddrizzo le spalle e lo fisso negli occhi morti. Io non mi vendo così «Non ho intenzione di accettare.»
«Sasha, cara. Non mi piacciono i cadaveri.» il suo tono diventa tagliente «Sono freddi e poco divertenti.»
Il mio cuore salta un battito.
«Non urlano, proprio come gli androidi.»
Era nel mio ufficio, stamattina. Con Tatianna.
«Cosa hai fatto a mia sorella.» contraggo così forte le mani che iniziano a tremare – ed è bene che lo facciano. Lo voglio uccidere. Lo devo uccidere.
Cosa ha fatto a Tatianna? Deve morire.
Voglio il suo cadavere, la sua testa.
Lei non mi ha detto nulla, ma potrebbe essere stata spenta, o il Direttor potrebbe averle rimosso i ricordi…
Morto.
Lo voglio morto.
«Oh, in realtà nulla. Non hai installato le patch che mi piacciono tanto, quindi non si è nemmeno lamentata, mentre la costringevo ad aprire le gambe.»
In un secondo, le mie mani sono strette attorno alla sua gola di bambino «Tatianna!» lo voglio vedere soffocare, voglio vedere quel suo sorriso spegnersi, gli occhi strabuzzati ed il viso gonfio e rosso.
Morto.
«Blocco definitivo delle risposte!» ordino, ma le mie mani si incontrano. Il bimbo si è sciolto, sporcandomi con un liquido appiccicoso, color carne.
«Accesso negato.» perché la voce di Tatianna mi sembra incrinata? Non lo può essere. È tutta autosuggestione – so che è così.
«Sasha, cara.» il Direttore ridacchia, ilare, anche se non lo vedo più «Senza i tuoi privilegi di dipendente non puoi mordermi.»
Il cielo si tinge di sangue. Se non sono più una dipendente…
«Interrompi la connessione!» grido. Non posso rimanere nella mente del Direttore. Non posso, non posso, non posso! «Tatianna! Ferma tutto!»
«Ma io sarò ben contento di mordere te…»
Apro gli occhi e mi ritrovo in un bagno di sudore, sulla poltrona nel mio ufficio. Non ho tempo di pensare.
Volevo morire in un delirio di suoni, colori ed immagini. Volevo morire bene, con il sorriso sulle labbra, per onorare mia sorella, ma non posso lasciare i nostri corpi incustoditi così.
Strappo i cavi connessi alla mia nuca «Tatianna, isola la stanza.»
Il pannello metallico scivola al suo posto e si richiude. Non posso lasciare che la tocchino ancora.
«Ho bisogno di fuoco.»
Non so come fare a provocarlo, ma lei sì «Dovrò rovinare l’armadio.» mi avvisa. Giusto, è di legno.
«Va bene.» sto tremando. Mi passo una mano sul viso, ed è fredda ed appiccicosa. Tatianna mi supera con il suo passo elegante e scardina un’anta senza fatica. Con la sua forza di androide, la spezza.
Mi volto per non guardarla. Lei è mia sorella. Non un androide. No, lei è entrambi «Ho fatto.» mi dice.
«Brucia tutto.»
Volevo morire tra i sorrisi e le immagini colorate, invece finirò carbonizzata nel mio ufficio, con lei. Il Direttore non può toccarmi. Inizio a sentire puzza di bruciato: il legno è appoggiato sui cuscini a terra.
«Vieni qua.» le dico. La abbraccio ancora, affondo il mio viso nella sua spalla. Non sa più di Tatianna, è plastica. Cosa le ha fatto Ivanec? Lo so già e so anche che qualcosa, dentro di me, mi dice che mia sorella non ha provato nulla. Ma quello è il suo corpo e lui…
«Sasha, così morirai.» mi dice, ma non m’importa. Chiudo gli occhi per non vedere il fumo nero «Ti prego…» mormoro.
Crollo sulle ginocchia e lei mi segue «Volevo morire in modo felice. Volevo morire per te.» le dico. I miei occhi bruciano, ma è colpa del fumo «Ivanec non ti doveva toccare. È colpa sua, tutta colpa sua…»
Tatianna ricambia il mio abbraccio in modo goffo. Le fiamme mi riscaldano le mani ed il fumo mi fa tossire «Ti sto raggiungendo.»
Forse, però, posso ancora morire in modo felice. Le tasto la nuca con la mano e raggiungo il cavo nascosto tra i capelli. Anche se la testa mi pulsa in modo doloroso e l’aria che respiro mi brucia i polmoni, so di potercela fare.
Mi collego a lei e richiamo la solita domanda – vuoi sognare?
Sì. Voglio la mia fantasmagoria, le mie cinquanta ore di allucinazioni, assieme a Tatianna.
«Sasha, sai che non posso.» mi dice, ma non m’importa. La stringo a me. Ivanec non ha lasciato tracce o forse sono io che non voglio vederle. Non voglio vederle.
Abbraccio mia sorella e tra le fiamme, inizia la mia morte. Volevo andarmene con il sorriso tra le labbra, invece il fumo mi fa piangere e tossire; ho la gola in fiamme e davanti agli occhi ho l’espressione deformata di Ivanec, che si confonde con i capelli di Tatianna.
Volevo farmi beffe dello Stato che ho servito così bene, almeno nei miei ultimi istanti di vita, invece non mi è dato nemmeno questo.
Non ho un domani – ecco che inizia davvero.
«Addio, Sasha.»
Addio.


Questa è la seconda storia di una serie, un esperimento di narrativa combinatoria, anche se si può leggere in modo autonomo :) questa volta l’ambientazione è croata, anche se si tratta sempre di una distopia. “Snovi” significa sogni. Temo che anche qui la componente nonsense sia abbastanza forte, ma ho cercato di toccare diversi temi. Spero di esserci riuscita :) la base dell'immagine è stata presa dal blog Feelin' fine.
   
 
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