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Autore: Ruta    20/04/2012    12 recensioni
A volte Sakura si perdeva nell’incertezza del domani. Allora quell’incertezza le si poteva leggere negli occhi, senza che lei parlasse o ne spiegasse le ragioni.
[Un finale ipotetico e tragico. Un memoriale e due donne, due cuori spezzati, due amori perduti, due persone da piangere. La fine che nessuno desidererebbe; quella di un domani fatto di rimpianti e rancore, da trascorrere nella memoria di quanto si è perso.]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Sakura Haruno
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il tutto è nato da una canzone, questa per l’esattezza a chi interessasse:
http://www.testimania.com/testi/testi_enrico_ruggeri_2886/testi_la_giostra_della_memoria_8492/testo_la_giostra_della_memoria_98235.html

A me è rimasta dentro questa strofa che è davvero meravigliosa.
Buona lettura!

 

 

C'è un giorno poi
che non è tutto come vuoi,
tra le persone che non possono restare più con noi.
E senti già
crescere dentro un'ansietà,
per non sapere immaginare il peso della realtà.

 

 

 

 

L’incertezza del domani


 

 
 



A volte Sakura si perdeva nell’incertezza del domani. Allora quell’incertezza le si poteva leggere negli occhi, senza che lei parlasse o ne spiegasse le ragioni.
Naruto sapeva ascoltare i suoi silenzi. Era sempre stato bravo in questo, anche quando lei era troppo stupida e cieca per capire che lui più di tutti avrebbe potuto. Quando succedeva comunque, quando senza che lei lo sapesse o ne avesse reale coscienza quel che provava le esplodeva dentro lo sguardo, ecco, tutto il male degli anni passati allora, quell’ansia, l’indeterminatezza che il futuro aveva per poter essere considerato tale e che ne era causa, ogni scintilla di dolore che portava incisa su pelle in cicatrici vecchie e ormai sbiadite sembrava riaffacciarsi prepotentemente sul suo volto e spiegazzarlo.
Faceva spavento in quei momenti, le aveva detto senza mezzi termini Ino. Ino che era sua amica e che della sincerità aveva fatto da sempre il cavillo attorno a cui ruotava la sua individualità, il perno della sua forza. Ino che era sincera su tutto tranne che sui propri sentimenti. E che taceva ingoiandoli a sorsate aspre e amare di lacrime trattenute.
Ora che un domani non c’era più, ora che non sembrava esserci più niente per cui valesse la pena lottare e combattere, ora che avrebbe potuto lasciarsi crollare sfinita, ora che non aveva più nulla a cui aggrapparsi nel concreto, neppure un terreno solido, ora che avrebbe potuto fare tutte quelle cose messe assieme e molto altro, ora Sakura non aveva alcun desiderio da esaudire che non fosse quello di un nulla con pensieri spenti.
Il domani era quello che aveva attorno, che la circondava in una bolla timbrata, che le schiacciava il respiro raschiandolo e che le rubava il sonno. La compiutezza del domani l’aveva resa infelice e la faceva agitare smaniosa e inquieta come un insetto intrappolato sul fondo di un bicchiere capovolto. Costringendola a guardare il mondo come da dietro una lente di vetro.  
Sakura non aveva più lacrime da versare. Le ultime le aveva piante sulla tomba di Tsunade a guerra finita, quando la lapide ancora fresca non portava incisi tutti i nomi dei caduti e lei covava ancora la segreta speranza che la linea frastagliata dell’orizzonte si riempisse di due sagome familiari, ombre pulsanti di carne e sangue e cuori in frantumi. Il ritorno degli eroi caduti.
Sarebbero diventati Sannin anche loro, pensava con l’orgoglio di una madre e di una sorella, di una compagna quale era rimasta fino alla fine senza avere la possibilità e il permesso di essere altro.
Così non era stato, era costretta a riconoscere ogni singolo giorno rimettendosi al giudizio del riflesso appannato dello specchio. Glielo urlavano il letto freddo e le stanze vuote dell’enorme casa disabitata che fingeva di occupare perché non la demolissero.
Avrebbe potuto essere grande Sakura. Glielo diceva il modo rispettoso con cui anche i ninja più vecchi si rivolgevano a lei e quello in cui gli abitanti chinavano il capo con deferenza passandole accanto, forse per non incrociarne lo sguardo rabbioso (la Foglia le aveva tolto tutto. Tutto).
Così non era stato neppure quello. Era una vecchia svampita ormai, smarrita nelle cose perdute e nei ricordi d’altri tempi. Di altri visi.

È incredibile come certe situazioni possano rovesciarsi a nostro vantaggio o sfavore.
Per esempio Hinata, non poteva evitare di ricordare con una sorpresa che neppure il tempo trascorso dalla prima volta che ci aveva rimuginato sopra riusciva a blandire. La guerra l’aveva mutata profondamente, a tal punto da rendergliela irriconoscibile, ma meno estranea di quanto le fosse stato l’esserino fragile e accorato che da bambina era stata prima di sbocciare nell’adulta che era diventata. Non era stata la guerra a cambiarla però, le ricordò una voce che pareva rimbombare tra le pareti cavernose della mente e lei assentì seraficamente. Era stato Naruto, rifletté con la bocca impastata e un fiotto d’acido ad affiorarle in gola come veleno.
L’amore, aggiunse con ironia tagliente la vocina che venne scacciata con prontezza secca.
Ora Hinata era a capo del Clan. Non si era sposata e la sua fermezza sull’argomento aveva finito con lo smuovere perfino l’animo di pietra del padre che solo sul letto di morte era riuscito a scorgere il valore della figlia e a riconoscerne i meriti. Non si era sposata, ma era come se lo fosse, dicevano alcuni. Si comportava come una sposa vedova che avesse perso il marito il giorno del matrimonio.
E Sakura stessa pensava che forse fosse così, che le cose si sarebbero risolte davvero a quel modo probabilmente. Ma poi pensava che no, non era giusto né vero. Che Naruto amava lei, solo lei e nessuno sarebbe mai riuscito a strapparglielo via.
Neppure l’apparenza delicata di uno sguardo traboccante d’amore.
L’egoismo la faceva sentire meglio, più viva dell’illusione che l’aveva sostituita da quel giorno maledetto. L’odio, la rabbia rappresentavano tutto ciò che le era rimasto. La vendetta che le faceva fremere la pelle per la voglia di concedersi ad essa interamente e il rimpianto che la divorava, troppo lentamente e a morsi troppo piccoli perché potesse davvero credere che sarebbe stato quello a portarla alla tomba e non una vecchiaia oscura spesa in solitudine.
La incrociava ogni tanto. Hinata.
Si imbattevano l’una nei passi dell’altra, come il sovrapporsi di linee intersecate che conducevano tutte nella stessa direzione. No, non che conducevano, ma che provenivano dallo stesso punto d’origine.
La sua era una linea che si era spezzata a metà strada per poter tornare indietro. Quella dell’altra invece proseguiva, incerta e tremolante, tutta impettita nel suo procedere lento ed esitando inevitabilmente verso ciò che si era lasciata alle spalle.
Forse non aveva avuto il coraggio di perdersi come lei nel passato. O forse pensava che non sarebbe stato all’altezza dello spettro che era ancora la sua guida irraggiungibile.
Hinata non aveva molte rughe, non tante quante lei ne sentiva a raggrinzirle gli angoli della bocca e a tirarle gli occhi ai bordi quando li socchiudeva improvvisamente per un’immagine troppo assillante.
Il suo volto però non conservava nulla della placidità che l’aveva caratterizzata in un passato remotissimo. Era un volto spigoloso e appuntito, fatto di frammenti ricongiunti, mansueto come poteva esserlo quello di una fiera in gabbia dietro sbarre d’oro. L’aspetto che era appartenuto a Naruto prima che facesse pace col mostro dentro di sé.
Sakura si riconosceva in quei tratti duri e aspri, che sapevano di scorze aggiunte ad ogni nuovo anniversario o ricorrenza, spesi in un’attesa sfumata via con la fiducia e nel crepuscolo della giovinezza.
Il futuro che mille sacrifici erano serviti a costruire e rendere possibile era lì, sotto e sopra di loro. Le soverchiava come il cielo di un blu-nero lontanissimo e inavvicinabile. Era un futuro che non avevano scelto, ma con cui si erano ritrovate a fare i conti dopo. Sconfitte da una debolezza che neppure la costanza più ostinata era riuscita ad estirpare. Soccombevano a quel futuro, tormentate e perseguitate dal rancore che tacitavano sotto il nome bugiardo di nostalgia.
Rammarico, amarezza, fastidio. La contrarietà della disillusione giunta troppo tardi per scrollarsela di dosso. Era rimasta appiccicata, insieme alla frustrazione.
La memoria era un duello continuo, senza vincitori ma solo vinti. Una giostra vorticosa.
La vertigine avrebbe mai smesso di stordirla nella sua enormità? 

 

 

 

 

Una volta era capitato che fossero troppo vicine per fingere di essere invisibili l’una all’altra. Era stata Hinata a spezzare la stasi di quell’attimo d’incertezza fuori luogo, rivolgendole un cenno del capo che sarebbe potuto considerarsi di saluto come di resa. Sakura aveva deglutito a vuoto, incapace di articolare suoni, incapace di muoversi o rispondere al gesto. Con sgomento, il primo sentimento provato dopo tanto e dopo lo stupore sempre collegato a lei, aveva seguito con lo sguardo la figurina silenziosa vedendola scivolare via, rigida in una posa fiera che non le si confaceva.
O meglio, che non si confaceva all’ultimo ricordo che Sakura aveva di lei. In un lampo l’aveva allora rivista singhiozzante, curva nell’abbraccio di Kiba, tesa su stessa e sul proprio dolore lacerante. Pioggia come allora, un cielo fatto di cicatrici grigie e pallide nuvole ferrigne.
Hinata era passata oltre con discrezione, portandosi una mano alla guancia a celarne il profilo e Sakura aveva deciso fosse stato un movimento voluto, apposito. Fatto per celare lo spauracchio di un sorriso divertito. L’irrazionalità di quel pensiero folle l’aveva lasciata sconvolta e tremante.
Era rimasta ferma sotto la pioggia scrosciante, acqua ad inzupparle le vesti e ad annacquarle lo sguardo, a riempire i solchi sempre più profondi nella pelle scavata e incartapecorita. Una statua di colori diluiti e sempre più sbiaditi, l’ombra di una reminiscenza isolata da centinaia di altre uguali.    
Sotto la lapide che il temporale aveva ricoperto di strisce livide e sporche, Sakura aveva trovato un fiore azzurro. Come i sogni e i fiordalisi, i nontiscordardime, dell’esatta sfumatura che avevano avuto i suoi occhi l’ultima volta che li aveva incrociati, quando cadendo giù dal cielo simile a un miracolo e atterrando con un pugno su un nemico, le aveva sorriso e le aveva chiesto se fosse ferita, l’aria sicura di chi conosce giù la risposta e domanda non per essere rassicurato, ma per rassicurare, perché così ci si aspetta che faccia.     
In fin dei conti lei e Hinata avevano in comune più di quanto potesse sopportare.
Entrambe avevano inseguito per anni la schiena di miraggi meravigliosi, chimere di un’infanzia diventata donna e poi signora.

Avrebbero smesso mai?
Incrociò le incisioni intagliate nella pietra con lo sguardo socchiuso e gocciolante.  

Probabilmente no.

 

 

 

Un’altra volta capitò che si incontrassero a metà strada. E poi un’altra e un’altra ancora finché anche quello – gioco di sguardi, il rincorrersi di occhiate in tralice o lanciate di soppiatto da un capo all’altro del campo rorido – non finì per diventare qualcosa di troppo comune per preoccuparsene o curarsene, prestandovi più attenzione del dovuto.
Non avevano dei turni o dei giorni particolari per recarsi fin lì, ciò nonostante non pareva un caso che dovessero sempre imbattersi tra loro o trovarsi nello stesso momento. Eppure era un conforto, sì. Strano e  inaspettato, ma rappresentava per Sakura davvero un conforto, adesso, sapere che come lei ci fosse qualcun altro incapace di dimenticare, di andare avanti, voltare pagina. Era un sollievo non sapersi sola nel proprio dolore muto e determinato, quasi quanto prima era stato una seccatura, qualcosa che aveva scatenato emozioni che aveva creduto di non possedere più e che avevano a che fare con la gelosia, il possesso, il ritenersi l’unica che avesse il diritto di soffrire per due persone precise.
Era un sollievo perché nella sua disperazione vivida e violenta, feroce, Sakura si era resa conto di riuscire a malapena a piangere per uno solo di quei fantasmi. Le sue lacrime non bastavano, non erano abbastanza. Le lacrime di due persone per due persone da piangere. Era un compromesso perfetto.      

 

  

 

Quando la vide china sul memoriale intenta ad accarezzarne la superficie immacolata con la punta dei polpastrelli, una delicatezza che non aveva nulla di timido né di impacciato, ma era solo gentilezza e , anche amore. Forse fu allora.
Era una giornata di sole e luce, il primo giorno di primavera e l’aria sembrava risplendere, stelle in pieno giorno, satura di aspettative e fiori sul punto di sbocciare, pronti a vivere, a profumare e a far brillare tutto di nuovo e incantevole.
Forse era stato allora, si disse.
Si rivide mentre si avvicinava a propria volta al memoriale, senza attendere come di consueto che lei si allontanasse, appostata dietro un albero e simile a un uccello del malaugurio. Hinata sollevò su di lei uno sguardo limpido, trasparente quanto piccoli specchi di cristallo e lucido di lacrime.    
La osservò portarsi la mano al volto e riconobbe il gesto di mesi o forse anni prima. Non era stato un sorriso che era corsa a frenare e a nascondere allora, ma la sua assenza.
Il fatto che al suo posto ci fosse un’espressione di sofferenza che pareva uguale a quella che lei sentiva palpitarle dentro, guizzare e martellarle in petto, agitarsi come una larva sempre pronta ad uscire dal bozzolo senza mai farlo. In quell’espressione non più devastata, ma ugualmente deturpata, derubata di una bellezza vera che solo l’essere lieta e serena avrebbe potuto darle, Sakura riconobbe una sorella. 
- Hinata – la chiamò. La sua voce uscì gracchiante e un po’ stridente, proprio come quella di una cornacchia.
Hinata piegò il capo su un lato, un ramo flesso sotto un peso eccessivo. La scrutò con uno strano sguardo fisso e immobile, imbambolato per certi versi, prima di fare alcunché.
- Sakura-san – mormorò quindi muovendo appena le labbra e non fu un pigolio incerto, ma un tono fermo, seppur basso, e udibilissimo.
A Sakura quel San suonò fuoriposto, strano e fastidioso. Faceva a pugni con il Sakura-chan che ancora le riempiva le orecchie fino ad otturargliele, rendendole quasi impossibile percepire qualsiasi altro suono all’infuori di quello a volte. Era diventata sorda, lei. Orba di tatto e di ogni riguardo all’altrui persona. Quel San sgradevole, comunque, le fece increspare le labbra in un sorriso storto.
Seguì un silenzio pesante, indigesto, l’aria che sembrava farsi troppo afosa attorno a loro, estiva più che primaverile. Non esistevano più le mezze stagioni.
Il cielo torreggiava su di loro, gigantesco, e le ombre degli alberi con le fronde risuonanti nel vento giocavano a rincorrersi sull’erba tagliata, incalzanti.
Sakura si schermò gli occhi, il sole abbacinante a farglieli lacrimare e strizzare.
- Non avrei mai pensato che l’amore potesse essere così doloroso. –
L’ammissione la colse di sorpresa, ma non tanto da farla sobbalzare. Era immune anche a quello: manifestazioni semplici, scontate, da ingenui e creduloni. Teste quadre.  
- Questo perché non ti ha spezzato il cuore neanche una volta prima – arricciò un angolo di bocca nel dirlo.
Hinata si portò una mano alla nuca, dietro i lunghi capelli raccolti in una crocchia ordinata, massaggiandosela con aria distratta, svagata. - Forse è così –  affermò, - o forse la verità è che non sono mai riuscita ad essere amata veramente. –
Sakura sbuffò, impedendosi di roteare gli occhi. Sarebbe stato un gesto infantile quello, più adatto alla ragazzina che non era più da secoli che alla maturità raggiunta a fatica, senza saggezza né equilibrio a darle manforte. - Tu hai dato milioni di possibilità a un baka a caso e sono sicura che anche se tardi lui avesse davvero cominciato a farlo a modo suo. Amarti. –
Il sorriso di Hinata a quella risposta era stato come il tempo a marzo. Sgualcito, instabile, una nuvola su un cielo volubile. L’aveva riscaldata come neanche il caldo riusciva più a fare.  

    

 

 

 

All’inizio, quando il dolore della perdita era stato così insopportabile da temere di venirne spezzata via - fogliolina spazzata via dal vortice di un tempo irragionevole-, Kakashi-Sensei aveva tentato di esserle vicino come aveva potuto. Le parlava per ore di fianco al letto dell’ospedale (a tenerla inchiodata al materasso miliardi di piccole ferite e tagli che non riuscivano a cicatrizzarsi, non sarebbero riusciti mai). Trascorreva con lei interi pomeriggi, fino ad avere la gola rauca e l’aria affaticata, gli occhi pieni dell’orrore che le menzogne che le raccontava servivano a ridestare nella sua memoria.
Andrà bene, Sakura, andrà bene, soleva assicurarle. Tutto sarebbe andato per il meglio.
Probabilmente nel cercare di smorzare il suo, ricordava il proprio di dolore e guardando il suo viso contratto e smunto sulla federa del cuscino asciutto – non piangeva, non aveva mai pianto, non ne aveva avuto la forza né il coraggio -, si chiedeva quando esattamente anche quelle dette a se stesso avessero smesso di avere effetto. Quando la realtà fosse diventata talmente schiacciante da rendere innegabili le sue bugie, smascherarle come nulla.
E cercando di farla riprendere, un giorno, chi avrebbe dovuto ricondurla per mano sulla strada di casa, aveva finito col perdersi a propria volta in un dedalo di vecchie immagini credute sopite nell’animo stanco. Kakashi si era scoperto vecchio e solo e triste. Il colpo era stato decisivo quella volta. L’aveva schiantato. Allora, un giorno non molto lontano, uno come tanti tra tanti altri identici e tutti ugualmente indistinguibili, era stata lei a riscoprirsi vecchia e sola e triste. Attorno a sé solo terra bruciata e un cuore arido, cocci di sogni sparpagliati in un puzzle impossibile da riassemblare. Si era riscoperta a desiderare che la fine avesse preso lei e non lui. Quell’agonia magari sarebbe cessata finalmente e giustizia sarebbe stata fatta.
L’ingiustizia però aveva prevalso, come al solito.  

 

 

 

 

- La cosa peggiore è sapere che l’alternativa a tutto questo dolore sarebbe stata una felicità perfetta. Perfetta. – Fu lei a confessare la verità, ammettendo l’errore innocente di un animo giovane, desiderio ancora tenero nelle piccole ambizioni a smuoverlo.
Lo sguardo trasognato e non più limitato alla confusione del non aver visto quel disegno realizzarsi, le rughe meno pronunciate e un’aria serafica, Sakura proseguì: - Sarei stata disposta a dargli una mezza dozzina di figli. Ci sarebbero stati Itachi e Mikoto e Fugaku. E tutti avrebbero avuto gli occhi neri e i capelli scuri. Solo la piccola Mikoto li avrebbe avuti rosa e così anche Tsunade forse. –
- Minato… - Hinata distolse lo sguardo coprendosi i dorsi sempre più rattrappiti nelle larghe maniche del kimono bianco. - Il primo figlio lo avrei chiamato così. –
Sakura le rivolse un’occhiata, rapita da una visione che all’altra era preclusa. - Occhi azzurri? – domandò con un sorrisetto.
- Non mi sarebbe importato – lei scosse la testa energicamente. Aveva una testa minuscola Hinata sotto quell’ammasso di capelli, una cascata corvina rotta da una serie di righe argentate, tanto che Sakura si chiedeva spesso come facesse il collo a mantenere tutto quel peso.
- Sarebbe stato suo figlio e sarebbe bastato. Contava solo questo, che fosse nostro. – Hinata sospirò, chiudendo gli occhi che non vedevano più da decenni, bruciati dal fuoco di un abbraccio che aveva rischiato di ucciderla per il troppo amore.

Non c’è niente d’indegno in una morte d’amore. Solo l’onore di un ninja e l’orgoglio di una donna.
-
Parlami di lui – la pregò, poggiando la schiena al lato della lapide.
Sakura si sistemò la striscia di tessuto che le copriva la gola, a nascondere sfregi mai rimarginati, preparandosi ad accontentare quella richiesta familiare, figlia d’abitudini nuove ma per questo non meno benvolute.
- Era un pasticcione e una testa quadra – cominciò con voce chioccia, - un tale scombinato a volte, ma si poteva contare su di lui, sempre. Era affidabile e mi faceva sentire protetta, al sicuro. Non era solo una spalla su cui piangere. È stato un fratello per me e gli avrei dato la luna. –
- Ma non il tuo cuore. –
- No, non il mio cuore – convenne Sakura. - Quello, che lo volessi o meno, è sempre appartenuto all’altro e non ho mai potuto fare niente al riguardo. Non che volessi cambiare le cose in verità. Non ci ho mai neppure provato. Era giusto così. Potevo averli entrambi, ma nel modo più legittimo. Non avrei ferito più nessuno. –
Hinata sospirò, sembrando affaticata. Erano vecchie ormai. Vecchie, vecchie, trillò la sua mente in un ritornello stanco.
- Suona… - una pausa breve, un respiro rotto come se le mancasse il fiato, – bello. –
- L’hai detto, nonnina. –
Hinata riaprì gli occhi concedendole l’ombra di una risata. - Zia – la riprese bonariamente.
- Prozia – le rifece il verso Sakura.     
- Pensi che sarebbe stato lo stesso anche con loro? Intendo io e te… credi che il nostro rapporto sarebbe stato uguale se loro… se loro non… - deglutì a vuoto.
- Non so dirtelo. Probabilmente sì. Ci saremmo incontrate per forza di cose. Quei due sarebbero diventati inseparabili e tutto sarebbe tornato come ai tempi subito dopo l’Accademia. –
- Non tutto – esalò Hinata.
- Beh, certo che no. Alcune cose devono cambiare necessariamente, non trovi? Fa parte del ciclo della vita, andare avanti. –
Nel dirlo la fronte le si aggrottò ed assunse un’espressione rabbuiata.

Da quale pulpito. 
- Da quale pulpito – reiterò infatti Hinata con un filo di voce e la fronte le si distese nuovamente.
Era andata male, malissimo la sua vita, considerò, ma sarebbe potuta andare anche peggio, perfino peggio. In che modo? - chiese l’insopportabile vocina. Chiunque altro avrebbe risposto: “morendo io stessa”. Ma Sakura non era chiunque altro e morire per lei non sarebbe stata la fine, non avrebbe rappresentato nulla di particolare per cui disperarsi. Era un ninja e una donna innamorata dopotutto. Era stata ambedue le cose e a distruggerla era stata appunto la consapevolezza di essere stata lasciata indietro ancora una volta, una di più.          
Morire avrebbe significato raggiungerli, ovunque fossero. Per questo Sakura aveva deciso anni addietro che il prossimo passo, andare avanti, l’avrebbe compiuto solo per raggiungerli.
Erano passate tante primavere da quel momento, ma a lei non importava molto. Non ci badava più. Stavolta la sicurezza che presto o tardi li avrebbe avuti, così come aveva detto e deciso, la tranquillizzava.      
Gettò uno sguardo obliquo a Hinata e qualcosa nella sua espressione si incrinò. Ebbe un tremito e gli occhi si contrassero dolorosamente per un attimo, ma poi si costrinse a riaprirli e a distendere le labbra in un sorriso come quello rasserenato che la donna di fronte a lei esibiva.
Sembrava in pace Hinata, il volto disteso, l’immagine di un sonno quieto, senza risveglio. – Mi hai preceduto, – mormorò Sakura in tono stranamente mite, – ma non fa niente. Ti perdono. -
Hinata non pareva sentirla, non avrebbe mai più.
- Salutali e dì loro… – guardò il cielo limpido che la sovrastava, non più peso gravante, ma distesa limpida e aperta. Era a portata di mano, una porta da socchiudere con un pugno ben piazzato. – Dì a quegli idioti di aspettarmi. –
Sorrise ancora, in modo più ampio e il vento le soffiò dolcemente in faccia parole di conforto e rassicurazione.

Perché io verrò di sicuro. Verrò e allora…
Allora l’incertezza sarebbe scomparsa e il domani avrebbe smesso di perseguitarla.

 
 


Nicchia dell’autrice:
Informazioni di servizio riguardo il nuovo regime di regolamentazione fan fiction operato dalla sottoscritta sulla sottoscritta ù_ù
Da qualche mese forse qualcuno avrà notato che la qui presente stia pubblicando decisamente di più e, udite udite sorpresa delle sorprese, perfino in giorni prestabiliti a cadenza settimanale (!).
Ebbene, il perché è presto detto. Ho deciso di pubblicare qualsiasi sciocchezza, scema, bella, brutta o poco verosimile io abbia scritto in passato o stia scrivendo nel presente. Ho cartelle zeppe di storie e frammenti di idee sparsi qua e là sul desktop con nomi improbabili barra impossibili o assurdi. Scritti, documenti e materiali vari che, per un motivo o per un altro, alla fine non vedono quasi mai la luce di una conclusione degna di nota. La mia risolutezza e il nocciolo del cambiamento sta per l’appunto in questo. Molto semplicemente, ho deciso di non lasciarli più a muffire perché non lo meritano e perché da insicura cronica quale sono e persona portata alla pigrizia e alla passività, eternamente divorata dal dubbio amletico (pubblico? Non pubblico? xD alzi la manina chi non se lo è mai posto!), insomma che un po’ di sana critica costruttiva sul mio stile, sulle trame, sui dialoghi, caratterizzazione dei personaggi e che dir si voglia, che non possa farmi che bene, anzi, più che bene ;)!
Dunque signori, a voi l’ardua sentenza. Vi lascio con un sorriso e con un abbraccio forte. Oggi c’è profumo d’estate nell’aria dopo giorni di ininterrotta pioggia melanconica, siamo in piena settimana della cultura qui - musei gratis *__* - e io sono abbastanza felice nonostante le ristrettezze di una dieta ferrea e iperproteica (bugiaaa voglio la cioccolata ç___ç a me pan di stelle e nutella, a me torta al cocco +_+).
In tutto questo lunedì it’s my birthday ed ho anche un esame. Storia della filosofia antica, barba che più barba non si può, alla faccia dei barba papà xD
Spero che a voi le cose vadano un po’ meglio <3

      

  
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