❝ If
not for ourself ❞
Ogni
volta che Mukuro vedeva la schiena di Tsuna, un brivido freddo lo
attraversava.
Da
quando avevano deciso di diventare amanti, complici, a Mukuro spesso
era capitato di vedere la sua schiena nuda e ogni volta il suo viso
sembrava
oscurarsi. Quella schiena magra, le scapole che riaffioravano
pronunciate, la
colonna vertebrale che divideva quella perfezione a metà. In
tutta quella
magnificenza però c’era un grosso difetto,
quell’enorme segno che attraversava
la schiena di Tsuna da una spalla, percorrendo una scapola, la schiena
nella
sua interezza, fino a raggiungere il fondo della schiena. Carne di un
rosa
troppo intenso, più rossa e distinta ai bordi, ancora
bruciante nonostante
fossero passati anni dall’incidente. Una cicatrice.
Non
aveva dimenticato come Tsuna si era procurato quella ferita; mai
avrebbe potuto farlo, visto che la colpa era sua. O almeno, Mukuro ne
era
uscito talmente sconvolto che aveva deciso inconsciamente di assumersi
quella
colpa.
Con
la mente tornò indietro di ben dieci anni, quando dovette
allearsi
proprio con Tsuna per combattere contro i Vindice. In quel periodo i
due non
erano affatto in buoni rapporti, anzi, ma a causa delle circostanze non
avevano
potuto agire diversamente.
La
prima parte dei suoi ricordi erano meno chiari del resto; Mukuro era
stato steso fin troppo facilmente dai Vindice, non si erano mai
rivelati nemici
semplici da abbattere quando era in prigione, ma persino quando poteva
contare
su una forza maggiore, l’aiuto dei suoi compagni e del
gruppetto della Mafia,
si era trovato in netto svantaggio.
Era
conscio di aver perso i sensi, di essersi rivelato praticamente
inutile, e soprattutto vulnerabile come non mai, durante quella
battaglia. A
ripensarci, ancora si torturava dal nervoso.
La
cosa peggiore però era stata scoprire che a causa della
propria
debolezza, qualcun altro si era sacrificato per lui e ne era rimasto
gravemente
segnato.
Quando
lo scoprì, inizialmente non riuscì a collegare
com’era successo.
Sapeva solo di trovarsi in una stanza d’ospedale, con tubi e
fili attaccati a
braccia e viso. Infastidito da quegli impedimenti, se li
strappò di dosso,
arricciando le labbra per il disagio lampante.
Finalmente
in piedi si avvicinò alla tendina che divideva il proprio
letto da quello a fianco, riuscì a scorgere
l’ombra di una figura distesa,
probabilmente di lato. Lentamente spostò la tendina, quasi
come se avesse paura
di essere udito. La prima cosa che videro i suoi occhi (o per meglio
dire, il
suo occhio non bendato) fu una striscia di sangue che percorreva una
bendaggio
che a sua volta avvolgeva il corpo esile di Sawada Tsunayoshi.
A
Mukuro bastò vedere quella ferita per ricordare
cos’era successo, ma
anche quello che non ricordava fu di facile interpretazione. Lui era
stato
mandato K.O., Tsuna aveva continuato a combattere e l’aveva
difeso, i Vindice
avevano ferito gravemente Tsuna. Chissà se Tsuna e i suoi
amici erano riusciti
a vincere… Ma soprattutto, perché si era lasciato
ferire, perché non l’aveva
lasciato perdere, abbandonandolo di nuovo ai Vindice e a
quell’oscurità senza
fine?
Mukuro
non riuscì ad essere arrogante come era solito fare quando
doveva
rivolgersi a Tsuna. Osservare quel ragazzo disteso su un lato, che
stringeva
spasmodico un lembo del lenzuolo, tremante, lo paralizzò.
Incontrare
il sorriso di Tsuna si rivelò essere la peggiore delle
punizioni. Il castano non parlò, ma quel sorriso fu
abbastanza per distruggere
definitivamente la maschera di sicurezza di Mukuro;
annullò la distanza
che lo separava dall’altro, abbracciandolo forte, forse
rischiando di
peggiorare la sua situazione.
«M-Mukuro,
così mi fai male, lo sai?»
Non lo
lasciò andare per tutta la notte, per il giorno che
seguì, così come per i
dieci anni seguenti.