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Autore: DarkButterfly    02/05/2012    2 recensioni
Resoconto crudo di una vita senza valore.
Parliamo di sperimentazione.
N.b. La storia è volutamente ambigua: se riuscite a leggerla fino in fondo, e se credete che valga la pena commentare, ditemi voi come vi immaginate il protagonista!
(spero di essere riuscita nel mio intento, è un esperimento un po' diverso dal solito)
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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What colour is the sun?


Oggi mi sono svegliato ed era tutto buio.

Non riesco a distinguere nulla, né colori né forme: dietro alle palpebre riesco a scorgere solamente un'uniforme distesa nera che si estende all'infinito tutta intorno a me.

Deve essere colpa della sostanza che mi è stata iniettata ieri... Era davvero ieri? Non sono più sicuro di nulla ormai, potrebbero essere passate poche ore o giorni interi dall'ultima volta che mi sono addormentato.

D'altra parte è impossibile mantenere la cognizione del tempo quando sei segregato dal mondo esterno e imprigionato in un posto dove la luce asettica delle lampade alogene si sostituisce al sole e il profumo fresco dell'aria si trasforma in un fetore soffocante di piscio e di corpi umidi trasudanti di terrore che si mescola alla puzza di carogna che proviene da alcune celle.

E' uno sforzo inutile cercare di tenere presente il tempo che passa, tanto lo sappiamo tutti che qui abbiamo vita breve: chi non morirà a causa delle sperimentazioni sarà eliminato in ogni caso.

Cerco di stiracchiarmi ma la mia prigione è troppo piccola, sono costretto a rimanere rannicchiato tutto il giorno: credo di non ricordarmi più come camminare.

In ogni caso non credo che ci riuscirei, sono troppo debole: qui ci danno il minimo indispensabile per sopravvivere, non un grammo in più. Il cibo non ha sapore, l'acqua torbida sa di vecchio e stantio.

Non ho un nome, credo di non averlo mai avuto.

Cerco di ricordare qualche dettaglio della mia vita che preceda questo posto ma non ricordo quasi nulla.

Qualche volta un ricordo emerge nel fiume vorticoso della mia mente, ma prima ancora che io me ne renda conto questo sparisce: un gioco violento con i miei fratelli, una carezza da parte della mia mamma... Mi chiedo cosa sia successo a loro. Spero solo che stiano meglio di me.

Mi rattrista pensare a tutto quello che non potrò vivere a causa della stupida follia di qualche carnefice che si arroga il diritto di torturarmi.

Mi hanno prelevato un giorno con la forza e mi hanno strappato dalla mia famiglia quando ancora ero troppo piccolo per potermela cavare da solo e da allora non mi è più stata rivolta una parola gentile, né una carezza o un segno d'affetto.

Nello stanzone dove mi hanno trascinato con la forza ho sentito parlare in decine di lingue diverse, non riesco a comprendere le loro parole, ma i loro sentimenti di terrore e rassegnazione sono fin troppo evidenti.

Mi hanno assegnato un numero e fin da subito ho imparato ad associare quel numero e il tintinnio delle chiavi che si avvicina alla mia cella con il mio turno di tortura.

Durante la prima seduta mi hanno rasato, pesato, preso la temperatura e poi mi hanno riportato subito al giaciglio.

Ho osservato i volti spauriti e talvolta grotteschi degli altri e l'orripilante consapevolezza che ben presto non sarei stato diverso da loro mi aveva attanagliato lo stomaco in un moto di nausea e orrore.

Nella cella di fronte alla mia un tempo c'era un tizio buffo: era uno smilzo col viso paonazzo e parzialmente coperto di peluria castana.

Nel giro di pochi giorni sul suo volto si era formata una tumefazione purpurea che secerneva pus.

Il poveraccio non poteva evitare di grattare quell'infiammazione purulenta con quelle unghie sfibrate e sudice. Si era letteralmente scarnificato.

Quando arrivava il turno del suo trattamento si divincolava e urlava con un impeto che veniva alimentato soltanto dalla disperazione, uno spettacolo da far piangere il cuore. Ma i dottori non battevano ciglio.

Una mattina i dottori erano andati a prenderlo, per la solita seduta, ma dalla sua gabbia non si era levato nessuno strepito o lamento. Aveva tirato le cuoia durante la notte, il poveraccio.

La sua cella non era rimasta vuota a lungo, poche ore dopo vi avevano relegato una mamma con i suoi neonati. Era così magra che mi domandavo se sarebbe stata in grado di nutrirli a dovere.

Non ce n'era stato bisogno. Le creaturine le furono portate via nel giro di poche ore e nessuno di noi le rivide mai più.

Spero solo che i dottori, dato che così si fanno chiamare, abbiano avuto pietà almeno per quei fragili bebè.

Il giorno dopo avevano portato via anche la mamma: era così secca e fragile, che nonostante le sue vigorose proteste e il suo incessante scalciare la riuscirono a trascinare senza il minimo sforzo.

Dalla paura la poverina non era riuscita a trattenersi e se l'era fatta sotto, non era una cosa inusuale, capitava a molti. A me per fortuna non era mai successo.

Ma in fin dei conti non è che facesse molta differenza, tanto eravamo in ogni caso costretti a dormire e mangiare in mezzo ai nostri escrementi, stretti in quella cella più simile a un loculo che ad un giaciglio.

Sento il tintinnio della chiavi che si avvicina e una voce acuta e sgradevole declama il mio codice d'identificazione.

Mi prendono e mi sollevano di peso, perché sono troppo debole per camminare autonomamente.

Anche se non posso vedere dove mi stanno portando le planimetrie di quella fatiscente fabbrica di morte mi sono familiari e ben impresse nella mia mente.

Mi fanno stendere sul freddo e cigolante lettino in ferro e ascolto attentamente il fruscio di una penna stilografica che sfrega contro un foglio di carta. Annotano sempre le variazioni fisiche dei cosiddetti "pazienti".

Dopo di che il noto e temuto rumore dell'armadietto dei medicinali rimbomba nell'aria statica della stanza. L'odore di medicinali mi nausea.

Passi si avvicinano a me, una garza idrofila imbevuta di una sostanza dall'odore asettico viene passata sulla tenera pelle dietro il mio collo.

Poi arriva l'iniezione: la punta della siringa penetra nella mia pelle e affonda inesorabile nel tessuto molle delle mie carni, sprofondando fino al muscolo.

Il liquido deve essere orticante, perché sento un forte bruciore che si diffonde dal punto in cui è stata inserita la siringa e raggiunge ogni estremità del mio corpo.

Mi riportano nella mia gabbia e mi lasciano lì.

Il bruciore non si attenua, anzi, mi sembra che tutti i miei organi interni si stiano trasformano in magma incandescente.

La nausea è terribile, sento i conati di vomito risalire lungo la mia gola e il sapore metallico del sangue inonda le mie papille e la mia bocca.

Lo sento colare lungo la lingua, acido e leggermente salato, e poi scendere misto ad una saliva collosa dalle mie labbra. Non posso vederlo, non posso vedere nulla, ma so che è sangue e so che sta per finire tutto questo dolore.

Mi sembra che a poco a poco tutta la mia linfa vitale stia uscendo da me per depositarsi sul fondo laido della gabbia. Sono così felice che questo dolore stia giungendo al termine.

Cerco di respirare, ma è impossibile, sto affogando nel mio stesso sangue. Tossisco faticosamente e penosamente.

I rumori diventano via via sempre meno nitidi, gli altri che si agitano attorno a me, le sbarre agitate violentemente, le porte sbattute, urla... Niente ha più senso ormai, non capisco più nulla.

Qualcuno si avvicina e apre la porta della gabbia, parla con tono mortificato e costernato. Sembrava che stesse funzionando e invece... Non importa, di quelli come noi è pieno il mondo: presto potranno sperimentare su un altro campione.

Mi portano lontano dalla stanza, in un posto diverso dall'ambulatorio... Porte aperte, sbattute e poi finalmente si arrestano. Sento un profumo fresco e pulito. Aria.

Mi viene da piangere dalla commozione, sto morendo. Finalmente posso essere libero.

Il calore del sole si diffonde sulle mie membra esauste, mi sembra quasi che i raggi di quel sole tiepido mi attirino verso il cielo. Sto diventando un angelo?

Il resto non è altro che un volo nel vuoto.


Fine

  
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