2.
«Ragazzi, cosa ne dite di
venire tutti a casa mia oggi? Facciamo un po' di casino!» propose Joey.
«Ehi nano, sai che hai avuto
una buona idea?» intervenne per la prima volta Matt, chiudendo la custodia
della sua chitarra. «Ne ho proprio bisogno. Sei fornito di birre?»
«Ovvio. Voi che ne dite?»
chiese l'altro chitarrista, rivolgendosi al resto del gruppo.
«Dal momento che avete
intenzione di ridurvi a merda stasera, dev'esserci
qualcuno che badi alla vostra incolumità, perciò verrò» accettò il cantante
armeno.
«Concordo con Serj. Noi due dobbiamo controllare che non vi ammazziate»
dichiarai, sorridendo.
Max rifiutò perché aveva un
concerto con i Cavalera Conspiracy,
gruppo fondato con suo fratello in seguito alla loro riappacificazione, mentre Janne accettò di buon grado e Michele si unì all'allegra combricola, dicendo: «Vengo anch'io, ma faccio compagnia
agli astemi.»
Così, divisi in due macchine,
raggiungemmo casa Jordison. Per quanto riguardava il
nostro nanetto, mi ero sempre chiesta come mai non fosse stato lui il
batterista dei Faithless, e mi ero ripromessa di
chiederglielo, prima o poi.
La casa di Joey era enorme, contornata da un giardino che amava curare
personalmente e, all'interno, arredata in modo bizzarro, con tanto di croci
celtiche ovunque, pareti completamente dipinte di nero, ricoperte di graffiti e
disegni fatti da lui. Inoltre, i mobili erano piuttosto antichi, risalenti
probabilmente all'Ottocento. Adoravo andare da lui, poiché mi trovavo a mio
agio. Nonostante vivesse da solo, la casa era pulitissima, in quanto disponeva
di una servitù eccellente e, soprattutto, ben pagata. Insomma, al nano i soldi
non mancavano, ma di certo non lo si poteva definire tirchio, anzi; condividere
le sue ricchezze con le persone che amava lo rendeva felice. Il nostro
chitarrista era davvero una persona d'oro, a cui, personalmente, volevo un bene
immenso, come del resto ne volevo a tutti gli altri ragazzi.
Ormai, loro erano la mia
vita.
La serata procedette come
previsto: Matt, Janne e Joey
si presero una sbronza colossale, mentre io, Serj e
Michele li prendevamo in giro ridendo come dei matti.
Come al solito, a noi astemi
toccò il compito di mettere a letto i nostri amici che Joey
aveva pensato bene di sistemare a casa sua, poiché non erano in grado di tornare
nelle loro.
Dopodiché, Michele ci chiese:
«Dev'essere difficile per voi metterli a letto quando
io non ci sono, vero?»
«Sì, esatto Capa. Il lavoro pesante tocca sempre a noi due» risposi,
mentre mi preparavo per andarmene.
«Ti ammazzo» dichiarò, per
poi intrappolarmi in un abbraccio e farmi il solletico.
Cominciai a dimenarmi,
ridendo a crepapelle. «Scusami Mick... Non... Non volevo chiamarti in quel
modo...» riuscii a dire, mentre non accennava a fermarsi.
«Sai cosa devi fare per farti
perdonare, vero?» mi sussurrò all'orecchio.
Serj ci guardava allibito dall'altra parte della
stanza, mentre si occupava di buttare le bottiglie di birra vuote.
Mi voltai a guardare il
bassista negli occhi e lo strinsi forte a me. «Uff...
Sai che odio doverlo dire... Ma... Mick, ti voglio... Ti voglio bene»
sussurrai.
Ricambiò il mio abbraccio e
disse: «Piccola, lo faccio per te. Esprimere i tuoi sentimenti ti serve, e
arriverà il giorno in cui riuscirai a farlo spontaneamente. Comunque anche io
te ne voglio tanto» confessò, prima di sciogliere l'abbraccio.
«Lo so Mick e so che lo fai
per il mio bene. Grazie» dissi, riconoscente.
Dopodiché, raggiunsi il mio
mitico cantante e lo abbracciai felice.
«Che c'è?» chiese,
sorridendomi.
«Niente, non posso
abbracciare il mio paparino?»
«Tu sei pazza figliola»
scherzò.
Così, tutti e tre insieme,
lasciammo casa Jordison e prendemmo posto in macchina
di Michele.
«Mi accompagni da Eve?» chiese Serj, e Michele
annuì.
Una volta accompagnato il
nostro cantante, si avviò verso casa mia.
«Quanto vorrei stare sempre
con voi» dissi e sospirai.
«Coraggio» mi incitò il
bassista.
«Non voglio andare Mick»
dissi, inchiodandomi al sedile.
Il mio amico spense il
motore.
«Voglio... Stare con te»
aggiunsi, chiudendo gli occhi per evitare che le lacrime mi inondassero il
viso.
«Liz.»
«Michele, non mi lasciare
qui» lo pregai, guardandolo in faccia con l'angoscia che mi invadeva fino alle
viscere.
«Liz...
Ti va di parlarne? Se non mi dici cosa ti turba non ti posso aiutare. Non ti
voglio vedere così.»
«Non voglio più vivere con
mio padre Mick. Lui...» Mi interruppi, stringendo i pugni.
«Lui?» mi incitò.
«Mi odia perché pensa che la
mamma sia morta per colpa mia» spiegai, scoppiando a piangere.
Il mio amico scese dalla
macchina e mi raggiunse dall'altro lato, per poi stringermi al petto.
«Liz,
shhh, tranquilla, sono qui. Senti, per stanotte
starai con me, poi domani ne parliamo. Va bene?»
«Grazie. Io... Mick?»
«Dimmi tesoro.»
«Ti adoro» sussurrai,
cercando di calmarmi.
Rimase per un attimo in
silenzio, poi rispose: «Anche io, dannazione, anche io.» Il suo tono, così come
il suo abbraccio, erano colmi di disperazione e preoccupazione.
Tornò al posto di guida,
mentre mi asciugavo le lacrime e tentavo di rilassarmi. Fece ripartire l'auto e
guidò in silenzio.
Nel tragitto, pensai a quello
che gli avevo detto poco prima e rimasi allibita di me stessa. Mi aveva detto
che sarebbe arrivato quel giorno in cui sarei riuscita ad esprimere i miei
sentimenti ed ecco che era giunto prima di quanto realmente entrambi potessimo
credere. In quel momento mi ero sentita di pronunciare quelle parole poiché mi
provenivano dal profondo dell'anima e significavano tutta la gratitudine che
provavo nei suoi confronti. Era un angelo e mi faceva sentire come se, con lui,
fossi in grado di superare qualunque ostacolo con determinazione e sicurezza.
Riusciva a farmi comprendere che dovevo credere in me stessa e nelle mie
capacità e che solo così avrei potuto affrontare al meglio la mia vita.
Come avrei fatto senza lui?
Non fui minimamente in grado di immaginarlo.