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Autore: SAranel    21/05/2012    9 recensioni
Sherlock conosce perfettamente se stesso e ha un'idea precisa di sé che, di questo è certo, niente e nessuno potrà mai cambiare. Qualcuno però, sconvolgerà completamente ogni suo piano. Cosa succederà?
"Sherlock era sempre stato un tipo da ‘no’, ‘assolutamente no’ e ‘non credo proprio’.
Non lo aveva mai fatto con premeditata cattiveria, nonostante il suo carattere presuntuoso e a volte supponente lo facesse credere, ma era inevitabile che ogni suo contatto con qualcuno che non fosse un animale o un oggetto inanimato finisse con una delle tre varianti.
Quando aveva sette anni, Sherlock aveva letto abbastanza sui pirati da poter correggere la propria maestra elementare davanti al resto della classe. Dopotutto aveva avuto la sfrontatezza di dire che ‘pirata’ e ‘corsaro’ avevano lo stesso identico significato, quando in realtà l’uno era qualcosa di totalmente diverso dall’altro.
“No no e no!” aveva detto, alzandosi in piedi indignato, guadagnandosi l’attenzione del resto della classe."[...]
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao fandomino mio!
Per prima cosa, grazie mille per le recensioni alla scorsa storia, grazie grazie grazie!
Ed eccomi con un’altra! L’ho ritrovata nei meandri del pc iniziata e mai finita…e mi dispiaceva così tanto!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!

S.

Assolutamente no, assolutamente forse, assolutamente sì
*

 

Sherlock era sempre stato un tipo da ‘no’, ‘assolutamente no’ e ‘non credo proprio’.
Non lo aveva mai fatto con premeditata cattiveria, nonostante il suo carattere presuntuoso e a volte supponente lo facesse credere, ma era inevitabile che ogni suo contatto con qualcuno che non fosse un animale o un oggetto inanimato finisse con una delle tre varianti.
Quando aveva sette anni, Sherlock aveva letto abbastanza sui pirati da poter correggere la propria maestra elementare davanti al resto della classe. Dopotutto aveva avuto la sfrontatezza di dire che ‘pirata’ e ‘corsaro’ avevano lo stesso identico significato, quando in realtà l’uno era qualcosa di totalmente diverso dall’altro.
No no e no!” aveva detto, alzandosi in piedi indignato, guadagnandosi l’attenzione del resto della classe. “I pirati depredano, saccheggiano, assaltano navi in cerca di tesori. E sono…liberi!” aveva detto diligentemente, ancora sconvolto di dover essere lui ad istruire la propria insegnante. “Il corsaro invece, dipende da un governo. Non è affatto libero. E ha dei doveri” aveva sillabato quella parola con una smorfia, come se lo mettesse a disagio anche solo pronunciarla. Poi era tornato a sedere, nel silenzio generale, osservando la maestra assumere un colorito rosso-violaceo.
Si era beccato una punizione esemplare e aveva passato il resto del pomeriggio a riempire un quaderno intero con sfilze di ‘Non devo correggere la maestra’, ma Sherlock era fiero del suo intervento, soprattutto perché lo riguardava da vicino. Da grande sarebbe diventato un pirata, un vero filibustiere dei Sette Mari, uno di quelli che la gente avrebbe ricordato per secoli, qualcuno che sarebbe stato sulla bocca di tutti, un giorno. E sarebbe stato libero, un vero bucaniere, e non certo un Corsaro schiavo di un potere superiore. Quello magari, lo avrebbe lasciato fare a Mycroft.

Poi era toccato allo zio Charles. Il fratello si sua madre strappava a Sherlock alcuni dei suoi ‘no’ più memorabili e pieni di sentimento, se una parola del genere potesse essere associata ad uno come Sherlock.
Il suo continuo chiedergli se fosse riuscito a trovare una fidanzata, il suo esasperante domandargli perché non fosse come quel gioiello di suo cugino Henry, che si era appena diplomato con il massimo dei voti ad Eton e adesso era in procinto di partire per Oxford con la sua storica fidanzatina, bionda e carina, amante dei bambini e timorata di Dio, mandava Sherlock fuori dai gangheri e aveva meditato per secoli una silente vendetta fino a quando l’occasione gli si era presentata su di un piatto d’argento.
Non credo proprio di voler assomigliare al caro cugino Henry” gli aveva detto in quella che, anche se ancora non potevano saperlo, sarebbe stata l’ ultima visita del caro zio a casa Holmes. “Ma credo che Henry non sia stato del tutto sincero, con te. C’è una busta strappata nella sua spazzatura, occultata con non particolare cura, che potrebbe interessarti. Mi pare che nell’oggetto vi fosse scritto qualcosa come… Richiesta Respinta. Ma potrei sbagliarmi” si corresse, in una recita particolarmente ben riuscita del cugino preoccupato. “Come potrei sbagliarmi a supporre che Henry si sia rivolto al suo amico Andrew della vecchia tipografia, per…falsificare un certo documento. E a proposito di Elizabeth, io tenderei a darti un altro consiglio, zio caro. Prova a chiedere delle… fotografie”.
Lo zio Charlie lo aveva guardato a bocca aperta, con una smorfia mista tra orrore e sgomento. Mamma Holmes aveva cercato in tutti i modi di farlo desistere dal salire in camera del cugino Henry e dimenticare quello che Sherlock aveva detto, ma non c’era stato verso, in nessun modo.
Gli zii si erano letteralmente eclissati nel giro di due ore, Mamma Holmes aveva inzuppato il vecchio fazzoletto di seta rosa disperandosi su quanto suo figlio fosse crudele, e Sherlock aveva lavato i piatti per due settimane.

 
Era toccato anche al liceo, diversi anni più tardi, e diverse inevitabili punizioni di vario genere dopo. Al suo primo anno Sherlock si trovò a lottare con un professore di Chimica decisamente scarso rispetto alle aspettative che si era prefisso. Il cambiare scuola, aumentare di un grado la propria istruzione induceva Sherlock a pensare di ritrovarsi in una classe seguita da un insegnante decisamente più qualificato. Peccato che per qualcuno che nelle vacanze estive aveva passato i pomeriggi assolati a spulciare in biblioteca qualcosa che lo preparasse al meglio a quello che aveva creduto di dover affrontare, quello non fosse esattamente il soggetto ideale. A sentirlo parlare, quasi si domandò se avesse mai anche solo sentito nominare il Traité Élémentaire de Chimie di Lavoisier che Sherlock aveva trovato una lettura sorprendentemente illuminante.
Durante la lezione del lunedì però, quell’uomo aveva dato il meglio di sé, sin dalla prima frase.
Ovviamente Sherlock non aveva resistito e si era alzato in piedi anche questa volta, facendo ombra ad un banco più ampio, ricevendo le occhiatacce di ragazzi decisamente più adulti ma sentendosi esattamente come svariati anni prima.
“Non credo proprio, professore” aveva detto, incrociando le braccia. “Possibile che lei non conosca una struttura molecolare tanto semplice?” si era alzato e si era avvicinato alla lavagna, con un sorriso sarcastico, e aveva tolto gentilmente di mano il gesso all’uomo.
Il professore non aveva reagito, non immediatamente, probabilmente ritrovandosi per la prima volta nella sua vita in una situazione del genere, mentre osservava Sherlock disegnare linee rette, trattini, legami e formule chimiche come se non avesse mai fatto altro in tutta la sua vita. Quando Sherlock aveva concluso, gli aveva rimesso il gessetto nel palmo rimasto aperto, tornando a sedersi come se fosse qualcosa di perfettamente normale.
Quella volta un quaderno non era bastato, non aveva più sette anni ovviamente, e una sospensione, più una nota di demerito e una predica esemplare dallo stimato Preside non poté veramente evitarla. La Signora Holmes aveva consumato un altro fazzolettino, suo padre gli aveva dato del pazzo e Mycroft, come al solito, si era fatto una grassa risata. A Sherlock però continuava a non importare, e fin quando fosse stato sicuro delle proprie convinzioni, delle proprie conoscenze, della propria fredda intelligenza capace di arginare ogni emozione e futile sentimento, Sherlock avrebbe sopportato qualsiasi punizione.

Poi, era toccato a Lestrade.
“Assolutamente no, Detective” furono anche le prime parole che rivolse a Lestrade, il giorno in cui i loro destini si incrociarono per la prima volta. “E’ ovvio che non è stata una morte accidentale, avete esaminato le sue mani? Oppure la vostra cosiddetta squadra scientifica è pagata per fare supposizioni a vuoto?”.
Lestrade l’aveva guardato come si osserva qualcuno di profondamente irritante e decisamente antipatico, stringendo i pugni come se stesse decidendo se cacciarlo via con un diplomatico ‘vaffanculo’ o con un soddisfacente e corroborante pugno in pieno viso. Per fortuna di Sherlock, Lestrade aveva abbandonato entrambe le opzioni, dopotutto per un poliziotto fresco di promozione l’aggressione ad un civile non era decisamente il massimo del buonsenso, e deciso a risolvere quel caso aveva ordinato alla squadra di procedere ad un’ulteriore analisi del corpo. Analisi che aveva rilevato, come Sherlock aveva naturalmente previsto, tracce di epitelio sconosciuto sotto le unghie della vittima, che però non erano riusciti a ricondurre a nessuno in particolare per poter finalmente chiudere il caso. Suo malgrado, decisamente disperato, Lestrade era ricorso nuovamente all’aiuto di quel tipo alto e strambo, che però sembrava essere l’unico capace di decifrare indizi agli altri sconosciuti.
“No” aveva risposto semplicemente Sherlock, quando Lestrade aveva bussato alla sua porta, esponendogli le novità riguardo al caso. “Siete voi la polizia, dopotutto. E quell’Anderson, dei vostri… ha detto che ero capace solo di far scena. Quindi…”.
Diversi battibecchi più tardi, Lestrade era riuscito ad estorcere qualcosa al reticente Sherlock, credendo ovviamente di essere riuscito a convincerlo mediante astute e studiate mosse persuasive. Quello che non sapeva era che Sherlock aveva parlato perché aveva avuto intenzione di parlare, perché Sherlock aveva giocato con lui e con la sua mente, con le sue emozioni e con il suo stato d’animo. Sherlock aveva aiutato il giovane Detective Ispettore per poter mettere in mostra le proprie capacità al di fuori del normale e per dimostrare quanto superiore lui fosse rispetto addirittura all’intero corpo di polizia di Scotland Yard. Perché per la prima volta aveva potuto permettersi di contraddire qualcuno e dimostrare qualcosa senza ricevere nemmeno uno straccio di punizione, ed era qualcosa che rendeva Sherlock soddisfatto come per poche altre cose nella sua vita. Era libero.

 
§

 
Sherlock non si era mai reputato un tipo particolarmente volubile.
Che ricordasse, o almeno da quando era stato capace di ricordare, era davvero sempre stato un tipo da ‘no’, ‘assolutamente no’ e ‘non credo proprio’, e aveva pensato nel corso degli anni a come quella situazione non sarebbe mai e poi mai cambiata. Lui non voleva cambiare, non voleva sciogliersi, non desiderava affatto che quel muro di freddezza e lucidità crollasse per via di qualcosa, o peggio, di qualcuno. Quel muro lo proteggeva, lo sosteneva, serviva a regalargli il sangue freddo e il distacco necessari ad affrontare il suo lavoro, la sua vita, gli inevitabili anche se sgraditi rapporti umani, ed era fiero di essere riuscito a mantenere quella fermezza negli anni, senza che quella barriera fosse mai esposta a minacce, dubbi o esitazioni. Sherlock era forte e consapevole di esserlo e crogiolarsi in quell’ autocompiacimento era una sensazione che lo faceva sentire vivo come non mai.
Questo almeno, fin quando non aveva incontrato John Watson per la prima volta.
Aveva sentito un inquietante crack nella sua testa quando aveva incrociato il suo sguardo nel laboratorio del Barts, come se il ‘muro’ si fosse materialmente incrinato per davvero. E da quel giorno, le cose erano andate sempre peggio, sotto quel punto di vista. Ovviamente aveva contraddetto John, era inevitabile quando non si aveva la mente di Sherlock Holmes, gli aveva dato dell’idiota molteplici volte, del noioso con una frequenza abbastanza moderata ma con il tempo, Sherlock si era accorto di un pericoloso e frustrante cambiamento.
Sherlock stava diventando, man mano che la convivenza con John andava avanti, un tipo da ‘forse’, ‘probabilmente’ ed ‘è una possibilità’.
E nella personale scala delle calamità di Sherlock, quelle tre parole insieme venivano appena un paio di scalini prima di ‘fine del mondo’.
John aveva cominciato a seguirlo in ogni caso, e si era rivelato veramente utile, oltre al fatto che con il suo lavoro, avere accanto un militare addestrato era sempre una precauzione apprezzabile. Era più intelligente di quanto Sherlock fosse riuscito a dedurre al primo sguardo, furbo, paziente, incredibilmente sveglio. Il detective non aveva mai e poi mai incontrato qualcuno di simile prima e sinceramente, valutando l’effetto che John cominciava ad avere su di lui, non sapeva se esserne felice o incredibilmente preoccupato.

“Forse hai ragione, John” gli aveva detto un giorno, senza riuscire a frenare la lingua. “Bisognerà che Lestrade faccia ulteriori indagini”.
John lo aveva guardato come se fosse un marziano appena sceso da una navicella fosforescente, mentre Sherlock svicolava via al laboratorio, chiudendosi dietro con la scusa di dover assolutamente riesaminare un campione. Tutto quello che in realtà aveva fatto era sbattere ripetutamente la testa contro il bancone di legno dei microscopi chiedendosi se stesse diventando matto. Uscito dalla stanza, ore dopo, con un vistoso livido rossastro sulla fronte, aveva incontrato John decisamente preoccupato ad aspettarlo all’uscita. Non aveva fatto domande, e Sherlock non gli era mai stato più grato come in quel momento.
E le occasioni erano diventate sempre di più, sempre più frequenti e sempre più disparate.
Non si trattava solo di casi, di omicidi, furti e affini, ma anche di semplici gesti quotidiani che spingevano Sherlock a diventare seriamente teso riguardo quella situazione. I pochi ‘no’ che riservava a John erano forzati, privi di sentimento e convinzione. Li pronunciava più per una mera abitudine, per cercare di mantenere quella facciata che era diventata un po’ il suo marchio, la sua distinzione, che stava miseramente crollando dopo anni e anni di onorato servizio.


“Pensi che l’Inghilterra vincerà, quest’anno?” gli aveva domandato John, una sera in cui il massimo delle emozioni consentite era il rischio di un’intossicazione da cibo spazzatura davanti alla tv. “Cosa deduci da quel pantaloncino sporco di terra?” lo aveva preso in giro, portando alla bocca una quantità sconsiderata di patatine.
Il vecchio Sherlock avrebbe scosso la testa, avrebbe rivolto una risata sarcastica all’interlocutore dicendogli che non era così che funzionava, che la sua mente non si curava di dettagli utili a fini futili, ma quello era John, e John non era uno qualsiasi.
“Non saprei dire. E’ probabile. Non mi è mai interessato più di tanto ma da quel che ho intravisto, è…una possibilità” aveva risposto, stringendosi le gambe con un braccio e rannicchiandosi sul divano, infilando una mano nel sacchetto in mano a John. Il medico l’aveva guardato con un sorriso caloroso, confortante, che aveva provocato a Sherlock un brivido caldo lungo la schiena, che non riusciva a capire se lo mettesse a disagio oppure no. Era qualcosa difficile da descrivere, come quasi la maggior parte delle reazioni che John gli provocava. Sherlock aveva sospirato, frustrato, mentre masticava rumorosamente il suo boccone, cercando di concentrarsi su qualcosa che non fosse il suo compagno d’appartamento fin troppo vicino, pericolosamente vicino.
Il giorno in cui si accorse di star praticamente rasentando l’orlo del burrone immaginario in cui stava immaginando di trovarsi, fu quando si rese conto che il forse stava diventando lentamente un terribile e temibile ‘credo di sì, probabilmente hai ragione’.
Non era un pieno, che Dio gliela scampasse, ma era quello che più si avvicinava al suo completo annichilimento, al momento in cui il vecchio Sherlock sarebbe completamente evaporato, sparito, smaterializzato in una nuvoletta con un puff! da fumetto, lasciando spazio ad uno Sherlock nuovo senza difesa alcuna, una prospettiva che lasciava il detective con addosso una sensazione assolutamente agghiacciante. Dove sarebbe finita la sua credibilità, la sua corazza, la sua proverbiale freddezza? Sarebbe riuscito a svolgere il suo lavoro con la stessa obiettività? Dannato John Watson.

Quel giorno poi, John aveva espresso un’opinione sul caso di turno. E la situazione era arrivata a quel nuovo temuto livello.
“Credo di sì, John. Probabilmente hai ragione”.
Quella non era la sua voce, aveva pensato Sherlock appena l’aveva udita come se fosse uno spettatore esterno e non parte attiva di quella conversazione. Non era la sua voce perché aveva detto…quella cosa e Sherlock Holmes non diceva certe cose, Sherlock negava, prendeva in giro, punzecchiava, sottometteva chi gli stava intorno. E allora perché erano state le sue labbra a formulare quelle parole?
John lo aveva osservato con un sorriso ma non gli aveva riservato particolare attenzione e quella cosa aveva sconvolto Sherlock ancora di più. Se le prime volte John era parso sorpreso, stupito, deliziato forse, adesso non si dava nemmeno più la briga di sembrare colpito dalle parole di Sherlock. Era diventata ordinaria amministrazione, qualcosa di quotidiano, normale, già sentito, comune. Sherlock ormai considerava John suo…pari.
“Grazie Sherlock” aveva detto però, annotando qualcosa sul suo taccuino, attirando l’attenzione del Sergente Donovan con una mano. Il cuore di Sherlock aveva cominciato a battere all’impazzata e aveva iniziato a sentirsi accaldato, con il sudore che scendeva lentamente dalla fronte come se i vestiti fossero improvvisamente diventati più caldi, asfissianti, nonostante fosse inverno inoltrato e a Londra si gelasse. Aveva ringraziato John mentalmente per aver messo in mezzo Sally, nonostante mal la sopportasse. Magari battibeccare con lei sarebbe stata una buona distrazione, anche se non aveva riposto troppa fiducia in quell’espediente.
Il caso era fin troppo disperato.

 
§

 

La fine, la conclusione, l’inevitabile ‘The End’ alla fine di quell’interminabile e apocalittico film di fantascienza di cui Sherlock si sentiva il tormentato protagonista, arrivò inaspettatamente in un giorno piovoso di Gennaio.
Sherlock si nascondeva, letteralmente nonostante fosse solamente un rettangolo di nemmeno quaranta centimetri per trenta, dietro il suo laptop come se John fosse una specie di assassino assetato di sangue da cui sfuggire ad ogni costo. Il medico sedeva accanto a lui però, perfettamente conscio che Sherlock gli fosse sdraiato accanto, particolare che faceva sembrare il comportamento di Sherlock ancora più ridicolo. Il detective però, non voleva che John lo guardasse. Non voleva che vedesse quello che stava diventando, quello che lo stesso John gli stava facendo a sua insaputa, colpevole eppure innocente allo stesso tempo.
Il medico guardò inevitabilmente Sherlock, con espressione di condiscendenza, come se fosse indeciso se parlare oppure no.
“Sherlock, che ti prende?” domandò infine incapace di trattenersi, mordendosi piano la lingua. “Sei strano ultimamente. Più del solito”.
Sherlock sprofondò ancora di più dietro il monitor, stizzito dall’esser stato chiamato in causa e totalmente privo di voglia di conversare, in quel momento. Era sicuro che se avesse parlato, ogni sua parola sarebbe stato un trionfo di rassicurazioni palesemente non da lui, per tranquillizzare il povero John, il dolce e tenero John Watson che tanto si preoccupava per lui e per il quale stava diventando un perfetto imbecille senza spina dorsale.
E la cosa peggiore era che sapeva benissimo che John non aveva colpe e non riusciva ad arrabbiarsi seriamente, con lui. Sarebbe stato troppo strano, certamente, e John avrebbe fatto domande a cui Sherlock non voleva rispondere. Il detective aveva paura che le poche difese, le poche coraggiose sentinelle rimaste a guardia del muro, potessero soccombere definitivamente se quella conversazione fosse andata avanti.
Sherlock aveva paura di trasformarsi in un uomo da ‘Si, certo’ e peggio, un uomo da ‘Oh Dio, sì’. Quella sarebbe stata decisamente la fine del mondo.
“Niente” borbottò in un suono indistinto. John aggrottò le sopracciglia ma non aggiunse altro, non subito.
“Non credo che sia qualcosa da niente” puntualizzò. “Ti comporti in maniera assurda. Lo vedo che mi eviti, che cerchi in tutti i modi di parlare con me il meno possibile. Se ti ho fatto qualcosa, degnami di dirmi che cosa, almeno” esclamò, indispettito ma allo stesso tempo seriamente teso per il comportamento del coinquilino. Sherlock sbuffò, incapace di pensare razionalmente per la primissima volta nella sua vita, e si costrinse ad alzare lo sguardo per evitare di offendere ulteriormente John.
“Nulla John. Ti avevo detto che spesso non parlo per giorni. Ti avevo avvisato” disse, in tono neutro, appigliandosi a quella scusa che però già sapeva non avrebbe retto.
John infatti ridacchiò, sarcastico.
“Non hai nessun caso per le mani, non hai nulla su cui riflettere o concentrarti tanto da annullare i tuoi contatti col mondo esterno… e con me” specificò. “Quindi la causa sono io”.
Sherlock si maledisse per aver gettato le basi di quel nuovo John più intuitivo, quel John che osservava di più, che studiava quello che lo circondava, che deduceva utilizzando non solo gli occhi ma la mente e l’ingegno. Forse sarebbe stato meglio se si fosse tenuto certi spassionati consigli solamente per sé.
Dall’altra parte, magari era meglio dire la verità, in fondo. Togliersi quel peso dal petto una volta per tutte, rendere John pienamente cosciente della situazione era la cosa migliore da fare ma la verità era che Sherlock aveva paura. Paura che una volta saputa la verità John potesse sentirsi in colpa, quando una colpa in realtà non c’era, che decidesse di troncare i rapporti, di…di andare via e lasciarlo solo. Quello Sherlock non avrebbe potuto accettarlo. Sherlock non riusciva nemmeno più a concepire l’idea di vivere senza John accanto.
“Io…io… non posso” cincischiò il detective, sentendosi impotente come non mai. Voleva parlare, voleva sfogarsi, voleva… che John lo ascoltasse. Il medico si avvicinò e senza che Sherlock se lo aspettasse minimamente, gli sfiorò una mano con la sua.
“Se c’è qualche problema devi parlarne con me, Sherlock. Io non… io non mi arrabbierò, non avrò reazioni, io…ti aiuterò con tutte le mie forze. Non ti lascerò, qualunque cosa sia, te lo giuro. Mai” disse poi, accarezzando il palmo della mano di Sherlock con il pollice e guardando il detective con espressione dolce, incoraggiante. Sherlock osservò la mano di John sulla sua, studiò il movimento del suo dito, assaporò le sensazioni che quel tocco stava regalando alla sua pelle sensibile, poco abituata ad un contatto così intimo. Non riuscì più a rimanere in silenzio.
“Io… io non mi sento più lo stesso” ammise, e quelle semplici parole riuscirono immediatamente a rimuovere un macigno immane dalla sua coscienza. “ E credo… credo che tu ne sia la causa”.
John non riuscì a nascondere il suo cipiglio preoccupato e Sherlock lo vide mordersi nervosamente le labbra, cercando di anticipare le parole di Sherlock pensando a quale torto avesse mai recato al coinquilino perché lui si sentisse in quel modo.
“E cosa…cosa avrei fatto, di preciso?” domandò, mantenendo un tono pacato.
Sherlock abbandonò la testa sul cuscino, frustrato.
“Niente, John. Il problema fondamentalmente è questo” rispose in tutta sincerità.
Sherlock non si era mai sentito stupido in tutta la sua vita come durante quella folle conversazione e John lo guardava come se stesse pensando la stessa identica cosa.
“Oh bene. Ci stiamo impelagando in un’altra delle tue follie” sbottò, ridacchiando, probabilmente pensando di essersi preoccupato tanto per niente.
Sherlock però non rise, rimanendo decisamente serio in volto.
“Sono un altro, da quando ci sei tu. Più debole forse, ma magari è solo la mia mente. Prima non lo ero, ero più forte, più schietto, meno accomodante. Prima ero…diverso” spiegò, forse troppo frettolosamente perché John potesse capire la situazione nella sua interezza. Lo sguardo del medico però sembrò raccontare tutta un’altra storia. Sherlock non sapeva cosa leggere in quegli occhi profondi, espressivi, meravigliosi che lo guardavano con una tenerezza mista ad empatia, comprensione.
Per la prima volta nella sua vita, John era un libro chiuso, per Sherlock.
“Lo so cosa vuoi dire” esordì poi il medico con voce melliflua approfondendo la sua carezza. “Ma tu sei sicuro che questo cambiamento non sia qualcosa di buono, in fondo?”.
Sherlock emise un versetto sarcastico. Possibile che non capisse la gravità della situazione?
“No che non lo è. Io… con te…” si bloccò improvvisamente, come se la lingua gli si fosse incollata al palato. “Io con te mi sento come non mi sono mai sentito con nessuno. Tu dici cose intelligenti, sensate, tu ragioni con la tua testa e con te non sento un bisogno di primeggiare. Io ti sento affine a me, come nessun’altro” disse, cercando di essere più esplicativo possibile.
John lo guardò in silenzio e poi arrossi, con somma sorpresa di Sherlock, molto probabilmente a causa dello pseudo complimento mascherato da accusa che Sherlock gli aveva appena rivolto.
“Grazie Sherlock. E’ molto bello sentirsi apprezzati” lo ringraziò. “ma io credo che il tuo non sia affatto un problema. Sei solamente più… umano, ed è una cosa bella, una cosa buona, te lo assicuro. Nessuno può vivere in una corazza per sempre, né dietro un muro. Arriva un momento in cui bisogna uscire e rivedere la luce del sole. Ma se può consolarti, sei ancora decisamente fuori dall’ordinario, anche come umano” scherzò, cercando di risollevare un minimo il morale decisamente tormentato del coinquilino.
Sherlock distolse lo sguardo, riflettendo. Che avesse vissuto in quel modo per così tanto tempo da ritenere negativo un qualsiasi comportamento diverso, anche se in realtà di negativo non aveva nulla? Pensò alle parole di John, al modo in cui gli aveva sorriso, al modo in cui la sua mano ancora stringeva la sua, intimamente, amorevolmente. E il nuovo Sherlock, non era indifferente a quella sensazione. Gli piaceva, apprezzava quella vicinanza unica, solamente loro, quel gesto che significava fiducia reciproca, devozione, rispetto, amicizia e inevitabilmente qualcosa di più. Forse John aveva ragione, forse John l’aveva sempre avuta.
“Penso di poter tentare di vederla nella tua ottica” disse infine, giungendo a quel giusto compromesso. John sorrise, soddisfatto di sé.
“Molto bene, Sherlock, ne sono felice. Moltissimo”.
John accarezzò ancora la mano di Sherlock, instancabilmente, come se non desiderasse mai interrompere quel lento movimento circolare e Sherlock non poteva che esserne felice.
Si sentiva come sospeso in un'altra dimensione, dove gli oggetti e le persone non avevano massa, peso, dimensioni. Si sentiva leggero, etereo, con il solo battere incessante nel suo petto a legarlo al mondo reale, al divano dove entrambi erano seduti. John lo guardava con un’espressione indecifrabile, distogliendo lo sguardo quando si accorgeva di fissarlo da troppo tempo per poi tornare a osservarlo ancora, come se fosse un bambino troppo timido innamorato di una ragazzina più grande. Dopo qualche minuto di quelle strane occhiate furtive e di quello strano comportamento, finalmente parlò di nuovo.
“Sherlock, posso farti una domanda?” chiese, tutto d’un fiato.
Sherlock lo osservò, naturalmente cercando di precederlo ma alla fine, curioso, annuì.
John respirò profondamente, come se si stesse preparando ad un importantissimo discorso davanti ad una stracolma platea immaginaria.
“Tu ti fidi di me?” fu la sua domanda.
Dove volesse andare a parare, Sherlock non ne aveva la minima idea, nemmeno un’ombra, neanche un pallido dettaglio sfocato. Sbatté le palpebre nervosamente, odiava non capire le cose, e quando parlò, si rese conto solamente pochi secondi dopo delle parole che aveva scelto.
Si, certo” disse, sicuro.
Si morse il labbro inferiore fin quando non divenne di un rosso acceso, sanguigno.
Aveva cercato in tutti i modi di evitare quel passo, di fermarsi in tempo, di non affrettare il diffondersi di quella stranissima epidemia di umanità, come era propenso definirla. Ovviamente la situazione attuale era impossibile da cambiare, fin quando John sarebbe rimasto con lui non sarebbe di certo tornato sulla sua vecchia strada, ma si era imposto di rimanere umano certo, ma nei limiti di Sherlock Holmes. E in quel momento, con due semplicissime paroline si era lentamente avviato sulla via della completa perdizione.
John però sembrò gradirle particolarmente e si avvicinò ancora, lasciando la presa dalla mano di Sherlock, che mugolò per il mancato contatto, e lasciando che il detective stendesse le gambe sulle sue ginocchia. Il medico poi poggiò le mani sulle gambe del coinquilino prima di tornare a guardarlo, pieno d’attesa, uno sguardo esitante e teso che era il perfetto riflesso di quello di Sherlock.
“Non chiedermi perché, ma la conversazione di oggi mi ha lasciato con una fortissima, incolmabile, incredibile e assurda…” chiuse gli occhi e strinse le labbra. “…voglia di baciarti, Sherlock” sussurrò, scandendo ogni parola con forza.
Sherlock rimase senza parole, dimenticando come muoversi, come articolare parole e frasi di senso compiuto, rimuovendo completamente dalla testa ogni nozione di lingua inglese appresa durante tutta la sua vita. Dimenticò dov’era, cos’era, si dimenticò di Londra e dell’Inghilterra, dimenticò il suo violino, i battibecchi con suo fratello, l’antipatia per Anderson, l’utilizzo corretto di un microscopio. Dimenticò il Barts e il suo lavoro, il cellulare e i messaggi di Lestrade, le prove, i casi, le vittime, le goffe avances di Molly, i frustini e le teste nel frigo. Dimenticò ogni particolare della sua vita in quel momento, ogni particolare che non fosse John, solo John, semplicemente John.
“Posso, Sherlock? Posso baciarti?” domandò ancora il medico, ansioso di conoscere la risposta.
Sherlock non ebbe più nessuna esitazione.
Oh Dio, sì” disse con tutta la forza che aveva dentro, ricordandosi della propria voce e delle proprie labbra solamente per quelle parole, che erano sempre state destinate a John, che dopo tante esitazioni sembravano essere nate per essere pronunciate dalla voce di Sherlock Holmes.
E mentre John lo abbracciava, baciandolo con fervore, passione e amore troppo a lungo repressi, Sherlock pensò che era davvero arrivata la fine del mondo, ormai.
Come aveva pensato però, quello era il suo personale film di fantascienza e in quelli c’era sempre qualcuno pronto a soccorrerti quando la fine sembrava vicina e inevitabile.
Che fosse un soldato in mimetica su un aereo militare supersonico o un supereroe, o un cittadino qualunque in cerca di gloria, il protagonista riusciva quasi sempre a cavarsela e rimanere vivo.
John non aveva un aereo e la sua mimetica era chiusa in un vecchio baule in camera sua, ma Sherlock non si formalizzava su quei particolari.
Mentre le labbra del medico continuavano piacevolmente il loro lavoro, Sherlock pensò che il suo Capitan John Watson in maglione e jeans su un semplice divano marrone era qualcosa che nei film non si sarebbe certo mai visto, ma a lui non poteva importare di meno. Sherlock era sicuro, certo, che non avrebbe mai e poi mai potuto desiderare nulla di meglio di lui.





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