Ciao fandomino mio!
Per prima cosa, grazie
mille per le recensioni alla scorsa storia, grazie grazie grazie!
Ed eccomi con un’altra!
L’ho ritrovata nei meandri del pc iniziata e mai
finita…e mi dispiaceva così
tanto!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
Assolutamente
no, assolutamente forse, assolutamente sì
*
Sherlock era sempre stato
un tipo da ‘no’,
‘assolutamente no’
e ‘non credo proprio’.
Non lo aveva mai fatto con premeditata cattiveria, nonostante il suo
carattere
presuntuoso e a volte supponente lo facesse credere, ma era inevitabile
che
ogni suo contatto con qualcuno che non fosse un animale o un oggetto
inanimato finisse
con una delle tre varianti.
Quando aveva sette anni, Sherlock aveva letto abbastanza sui pirati da
poter
correggere la propria maestra elementare davanti al resto della classe.
Dopotutto aveva avuto la sfrontatezza di dire che ‘pirata’ e ‘corsaro’
avevano lo stesso identico significato, quando in realtà
l’uno era qualcosa di
totalmente diverso dall’altro.
“No no e no!”
aveva detto, alzandosi
in piedi indignato, guadagnandosi l’attenzione del resto
della classe. “I
pirati depredano, saccheggiano, assaltano navi in cerca di tesori. E
sono…liberi!” aveva detto diligentemente, ancora
sconvolto di dover essere lui
ad istruire la propria insegnante. “Il corsaro invece,
dipende da un governo.
Non è affatto libero. E ha dei doveri” aveva
sillabato quella parola con una
smorfia, come se lo mettesse a disagio anche solo pronunciarla. Poi era
tornato
a sedere, nel silenzio generale, osservando la maestra assumere un
colorito
rosso-violaceo.
Si era beccato una punizione esemplare e aveva passato il resto del
pomeriggio
a riempire un quaderno intero con sfilze di ‘Non
devo correggere la maestra’, ma Sherlock era fiero
del suo
intervento, soprattutto perché lo riguardava da vicino. Da
grande sarebbe
diventato un pirata, un vero filibustiere dei Sette Mari, uno di quelli
che la
gente avrebbe ricordato per secoli, qualcuno che sarebbe stato sulla
bocca di
tutti, un giorno. E sarebbe stato libero, un vero bucaniere, e non
certo un
Corsaro schiavo di un potere superiore. Quello magari, lo avrebbe
lasciato fare
a Mycroft.
Il suo continuo chiedergli se fosse riuscito a trovare una fidanzata,
il suo
esasperante domandargli perché non fosse come quel gioiello di suo cugino Henry, che si era
appena diplomato con il
massimo dei voti ad Eton e adesso era in procinto di partire per Oxford
con la
sua storica fidanzatina, bionda e carina,
amante dei bambini e timorata di Dio, mandava Sherlock fuori dai
gangheri e
aveva meditato per secoli una silente vendetta fino a quando
l’occasione gli si
era presentata su di un piatto d’argento.
“Non credo proprio di
voler
assomigliare al caro cugino Henry” gli aveva detto in quella
che, anche se
ancora non potevano saperlo, sarebbe stata l’ ultima visita
del caro zio a casa
Holmes. “Ma credo che Henry non sia stato del tutto sincero,
con te. C’è una busta
strappata nella sua spazzatura, occultata con non particolare cura, che
potrebbe interessarti. Mi pare che nell’oggetto vi fosse
scritto qualcosa come… Richiesta
Respinta. Ma potrei
sbagliarmi” si corresse, in una recita particolarmente ben
riuscita del cugino
preoccupato. “Come potrei sbagliarmi a supporre che Henry si
sia rivolto al suo
amico Andrew della vecchia tipografia, per…falsificare
un certo documento. E a proposito di Elizabeth, io tenderei a darti un
altro
consiglio, zio caro. Prova a chiedere delle… fotografie”.
Lo zio Charlie lo aveva guardato a bocca aperta, con una smorfia mista
tra
orrore e sgomento. Mamma Holmes aveva cercato in tutti i modi di farlo
desistere dal salire in camera del cugino Henry e dimenticare quello
che
Sherlock aveva detto, ma non c’era stato verso, in nessun
modo.
Gli zii si erano letteralmente eclissati nel giro di due ore, Mamma
Holmes
aveva inzuppato il vecchio fazzoletto di seta rosa disperandosi su
quanto suo
figlio fosse crudele, e Sherlock aveva lavato i piatti per due
settimane.
Era toccato anche al
liceo, diversi anni più tardi, e diverse inevitabili punizioni di vario genere dopo. Al suo
primo anno Sherlock si trovò
a lottare con un professore di Chimica decisamente scarso rispetto alle
aspettative che si era prefisso. Il cambiare scuola, aumentare di un
grado la
propria istruzione induceva Sherlock a pensare di ritrovarsi in una
classe
seguita da un insegnante decisamente più qualificato.
Peccato che per qualcuno
che nelle vacanze estive aveva passato i pomeriggi assolati a spulciare
in
biblioteca qualcosa che lo preparasse al meglio a quello che aveva
creduto di
dover affrontare, quello non fosse esattamente il soggetto ideale. A
sentirlo
parlare, quasi si domandò se avesse mai anche solo sentito
nominare il Traité
Élémentaire de Chimie di
Lavoisier che Sherlock aveva trovato una lettura sorprendentemente
illuminante.
Durante la lezione del
lunedì però, quell’uomo aveva dato il
meglio di sé, sin dalla prima frase.
Ovviamente Sherlock non aveva resistito e si era alzato in piedi anche
questa
volta, facendo ombra ad un banco più ampio, ricevendo le
occhiatacce di ragazzi
decisamente più adulti ma sentendosi esattamente come
svariati anni prima.
“Non credo proprio, professore” aveva detto,
incrociando le braccia. “Possibile
che lei non conosca una struttura molecolare tanto semplice?”
si era alzato e si era avvicinato alla lavagna, con un
sorriso sarcastico, e aveva tolto gentilmente di mano il gesso
all’uomo.
Il professore non aveva reagito, non immediatamente, probabilmente
ritrovandosi
per la prima volta nella sua vita in una situazione del genere, mentre
osservava Sherlock disegnare linee rette, trattini, legami e formule
chimiche
come se non avesse mai fatto altro in tutta la sua vita. Quando
Sherlock aveva
concluso, gli aveva rimesso il gessetto nel palmo rimasto aperto,
tornando a
sedersi come se fosse qualcosa di perfettamente normale.
Quella volta un quaderno non era bastato, non aveva più
sette anni ovviamente,
e una sospensione, più una nota di demerito e una predica
esemplare dallo
stimato Preside non poté veramente evitarla. La Signora
Holmes aveva consumato
un altro fazzolettino, suo padre gli aveva dato del pazzo e Mycroft,
come al
solito, si era fatto una grassa risata. A Sherlock però
continuava a non
importare, e fin quando fosse stato sicuro delle proprie convinzioni,
delle
proprie conoscenze, della propria fredda intelligenza capace di
arginare ogni
emozione e futile sentimento, Sherlock avrebbe sopportato qualsiasi
punizione.
“Assolutamente no, Detective”
furono
anche le prime parole che rivolse a Lestrade, il giorno in cui i loro
destini
si incrociarono per la prima volta. “E’ ovvio che
non è stata una morte
accidentale, avete esaminato le sue mani? Oppure la vostra cosiddetta squadra scientifica è pagata
per fare
supposizioni a vuoto?”.
Lestrade l’aveva guardato
come si osserva qualcuno di profondamente irritante e decisamente antipatico, stringendo i pugni come se
stesse decidendo se cacciarlo via con un diplomatico ‘vaffanculo’ o con un
soddisfacente e corroborante pugno in pieno
viso. Per fortuna di Sherlock, Lestrade aveva abbandonato entrambe le
opzioni,
dopotutto per un poliziotto fresco di promozione
l’aggressione ad un civile non
era decisamente il massimo del buonsenso, e deciso a risolvere quel
caso aveva
ordinato alla squadra di procedere ad un’ulteriore analisi
del corpo. Analisi
che aveva rilevato, come Sherlock aveva naturalmente previsto, tracce
di
epitelio sconosciuto sotto le unghie della vittima, che però
non erano riusciti
a ricondurre a nessuno in particolare per poter finalmente chiudere il
caso.
Suo malgrado, decisamente disperato, Lestrade era ricorso nuovamente
all’aiuto
di quel tipo alto e strambo, che però sembrava essere
l’unico capace di
decifrare indizi agli altri sconosciuti.
“No” aveva risposto semplicemente Sherlock, quando
Lestrade aveva bussato alla
sua porta, esponendogli le novità riguardo al caso.
“Siete voi la polizia,
dopotutto. E quell’Anderson, dei vostri… ha detto
che ero capace solo di far
scena. Quindi…”.
Diversi battibecchi più tardi, Lestrade era riuscito ad
estorcere qualcosa al
reticente Sherlock, credendo ovviamente di essere riuscito a
convincerlo
mediante astute e studiate mosse persuasive. Quello che non sapeva era
che
Sherlock aveva parlato perché aveva avuto intenzione
di parlare, perché Sherlock aveva giocato
con lui e con la sua mente, con le sue emozioni e con il suo stato
d’animo.
Sherlock aveva aiutato il giovane Detective Ispettore per poter mettere
in
mostra le proprie capacità al di fuori del normale e per
dimostrare quanto
superiore lui fosse rispetto addirittura all’intero corpo di
polizia di
Scotland Yard. Perché per la prima volta aveva potuto
permettersi di
contraddire qualcuno e dimostrare qualcosa senza ricevere nemmeno uno
straccio
di punizione, ed era qualcosa che rendeva Sherlock soddisfatto come per
poche
altre cose nella sua vita. Era libero.
Che ricordasse, o almeno da quando era stato capace
di ricordare, era davvero sempre
stato un tipo da ‘no’,
‘assolutamente no’ e
‘non credo proprio’,
e aveva pensato nel corso degli anni a come quella situazione non
sarebbe mai e
poi mai cambiata. Lui non voleva cambiare, non voleva sciogliersi, non
desiderava affatto che quel muro di freddezza e lucidità
crollasse per via di
qualcosa, o peggio, di qualcuno. Quel muro lo proteggeva, lo sosteneva,
serviva
a regalargli il sangue freddo e il distacco necessari ad affrontare il
suo
lavoro, la sua vita, gli inevitabili anche se sgraditi rapporti umani,
ed era
fiero di essere riuscito a mantenere quella fermezza negli anni, senza
che
quella barriera fosse mai esposta a minacce, dubbi o esitazioni.
Sherlock era
forte e consapevole di esserlo e crogiolarsi in quell’
autocompiacimento era
una sensazione che lo faceva sentire vivo come non mai.
Questo almeno, fin quando non aveva incontrato John Watson per la prima
volta.
Aveva sentito un inquietante crack nella
sua testa quando aveva incrociato il suo sguardo nel laboratorio del
Barts,
come se il ‘muro’ si fosse materialmente incrinato
per davvero. E da quel
giorno, le cose erano andate sempre peggio, sotto quel punto di vista.
Ovviamente aveva contraddetto John, era inevitabile quando non si aveva
la
mente di Sherlock Holmes, gli aveva dato dell’idiota
molteplici volte, del
noioso con una frequenza abbastanza moderata ma con il tempo, Sherlock
si era
accorto di un pericoloso e frustrante cambiamento.
Sherlock stava diventando, man mano che la convivenza con John andava
avanti,
un tipo da ‘forse’,
‘probabilmente’ ed ‘è
una possibilità’.
E nella personale scala
delle calamità di Sherlock, quelle tre parole insieme
venivano appena un paio
di scalini prima di ‘fine del mondo’.
John aveva cominciato a
seguirlo in ogni caso, e si era rivelato veramente utile, oltre al
fatto che
con il suo lavoro, avere accanto un militare addestrato era sempre una
precauzione apprezzabile. Era più intelligente di quanto
Sherlock fosse
riuscito a dedurre al primo sguardo, furbo, paziente, incredibilmente
sveglio.
Il detective non aveva mai e poi mai incontrato qualcuno di simile
prima e
sinceramente, valutando l’effetto che John cominciava ad
avere su di lui, non
sapeva se esserne felice o incredibilmente preoccupato.
“Forse hai ragione,
John”
gli aveva detto un giorno, senza riuscire a frenare la lingua.
“Bisognerà che
Lestrade faccia ulteriori indagini”.
John lo aveva guardato come se fosse un marziano appena sceso da una
navicella
fosforescente, mentre Sherlock svicolava via al laboratorio,
chiudendosi dietro
con la scusa di dover assolutamente
riesaminare un campione. Tutto quello che in realtà aveva
fatto era sbattere
ripetutamente la testa contro il bancone di legno dei microscopi
chiedendosi se
stesse diventando matto. Uscito dalla stanza, ore dopo, con un vistoso
livido
rossastro sulla fronte, aveva incontrato John decisamente preoccupato
ad aspettarlo
all’uscita. Non aveva fatto domande, e Sherlock non gli era
mai stato più grato
come in quel momento.
E le occasioni erano diventate sempre di più, sempre
più frequenti e sempre più
disparate.
Non si trattava solo di casi, di omicidi, furti e affini, ma anche di
semplici
gesti quotidiani che spingevano Sherlock a diventare seriamente teso
riguardo
quella situazione. I pochi ‘no’ che riservava a
John erano forzati, privi di
sentimento e convinzione. Li pronunciava più per una mera
abitudine, per cercare
di mantenere quella facciata che era diventata un po’ il suo
marchio, la sua
distinzione, che stava miseramente crollando dopo anni e anni di
onorato servizio.
“Pensi che l’Inghilterra vincerà,
quest’anno?” gli aveva domandato John, una
sera in cui il massimo delle emozioni consentite era il rischio di
un’intossicazione da cibo spazzatura davanti alla tv.
“Cosa deduci da quel
pantaloncino sporco di terra?” lo aveva preso in giro,
portando alla bocca una
quantità sconsiderata di patatine.
Il vecchio Sherlock avrebbe scosso la testa, avrebbe rivolto una risata
sarcastica all’interlocutore dicendogli che non era
così che funzionava, che la
sua mente non si curava di dettagli utili a fini futili, ma quello era
John, e
John non era uno qualsiasi.
“Non saprei dire. E’ probabile.
Non
mi è mai interessato più di tanto ma da quel che
ho intravisto, è…una
possibilità” aveva risposto,
stringendosi le gambe con un braccio e rannicchiandosi sul divano,
infilando
una mano nel sacchetto in mano a John. Il medico l’aveva
guardato con un
sorriso caloroso, confortante, che aveva provocato a Sherlock un
brivido caldo
lungo la schiena, che non riusciva a capire se lo mettesse a disagio
oppure no.
Era qualcosa difficile da descrivere, come quasi la maggior parte delle
reazioni
che John gli provocava. Sherlock aveva sospirato, frustrato, mentre
masticava
rumorosamente il suo boccone, cercando di concentrarsi su qualcosa che
non
fosse il suo compagno d’appartamento fin troppo vicino,
pericolosamente vicino.
Il giorno in cui si accorse di star praticamente rasentando
l’orlo del burrone
immaginario in cui stava immaginando di trovarsi, fu quando si rese
conto che
il forse stava diventando
lentamente
un terribile e temibile ‘credo di
sì,
probabilmente hai ragione’.
Non era un sì pieno, che
Dio gliela scampasse, ma
era quello che più si avvicinava al suo completo
annichilimento, al momento in
cui il vecchio Sherlock sarebbe completamente evaporato, sparito,
smaterializzato in una nuvoletta con un puff!
da fumetto, lasciando spazio ad uno Sherlock nuovo senza difesa alcuna,
una
prospettiva che lasciava il detective con addosso una sensazione
assolutamente
agghiacciante. Dove sarebbe finita la sua credibilità, la
sua corazza, la sua
proverbiale freddezza? Sarebbe riuscito a svolgere il suo lavoro con la
stessa
obiettività? Dannato John Watson.
Quel giorno poi, John
aveva espresso un’opinione sul caso di turno. E la situazione
era arrivata a
quel nuovo temuto livello.
“Credo di sì, John.
Probabilmente hai ragione”.
Quella non era la sua voce, aveva pensato Sherlock appena
l’aveva udita come se
fosse uno spettatore esterno e non parte attiva di quella
conversazione. Non
era la sua voce perché aveva detto…quella
cosa e Sherlock Holmes non diceva certe cose, Sherlock
negava, prendeva in
giro, punzecchiava, sottometteva
chi
gli stava intorno. E allora perché erano state le sue labbra
a formulare quelle
parole?
John lo aveva osservato con un sorriso ma non gli aveva riservato
particolare
attenzione e quella cosa aveva sconvolto Sherlock ancora di
più. Se le prime
volte John era parso sorpreso, stupito, deliziato forse, adesso non si
dava
nemmeno più la briga di sembrare colpito dalle parole di
Sherlock. Era
diventata ordinaria amministrazione, qualcosa di quotidiano, normale,
già
sentito, comune. Sherlock ormai considerava John suo…pari.
“Grazie Sherlock” aveva detto però,
annotando qualcosa sul suo taccuino,
attirando l’attenzione del Sergente Donovan con una mano. Il
cuore di Sherlock
aveva cominciato a battere all’impazzata e aveva iniziato a
sentirsi accaldato,
con il sudore che scendeva lentamente dalla fronte come se i vestiti
fossero
improvvisamente diventati più caldi, asfissianti, nonostante
fosse inverno inoltrato
e a Londra si gelasse. Aveva ringraziato John mentalmente per aver
messo in
mezzo Sally, nonostante mal la sopportasse. Magari battibeccare con lei
sarebbe
stata una buona distrazione, anche se non aveva riposto troppa fiducia
in
quell’espediente.
Il caso era fin troppo disperato.
La
fine, la conclusione,
l’inevitabile ‘The End’
alla fine di
quell’interminabile e apocalittico film di fantascienza di
cui Sherlock si
sentiva il tormentato protagonista, arrivò inaspettatamente
in un giorno
piovoso di Gennaio.
Sherlock si nascondeva, letteralmente
nonostante fosse solamente un rettangolo di nemmeno quaranta centimetri
per
trenta, dietro il suo laptop come se John fosse una specie di assassino
assetato di sangue da cui sfuggire ad ogni costo. Il medico sedeva
accanto a
lui però, perfettamente conscio che Sherlock gli fosse
sdraiato accanto,
particolare che faceva sembrare il comportamento di Sherlock ancora
più
ridicolo. Il detective però, non voleva che John lo
guardasse. Non voleva che
vedesse quello che stava diventando, quello che lo stesso John gli
stava
facendo a sua insaputa, colpevole
eppure innocente allo stesso tempo.
Il medico guardò inevitabilmente Sherlock, con espressione
di condiscendenza,
come se fosse indeciso se parlare oppure no.
“Sherlock, che ti prende?” domandò
infine incapace di trattenersi, mordendosi
piano la lingua. “Sei strano ultimamente. Più del
solito”.
Sherlock sprofondò ancora di più dietro il
monitor, stizzito dall’esser stato
chiamato in causa e totalmente privo di voglia di conversare, in quel
momento.
Era sicuro che se avesse parlato, ogni sua parola sarebbe stato un
trionfo di
rassicurazioni palesemente non da lui, per tranquillizzare il povero
John, il
dolce e tenero John Watson che tanto si preoccupava per lui e per il
quale
stava diventando un perfetto imbecille senza spina dorsale.
E la cosa peggiore era che
sapeva benissimo che John non aveva colpe e non riusciva ad arrabbiarsi
seriamente, con lui. Sarebbe stato troppo strano, certamente, e John
avrebbe
fatto domande a cui Sherlock non voleva rispondere. Il detective aveva
paura
che le poche difese, le poche coraggiose sentinelle rimaste a guardia
del muro,
potessero soccombere definitivamente se quella conversazione fosse
andata
avanti.
Sherlock aveva paura di
trasformarsi in un uomo da ‘Si, certo’
e peggio, un uomo da ‘Oh Dio,
sì’.
Quella sarebbe stata decisamente la
fine del mondo.
“Niente” borbottò in un suono
indistinto. John aggrottò le sopracciglia ma non
aggiunse altro, non subito.
“Non credo che sia qualcosa da niente”
puntualizzò. “Ti comporti in maniera
assurda. Lo vedo che mi eviti, che cerchi in tutti i modi di parlare
con me il
meno possibile. Se ti ho fatto qualcosa, degnami di dirmi che cosa,
almeno”
esclamò, indispettito ma allo stesso tempo seriamente teso
per il comportamento
del coinquilino. Sherlock sbuffò, incapace di pensare
razionalmente per la
primissima volta nella sua vita, e si costrinse ad alzare lo sguardo
per
evitare di offendere ulteriormente John.
“Nulla John. Ti avevo detto che spesso non parlo per giorni.
Ti avevo avvisato”
disse, in tono neutro, appigliandosi a quella scusa che però
già sapeva non
avrebbe retto.
John infatti ridacchiò, sarcastico.
“Non hai nessun caso per le mani, non hai nulla su cui
riflettere o
concentrarti tanto da annullare i tuoi contatti col mondo
esterno… e con me”
specificò. “Quindi la causa sono io”.
Sherlock si maledisse per aver gettato le basi di quel nuovo John
più
intuitivo, quel John che osservava di più, che studiava
quello che lo
circondava, che deduceva utilizzando non solo gli occhi ma la mente e
l’ingegno. Forse sarebbe stato meglio se si fosse tenuto
certi spassionati
consigli solamente per sé.
Dall’altra parte, magari era meglio dire la
verità, in fondo. Togliersi quel
peso dal petto una volta per tutte, rendere John pienamente cosciente
della
situazione era la cosa migliore da fare ma la verità era che
Sherlock aveva
paura. Paura che una volta saputa la verità John potesse
sentirsi in colpa,
quando una colpa in realtà non c’era, che
decidesse di troncare i rapporti,
di…di andare via e lasciarlo solo. Quello Sherlock non
avrebbe potuto accettarlo.
Sherlock non riusciva nemmeno più a concepire
l’idea di vivere senza John accanto.
“Io…io… non posso”
cincischiò il detective, sentendosi impotente come non mai.
Voleva parlare, voleva sfogarsi, voleva… che John lo
ascoltasse. Il medico si
avvicinò e senza che Sherlock se lo aspettasse minimamente,
gli sfiorò una mano
con la sua.
“Se c’è qualche problema devi parlarne
con me, Sherlock. Io non… io non mi
arrabbierò, non avrò reazioni, io…ti
aiuterò con tutte le mie forze. Non ti
lascerò, qualunque cosa sia, te lo giuro. Mai”
disse poi, accarezzando il palmo
della mano di Sherlock con il pollice e guardando il detective con
espressione
dolce, incoraggiante. Sherlock osservò la mano di John sulla
sua, studiò il
movimento del suo dito, assaporò le sensazioni che quel
tocco stava regalando
alla sua pelle sensibile, poco abituata ad un contatto così
intimo. Non riuscì
più a rimanere in silenzio.
“Io… io non mi sento più lo
stesso” ammise, e quelle semplici parole riuscirono
immediatamente a rimuovere un macigno immane dalla sua coscienza.
“ E credo…
credo che tu ne sia la causa”.
John non riuscì a
nascondere il suo cipiglio preoccupato e Sherlock lo vide mordersi
nervosamente
le labbra, cercando di anticipare le parole di Sherlock pensando a
quale torto
avesse mai recato al coinquilino perché lui si sentisse in
quel modo.
“E cosa…cosa avrei fatto, di preciso?”
domandò, mantenendo un tono pacato.
Sherlock abbandonò la testa sul cuscino, frustrato.
“Niente, John. Il problema fondamentalmente è
questo” rispose in tutta
sincerità.
Sherlock non si era mai sentito stupido in tutta la sua vita come
durante
quella folle conversazione e John lo guardava come se stesse pensando
la stessa
identica cosa.
“Oh bene. Ci stiamo impelagando in un’altra delle
tue follie” sbottò,
ridacchiando, probabilmente pensando di essersi preoccupato tanto per
niente.
Sherlock però non rise, rimanendo decisamente serio in volto.
“Sono un altro, da quando ci sei tu. Più debole
forse, ma magari è solo la mia
mente. Prima non lo ero, ero più forte, più
schietto, meno accomodante. Prima
ero…diverso”
spiegò, forse troppo
frettolosamente perché John potesse capire la situazione
nella sua interezza.
Lo sguardo del medico però sembrò raccontare
tutta un’altra storia. Sherlock
non sapeva cosa leggere in quegli occhi profondi, espressivi,
meravigliosi che
lo guardavano con una tenerezza mista ad empatia, comprensione.
Per la prima volta nella sua vita, John era un libro chiuso, per
Sherlock.
“Lo so cosa vuoi dire” esordì poi il
medico con voce melliflua approfondendo la
sua carezza. “Ma tu sei sicuro che questo cambiamento non sia
qualcosa di buono, in
fondo?”.
Sherlock emise un versetto sarcastico. Possibile che non capisse la
gravità
della situazione?
“No che non lo è. Io… con
te…” si bloccò improvvisamente, come se
la lingua gli
si fosse incollata al palato. “Io con te mi sento come non mi
sono mai sentito
con nessuno. Tu dici cose intelligenti, sensate, tu ragioni con la tua
testa e
con te non sento un bisogno di primeggiare. Io ti sento affine
a me, come nessun’altro” disse, cercando di essere
più
esplicativo possibile.
John lo guardò in silenzio
e poi arrossi, con somma sorpresa di Sherlock, molto probabilmente a
causa
dello pseudo complimento mascherato da accusa
che Sherlock gli aveva appena rivolto.
“Grazie Sherlock. E’ molto bello sentirsi
apprezzati” lo ringraziò. “ma io
credo che il tuo non sia affatto un problema. Sei solamente
più… umano,
ed è una cosa bella, una cosa
buona, te lo assicuro. Nessuno può vivere in una corazza per
sempre, né dietro
un muro. Arriva un momento in cui bisogna uscire e rivedere la luce del
sole. Ma
se può consolarti, sei ancora decisamente fuori
dall’ordinario, anche come umano”
scherzò, cercando di risollevare
un minimo il morale decisamente tormentato del coinquilino.
Sherlock distolse lo sguardo, riflettendo. Che avesse vissuto in quel
modo per
così tanto tempo da ritenere negativo un qualsiasi
comportamento diverso, anche
se in realtà di negativo non aveva nulla? Pensò
alle parole di John, al modo in
cui gli aveva sorriso, al modo in cui la sua mano ancora stringeva la
sua,
intimamente, amorevolmente. E il nuovo Sherlock, non era indifferente a
quella
sensazione. Gli piaceva, apprezzava quella vicinanza unica, solamente
loro,
quel gesto che significava fiducia reciproca, devozione, rispetto,
amicizia e
inevitabilmente qualcosa di più. Forse John aveva ragione,
forse John l’aveva
sempre avuta.
“Penso di poter tentare di vederla nella tua
ottica” disse infine, giungendo a
quel giusto compromesso. John sorrise, soddisfatto di sé.
“Molto bene, Sherlock, ne sono felice. Moltissimo”.
John accarezzò ancora la mano di Sherlock, instancabilmente,
come se non
desiderasse mai interrompere quel lento movimento circolare e Sherlock
non
poteva che esserne felice.
Si sentiva come sospeso in un'altra dimensione, dove gli oggetti e le
persone
non avevano massa, peso, dimensioni. Si sentiva leggero, etereo, con il
solo
battere incessante nel suo petto a legarlo al mondo reale, al divano
dove
entrambi erano seduti. John lo guardava con un’espressione
indecifrabile,
distogliendo lo sguardo quando si accorgeva di fissarlo da troppo tempo
per poi
tornare a osservarlo ancora, come se fosse un bambino troppo timido
innamorato
di una ragazzina più grande. Dopo qualche minuto di quelle
strane occhiate
furtive e di quello strano comportamento, finalmente parlò
di nuovo.
“Sherlock, posso farti una domanda?” chiese, tutto
d’un fiato.
Sherlock lo osservò, naturalmente cercando di precederlo ma
alla fine, curioso,
annuì.
John respirò profondamente, come se si stesse preparando ad
un importantissimo
discorso davanti ad una stracolma platea immaginaria.
“Tu ti fidi di me?” fu la sua domanda.
Dove volesse andare a parare, Sherlock non ne aveva la minima idea,
nemmeno
un’ombra, neanche un pallido dettaglio sfocato.
Sbatté le palpebre
nervosamente, odiava non capire le cose, e quando parlò, si
rese conto
solamente pochi secondi dopo delle parole che aveva scelto.
“Si, certo”
disse, sicuro.
Si morse il labbro inferiore fin quando non divenne di un rosso acceso,
sanguigno.
Aveva cercato in tutti i
modi di evitare quel passo, di fermarsi in tempo, di non affrettare il
diffondersi di quella stranissima epidemia
di umanità, come era propenso definirla.
Ovviamente la situazione attuale
era impossibile da cambiare, fin quando John sarebbe rimasto con lui
non
sarebbe di certo tornato sulla sua vecchia strada, ma si era imposto di
rimanere umano certo, ma nei limiti di
Sherlock Holmes. E in quel momento, con due semplicissime
paroline si era
lentamente avviato sulla via della completa perdizione.
John però sembrò gradirle particolarmente e si
avvicinò ancora, lasciando la
presa dalla mano di Sherlock, che mugolò per il mancato
contatto, e lasciando che
il detective stendesse le gambe sulle sue ginocchia. Il medico poi
poggiò le
mani sulle gambe del coinquilino prima di tornare a guardarlo, pieno
d’attesa,
uno sguardo esitante e teso che era il perfetto riflesso di quello di
Sherlock.
“Non chiedermi perché, ma la conversazione di oggi
mi ha lasciato con una
fortissima, incolmabile, incredibile e assurda…”
chiuse gli occhi e strinse le
labbra. “…voglia di baciarti, Sherlock”
sussurrò, scandendo ogni parola con
forza.
Sherlock rimase senza parole, dimenticando come muoversi, come
articolare
parole e frasi di senso compiuto, rimuovendo completamente dalla testa
ogni
nozione di lingua inglese appresa durante tutta la sua vita.
Dimenticò dov’era,
cos’era, si dimenticò di Londra e
dell’Inghilterra, dimenticò il suo violino, i
battibecchi con suo fratello, l’antipatia per Anderson,
l’utilizzo corretto di
un microscopio. Dimenticò il Barts e il suo lavoro, il
cellulare e i messaggi
di Lestrade, le prove, i casi, le vittime, le goffe avances di Molly, i
frustini e le teste nel frigo. Dimenticò ogni particolare
della sua vita in
quel momento, ogni particolare che non fosse John, solo John,
semplicemente John.
“Posso, Sherlock? Posso baciarti?”
domandò ancora il medico, ansioso di
conoscere la risposta.
Sherlock non ebbe più nessuna esitazione.
“Oh Dio, sì”
disse con tutta la forza
che aveva dentro, ricordandosi della propria voce e delle proprie
labbra
solamente per quelle parole, che erano sempre state destinate a John,
che dopo
tante esitazioni sembravano essere nate per essere pronunciate dalla
voce di
Sherlock Holmes.
E mentre John lo abbracciava, baciandolo con fervore, passione e amore troppo a lungo repressi, Sherlock
pensò che era davvero arrivata la fine
del mondo, ormai.
Come aveva pensato però, quello era il suo personale film di
fantascienza e in
quelli c’era sempre qualcuno pronto a soccorrerti quando la
fine sembrava
vicina e inevitabile.
Che fosse un soldato in mimetica su un aereo militare supersonico o un
supereroe, o un cittadino qualunque in cerca di gloria, il protagonista
riusciva quasi sempre a cavarsela e rimanere vivo.
John non aveva un aereo e la sua mimetica era chiusa in un vecchio
baule in
camera sua, ma Sherlock non si formalizzava su quei particolari.
Mentre le labbra del medico continuavano piacevolmente il loro lavoro,
Sherlock
pensò che il suo Capitan John Watson in maglione e jeans su
un semplice divano
marrone era qualcosa che nei film non si sarebbe certo mai visto, ma a
lui non
poteva importare di meno. Sherlock era sicuro, certo,
che non avrebbe mai e poi mai potuto desiderare nulla
di meglio di lui.