Anime & Manga > Dragon Ball
Ricorda la storia  |      
Autore: lilly81    23/05/2012    21 recensioni
"Baciare è un'arte che si affina con l'esperienza: nessuno al primo approccio ne detiene già la tecnica."
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“Sull’arte di baciare un saiyan e tutte le complicazioni”

“Sull’arte di baciare un saiyan e tutte le complicazioni

di Lilly81

 

 

Baciare è un’arte che si affina con l’esperienza: nessuno al primo approccio ne detiene già la tecnica.

Un dilettante, che per la prima volta accosti la bocca ad uno strumento a fiato, non sarà capace di emettere neppure un sibilo scordato, poiché il suono non riceve il primo impulso dai polmoni ma da un’aderenza studiata delle labbra sulla boccola.

Nella stessa misura, può accadere a molti che il primo bacio lasci un retrogusto deludente.

Occorre che si baci almeno una seconda volta perché il movimento diventi quello giusto, una terza per raggiungere l’abilità di un allievo un po’ spavaldo, una quarta per sentirsi padroni della disciplina: è a questo punto che la tecnica è soppiantata dallo stile.

Baciare è, non a caso, una forma di linguaggio, è questione di scioltezza, di cadenze giuste, di pause ben calibrate, che coinvolge più o meno tutto il corpo. Come un discorso improvvisato davanti ad una platea, può catturare o lasciare l’interlocutore nella più totale indifferenza.

Dolce, passionale, aggressivo, languido, con gli occhi chiusi o spalancati, con o senza lingua, con un bacio si può dir molto e si può non dir niente.

Baciare è un ciak cinematografico dalle scenografie più disparate. Ogni luogo potrebbe essere quello giusto se solo giusta fosse la disposizione dell’animo.

Un divano di pelle rossa, una musica tecno in sottofondo, l’aria impregnata di sigaretta e di alcool, il sudore dei presenti, difficilmente creano l’atmosfera giusta; se poi la persona con la quale si viene a contatto è un perfetto sconosciuto la possibilità che si realizzi un’armonia, una dialettica o un momento da incorniciare è assai improbabile.

Bulma non era andata a quella festa per farsi baciare, ma il ragazzo che l’aveva invitata a ballare era davvero carino e dopo un bicchiere di vodka e qualche risata sciocca sussurrata nell’orecchio, tra il pigiare della folla, aveva incominciato ad avvertire il primo segnale di un capogiro e gli aveva chiesto di andarsi a sedere.

Da quando aveva lasciato Iamcha, era la prima uscita mondana che si concedeva.

L’invito era giunto dalla fidanzata di un compagno della sua squadra di baseball, la quale le aveva suggerito, dopo averla incontrata per caso all’uscita dal parrucchiere, che distrarsi un po’ le avrebbe fatto bene e che non avrebbe corso il rischio di imbattersi nel suo ex impegnato in trasferta con il resto della squadra.   

Ora, Bulma non era particolarmente sconvolta per la fine della storia con il suddetto, ma se un’altrettanto perfetta sconosciuta le aveva detto di trovarla pallida e sciupata, malgrado la piastra appena passata sui capelli, c’era qualcosa in lei che davvero non andava.

Chi credeva, poi, di essere quella tipa col naso adunco e una borsa a tracolla da firma contraffatta?

Dopo aver precisato che, in ogni caso, non avrebbe temuto di incontrare Iamcha in quanto si erano già detti tutto quanto c’era da dire, con un sorriso affettato e una stretta di mano assassina aveva accettato l’invito, persuasa che, una volta tanto, mescolarsi a gente qualsiasi, che sottostasse alle forze gravitazionali esattamente come lei, le avrebbe dato l’illusione di far parte di un mondo normale.

Maledetto il giorno in cui aveva conosciuto Goku e tutto il suo seguito!

Lei non era fatta per la guerra, i combattimenti, le invasioni aliene, i prodigi dei draghi, le possessioni demoniache.

Tutto questo l’aveva sciupata negli ultimi mesi. Il parrucchiere le aveva detto di non averle mai trovato tante doppie punte.

Era così assurdo pretendere una vita normale, con gente normale che non avesse code mozzate, capacità da trasformista, dorsi di tartaruga sulle spalle, sdoppiamenti di personalità?

Quale fosse poi il concetto di “normale”, ancora non le era chiaro.

Iamcha, in fondo, diventava un uomo qualunque quando andava in palestra e sbavava dietro i sederi rassodati dall’aerobica.

Non l’aveva lasciato, forse, per questo?

Allora, non era questione di normalità, ma di voltare pagina e soffermarsi su quella più interessante, a patto di trovarla prima che le parole si sbiadissero e la carta si sbriciolasse.

La lingua di quell’uomo incominciò ad esplorare la sua bocca e lei si ritrovò a subire quell’invasione senza neppure riuscire a chiudere gli occhi.

Che strana sensazione sentire qualcosa di umido attorno alle labbra e meditare nel frattempo quale tipo di carrozzeria applicare al nuovo jet in costruzione.

Era convinta che fosse soltanto Iamcha, nell’ultimo periodo, ad averle fatto scoprire che pure lei poteva disporre di un potere simile al teletrasporto, quello dell’ubiquità… mentale.

Quando poi la mano dell’uomo risalì dal polpaccio e si infilò sotto la gonna, allora capì che neppure questa pagina era quella giusta e si affrettò a voltarla con la stessa velocità con cui le sue dita schioccarono sulla faccia dell’uomo.

Stordita dal tum tum tum della musica, faticò a mettersi in piedi e impiegò almeno cinque minuti per farsi strada tra la calca e raggiungere l’uscita.

La brezza notturna che la investì appena fuori la porta le fece emettere un respiro di sollievo, ma la vista di un altro uomo che pomiciava sulle scale di granito con due ragazze sbronze le accrebbe il senso di malessere allo stomaco.

Non la scandalizzava, di certo, l’audacia di un giovane che ci aveva provato, né la sfacciataggine di qualche ragazza che per dare spessore al cervello non poteva fare altro che bere e imbibirlo come una spugna, ma sentire che questo tipo di normalità non le suscitava il benché minimo interesse.

Troppe cose aveva visto e troppe avventure aveva vissuto per credere che fosse facile mescolarsi tra gente comune e trovare compiacimento nell’attenzione di un tizio… qualunque.

Iamcha aveva smesso di interessarle quando aveva capito che il suo essere diverso dagli altri non andava oltre la capacità di librarsi nell’aria.

Il baseball, il cinema, il teatro, le feste, le passeggiate, qualsiasi cosa un tempo l’avesse sedotta con facilità, erano divenute di colpo prive di qualsiasi attrattiva.

Sbirciò l’orologio e, visto che erano soltanto le 22.57 e la sua casa distava da lì di un isolato, decise che quattro passi a piedi sarebbero stati salutari.

Quel ragazzo non era niente di speciale, rifletté incamminandosi.

Con quella fila al lato era veramente ridicolo! Per non parlare della camicia a fiori!

A proposito, ma da quando non gli piacevano più i ragazzi biondi con gli occhi azzurri?

Sospirò con frustrazione al pensiero che gli anni stavano passando pure per lei, mentre il tum tum tum della musica degradava nel condotto uditivo in un fischio acuto ed insistente.

La luce dei lampioni indorava la sua chioma; e l’asfalto, sottostando al ritmo cadenzato dei suoi tacchi, lasciava fuoriuscire, come una chiazza di petrolio sull’acqua, un’ombra vibrante ed inquieta.

Un’auto si accostò davanti ad un cancello, ne scese una ragazza che, nell’atto di congedarsi, mandò un bacio al giovane conducente con la mano svolazzante. Questi la seguì con lo sguardo fino a quando non fu rientrata in casa.

Ecco: l’amore è fatto proprio di questi piccoli dettagli. Non c’è niente di più tenero del senso di protezione che una donna può ispirare al proprio uomo.

Il ragazzo alla guida ripartì, rallentò all’altezza di Bulma, le fece un fischio di approvazione e se ne andò.

La verità era che non si trattava del colore dei capelli, della fila a lato, né della fantasia della camicia o del sapore di vodka al melone di quell’uomo; neppure dell’imbecillità dell’ultimo esemplare di maschio appena incrociato.

Era che sentiva che in nessun posto del mondo sarebbe stata bene come alla Capsule Corp.; e non erano i giardini lussureggianti, la piscina ad idromassaggio, la sauna, i laboratori o qualsiasi altro confort installato, né l’ingegno di suo padre o la testa tra le nuvole di sua madre a farle desiderare di ritrovare al più presto conforto nell’intimità e nella familiarità della sua casa.

Neppure lontana dalla Terra, su un pianeta dai colori ribaltati, aveva sentito tanta nostalgia di quelle mura come nell’istante in cui una decappottabile sfrecciò con cinque ragazze a bordo che cantavano e si divertivano a squarciagola.

Tutto quello che c’era al di fuori di queste apparve d’un tratto così vano e superfluo che un brivido freddo le attraversò la spina dorsale e le fece riannodare il foulard alla gola.

Le sere di fine estate sono sempre piene di insidie: una coltre sottile di umidità era già calata sulle auto parcheggiate fuori le abitazioni e tra il groviglio di una boungaville quasi avvizzita, nel giardino di una graziosa casetta prospiciente la sua, scorse il gazebo, teatro di molte grigliate all’aperto, ormai smantellato.

Non appena varcò il cancello della Capsule Corp., il cespuglio delle gardenie fu l’unico posto più vicino nel quale vomitare gli stuzzichini e la vodka al melone che aveva bevuto.

Ancora in ginocchio, si slacciò il foulard e con questo asciugò il sudore freddo della fronte.

Attraversò il giardino appena rischiarato dalle luci a neon, poggiò con stanchezza un polpastrello sul pannello dei comandi, superò l’uscio automatico, si tolse le scarpe di vernice con un movimento prima di un piede e poi dell’altro, gettò la borsa sul divano insieme al foulard e a piedi nudi si incamminò in cucina.

Sciacquata la bocca sotto il getto freddo della fontana, riempì una tazza con del latte scremato; dopo averla tenuta per trenta secondi nel microonde, si spostò nel soggiorno attiguo sorseggiando la bevanda.

Sull’impiantito a scacchi la luna piena gettava un fascio d’argento sufficientemente ampio per continuare a tenere le luci spente e a godersi meglio il silenzio.

Dall’ampia vetrata lasciata aperta si accorse, allora, dell’ombra che, incurante dell’umidità, se ne stava adagiata su di una sdraio, con le braccia incrociate dietro al capo e le ginocchia appuntate.

Sembrava distante anni luce, approdato su chissà quale pianeta mentale e con sé portava via, ogni volta, qualcosa di ciò che lo circondava.

Il lettino, la dracena nel vaso di terracotta che stava accanto, il posacenere lasciato da suo padre lì per caso e persino il metro quadro di pavimento che occupava la sua ombra, avevano smesso in quel preciso istante di appartenere alla Terra.

Allo stesso modo Bulma, ogni volta che era al cospetto del principe dei saiyan, sentiva di fluttuare in direzione di mondi distanti, di alleggerirsi di quel vuoto incombente sulle spalle e che pure pesava.

Sorvolava e guardava con distacco le cose terrene che andava lasciando: Iamcha, il cinema, il teatro, le feste, le passeggiate, la gente, la vita mondana.

Poteva fare a meno di tutto, adesso. Chi lo avrebbe mai detto? L’egocentrica Bulma Brief!

Il suo spirito di rinuncia era nato e si era forgiato durante queste trasvolate.

E nulla era più emozionante quanto accorgersi, al ritorno, di non essersi mai spostata ma che era l’universo intero ad essere entrato nella sua casa.

La donna contemplò quel cosmo in miniatura senza compiere un altro passo, col fiato sospeso di chi alza gli occhi al cielo e vede un segno sconosciuto.

Non era, forse, un dio se poteva far tremare con un solo dito la Terra intera?

Ne aveva le sembianze nel suo aspetto distaccato: niente sembrava in grado di scalfirlo. Quasi lo invidiava.

A quel tempo, le era già chiaro che il suo fascino fresco e procace non sortisse alcun effetto sulla razza dei saiyan: una spallina cadente del vestito, la porta della camera da letto lasciata appositamente accostata, il bikini indossato sul bordo della piscina, il bicchiere rovesciato sulla camicetta leggera, niente era in grado di gettare scompiglio tra i testosteroni di Vegeta, sempre ammesso che egli ne fosse fornito.

La stempiatura superba e il ghigno sottile non tramutavano davanti a niente; e se Chichi non avesse generato un figlio mezzosangue, avrebbe finito per credere che i saiyan si riproducessero per divisione mitotica.

Il fatto, poi, ragionasse con predeterminazione sugli aspetti sessuali di questa razza e sulle possibilità di successo delle sue strategie, dimostrava quanto la scienziata fosse conscia che per applicare i suoi metodi di sperimentazione esisteva una sola strada da percorrere.

In che modo, se non su un letto o su qualsiasi altra superficie piana, si sarebbe, prima o poi, consumata la passione per quel saiyan?

Bulma non aveva mai avuto tanto poco romanticismo come quando pensava a Vegeta; ma il romanticismo è solo la faccia più banale dell’amore, un’epidermide sottile che si spella non appena scottata dai raggi del sole.

Il tetro balenio del suo sguardo la riportò alla realtà nel momento in cui, superata la porta-finestra, questi le passò accanto.

“Sono rientrata presto”, mormorò come se a lui fosse importato qualcosa.

In tutta risposta, l’alieno andò in cucina e ne venne fuori con una lattina di acqua tonica.

La trangugiò tutta d’un fiato prima di dire:

“Suppongo sarebbe stato imbarazzante vomitare in un posto diverso da casa tua”.

“Non sai nemmeno dove sono stata!”, replicò punta.

L’osservò mentre andava a sedersi sul divano, laddove la luna tagliava in due parti la geometria del tessuto.

Era strano che non fosse in camera sua o non fosse andato a rinchiudersi non appena l’aveva vista rincasare.

Perché si tratteneva ancora?

Bulma riprese a sorseggiare a disagio la tazza di latte.

Era quasi come se avesse aspettato il suo ritorno.

“Volevi… volevi dirmi qualcosa?”.

“Io?”.

Trasfigurato da una calma quasi innaturale, appariva padrone di stesso come non mai. Si era seduto di fronte a lei con le braccia incrociate e aveva sollevato i piedi sul tavolino. Non era mutata la superbia della fronte stempiata, né il broncio della sua bocca, ma diversamente da tutte le altre volte si stava degnando di fissarla.

Forse, era la penombra ad ingannarla, ma pareva che quella statua marmorea guardasse proprio nella sua direzione e che un’occhiata tanto insistente ed ambigua non potesse essere destinata al paesaggio ritratto dietro le sue spalle.

Bulma posò la tazza sul tavolino di vetro, si avvicinò al divano, recuperò la borsa lì gettata e, in tralice, notò che lui continuava a guardare il punto da lei occupato prima.

Forse, l’oggetto della sua attenzione era davvero quel dipinto.

L’alieno tornò a spostare lo sguardo su di lei quando questa incominciò ad armeggiare con la borsa e con esasperazione ne rovesciò il contenuto sul divano.

Tra il portafogli, le chiavi, il cellulare, la pochette col trucco e lo specchietto, i fazzoletti di carta, lo scontrino del parrucchiere accartocciato, il volantino con gli sconti ai grandi magazzini, una penna senza tappo, un portafortuna a forma di ferro di cavallo, il kit di capsule, riuscì ad indovinare, al tatto, il pacchetto di chewingum che stava cercando.

Non si prese la briga di offrirgliene uno perché, l’ultima volta, l’uomo le aveva risposto che non era nella natura saiyan azionare a vuoto i succhi gastrici e ruminare senza che lo stomaco ne traesse nulla.

Allora, Bulma si sedette anche lei, all’estremità opposta a quella dove stava lui.

Con la testa reclinata sullo schienale, osservò la luna fare capolino dalla vetrata.

“Mi sbaglio o è più grande e luminosa del solito? E’ davvero bellissima!”. Lo stupore mise in disparte la gomma masticante sotto un molare.

Ora che ci rifletteva, suo padre, l’altro giorno, le aveva detto, scrutando le mappe stellari, che ci sarebbe stato un perigeo lunare.

“Non ti sbagli”.

Pure la sua voce aveva una vibrazione diversa dal solito: non c’era irritazione, sarcasmo, attesa, né urgenza, soltanto una calma inquietante.

La percezione di essere cullata su di una zattera nel punto più profondo dell’oceano e la coscienza che, per la prima volta, fosse l’altro a manovrare il timone non le permisero di gustarsi quel momento di silente condivisione come avrebbe voluto. L’orologio alla parete segnava le 23.32 quando Bulma, appiccicato il chewingum sul volantino degli sconti ai grandi magazzini, si risolse ad alzarsi.

“Me ne vado a dormire”, annunciò con uno sbadiglio. “E’ stata una pessima serata. Avrei fatto meglio ad andare a quella conferenza al Nord con mio padre, anziché mandarci quella svampita di mia madre. Non credi?”, chiese tanto per dire.

Ed invece il saiyan rispose:

“No, non credo”.

Adesso che la luna si stava ritirando e la penombra aveva reciso con un colpo sbieco la bocca, quella statua marmorea assumeva contorni quasi mostruosi: era una specie di busto, senza testa né piedi, in grado di articolare parola. Sembrava che la voce provenisse da una fenditura profonda del marmo scolpito e avesse il timbro di un responso divino.

Bulma non riusciva a vedere in quale direzione avesse inchiodato il suo sguardo.

E intanto, quei monosillabi soppesati rafforzavano la sensazione che egli fosse perfettamente consapevole di cosa stava per accadere.

La ragazza, dando per scontato che più niente potesse farle rivalutare quella serata, rinunciò ad addentrarsi in quelle acque torbide e placide; gli voltò le spalle, ma prima che imboccasse il corridoio, si sentì chiamare:

Bulma!”.

Allora, sbarrò gli occhi perché era la prima volta, dacché era sotto quel tetto, che il principe dei Saiyan la chiamava per nome.

“Avanti, avvicinati!”, le ordinò.

“Cosa?”, tornò a voltarsi.

Era certa di aver inteso male, ed invece:

“Ti ho detto di avvicinarti. Non ti ammazzo mica…”, insinuò mellifluo.

Considerato che lui aveva ancora le sembianze di un busto senza né capo né bocca, e che l’atmosfera era stata, fin dal principio, carica di un oscuro disagio, le venne spontaneo chiedere:

“Perché dovrei fidarmi? E’ una minaccia che usi spesso”.

“Perché se volessi farti fuori, potrei farlo anche da qui senza muovere un dito. Suppongo tu questo lo sappia”, fece con l’ovvietà di un dio.

Quanto godeva nel pensare che la vita di un essere qualunque potesse dipendere anche da un suo capriccio!

Nei deliri di onnipotenza vedeva la sua mano rovesciare cataclismi di ogni sorta sulla popolazione inerme; ed era inebriante meditare quanta fermezza avesse nel riportare certi propositi al punto di partenza.

Così si confà ad un dio: un dio attende, valuta, punisce seguendo uno schema, concede persino misericordia.

Quella terrestre non era, forse, viva perché lui così aveva voluto?

La violenza cieca e distruttiva, invece, apparteneva all’enorme bestia rimasta prigioniera senza scampo nel suo patrimonio genetico.

Sotto la pianta dei piedi Bulma tornò a sentire il calore soffice del tappeto.

Si avvicinò con cautela, più che altro, per assicurarsi di non urtare contro lo spigolo di vetro del tavolino.

Quando fu alla sua altezza, il saiyan si alzò e finalmente smise di essere un busto, senza né capo né bocca, per recuperare la sua interezza marmorea.

Nella penombra ora si distingueva bene la fronte stempiata e superba, la linea tormentata della mascella, le cavità contorte delle scapole.

Era lo scintillio dello sguardo che non si riusciva ad afferrare, quella specie di brace che il sole sotterrava e la luna, più fulgida delle altre sere, smuoveva appena.

“Che cosa hai di tanto importante da dirmi? Sei… strano, stasera”.

“Cosa ti fa pensare che io voglia dirti qualcosa?”.

“Guarda che sei stato tu a chiedermi di venirti vicino”, obiettò irritata.

“Potrebbe essere anche soltanto per toccarti”.

Allora, quel sortilegio marmoreo, sgusciato dalle fibre dell’alieno, si impadronì dei suoi piedi nudi e si estese agli arti superiori pietrificandoli.

 “Quando mi invitasti a venire qui”, continuò l’altro, “mi dicesti di tenere le mie mani lontane da te. Te lo ricordi?”.

La ragazza assentì con un movimento lento e sconnesso del mento. Pure le palpebre avevano perso la sincronia con le ciglia.

Rammentava bene la radura rigogliosa nella quale, per magia, si era ritrovata insieme ai namecciani sopravvissuti.

Ritrovare la corretta combinazione di colori tra cielo e terra aveva sancito la fine di una terribile avventura; e il cielo azzurro, rimasto all'oscuro dei pericoli lontani, non le era mai parso tanto pulito.

“Ebbene, non sono più sicuro di volerle tenere lontane, sebbene, sia chiaro, è un capriccio senza importanza. Non mi sconvolgerei se domani questa voglia mi fosse già passata”.

Adesso era un’impellenza che andava assecondata e basta, non con una femmina qualunque, ma con quella femmina: con quella sintesi curiosa di sfrontatezza, intelligenza, seduzione, seccatura e tormento che Bulma Brief era.   

I suoi occhi e le sue orecchie di saiyan avevano incominciato a plasmare quella sintesi poco a poco; dall’atteggiamento seccante con cui si intrufolava nei suoi allenamenti fino alla seduzione che esercitava ad ogni movimento, passando per la sfrontatezza e l’intelligenza con cui si rapportava a lui, ne era venuta fuori una creatura fuori dall’ordinario, che valeva la pena di scoprire in tutti i sensi.

Che male poteva mai riceverne il principe dei saiyan a spassarsela con una terrestre?

Una distrazione a fine giornata sarebbe potuta essere perfino salutare, aveva pensato qualche volta rigirandosi nel letto.

Per altro, gli sembrava che lei da tempo non desiderasse altro.

“Mi stai chiedendo il permesso di toccarmi?”. Dal sortilegio marmoreo che ancora imprigionava il suo corpo un sopracciglio attonito scattò come una molla.

“Non ti sto chiedendo il permesso. Sto valutando fin dove ti conviene che io mi spinga”.

In fin dei conti, non aveva voglia di ucciderla: il suo ingegno gli tornava troppo spesso utile.

Misantropo e solitario, Vegeta non aveva avuto molte femmine, ma ricordava come quelle di razza più debole raramente fossero sopravvissute all’eccitazione sua o degli altri due compagni.

“Cosa… cosa vorresti dire?”.

“Che se tu fossi stata una saiyan, non me ne sarei stato qui ancora con le mani in mano; ma visto che hai forza soltanto nella lingua, sto valutando l’opportunità di lasciar fare tutto a te. Ritieniti pure fortunata, è un privilegio che non ho mai accordato a nessuno, né in battaglia, né sopra un letto”, incrociò le braccia con un gesto mai tanto efficace.

Un dio poteva permettersi ogni forma di indulgenza, compresa questa.

Bulma, alla fine, comprese il senso delle sue parole: quel movimento rotatorio, contorto ed insistente, del suo parlare si arrestò su “letto” lasciandola frastornata.

Non riusciva ancora a credere cosa avessero sentito le sue orecchie; se stesse tremando per l’emozione di un sogno che stava prendendo forma o per il panico in cui l’aveva gettata la sua proposta.

Pensò all’improvviso a Iamcha e rimpianse di non aver voluto approfondire meglio certi aspetti del loro rapporto, di aver fermato troppo spesso la sua mano perché il momento non le sembrava mai abbastanza… romantico, che tanti anni di conoscenza si fossero persi tra litigi adolescenziali e battaglie.

E adesso cosa si ritrovava?

Un saiyan che la fissava come un oggetto non identificato proveniente da un altro pianeta e che le faceva intendere, a chiare lettere, che tra loro non c’era compatibilità a livello fisico.

Lo aveva sempre saputo che le sere di fine estate sono piene di insidie.

Sciolta dall’incantesimo di marmo, urtò contro lo spigolo del tavolino e lanciò un gemito di dolore.

“E’ esattamente quello che pensavo”, sogghignò Vegeta. “Ti fai male per un niente. Mi domando ancora come Kakaroth sia riuscito ad avere un figlio da una terrestre”.

“Lo stai facendo apposta per spaventarmi!”, si ribellò la donna, risvegliata dalla fitta al polpaccio. “Ti distingue da me soltanto una coda di scimmia e neppure questa possiedi più. E’gentile da parte tua…”, sottolineò con una smorfia sprezzante “mettermi in guardia, ma ti assicuro che non ne ho bisogno! Il problema non è la mia capacità di resistenza, quanto la tua capacità di saper compiacere una donna!”.

Vegeta spostò il capo all’indietro per studiarla meglio.

Non aveva mai considerato il punto di vista di una donna. In verità, non sapeva nemmeno che una donna potesse avere nell’intimità un punto di vista.

“Non mi è mai interessato compiacere nessuno, meno che mai una femmina”, volle precisare con franchezza.

“Non sai allora cosa ti perdi…”, mormorò la ragazza, abbozzando una piega astuta delle labbra.

L’unica sicurezza che aveva da sfoggiare veniva proprio da quella fossetta ai lati della bocca e contro di questa andò a cozzare e a spegnersi tutta la baldanza del principe dei saiyan.

Sembrava che la terrestre sapesse qualcosa che a lui non era dato sapere e intanto continuava ad esercitare una seduzione senza far niente, semplicemente standosene in piedi e reggendo con fermezza la sua vicinanza.

Che poi lei stesse attingendo chissà dove quella forza, scavando tra risorse sfruttate solo in parte e assopite per troppo tempo, a lui non interessava saperlo e neppure se ne era reso conto.

Il senso di inadeguatezza che lo sopraffece durò solo un istante, giusto il tempo di recuperare il piglio da canaglia di sempre e dire:

“Mi sto chiedendo tu cosa sappia fare”.

Molto poco… in verità”, ammise candidamente Bulma, incominciando a sbottonare con lentezza la camicetta.

Nella penombra le dita affusolate che armeggiavano con i bottoni sarebbero potute essere due mani giunte nell’atto di un’implorazione; ma nel silenzio, che sopraggiunse con la vibrazione di una corda che si spezza, il fruscio dei lembi che si aprivano rimbombò dieci volte tanto.

“Non si direbbe che non sai fare niente. Sei sfacciata quanto basta”, fece con compiacimento.

“No, non sono sfacciata, sono coraggiosa”, disse con ardore, intanto che la camicetta scivolava a terra. “E visto che siamo in tema di confidenze, scommetto che tu non hai nemmeno mai baciato una donna”.

Vegeta sentì un’altra volta quel senso di inadeguatezza incombere sul suo capo alla stregua di una goccia insistente e gelida.

Ignorare persino il significato di quello che lei andava dicendo scompigliò i suoi pensieri più del ricamo di pizzo che risaltava adesso nel buio come due mazzolini bianchi di primule.

Questa volta fu lui ad indietreggiare, nel momento in cui la ragazza, vicina come non mai, premette la bocca contro la sua e la trattenne appena.

La sensazione di aver sfiorato un cadavere ancora caldo la costrinse a fermarsi per ritornare a guardarlo.

Neppure un muscolo si era contratto intorno alla piega sottile delle labbra.

Bulma deglutì come se da questo potesse trarre il coraggio di rinnovare lo slancio.

Quel movimento gutturale, difatti, la spinse di nuovo in avanti e questa volta premette le labbra più a lungo, schiudendo e assaggiando quel cadavere che si stava svegliando e che le permetteva adesso di insinuare piano la lingua dentro di lui.

Vegeta si sentì avvolgere da una mistura umida di latte scremato e chewingum alla fragola e scoprì che assecondarne il movimento era spontaneo come per un neonato suggere una mammella.

Gli piaceva e gli piaceva pure quella mano che si sentì passare tra i capelli e stringergli la cervice con una mossa inoffensiva e tuttavia paralizzante.

Quella carezza era una forma di linguaggio che non aveva mai parlato, né sentito in qualsiasi parte dell’universo fosse stato, ma le rispose nell’unica lingua che sapeva parlare, allungando la mano dietro la sua schiena e strappandole con una schiocca delle dita il reggiseno.

A quel colpo di frusta Bulma tornò a staccarsi da lui.

La brezza proveniente dalla porta finestra lasciata spalancata le raggelò la schiena: le sere di fine estate sono sempre piene di insidie, ma questo si è già detto.

La durezza con cui l’alieno osservò la sua nudità non la fece demordere: prese la sua mano – era calda, di un calore quasi innaturale per un essere umano – e se la portò sul petto per tornare a stabilire un nuovo contatto, per fargli sentire la velocità con cui stava pulsando il suo cuore.

E Vegeta lo sentì, lo senti, eccome, mentre le sue dita stringevano quella forma turgida come un frutto maturo e gustoso e la bocca si protendeva per abbeverarsi a quella fonte con una sete mai provata prima d’ora.

Dove si era dissetato fino a quel momento?

Aveva attinto a pozzi aridi e contaminati, aveva scavato con le unghie nel fango per trarne un sorso nauseabondo, si era astenuto come un asceta nel deserto.

Adesso le sue fibre, rigenerate da quella nuova linfa, scoprivano l’ebbrezza di un vino pregiato, appositamente conservato per un’occorrenza importante.

E nessuna occasione poteva essere buona quanto quella, assai rara, di brindare con il principe dei saiyan.

Questa consapevolezza aveva Bulma mentre schiudeva le gambe e si preparava ad accogliere quell’alieno venuto da lontano, un po’ uomo e un po’ bestia, che l’aveva sedotta semplicemente per l’esemplare fuori dal comune che era.

Vegeta attese un istante prima di farsi strada in lei, ma non fu per cercare su quel divano un briciolo di tenerezza, che non avrebbe mai trovato, quanto per offrirle un ultimo gesto di misericordia: rinunciare ad essere dio e incarnarsi, una volta tanto, in un uomo qualunque.

 

 

FINE

 

   
 
Leggi le 21 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Dragon Ball / Vai alla pagina dell'autore: lilly81