Senso di colpa
Non
voglio parlare delle difficoltà di Spencer all’università. Questo diario
finirebbe per essere troppo triste. Non voglio che, quando e se Spencer dovesse
trovare nella sua mente questi ricordi raggruppati nel mio filo logico, debba
pensare che la sua vita sia stata un totale fallimento nelle relazioni.
Le
difficoltà che ha incontrato sulla sua strada sono state molte. La sofferenza
nel sapere che suo padre era andato via, di capire che la colpa probabilmente
era di sua madre, anzi, della malattia che l’affliggeva, lo faceva star male. A
volte un pensiero lo sfiorava, si insinuava strisciante di notte sotto le
coperte, quando fissava il soffitto prima di addormentarsi. La colpa, se lui
soffriva, era di sua madre. Si vergognava subito dopo di questa amara conclusione,
ma se lei fosse stata bene, suo padre non sarebbe mai andato via e lui avrebbe
potuto godere del calore di una famiglia normale, come quelle degli altri. Era
già abbastanza strambo e quel dettaglio gli creava ulteriori problemi. La colpa
di sua madre e il suo senso di colpa per quei pensieri lo buttavano giù e non
era raro per lui bagnare il cuscino di lacrime. Piangeva silenziosamente, non
voleva che qualcuno lo sentisse. Faceva il possibile per evitarlo quando era a
casa, ma anche quando era al college.
A
dodici anni era partito per Boston per frequentare il MIT. Non era stato
facile. Sua madre lo aveva accompagnato in treno, vista la sua paura degli
aerei, e non voleva lasciarlo lì, ma era fiera di lui, lo considerava perfetto,
lui era la perfezione, per cui, dopo qualche momento imbarazzante fatto di
abbracci e raccomandazioni, lo aveva lasciato nella sua nuova casa, che lo
avrebbe ospitato il tempo necessario per laurearsi.
Iniziarono i primi
problemi, per la prima volta lontani da casa, da un luogo che reputava sicuro.
Non c’era nemmeno Ethan con cui confidarsi o casa Cooper nella quale rifugiarsi
per dimenticare, anche solo per un attimo, qualcosa che non gli piaceva. Gli
era stata assegnata una doppia e ciò che ne era derivato era stato spiacevole.
Il suo compagno di stanza
non ne voleva sapere di fare da balia a un ragazzino, perché questo gli era
sembrato, e lo aveva fatto presente a chi di dovere. Ogni volta che entrava in
camera, lo fissava dall’altezza del suo metro e novanta e bisbigliava sottovoce
qualcosa, probabilmente si chiedeva cosa avesse fatto per meritarsi un compagno
di stanza con cui non poteva sbronzarsi o che, probabilmente, non aveva ancora
avuto la prima erezione. Ciò che lo disturbava era anche che Spencer lo
battesse accademicamente praticamente in qualunque disciplina e non erano
mancate occasioni, nelle prime sei settimane, nelle quali il ragazzino non
avesse messo bocca nei suoi studi. Un giorno era stato così irritato dalle
statistiche di Spencer riguardo il probabile fallimento della sua ricerca per
il Prof. Milton, che aveva deciso di chiudere il bagno e portare via la chiave.
Non fu bello ciò che successe quel
giorno, in cui tutti si rifiutarono di farlo entrare nelle loro stanze per
fargli usare il bagno e nemmeno la palestra fu di facile accesso. Fu umiliato
pesantemente, ma quello non fu l’evento peggiore della sua esistenza. Gli era
già successo un po’ di tutto alle superiori, quello era solo un sequel di un
film già visto.
Riuscì
a farsi assegnare una singola, il suo quoziente intellettivo glielo permise,
dato che il rettore aveva tutto l’interesse a coltivare un’intelligenza
straordinaria come la sua e, in questo Spencer fu furbo, non sospettava
minimamente che non era la carriera accademica a fare gola al piccolo genio, ma
meditava già di entrare nell’FBI.
Se
dovessimo parlare di colpa, in questo caso, per questi eventi dolorosi che
costellavano le sue giornate e che scandirono gli anni universitari (non poteva
saltare le classi, come aveva fatto fino alle superiori, ma doveva svolgere il
normale iter di studio di cinque anni), inutile dire che Spencer si chiedeva
perché non aveva avuto la possibilità di essere un ragazzo come gli altri,
perché non aveva avuto la possibilità di vivere un’infanzia normale,
un’adolescenza normale. Era tutta colpa del suo cervello.
La sua adolescenza si
stava presentando come qualcosa di incontrollabile e non esattamente gradita. I
cambiamenti nel suo corpo, il fatto che stesse crescendo, gli ormoni impazziti,
la voglia di contatto con altri esseri umani che lo apprezzassero, anche se era
troppo intelligente, lo stavano piegando. Si sentiva troppo fuori dalla norma e
aveva bisogno di trovare un briciolo di normalità. Per questo chiamava Ethan
quando ne aveva la possibilità e a volte mentiva su quello che gli accadeva.
Diceva che stava andando tutto bene, che i problemi avuti al liceo non si erano
ripresentanti, che episodi come quello di essere legato alla porta del campo da
football nudo, dopo essere stato adescato da Alexa Lisbon, la più carina del liceo, non erano più all’ordine
del giorno. Non era così, ma non se la sentiva di farsi rovesciare addosso la
compassione delle poche persone che lo rispettavano. Anche mentire lo faceva sentire in colpa.
La
colpa lo accompagnò per lungo tempo.
A diciassette anni si laureò. Non
furono cinque anni facili, dato che spesso era costretto a tornare a Las Vegas
per prendersi cura di sua madre, ma, se all’università questo era comunque
concesso, se poteva permettersi di perdere qualche lezione, presto non avrebbe
potuto continuare così. Per entrare all’FBI doveva essere più tranquillo, non
rischiare di dover partire da un momento all’altro per risolvere i problemi di
sua madre, controllare periodicamente se mangiasse o dormisse.
Aveva
diciotto anni quando decise di chiedere un colloquio al Bennington
Sanatorium, una casa di cura di Las Vegas, una tra le
più appropriate per prendersi cura di lei. I medici erano stato molto gentili
con lui. Erano in contatto con lo psicanalista che aveva seguito Diana per
lungo tempo, ma ormai la donna era ripiombata in uno stato di abbandono.
Spencer non poteva restare con lei, doveva terminare gli studi, doveva fare
domanda all’FBI, doveva iniziare a vivere una vita sua per davvero. Sua madre
non poteva più vivere da sola, immersa tra cataste di libri posati praticamente
dappertutto, senza avere un ciclo sonno-veglia decente, mangiando quello che
capitava, tra piatti sporchi e abiti da lavare.
Uno
dei medici dell’ospedale aveva notato quanto fosse indeciso sul da farsi e capì
anche perché era giunto alla maggiore età per pensare seriamente ad una
soluzione così drastica. Non avrebbe rischiato di finire in un orfanotrofio, in
affidamento o da suo padre, un uomo che non si era mai fatto vivo per anni e
anni. Il dottore in realtà non conosceva tutti questi dettagli, ma capiva
perché fosse giunto solo ora a considerare la possibilità di internare sua
madre. Lo aiutò a prendere una decisione, illustrando le condizioni di Diana Reid nel modo più chiaro possibile: aveva bisogno di aiuto
costante, lui, suo figlio, poteva darglielo?
Con
due infermieri Spencer si presentò in quella che era stata casa sua, assistette
a una delle crisi di sua madre, incapace di capire che quello che stava facendo
suo figlio era la soluzione migliore per entrambi, lui ne era sicuro.
Purtroppo quelle lacrime, quelle
invocazioni della donna, che più lo aveva amato al mondo, lo portarono ad una
crisi profonda. Era davvero la soluzione migliore per sua madre oppure stava
agendo in maniera egoistica? Era davvero per il suo bene o per il proprio?
Spencer era confuso, spaventato e la
colpa lo divorò senza nessuna pietà. La sua coscienza era indifferente ai suoi
desideri in quel momento, era indifferente alla sua sofferenza. Pianse a lungo
seduto sul pavimento della sala da pranzo di quella casa, una casa che avrebbe
dovuto chiudere per il momento, se non vendere … no, vendere no, non poteva,
non ancora, non ne aveva la forza. Il sole stava tramontando, quando con
lentezza si sollevò da terra, cercò di asciugare le lacrime che imperterrite
gli scivolavano dagli occhi e volle cercare un oasi di pace da qualche parte.
Vagò a capo chino per il suo vecchio quartiere e i piedi, guidati dal suo
inconscio, lo portarono dove spesso si recava per alleviare le sue sofferenze.
Finì davanti a casa Cooper. Sapeva che Ethan non era lì: aveva deciso di
cambiare strada, non era più interessato all’FBI, ma non era tornato a Las
Vegas. Non sapeva esattamente dove fosse, ma poco importava in quel momento. Guardò
la casa con un sentimento di nostalgia nel cuore, che andò ad aggiungersi al
grumo di sensazioni negative che gli stavano togliendo il respiro. Fece il giro
della costruzione e arrivò alla porta sul retro. Ecco, lì nessuno lo avrebbe visto,
non c’era nemmeno nessuno in casa, il garage era vuoto e chiuso. Si sedette sui
gradini della porta e si lasciò andare un’altra volta, disperato.
Io
lo so che può sembrare patetico il suo comportamento, ma penso che non potesse
fare altro, dopo tutto quello che gli era accaduto negli anni. Non era solo un
momento difficile da superare, ma un cumulo terribile di ricordi e sensazioni
da ingoiare. Era stanco e il suo animo mostrava più anni di quelli che
realmente aveva.
«Spencer ..?» una voce dolce e
delicata lo raggiunse nel suo mondo colpevole, nella sua testa ormai dolorante
per il troppo pensare. Si votò lentamente e il membro più piccolo di quella
famiglia, la famiglia che lo aveva accolto anni prima senza fare troppe
domande, lo stava fissando preoccupata.
«Cecily …
scusa, vado via.» si affrettò a dire, alzandosi da terra. Una mano della
ragazzina lo fermò e lo invitò ad entrare, senza dire una parola. Erano i suoi
occhi a parlare per lei.
Davanti
a un succo di frutta entrambi stettero in silenzio per molto tempo, in cui
Spencer continuò a lasciare che il pianto fuggisse via, lavando la sua
sofferenza, lasciando evaporare ogni bruttura dalla sua vita, e il solo sguardo
di quella ragazza fu sufficiente a permettergli di dare sfogo al suo dolore acuto
e potente. Raccontò lentamente quello che aveva fatto, pieno di rimorso per
quel minuscolo sentimento di sollievo che provava. Spiegò le sue ragioni e
anche ora non saprebbe dire se le aveva spiegate a sé stesso o al suo
interlocutore.
Cecily non disse niente. Cosa mai poteva
dire una ragazzina di quattordici anni su argomenti più grandi di lei? Continuò
con il suo silenzio, ma lasciò che le mani stringessero quelle di Spencer, che
si aggrappava ad esse come per restare inchiodato alla realtà, per non pensare
che magari era tutto frutto dell’immaginazione, che alla casa di cura non era
mai stato e che non avesse firmato nessun modulo di ricovero. In un’ultima
esplosione di rammarico lasciò che quella bambina lo abbracciasse, gli
carezzasse i capelli con delicatezza e gli chiedesse, con voce dolce e triste,
di smettere di piangere. C’era qualcosa di materno in lei, ma, soprattutto, era
la prima volta, dopo tanto, forse troppo tempo, che Spencer ricevesse quel
calore umano che tanto gli mancava. Lasciò che il suo volto si poggiasse sulla
spalla di lei e si abbandonò per qualche minuto al suo tocco leggero.
E’ difficile calcolare
quanto tempo avevano passato in quella assurda situazione, di certo molto più
di un minuto. Spencer si rese conto che era tardi, perché nella stanza ormai
non filtrava più alcuna luce dall’esterno. Aveva rubato fin troppo tempo della
giornata di Cecily che, era sicuro, non lo aveva
mandato via per una compassione che odiava aver suscitato, ma a cui era grato
allo stesso tempo. Si sollevò lentamente e la guardò negli occhi, certo di
scorgere un luccichio molto simile al suo. Fu un’altra colpa che si aggiunse a
quelle accumulate negli ultimi tempi. Sospirò, ma Cecily
gli sorrise, scostandogli i capelli dal volto. Era uno sguardo di comprensione
il suo, addolcito da quella ingenuità che le apparteneva e che sperava non
perdesse mai. Era stato dissetato dai suoi gesti.
Tornando
verso casa, Spencer sfiorò la sua guancia, dove Cecily
aveva posato un bacio leggero, diverso da quelli che dieci anni prima gli
stampava regolarmente. Sentì che qualcuno gli voleva bene, nonostante i suoi
errori, nonostante non si sentisse in regola con la sua coscienza, nonostante
non fosse come gli altri. Portò con sé il calore che quella ragazzina gli aveva
regalato, lo relegò in un ricordo del quale un po’ si vergognava, ecco perché è
giusto che almeno io ne porti memoria.
Nota dell’Autrice:
Mi rendo conto che sono fin troppo malinconica tra queste righe.
Purtroppo è il personaggio di Spencer Reid a
ispirarmi in questa maniera. Più guardo il telefilm e più penso che sia
totalmente slegato dal mondo in cui vive. Non ha altro che il suo lavoro a
fargli compagnia. Ho appena visto una puntata della quinta serie e, mentre
tutti gli altri avevano un programma per il fine settimana, lui era libero.
Sinceramente mi fa pena.
Dopo questo momento triste (anche nel commento del capitolo, uff…) ringrazio le persone che hanno letto la prima parte
di questa piccola storia.
Spero di avere vostre notizie!
Lady
Snape