Anime & Manga > Katekyo Hitman Reborn
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Autore: kazuha89    27/05/2012    3 recensioni
cosa succederebbe se il famigerato potere della potente famiglia Vongola, la fiamma dell'ultima volontà, eredità del leggendario Giotto, primo boss dei vongola, destinato a rivivere in colui che divverrà Decimo boss della famiglia, rinascesse nel corpo..di una ragazza?
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il sole aveva già iniziato da qualche minuti a entrare a fiotti attraverso le tapparelle abbassate della mia stanza, quando finalmente riuscì ad aprire gli occhi, quel lunedì mattina.  Lunedì. Lo sapevo di mio che era lunedì,  lo avrei saputo pure se quella volta chiunque fosse stato, si fosse scordato di inventare i calendari. Il lunedì aveva un suo aspetto particolare, quando arrivava, un odore diverso. Era più cupo, più freddo e il suo odore era sgradevole, pesante. Noi giapponesi crediamo che dopo la morte ci aspetti una seconda vita completamente diversa da quella lasciata. Probabilmente nella mia vita precedente doveva essermi successo qualcosa di orribile giusto un lunedì, tanto orribile da lasciarmi il segno anche in questa vita. Anzi. Da come mi sentivo ad ogni inizio settimana, come minimo dovevo essere morta, di lunedì.
Comunque, lunedì o no, era ora di alzarsi, così ancora mezza addormentata, strisciai fuori dalle lenzuola, mi infilai riluttante l’uniforme gelata e inforcate le pantofole, ero scesa in cucina.
Mamma cantava allegra ai fornelli, mentre le mie uova e la mia pancetta friggevano rumorosamente.
“Taya, non mi dire che sei ancora in pigiama!” disse mamma, senza voltarsi.
Io sospirai.
“Mamma, ho l’uniforme addosso, che vai dicendo..”
Lei annuisce, senza smettere di cantare. Io mi sorreggo il mento, guardandola saltare le verdure. Non ho di che lamentarmi di lei come madre, non ha mai smesso di avere cura di me un giorno da quando sono nata, e non mi ha mai fatto mancare nulla. Tuttavia, a volte mi chiedo se non le manchi qualche rotella. Beh probabilmente il tutto va ricollegato a me. Evidentemente il suo fare vanesio da figlia dei fiori fuori epoca era una sorta di reazione alla mia vita disastrosa.
Già i miei disastri, tante tessere di mosaico che disegnavano la mia vita. Tutta la mia vita era fatta di disastri, senza eccezioni. Io, Tayahara Sawada, ero un disastro ambulante. Nello studio, nello sport, nella vita sociale. Tutto un disastro. A volte penso che dovrei cambiare pure il mio nome in Disastro Sawada, almeno la gente avrebbe un preavviso e sarebbe al sicuro. Va beh che il mio nome è già stato cambiato dieci anni fa dai miei adorabili e comprensivi compagni di scuola. Ormai si, sono dieci anni che in tutta la scuola sono conosciuta come “IMBRANA-TAYA” Sawada. Ormai neanche mi scompongo più, quando mi sento chiamare così. Perfino i professori lo fanno, quindi sarebbe uno spreco di energie, che ormai comunque ho prosciugato. Io di indole, già di mio preferisco girarmi dall’altra parte piuttosto che affrontare un problema, figurarsi ribellarmi ad un intero istituto, professori compresi, tutto da sola. Non avrei il fegato credo nemmeno di affrontare uno a caso dei miei compagni. Non che sia un bel vivere il mio, da tartaruga che si rintana nel carapace ad ogni movimento brusco del mondo, ma so di non avere possibilità di cambiare le cose, quindi la rassegnazione romane l’unica possibile soluzione per restare in vita.
C’è da dire però, che è deprimente da matti.
Avendo tutta la scuola a sfottermi, non ho mai avuto amici. E quei pochi pionieri che magari non mi deridono, mi vedono comunque come un’ameba priva di interesse. I prof. Quando non si associano ai miei compagni, non fanno che sbraitarmi contro che i miei voti sono ai minimi storici. Mia madre rimane l’unica dalla mia parte, ma lei vive nel suo mondo, quindi è come se non ci fosse. E’ pure riuscita a peggiorare quando, due anni fa, quando mio padre è sparito. A me a dire il vero, nelle sporadiche occasioni in cui ho chiesto di lui, hanno sempre risposto che lavorava all’estero come capo cantiere. Mai sentita cavolata più grossa. Insomma, che razza di capo cantiere è uno che va a controllare i lavori in giro per il mondo? E poi una con un po di sentimento ci arriva a capire che dieci anni filati fuori di casa per un cantiere, per quanto possano essere lente queste cose, sono eccessivi, anche se fossero più di uno. No, secondo me quello scemo senza cervello deve essersi addentrato per fare un safari in qualche foresta o palude sperduta chissà dove, e deve essere finito a fare la portata principale sul menù di qualche animalaccio. Ah beh la cosa poco mi tocca. Ne ho vaghissimi ricordi, e tutti nella mia infanzia,  dato che ha levato le tende prima che a me levassero il ciuccio, per cui..
Con la mente avvolta in questo pensiero dall’amaro retrogusto, trangugiai le mie uova, bevvi il mio caffè al latte e mi diressi depressa verso il mio odierno purgatorio: la scuola.
Che palle. Ma che cavolo ci andavo a fare, poi? A lapidare quel che restava della mia autostima già latente che ancora mi teneva su? Ma anche no. Decisi che avrei dato alla mia psiche un giorno di ferie, e me ne sarei andata per negozi. Poi magari avrei fatto un salto in..
“Vai a scuola.”
Un mormorio alle mie spalle. Mi voltai. Ero sola.
Boh, sarà stato il vento, pensai. Certo che.. non avevo mai sentito il vento dire frasi tanto precise..
Feci spallucce e continuai per la mia strada. Tuttavia, dal momento in cui avevo sentito quello strano sussurro, ebbi la sensazione sgradevole di essere osservata.
Probabilmente, pensai, era un tentativo della mia coscienza di indurmi a non marinare la scuola.
Nel frattempo, il cielo si addensava sempre di più di nuvole grigio nerastre cariche di pioggia. Fantastico, odiavo i temporali, mi rendevano nervosa. Va beh niente shopping, dritta in sala giochi al ripa..
“Ti ho detto di andare a scuola.”
Ancora quel mormorio. Stavolta un po più forte. Mi voltai di scatto. Ero ancora sola. Nessun negozio nei paraggi da dove potesse essere venuta la voce, e nei giardini delle case non vi era anima viva. C’ero solo io, nella strada.
Ok, calma, diamoci una regolata. Mi sto suggestionando per colpa del temporale, ecco tutto.
“Non sono affatto frutto di una suggestione. E’ solo che non mi riesci a vedere.”
Schizzo letteralmente contro un muretto di cinta di una casa, in preda alla paura. La voce stavolta sembrava venire da dietro al mio collo, tanto era stata forte.
Mi guardai intorno, impaurita. Dove diavolo sei? No..cosa diavolo sei?
“Cosa sono è maleducazione chiederlo, Taya, potrei anche decidere di offendermi..  Dove sono..beh qui, sopra la tua testa. E piantala di avere sempre tutta sta paura, figlia mia..”
Dallo spavento caddi in avanti sulle ginocchia, sbucciandomele entrambe. Mi rannicchiai dolorante e alzai la testa. La voce era venuta davvero dal muretto contro cui mi ero posata. Cosa vidi sulla sua sommità rimane ancora la cosa più strana mai vista in tutta la mia vita anche ora.
Là, seduto beatamente a mangiare un cachi preso dall’albero alle sue spalle, stava un bambino.
Ok, vedere un bambino seduto su un muretto a mangiare un cachi non è una cosa molto strana, ci arrivo anche io. Ma non era questo a essere fuori dagli schemi.
Per le dimensioni, non era niente di meno che un bambino di uno, massimo due anni. E già questa cosa stranisce. Insomma, come diavolo farebbe un poppante a issarsi da solo su un muretto e a prendere pure un cachi dall’albero? Ma il suo aspetto era la cosa più alienante.
Indossava i vestiti più impensabili al mondo sul corpo di un bambino, tali da farlo sembrare più una specie di bambolotto sinistro: camicia gialla, giacca gilet e cravatta neri, pantaloni con la piega neri e scarpe lucide, nere pure loro. Sembrava in lutto, non fosse per la camicia. Ma le cose più sconvolgenti di quello strano abbigliamento erano tre accessori, praticamente fuori dal comune: un cappello nero da uomo con la fascia in tinta con la camicia, un peluche di camaleonte verde acido appollaiato sulla tesa e..un grosso ciucciotto di vetro giallo appeso al collo. A guardare questo insieme di cose assurde (contando poi che quello che avevo preso per un peluche di camaleonte, , si era rivelato un camaleonte in carne ed ossa facendomi venire un colpo, e che ora passeggiava inquieto sul cappello che lo ospitava, osservandomi curioso) mi sembrava di essere sotto un allucinazione da stupefacenti.
“No, per carità, non mi dire che pigli quella roba!” aveva sentenziato il pargolo.
Io lo fissai, impietrita. Non avevo parlato..non avevo mai aperto bocca da quando ero uscita di casa. Le cose..le cose le avevo solo pensate! O mio dio..quel bambino legge..
“..La tua mente, si.” Concluse lui per me.
Ero di sale. Nemmeno le mani o le dita mi riusciva possibile muovere. Riuscivo solo a guardare quel bambino come un’idiota, col sangue che colava dalle ginocchia sbucciate.
Ero ipnotizzata dai suoi occhi, grandi, neri e profondi, che mi fissavano in maniera strana, contemplativa, come se solo guardandomi fosse in grado di leggere la mia anima.
“Oh madre di dio, sei più imbranata di quanto pensavo..fammi vedere, va..”
In un secondo, con un abilità seconda solo ai dei circensi, saltò giù dal muretto e mi fu accanto. Odorava di colonia e borotalco insieme, e mi sorrise dolcemente, come fanno i poppanti davanti alle facce buffe dei parenti chini sulla loro culla. Vidi che portava anche il pannolino. Era un poppante, non poteva essere altro. Eppure il modo di parlare, di muoversi, il suo look..erano quelli di un adulto.
Estrasse dal giacchino un fazzoletto. Poi prese il suo camaleonte tra le dita. Era grazioso, mentre saltellava sulle minuscole dita del bambino. Solo che poi fece una cosa che mi costò parecchi anni di vita. Prese a splendere, e pochi istanti dopo mutò in una specie di bottiglia..da cui usci pure del liquido argentato che bagnò il fazzoletto del bambino!
“E’ solo saliva, Leon non è un infermeria ambulante..” mormorò il piccolo, mentre il camaleonte, come se nulla fosse, riprendeva il suo solito aspetto e tornava sul suo cappello a scrutarmi. Io non replicai. Avevo la bocca asciutta dallo shock.
Il piccolo iniziò a tamponarmi le ferite, sempre con quel sorrisetto gaudente sul viso paffuto. Qualcosa di quel gesto confortante, parve ridarmi parola.
“Non..prendo..quella roba..”
Ma perché avevo risposto alla sua domanda? Neanche volevo farlo!
Lui annui.
“Ah brava, bene, mi avevi messo pensiero..” mormorò lui. Aveva una vocina tirata da poppante, ma il suo tono e la pronuncia erano fermi e corretti. Sembrava un effetto speciale.
“Che..che cosa vuoi da me? Chi..chi sei, tu?”
Lui pescò dalla tasca dei suoi minuscoli pantaloni scuri dei cerotti e me li applicò sui graffi. Mi aveva medicato a regola d’arte, non bruciava nemmeno più.
“La saliva di Leon cura tutto, ma meglio tenere coperti i tagli mentre fa effetto. Mo’ però a scuola, che già è tardi..”
Detto questo, risaltò sul muretto e, con mio profondo stupore, si lasciò cadere all’indietro nel giardino. Io mi tirai in piedi e corsi verso il punto dove era sparito, per guardare oltre il muretto e vedere se si era fatto male. Ma quando guardai nel giardino, il piccolo era sparito, senza lasciare tracce.
Sconvolta, mi avviai di buona lena a scuola, come mi era stato detto di fare. Non potevo essermelo sognato, i cerotti erano veri, attaccati alle mie ginocchia. No, dentro di me sapevo che era reale, e sentivo anche se non era lontano, che lo avrebbe saputo se avessi disobbedito. Ma soprattutto sapevo, senza un apparente motivo, che chiunque fosse quel pupetto bizzarro, era una pessima idea farlo arrabbiare.
Arrivai a scuola spaccando il minuto, ma ero stremata. Mi appoggiai al cancello per prendere fiato.
“Si, oggi ho assemblea, che palle..”
Alzai lo sguardo. Conoscevo quella voce. Kyoko Sasagawa, la dea della scuola, la fidanzatina d’America del liceo Nami. Ogni ragazzo con un po di sale in zucca smaniava per averla, e pure io da ragazza, non sapevo dar loro torto. Era perfetta, col suo faccino angelico, la pelle candida, gli occhi grandi e lucenti. Sembrava una ninfa. E come se tutto ciò non fosse già dannatamente ingiusto, era un amore di ragazza. Parlava con tutti allo stesso modo, dai boriosi sempai a..
“Wow Taya, sei arrivata puntuale, che brava!”
A me, appunto.
“Ah..si, beh..correndo..” esalai, stremata. Ero certa che mi si fosse staccata un polmone, dalla fatica che facevo a respirare.
Kyoko si fece avanti.
“Si ma sei sfinita, però..tieni, bevi un po di tè verde. Lo beve anche mio fratello, quando corre.”
Mi porse una bottiglia piena di un liquido verde oliva.
“Ma..io non ho un bicchiere..” mormorai.
Lei rise.
“Ma bevi dalla bottiglia, mica mi stranisco. Non sei mica malata, santo cielo!”
Fatti in là, Madre Teresa, Kyoko Chan è qui.
“Ah..grazie..”
Presi la bottiglia e bevvi. Buono..era fatto fresco, si sentiva che non era roba in busta.
“Vero no che è un toccasana?” disse, riprendendo la bottiglia che le porgevo.
Stavo per rispondere, quando una voce aspra alle mie spalle, mi precedette.
“Butta quella roba Kyoko! Se ti becchi i suoi bacilli, diventi una foca pure tu!”
Kyoko si incupì.
“Simpatico,  sempai Mochida, come la tosse di notte..”
A parlare era stata la migliore amica di Kyoko, Hana Kurokawa. Era una ragazza alta e seriosa, una delle più diligenti studentesse del liceo Nami . Adorava Kyoko come fosse sangue del suo sangue, e inceneriva chiunque la infastidisse, ma non era intrisa dello stesso spirito da buona samaritana della sua amica. Difatti, mi scoccò un’occhiata simile a quella che si lancia  a un brufolo in iena fronte e trascinò via Kyoko.
Beh, poco male, grazie allo spirito umanitario di Kyoko Chan, mi sentivo nuova.
“E brava, la piccirilla, teniamocela a mente, va..”
Mi voltai. Come avevo sospettato, il pargolo era tornato, stava in piedi sul marciapiede davanti alla scuola, fresco come una rosa.
Stavolta, però, stranamente, non mi suscitò alcun timore. Semmai sorpresa.
“Beh? Sei qui, dunque. Sei venuto con un taxi?”
Lui sorrise.
“Un bebè in taxi? Non farti sentire, o ti mandano ai matti..” sentenziò lui, tanto dei biscottini al suo camaleonte. “Muoviti, vai dentro, prima che chiudono i cancelli..”
“No, prima mi dici chi sei, e soprattutto perché mi stai incollato come un francobollo. Lo sentivo che mi seguivi, sai?”
Lui rise.
“Bella lei, già tieni l’intuito bello sveglio, eh? Bene, lavoro in meno per moi..”
Io mi chinai verso di lui.
“Eviti di abitudine di rispondere alle domande, moccioso?”
Lui mi guardo.
“Eh no,moccioso no..”
Detto questo, poso leggero un dito sulla mia gamba. Un secondo dopo, una forza stranissima mi spinse letteralmente a terra. Caddi e picchiai il sedere.
Lo guardai, allarmata.
“Ma..come diavolo..”
“ Lo avevi percepito o no che era meglio non farmi arrabbiare? Comunque, il mio nome è Tutor Hitman Reborn, e sono qui per un semplice motivo: crescerti e farti diventare il decimo boss..beh per te sarebbe meglio dire la decima luce della famiglia Vongola, suona meglio per una signorina.
Lo guardai.
“Reborn? Aspetta, tutor? Sei un insegnante?”
Lui annui.
“Un istruttore, per meglio dire. Dove la scuola manca, ci sono io, per te.
Io sbattei le palpebre incredula. Mi veniva da ridere. Era uno scherzo, doveva esserlo. Tuttavia quella forza, quella sensazione..aspetta un po.. boss? famiglia?
“No, frena un attimo! Boss..famiglia..ma cosa sei, un mafioso? E da dove viene la tua forza? Sei un robottino, per caso?
Lui rise.
“Hitman, ricordi? Che vuol dire hitman?
Riflettei. Hitman era una parola inglese, e se non sbagliavo significava..
“Assassino..”
Mi si gelò il sangue. La risposta era venuta dalle mie spalle, e la voce che l’aveva pronunciata era pressoché inconfondibile. Solo lui, al mondo, poteva parlare così, con quella voce fredda e tagliente come un bisturi..
“Oppure sicario, dipende..e ora muoviti ad entrare, ritardataria..”
Mi voltai lentamente, pregando in un malinteso. Ma era sperare nella manna dal cielo. Era davvero lui.
“Scu..scusami tanto..Hibari..”
Hibari Kyoya, il presidente del comitato disciplinare del liceo Nami, e contemporaneamente il capo della più grossa banda di teppisti della zona. Praticamente, il diavolo in persona. Nessuno, che amasse anche solo un po essere al mondo, avrebbe voluto imbattersi in quel tipo. Perfino i prof lo rispettavano, tanto ne avevano paura. Era risaputo che chi aveva a che fare con lui, non tornava sano e salvo a casa. Hibari non puniva per delle cose precise..lui puniva per puro divertimento.
Provai ad abbassare lo sguardo, ma temevo di irritarlo, così lo guardai negli occhi finche non trovai la forza di rialzarmi. E mi ritrovai di fronte a lui. Non lo avevo mai avuto così vicino. Evitavo perfino i corridoi dove sapevo che andava, figurarsi trovarmelo a un palmo dal naso.
Era più alto di me, anche se di poco, magro e apparentemente innocuo. Nulla del suo corpo lasciava trasparire la sua reale forza distruttiva. Nemmeno il suo viso, sottile e pallido, contornato da ciocche di capelli scuri tenuti un po lunghi. Però gli occhi si..loro la trasparivano, la sua natura disumana.
Gelidi, grigi e, date le origini cinesi molto più a mandorla di quelli giapponesi, gli occhi di Hibari erano da brivido, ti si accapponava la pelle se ti guardavano, fossi pure a un chilometro. Li sentivi, più che vederli, li sentivi puntati contro di te, e ti sentivi morire. E ora io li avevo a un baffo. Nelle mie vene c’era il deserto, come pure nella mia bocca. Non era brutto, nazi tutt’altro. A mio parere, era piuttosto carino. Solo che nessuna ragazza sana di mente mai, nella sua vita, si sarebbe avvicinata a lui. A volte mi chiedevo se non fosse così scontroso e violento, appunto perché si sentiva solo..chissà se una volta nella vita, qualcuno aveva mai provato a interagire con lui. Chissà se lui stesso, nella vita, almeno una volta non abbia avuto il desiderio di parlare con qualcuno come tutti gli altri ragazzi della sua età.
Lo guardai. Mi fissava, serio. Brr, non invitava per niente nessun tipo di approccio, bisognava ammetterlo..
Però, pensai, ero una ragazza. Non credo che alzerebbe le mani su una ragazza, in fondo..
“Scusami, ci metto un minuto. Mi libero del pargoletto e arrivo. Non ti spiace aspettare un secondo, vero?”
Lui mi guardò. Poi, co mio grande sgomento, sorrise.
Si, la gentilezza apre tutte le porte, lo sapevo. Mi voltai tranquilla per dire a quel piccolo Reborn di andarsene a casa. Ma mentre gli giravo le spalle, qualcosa di gelido e lungi forme mi sfiorò un braccio. Mi voltai a guardare. E mi venne il vomito. Un Tonfa.
Lo avevo sentito dire, in giro. Hibari aveva  da sempre la brutta abitudine di girare per il liceo e per Namimori armato di due Tonfa di acciaio rinforzato, con cui malmenava i malcapitati sul suo cammino. Ne usava uno per mano. Quei cosi avevano avuto più sangue sopra che il loro padrone nelle sue vene..
“Si, mi dispiace. Mi occupo io del bambino, tu vattene in classe..prima che ti morda a morte, signorina tutto miele..”
Ok, non era violento perché si sentiva solo, e nemmeno voleva interagire. Lui era uno svitato amante della violenza, punto. Mi diede una leggera spinta sul gomito con uno di quei Tonfa infernali, e io partì come una molla verso il portone della scuola. Poi a metà cortile, mi prese il panico: il bambino. Se Hibari era abbastanza squilibrato da minacciare una ragazzina come me, figurati un poppante linguacciuto come Reborn..nemmeno la scientifica lo avrebbe rimesso insieme.
Ma mai avrei pensato di trovarmi davanti quello che vidi.
Hibari stava in piedi davanti al cancello chiuso, e parlava a Reborn. Poi si chinò verso di lui, e li temei il peggio. Ma ancora una volta, mi stupì. Hibari si limitò a pizzicare una guancia a Reborn, gli fece un buffetto e lo lasciò andare. Li osservai raggelata. Hibari osservò Reborn allontanarsi agitando il braccio in segno di saluto lungo la strada salutandolo a sua volta amabilmente con la mano, controllò mentre attraversava, fece un ultimo saluto raccomandando al piccolo di fare attenzione, attese che Reborn rispondesse e si diresse verso il portone, dove ero rimasta ferma a fissare la scena. Cose dell’altro mondo. Insomma,quello era un pazzo, un maniaco violento senza scrupoli. Ma allora come mai..come mai tanta tenerezza per un semplice bambino come Reborn?
Mi passò davanti senza guardarmi, ma quando mi fu a tiro d’orecchio, mormorò gelido:
“Hai un bravo fratellino. Mi scoccerebbe alquanto dover far fuori sua sorella. In classe, cammina..”
Deglutì e corsi verso la mia classe. I matti, si sa, vanno sempre assecondati.
  
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