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Autore: margheritanikolaevna    30/05/2012    16 recensioni
Preparatevi a leggere una ff fantasy su White Collar: un regalo di compleanno insolito metterà a repentaglio la vita di uno dei protagonisti. E la virtù di un altro.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Questi personaggi non appartengono a me, ma a chi ne detiene tutti i diritti; questa fic non è stata scritta a scopo di lucro. Io mi sono divertita moltissimo a scriverla e spero che anche per voi sia divertente, e rilassante, leggere questo racconto per molti versi insolito.
 
 
 
There are more things…
 
“Buon compleanno, Elizabeth!” esclamò allegramente Neal Caffrey schioccando un  bacio sonoro sulla guancia dell’amica.
“E questo è il mio regalo” aggiunse, posando un raffinato involto di stoffa beige sul tavolo del salotto di casa Burke, dove si erano riuniti per un piccolo party informale.
Peter fece spallucce, considerando che da uno come lui non ci si poteva certo aspettare di ricevere il tradizionale pacchetto rivestito di banale carta colorata e con uno sgargiante fiocco in cima!
“Oh Neal” replicò la festeggiata, fissando piena di curiosità il singolare dono che faceva bella mostra di sé accanto alla torta crema chantilly e fragoline “Non dovevi… ma sono così contenta che te ne sia ricordato!”. Gli strizzò l’occhio e, con l’aria di una bambina il giorno di Natale, cominciò a sollevare i lembi di stoffa lucida.
“Sono sicura che il tuo regalo sarà più originale di quello di Peter!” disse poi, scoccando uno sguardo divertito al marito che se ne stava accanto a lei, in evidente imbarazzo, giocherellando con la cravatta.
“Beh, io pensavo che ti sarebbe piaciuto…” biascicò lui, abbassando gli occhi sul pavimento.
“Tesoro” cinguettò la ragazza “Sai che ti amo immensamente, altrimenti non ti avrei mai perdonato per avermi regalato un robot da cucina…” fece una pausa a effetto e poi aggiunse, con un sorriso “… anche quest’anno!”.
Nel frattempo, l’involto aveva rivelato al suo interno un altro strato di tessuto: si trattava una mussola di cotone, impalpabile come carta velina e all’apparenza piuttosto antica, che Elizabeth rimosse impaziente respirando il lievissimo sentore di muffa che ne esalò.
Quando vide ciò che vi era celato dentro non riuscì a trattenere un’esclamazione di meraviglia e gli altri presenti - oltre a Neal e a Peter c’erano Mozzie, Diana, Jones e June, più una decina tra amici e colleghi di lavoro dell’agenzia di catering - si avvicinarono stringendosi intorno al tavolo, mentre il truffatore rivolse un’occhiata di trionfo al federale, che si limitò ad abbozzare con un sospiro.
Sulla lucida superficie di legno chiaro splendeva adesso una magnifica statuetta di squisita fattura, alta una ventina di centimetri e interamente scolpita in una pietra color verde chiaro, opalescente e attraversata da sottili venature dorate. Raffigurava una giovane donna di incredibile bellezza, completamente nuda tranne che per una sorta di tiara di fattura arcaica, posata sui capelli lisci e lunghi che le sfioravano le anche sinuose; teneva le braccia lungo i fianchi e le sue gambe erano leggermente divaricate in una posa rigida, quasi ieratica.
Umana, bellissima e perfettamente umana, salvo che per gli artigli da uccello rapace che aveva al posto dei piedi e che si posavano sulla base di pietra, rivelando lunghe unghie ricurve e aguzze.
Il volto dai lineamenti alteri - il naso leggermente aquilino, gli zigomi alti, le sopracciglia imperiose e sottili, gli occhi dal taglio allungato e le labbra semiaperte - guardava nel vuoto con un’espressione indecifrabile, come fissando un punto lontano un milione di miglia, oppure un milione di anni.
“Neal, ma…ma…è semplicemente meravigliosa!” esclamò Elizabeth, rigirandola tra le mani “È il regalo più straordinario che io abbia mai ricevuto, in tutta la mia vita!”.
Mentre gli altri si scambiavano commenti pieni di ammirazione per la raffinatezza e la bellezza di quell’oggetto esotico, June domandò con aria divertita: “Neal, e chi sarebbe questa procace signorina?”.
Il giovane, gongolante per il successo appena riscosso, rispose: “È fatta di crisoprasio, una pietra semipreziosa ma molto rara, e rappresenta Lilith, un demone della tradizione mesopotamica e poi ebraica… si dice che sia stata la compagna di Adamo prima di Eva, ma che poi gli si sia ribellata non accettando il fatto che lui volesse giacere con lei sempre e solo stando sopra…”.
“Giuro!” proseguì, tra le risatine e i sorrisetti maliziosi degli astanti.
“Adamo la maledisse e Lilith, furiosa, pronunciò il nome di Dio cosicché le spuntarono le ali e poté volare via, abbandonando di sua iniziativa il Giardino dell’Eden prima della cacciata dell’uomo”.
“Dato che non aveva toccato l’Albero della Conoscenza” concluse il truffatore, compiaciuto per l’interesse che la storia stava suscitando “non fu condannata alla mortalità come gli esseri umani, ma si trasformò in un demone e da allora è associata alla tempesta, al disordine e alla lussuria”.
“Se non mi sbaglio” intervenne a quel punto Moz “secondo la leggenda Lilith vaga ancora sulla terra circondata da un corteo di diavoletti chiamati Jinn o Lilin e, durante le notti di luna piena, si diverte a turbare i sonni degli uomini…”.
“Turbare?” domandò a quel punto Jones “In che senso?”.
Il piccoletto ridacchiò e scambiò uno sguardo d’intesa con l’amico. Fece una smorfia, socchiuse gli occhi e, agitando le mani, rispose: “Li seduce, succhia loro ... ehm... avete capito cosa, fino a ucciderli”.
“WOW!” esclamarono in coro Diana e Jones.
“E stanotte c’è la luna piena!” ammiccò June con un sorriso malizioso.
“E tu hai portato questa turbolenta signorina sotto il mio tetto?!” scherzò Peter, che era rimasto fino a quel momento in disparte e solo allora si avvicinò alla statuetta, fissandola con attenzione per la prima volta.     
“Dai, tesoro!” intervenne Elizabeth, sistemando il suo regalo sulla mensola del caminetto e ammirando di nuovo come la luce ne facesse risplendere tutte le squisite cesellature.
“È un oggetto meraviglioso…” ripeté.
Poi gli avvicinò la bocca all’orecchio e bisbigliò: “Giuro che la sua presenza qui non mi farà venire nessuna strana idea in mente…”.
“Peccato!” brontolò lui di rimando, in tono ugualmente basso.
“Di’ un po’, Neal” fece a un tratto Jones “Ma un gingillo del genere non dovrebbe stare in un museo? Non l’avrai mica rubato?”.
Il truffatore si esibì in uno dei suoi sorrisi meglio riusciti e rispose, con voce assolutamente ferma e senza neppure un’esitazione: “Se fosse autentica, ovvero risalente al terzo millennio avanti Cristo, il suo posto sarebbe al Louvre accanto al Codice di Hammurabi! Ma si tratta solo di una copia ottocentesca, l’ho comprata la settimana scorsa da un antiquario a Soho”.
“Vuoi vedere la ricevuta?” aggiunse, in tono scherzoso ma sostenendo lo sguardo dell’altro.
“Dovrei?” replicò l’agente, restituendogli lo sguardo e il sorriso appena un po’ tirato.
“Ok, ok, ragazzi” intervenne Diana, prendendo il collega per un braccio e sospingendolo verso il tavolo dove era stato allestito il rinfresco “Vieni, andiamo ad aiutare Elizabeth con la torta…”.
Rimasti soli, Mozzie indicò con un cenno del capo la statuetta e diede di gomito all’amico.
“Non dirmi che è autentica…” mormorò, fissando l’immagine con cupidigia “Mon frère, quella lussuriosa bambolina vale una fortuna!”.
“Io non lo dirò” replicò l’altro con un sorriso enigmatico “E neanche tu, vero? Sai che non avrei mai regalato a Elizabeth una volgare imitazione da mercatino delle pulci…”.
  
***
 
“È stata una serata deliziosa, vero tesoro?” la voce allegra di Elizabeth giunse dalla cucina dove stava terminando di lavare gli ultimi piatti, mentre Peter rimetteva al loro posto le sedie intorno al tavolo del salotto; gli ospiti erano andati via già da un po’ e la casa era tornata tranquilla e silenziosa.
“Ah-ah” si limitò ad annuire il federale, raccattando un cuscino da terra e gettandolo sul divano. Distratto, si avvicinò alla mensola del caminetto e per la seconda volta in quella serata fissò lo sguardo sulla statuetta verde; le sue iridi immobili erano rivolte verso qualcosa che sembrava trovarsi molto oltre di lui, qualcosa di incredibilmente lontano o di incredibilmente passato, eppure al tempo stesso parevano rivolgersi a lui, attraversandolo come una lama.
Inspiegabilmente Peter si sentì come imbarazzato e non riuscì a spostare lo sguardo altrove; quegli occhi non assomigliavano agli occhi della statua di Cristoforo Colombo a Central Park, né a quelli dell’Abramo Lincoln di bronzo che svetta a Union Square Park … no, erano diversi, sembravano guardare e vedere.
Un raggio di luce lunare entrava dalla finestra e colpiva in pieno il simulacro, facendolo rilucere di strani bagliori che, nella penombra della stanza, possedevano qualcosa di sinistro: sembrava quasi fosforescente, era come se la luce non solo la sfiorasse ma provenisse dal suo stesso interno, da quel corpo inanimato di crisopraso verde che splendeva, avvolto da una luminosità ondeggiante, viva, pressoché palpabile.
Il federale fu attraversato da un brivido e per un istante ebbe paura; si sentiva la bocca asciutta e non riusciva a parlare. Con tutte le sue forze avrebbe voluto distogliere lo sguardo e allontanarsi, ma era come incatenato da un’energia misteriosa.
Sbatté le palpebre tentando di riprendere il controllo di sé, incredulo per quello stranissimo fenomeno fisico che senza successo cercò di attribuire al troppo champagne bevuto e alla luce incerta che filtrava nella camera. Poi, come attirato da una calamita, si avvicinò ancora di più alla statuetta: il suo viso era ormai a pochi centimetri da quella meraviglia di pietra baluginante.
In quel momento, accadde.
 
***

 

 
Peter Burke era certo che fosse ottobre inoltrato, quel pomeriggio aveva persino piovuto un po’… e allora come mai, tutt’a un tratto, sentiva un caldo così soffocante che si sarebbe volentieri strappato di dosso la giacca se solo fosse riuscito a muovere un muscolo? Per quale motivo, invece, era come paralizzato e a stento riusciva a respirare, a tenere gli occhi aperti? 
Di fronte a lui non c’era più il familiare salotto di casa sua ma si stendeva un deserto con basse dune a perdita d’occhio, bagnate dalla luce argentea della luna piena più grande e vicina che avesse mai visto in vita sua. Si trovava su un vasto, vastissimo terrazzo posto sulla sommità di un enorme edificio di pietra calcarea, che dominava dall’alto quella interminabile distesa di sabbia; intorno a lui poteva scorgere altri edifici più bassi e tra essi macchie di vegetazione fitta e lussureggiante.
Candelabri accesi e fiaccole formavano cespugli di fuoco tra le coppe di terracotta dipinta e i piatti di pietra, i cumuli di neve delle montagne e i grappoli d’uva, tingendo di chiarori rossastri il pavimento levigato, le alte colonne e le tavole di legno riccamente imbandite; nell’aria della notte ancora rovente si mescolavano sentori di resine e fiori esotici.
Si rese conto di non essere solo: una moltitudine di persone, abbigliate in una maniera che gli parve stranissima, vociava e si agitava come in preda a una frenesia orgiastica. V’era chi, sdraiato su grandi cuscini posati direttamente per terra, beveva avidamente uno scuro liquido schiumoso da basse coppe di terracotta incisa, chi divorava cibi colorati e odorosi che lui non avrebbe mai saputo riconoscere, chi, già ubriaco, russava sonoramente nella polvere. Risuonava una moltitudine di voci che parlavano simultaneamente - gridavano, ridevano, cantavano, sussurravano - in lingue diverse ma tutte allo stesso modo incomprensibili al suo orecchio.
A un tratto la folla ammutolì all’apparire di un uomo alto e imponente: nonostante il clima torrido, indossava un pesante mantello nero gettato su una tunica di lino d’un bianco abbagliante, aveva un po’ di belletto sugli zigomi, una folta barba a ventaglio e, tra i capelli lunghi e arricciati, un diadema di pietre preziose.
All’unisono, tutti - soldati, dignitari, dame elegantemente vestite e semplici servi - si prostrarono con la faccia nella polvere e attesero che la regale apparizione con un cenno del capo desse loro il permesso di levarsi.
Poi, il sovrano - poiché tale doveva essere senza dubbio, comprese il poliziotto -  iniziò a recitare quella che sembrava una formula magica in una lingua dimenticata da millenni, sepolta dalla sabbia del tempo; quelle sillabe solenni, ultraterrene, dapprima salirono verso il cielo in un mormorio quasi inintelligibile e poi rimbombarono echeggiando sulla pietra come una sorta di mantra che rotolava e tuonava senza sosta.
Come una tempesta che s’infrange sugli scogli, squassa la foresta e ulula tra le cime dei monti.
Improvvisamente dalla folla arrivò un mormorio di sorpresa e di ammirazione perché nel mezzo dell’ampia spianata era apparsa dal nulla, in un turbine di luci fosforescenti, una giovane donna: sotto un velo bluastro che le nascondeva il seno e la testa si distinguevano gli occhi scuri, le sopracciglia arcuate, i calcedoni che brillavano ai suoi lobi e la sfumatura olivastra della pelle. Il drappo di seta multicolore che le copriva le spalle era fermato in vita da un’alta cintura d’oro riccamente cesellata; i veli iridescenti che l’avvolgevano ondeggiavano intorno al corpo snello mentre avanzava flessuosa fino a porsi di fronte al re.
I piedi eleganti, ornati di anelli multicolori, non lasciavano impronte sulle lastre spolverate di sabbia del pavimento e i suoi passi non producevano alcun rumore.
A differenza degli altri, non si inchinò e non abbassò nemmeno la testa; quegli occhi che Peter Burke intuiva essere neri come un baratro e morbidi al pari del velluto sostennero lo sguardo di colui che l’aveva richiamata con la propria potente magia dalle tenebre che le erano congeniali.
Poi, con un meraviglioso gesto circolare si liberò del velo, che finì sul pavimento; i lunghissimi capelli neri dalle sfumature bluastre, intrecciati in maniera bizzarra, le ricaddero sul petto, le spalle, la schiena e le anche.
Subito dopo, Lilith cominciò a danzare.
I suoi piedi passavano l’uno davanti all’altro, al ritmo del flauto e di una coppia di crotali; le braccia di madreperla si muovevano sinuose come serpenti, quasi inseguissero qualcuno che tentava senza sosta di sfuggirle. Con le palpebre socchiuse si torceva, agitava i fianchi e faceva tremare i seni con le ondulazioni di una mareggiata, seguendo il rimbombare dei cembali.
Si rovesciava all’indietro, simile a un fiore piegato dalla tempesta, mentre le pietre preziose che le ornavano le sue orecchie, i polsi e le caviglie splendevano di bagliori variopinti. Dai suoi piedi, dai capelli lucenti, dall’orlo della veste trasparente sprizzavano scintille che incendiavano gli uomini: adesso tutti i presenti, fossero soldati avvezzi alle privazioni del deserto, nobili dissoluti, sacerdoti barbuti o miseri sguatteri, tutti palpitavano di bramosia.
Lilith aveva ballato senza guardare nessuno e all’improvviso si fermò: gli occhi scintillanti di bagliori oscuri, le sopracciglia nerissime, il sudore che le imperlava la fronte d’alabastro, si voltò con un gesto repentino e il suo sguardo fendette la folla assiepata e vogliosa, oltrepassò il re barbuto e si appuntò esattamente sullo spettatore più allibito, che aveva assistito a tutta la scena immobile e senza articolare parola.
Il federale istintivamente stese la mano davanti a sé fino a toccare la liscia superficie di pietra, sorprendendosi del fatto che non fosse fredda come aveva immaginato ma, al contrario, calda e vibrante.
“Peter…”.
La voce di Elizabeth e il suo tocco gentile sul braccio lo richiamarono bruscamente alla realtà; il poliziotto ritirò la mano in un guizzo, sbatté le palpebre e deglutì, sentendosi la gola arida e la bocca come impastata. Il cuore gli martellava furiosamente nel petto e dovette chiudere le mani a pugno per non rivelare il tremito che le attraversava.
“Tutto bene?” esclamò la ragazza con un sorriso allegro.
Peter aprì la bocca per rispondere, ma era ancora senza fiato per ciò che aveva appena visto e non riuscì a dire nulla così lei, senza attendere ancora una risposta, gli prese la mano e lo trascinò verso la scala che conduceva al piano di sopra.
Il poliziotto mosse qualche passo quasi in trance, come un sonnambulo, fino a che la moglie non lo prese per la cravatta e lo attirò a sé maliziosa, il volto leggermente arrossato. Lo guardò negli occhi e gli mormorò all’orecchio con voce dolcissima: “Andiamo in camera…voglio dimostrare a te, caro il mio discendente di Adamo, che il tuo antenato è stato un vero idiota a scacciare Lilith dal Paradiso…”.
 
***
 
Satchmo si destò di soprassalto quando il suo istinto canino gli fece drizzare il pelo sulla schiena e scoprire i denti in un ringhio sordo; perfettamente sveglio, balzò fuori dalla cuccia nell’ingresso e zampettò fino al salotto come attirato da una forza sconosciuta.
Nella stanza era apparentemente tutto in ordine, però un raggio di luce argentata filtrava attraverso i vetri della finestra andando a battere esattamente sulla piccola statuetta verde, che ne rimandava i bagliori tingendoli di una fosforescenza inquietante.
A un tratto apparvero delle luci piccole e tremanti, indiscutibilmente strane, che si raccolsero intorno all’immagine scolpita: se Satchmo avesse saputo cos’erano i fuochi fatui, avrebbe di certo pensato che assomigliavano appunto a quelle fiamme che di notte si possono vedere nelle paludi o nei cimiteri. Comparvero dal nulla, come uscite dall’aria e dalla luce della luna, e iniziarono a vorticare: ben presto divennero una nebbia luminosa che tremava e girava su se stessa, un fuoco rilucente di guizzi e scintille, come una concrescenza di raggi lunari condensati.
La presenza diventava a ogni momento più concreta fino a quando, esattamente al centro della stanza, si erse al posto della colonna di nebbia fosforescente una donna di meravigliosa bellezza: Lilith, l’immortale Signora dei Lilin - dapprima trasparente, poi traslucida e infine pressoché solida a dispetto della sua natura di spirito - si guardò intorno e un tenue sorriso le increspò le labbra sensuali.
Satchmo, terrorizzato, lanciò un guaito stridulo che fu sufficiente affinché l’apparizione si voltasse verso di lui con uno sguardo che per poco non fece scoppiare il suo povero cuore di cane: l’essere, fluttuando a mezz’aria, gli si avvicinò e lo trafisse con le sue pupille acuminate come punte di selce, oscure più della notte che l’aveva partorita. Sollevò appena una mano incorporea e con il palmo diafano rivolto verso il muso dell’animale fece un movimento impercettibile che lo costrinse a indietreggiare e poi a rifugiarsi - rapido e scomposto, con la coda tra le zampe e il capo chino - dall’altra parte della casa, dove si rintanò sotto un mobile uggiolando come un cucciolo in preda al panico.
La Figlia della Danzatrice, l’eterna Regina di tutte le notti di luna piena, ebbe un sorriso freddo come l’alito di una tomba e altrettanto velenoso.
Ondeggiante, vibrante come la fiamma di una candela eppure vivo, vivente in qualche maniera sconosciuta e inspiegabile, il demone della tempesta salì con  passi invisibili di gambe scomparse da millenni le scale di casa Burke e giunse in silenzio fino alla camera da letto dove Peter ed Elizabeth dormivano della grossa; erano tranquilli e rilassati e non si accorsero della sua presenza, che covava nell’ombra come una tremenda minaccia alle loro esistenze ordinarie.
Lo sguardo infinitamente antico e misterioso di Lilith si posò sull’uomo, che giaceva a pancia in giù, il volto affondato nel cuscino; fluttuò accanto a lui e si chinò, fissandolo, tanto vicina da poter sentire il suo respiro caldo e regolare su quelle che un tempo incommensurabilmente lontano erano forse state labbra viventi.
Levò una mano ingioiellata e con una carezza impercettibile, leggera come uno zefiro, gli sfiorò la guancia abbronzata. Lui parve avvertire quel contatto incorporeo e si agitò nel sonno; senza destarsi, mugugnò qualcosa di incomprensibile e si girò dall’altra parte.
La presenza si raddrizzò, piegò la testa di lato con un gesto assolutamente femminile e senza ritrarre la mano mormorò una parola soltanto: “Baali” (1).
Come se avesse udito quelle sillabe morte da millenni Elizabeth, sebbene ancora addormentata, protese il braccio fino a circondare il corpo del marito e si strinse a lui.
Il bellissimo volto spettrale si contorse allora in una smorfia di rabbia immitigabile: Agrat bat Mahlat (2), colei che Re Salomone in persona aveva evocato affinché danzasse per lui, non avrebbe tollerato un affronto del genere!
 
***
 
La mattina seguente Peter Burke si svegliò sentendosi come se avesse trascorso la notte non già nel suo comodo letto, bensì in una centrifuga azionata a tutta velocità; sebbene l’orologio gli confermasse che aveva dormito per quasi tutte le otto ore canoniche, infatti, non solo non era per niente riposato ma anzi gli dolevano tutte le ossa e sentiva la testa pesante come un macigno.
Controvoglia si vestì e scese dabbasso a fare colazione: non appena lo sguardo assonnato gli cadde sulla statuetta verde che riluceva in tutto il suo splendore ai raggi del primo sole mattutino, si sentì percorrere nuovamente da un brivido. Si voltò fingendo indifferenza e prese un sorso di caffè nella speranza che almeno quello riuscisse a infondergli una sferzata di energia: niente da fare, per qualche insondabile motivo gli pareva di avvertire lo sguardo della figura di pietra che gli si conficcava nella schiena come una lama appuntita e quella sensazione, anziché provocargli una scarica di adrenalina, sembrava prosciugare ogni suo residuo vigore.        
Si alzò in piedi di scatto: basta! Era un uomo razionale, con i piedi ben piantati per terra e aveva già ceduto troppo all’immaginazione, dato che solo di quello poteva trattarsi…
Afferrò l’immagine di Lilith e, senza essere in grado di guardarla un’altra volta, la ripose in un cassetto della credenza; era solo un ninnolo senza vita - chiaro - eppure non riuscì a evitare di chiudere a chiave, dando anche due mandate per giunta. Pur non capendone esattamente il motivo si sentì allora come sollevato, sorrise per la prima volta quel giorno e andò in cucina a chiamare Elizabeth.
 
***
 
“Vi prego, dovete aiutarmi! Io… io credo di stare impazzendo…”
Elizabeth Burke si lasciò cadere pesantemente sul divano di casa di Neal e si portò le mani al viso in un gesto di disperazione. Rifiutò con decisione il bicchiere d’acqua che Mozzie le aveva offerto, facendogli intendere che aveva bisogno di qualcosa di più consistente per sperare di calmarsi almeno un po’…
Effettivamente il merlot ghiacciato ebbe l’effetto di farle tornare un po’ di colore sulle guance livide, ma non riuscì a placare del tutto l’agitazione che l’aveva spinta a piombare a casa di June nel bel mezzo del pomeriggio sperando con tutto il suo cuore di trovarvi Neal e Moz.
“Allora, piccola” esordì il secondo, sedendosi accanto a lei “vuoi dirci cosa è successo?”.
La ragazza sospirò stancamente, poi trasse un respiro profondo e, come chiamando a raccolta tutte le forze che le rimanevano, iniziò a raccontare: “Stamattina sono uscita di casa come al solito per andare al lavoro, ma…” subito si interruppe, come cercando le parole adatte per descrivere qualcosa di troppo inverosimile perché i due potessero prestarvi credito “… prima, mentre aprivo l’auto, un vaso di fiori è scivolato da un balcone e per un pelo non mi ha spaccato la testa, poi in ufficio il mio computer ha deciso che era giunto il momento di friggere se stesso e tutti i miei dati come una porzione di patatine e solo per caso la scarica elettrica non ha trasformato anche me in un mucchietto di cenere…”.
“E, come se non bastasse, mentre venivo qui un tombino si è aggiunto al complotto degli oggetti inanimati contro di me e si è aperto all’improvviso, così che ho rischiato di rompermi l’osso del collo cadendoci dentro…”.
I lineamenti delicati di Neal si contrassero in una smorfia e i suoi occhi azzurri si socchiusero, mentre si concentrava sugli strani avvenimenti che avevano reso la giornata di Elizabeth un vero incubo; guardò Moz, che ricambiò la sua occhiata carica di preoccupazione e sbalordimento.
“Hai chiamato Peter? So che è rimasto in ufficio anche dopo che ha lasciato me libero” chiese il truffatore  dopo un istante di silenzio.
“N-no” rispose lei, facendo un gesto brusco con la mano “O meglio si, una volta, ma era in riunione con Hughes e non sono riuscita a parlargli… del resto, so già che non mi crederebbe, che penserebbe che sono matta e che mi sto lasciando suggestionare…”.
“Perché dici questo?” le domandò allora il piccoletto.
Elizabeth deglutì, abbassò i chiari occhi tormentati e disse: “Perché sono sicura che non si è trattato di incidenti, né di sfortunate coincidenze…”.
“Eh?” fecero i due all’unisono.
“Ho la sensazione” proseguì “che da stamattina una presenza maligna mi segua dappertutto e mi spii… non so se riesco a spiegarmi, è strano… so che è folle e incredibile, ma sono sicura di avere visto con la coda dell’occhio una figura fatta d’ombra ferma alle mie spalle ogni volta che è mi è accaduto qualcosa di pericoloso”.
“Io mi volto, la cerco con lo sguardo… ma lei scompare subito e ovviamente nessun altro l’ha mai vista tranne me!”.
“Oh mio Dio!” singhiozzò la ragazza, che adesso tremava come una foglia “Pensate che io sia pazza, vero?”.
 
***
 
Elizabeth si era alla fine addormentata sul divano di Neal, sfinita per le troppe emozioni della giornata; il truffatore e il suo amico la guardavano riposare, vegliando il suo sonno agitato e interrogandosi sugli incredibili avvenimenti che avevano messo a repentaglio la sua vita.
All’improvviso avvertirono con chiarezza un repentino abbassamento della temperatura e nella penombra della stanza videro quel che sembrava essere un’esile traccia ondeggiante, come un filo di fumo, ma vibrante e pulsante come una cosa viva; diveniva sempre più visibile e concreto e immediatamente i due uomini si resero conto che qualcuno, anzi qualcosa, era appena entrato nella camera.
Qualcosa di certamente non umano, che fece correre loro un brivido lungo la schiena e gli coprì il viso di sudore gelido: una presenza femminile, prima indistinta e poi sempre più nettamente definita, di perfetta bellezza e di squisite proporzioni. Una semplice forma di nebbia, senza colori eppure perfettamente riconoscibile.
Passò loro accanto come se non li vedesse e fluttuò verso il divano dove giaceva Elizabeth: sollevò appena la mano fatta d’ombra e il pesante quadro che era appeso alla parete si staccò dal chiodo. Solo lo scatto di Neal che l’afferrò al volo impedì che la tela e la sua spessa cornice cadessero esattamente sulla testa della ragazza addormentata.
L’essere non si voltò verso i due uomini e non fece alcun movimento; solo, svanì repentinamente come era apparso. 
Neal e Mozzie si guardarono terrorizzati e increduli: se prima avevano dubitato di ciò che aveva visto Elizabeth e della spiegazione che aveva dato agli strani incidenti della mattinata, ora non potevano che giungere a una conclusione diversa. Ciò che era appena successo imponeva loro di credere all’incredibile: nel 2012, a New York, in una quieta serata d’autunno, avevano appena visto un fantasma.
 
***
 
“Bene!” esclamò Moz chiudendo dietro di sé la porta d’ingresso e posando sul tavolo un libro rilegato in quella che sembrava pelle di serpente.
Si sedette e si asciugò il sudore dalla faccia con un fazzoletto.
“Ho parlato con il mio amico occultista, Michael Leight, te lo ricordi?” domandò a Neal.
“Ah lui, non sapevo fosse uscito dal Northern Westchester (3)…” ribatté l’altro, che pareva avere ripreso pienamente il controllo di sé.
“Non scherzare Neal!” rispose il piccoletto “Quando gli ho raccontato che cosa abbiamo visto, Michael per poco non è svenuto! Lui pensa che una qualche intelligenza malefica stia tramando contro Elizabeth, anche se ovviamente non è riuscito a dirmi chi potrebbe essere, né come fermarla”.
“E quel libro?” chiese il truffatore indicando lo stravagante volume che giaceva sul tavolo della sua cucina.
“Me l’ha dato Michael, si tratta di un manuale di esorcismi che potrebbero, secondo lui, aiutarci a scacciare quella creatura se dovessimo incontrarla di nuovo…”.
“Non so, Moz” sospirò l’altro, appoggiando la schiena alla sedia “Siamo proprio sicuri di non avere avuto un’allucinazione? Potremmo esserci sbagliati”.
L’amico scosse la testa vivacemente e rispose: “No, io non credo… ciò che abbiamo visto era reale e la mia conclusione è avvalorata dagli incidenti che per poco non sono costati la vita a Elizabeth”.
Si alzò, si avvicinò all’altro e iniziò a sfogliare le pagine del libro.
“Adesso mettiamoci al lavoro e cerchiamo ci capire chi era quella misteriosa apparizione e perché vuole farle del male”.
 
***
 
“Ragazzi, grazie dell’ospitalità, ma adesso mi sento molto meglio!” esclamò Elizabeth; il riposo sembrava averle fatto bene, perché appariva più serena e di buon umore persino.
Afferrò la borsa e si avviò verso la porta, dicendo: “Vado a casa, altrimenti Peter mi darà veramente per dispersa!”.
“Aspetta El” la fermò Neal “lascia che ti accompagni… non vogliamo che un altro vaso di fiori rischi di attentare alla tua vita!” aggiunse in un tono che voleva essere scherzoso e invece suonò leggermente stonato.
“Se ci tieni…” fece lei con una smorfia “Ma credo proprio di essermi sbagliata, forse è stato solo un effetto della stanchezza o dello stress… Sai, è difficile che ci sia qualche strana creatura diabolica che vuole farmi la festa!”.
“Già…certo” borbottò Neal “Ma aspettami comunque, prendo la giacca e vengo con te, tanto per essere prudenti…”.
Era appena uscito dalla stanza quando un urlo proveniente dall’ingresso gli fece gelare il sangue nelle vene e interruppe Mozzie, che era ancora intento a studiare lo strano volume che gli aveva prestato Leight.
I due si scambiarono un’occhiata terrorizzata e si precipitarono nella camera dove era rimasta Elizabeth: la videro lottare corpo a corpo con una snella, sinuosa, donna che tentava di colpirla con un tagliacarte d’argento preso dalla scrivania di Neal. La videro cercare di resistere con tutte le sue forze tentando di allontanare la mano che - con dita incredibilmente forti nonostante fossero tanto affusolate - le minacciava la gola.
Scorsero per la prima volta chiaramente i lineamenti della creatura, adesso solida come un essere di carne e sangue: nel suo volto severo aleggiava un sorriso terribile, scarlatto e stillante come una ferita fresca. Non c’erano dubbi, si trattava della medesima entità che poco prima aveva già attentato all’incolumità di Elizabeth, solo che non era più evanescente, bensì drammaticamente forte e determinata.
Per un istante - un lungo istante fatale - i due uomini rimasero paralizzati dall’orrore, finché lo sguardo implorante della giovane che stava per soccombere alla mortale nemica non li richiamò alla realtà: allora Neal balzò in avanti e afferrò un braccio della donna misteriosa, cercando di allontanarla dalla sua vittima. Con sommo orrore il ragazzo si accorse di avere toccato qualcosa di freddo e viscido come un serpente, qualcosa il cui solo contatto gli fece correre un brivido di dolore lungo tutto il braccio e fino alla spalla.
“Lilitu! Agrat bat Mahlat!” gridò a quel punto Moz, leggendo quelle strane parole dal libro che teneva in mano.
Non appena le sillabe arcane riempirono l’aria, il sorriso svanì dal volto dell’essere; lasciò la presa e fece un passo indietro, come spaventato.
“Lilitu!” ripeté allora Moz con più energia, mentre Elizabeth si aggrappava a Neal tentando di ricominciare a respirare normalmente.
La bellissima immagine di donna, i lineamenti alteri e meravigliosi, i lunghi capelli serici, tutto pareva ora di secondo in secondo farsi più diafano, trasparente e sfumato; i tre udirono come un grido di rabbia, basso e roco quasi provenisse da un abisso dimenticato, e subito dopo il tintinnio del tagliacarte che, non più impugnato dalla mano fatale di Lilith, cadeva sul pavimento.
 
***
 
“Tesoro, sono tornato!” la voce allegra di Peter Burke attraversò la casa silenziosa, mentre l’uomo oltrepassava la soglia e chiudeva dietro di sé la porta; si tolse la giacca e appoggiò la pistola sul tavolo, guardandosi intorno. Si sentiva meglio rispetto alla mattina: evidentemente uscire di casa e concentrarsi sul lavoro gli aveva giovato, distraendolo dal rimuginare ancora sui singolari avvenimenti della sera precedente.
Perciò, con un sorriso avanzò nell’appartamento insolitamente tranquillo a quell’ora della sera e, dopo aver chiamato ancora una volta la moglie, realizzò che non era ancora rientrata.
Strano.
Ancora più strano gli sembrò che la statuetta di Lilith facesse di nuovo bella mostra di sé sulla mensola sopra il caminetto, nonostante lui si fosse premurato di chiuderla a chiave in un cassetto quella stessa mattina: evidentemente - considerò con un certo disappunto - sua moglie l’aveva rimessa al posto d’onore che le era stato assegnato durante la festa…
Si strinse comunque nelle spalle e armeggiò col distintivo per staccarlo dalla cintura dei pantaloni dove era agganciato.
“Baali”.
Una voce bassa e dolce come le fusa di un gatto lo fece sobbalzare: era una voce innamorata, carezzevole, un soave mormorio che contemporaneamente possedeva la carnalità di una donna e la cadenza celestiale del mormorio della brezza estiva, dello stormire delle fronde, dello scorrere dell’acqua di un quieto ruscello di montagna.
“Baali” ripeté la voce e il federale si rese conto con terrore che proveniva da una nebbia fosforescente, che palpitava e pulsava con battito ritmato al centro del suo salotto.
“Signore e Padrone, sono giunta a te per compiacerti …”.
L’uomo sgranò gli occhi e sbatté le palpebre ripetutamente senza riuscire a capacitasi di ciò che stava avvenendo a qualche passo da lui; si sentiva la testa vuota e gli pareva che una morsa d’acciaio gli stesse torcendo le viscere mozzandogli il respiro.
“C-che succede?” biascicò, sorprendendosi di come qualche parola fosse riuscita pur sempre a venire fuori dal suo petto ansimante “Chi c’è?”.
Da quella brillante nebbia sensibile si levò allora una risata, amara beffarda e dolce come il veleno, e il poliziotto si rese conto solo in quell’istante che un pesante alito di profumo aveva improvvisamente saturato la stanza: era un odore di fiori, di rosa e gelsomino, ma tinto da un leggerissimo sentore sulfureo che gli riempiva le narici e si spargeva, così intenso da offuscare quasi i suoi sensi.
Quando la risata cessò, Peter - incapace di muovere un solo muscolo e finanche di gridare - osservò che la forma di nebbia diventava di momento in momento più concreta e solida, fino a quando sul tappeto finto persiano si erse al suo posto una donna di straordinaria bellezza: Lilith, la Regina dei Lilin, bella come mai nessuna donna mortale potrà essere gli sorrideva, apparentemente di carne e sangue.
Lilith, bella di una bellezza da troppo tempo dimenticata per esistere anche solo in un ricordo remoto.

Lilith, Ardat Lilî, l’immortale sovrana delle notti di luna, sorta dalla polvere dei cervelli morti di innumerevoli amanti, dai corpi tramutati in sabbia di coloro che l’avevano adorata sulla piana di Babilonia.
 

Sorrise di una lenta, carminia malia.
I suoi occhi dal taglio allungato, ombreggiati da folte ciglia ricurve, fissavano il federale con un’intensità tale da togliergli il poco fiato che ancora gli era rimasto in corpo. Scosse la notte dei lunghi capelli, neri come l’ala di corvo e intrecciati in un’elaborata acconciatura; da essi esalò ancora più penetrante il profumo che Peter aveva sentito pochi istanti prima riempire la stanza.
“Tu sai chi sono io, Baali, sei tu che mi hai evocata…” disse quella voce strisciante come un serpente e altrettanto tentatrice.
“Ci deve essere un equivoco” esclamò a quel punto l’uomo, e nello stesso istante si rese conto di quanto fossero ridicole quelle parole, data la situazione; ma, in tutta onestà, era già un miracolo non essere svenuto…
“Io non ho evocato nessuno…”.
Distolse lo sguardo, cercando di non fissare quella meravigliosa nudità che gli stava davanti in tutto il suo abbagliante splendore.
Per tutta risposta la creatura avanzò di qualche passo verso di lui annullando la distanza che ancora li separava e, senza staccare gli occhi da quelli del poliziotto, rispose: “Tu mi hai richiamata dalle tenebre, dal tempo senza vecchiaia che rappresenta la mia esistenza eterna, tu… il tuo sguardo e la tua mano hanno attraversato la polvere dei millenni per giungere fino a me”.
“Sei riuscito nel tuo intento, Baali, ma adesso c’è un prezzo da pagare e, credimi, ti assicuro che non è un prezzo troppo elevato per ciò che ne riceverai in cambio…” aggiunse maliziosa.
“Guardi, signora” fece Peter Burke sempre più stravolto, indietreggiando senza volere  “Io non ho chiamato nessuno e non pagherò niente”.
Lilith adesso era vicinissima e gli posava una mano sul petto: il suo tocco era bollente e da quella piccola porzione di pelle si irradiavano, nel corpo del poliziotto, come ardenti scintille di eccitazione e brividi che lo attraversavano dalla testa ai piedi.
Ormai consapevole che stava per perdere il controllo, gettò un’occhiata disperata alla pistola che si trovava sul tavolo a poche decine di centimetri da lui… non sapeva se il piombo potesse o meno qualcosa contro la creatura che aveva di fronte, ma tanto valeva almeno tentare…
Il demone intuì il suo disegno, o forse lesse il suo pensiero sconvolto, sorrise crudelmente e all’istante al posto dell’arma di servizio Peter vide solo un mucchietto di sabbia biancastra e luccicante, che un vento improvviso disperse.
A un tratto, il federale ebbe un’idea.
“Se io ti ho chiamata, io posso anche rimandarti indietro da dove sei venuta!” esclamò “Vattene, te lo ordino!”.
Ma il suo sollievo durò solo una frazione di secondo, perché Lilith rise di nuovo; ancora quella risata bassa, musicale e al tempo stesso terribilmente seducente.
“Non mi puoi rimandare indietro, Baali!” disse in tono di sfida.
“Non puoi rimandare indietro me, la Regina di Zemargad. Ora sono qui e mi prenderò ciò per cui sono venuta!”.
Poi aggiunse, più dolce: “Tu preferisci me a tutte le donne terrene, Baali, non può essere diversamente … Guardami, non sono forse attraente?”.
“Io-io sono sposato e amo mia moglie …” tentò ancora una strenua difesa il poliziotto.
A quelle parole gli occhi neri di Lilith scintillarono per un istante, accendendosi di bagliori purpurei, e dalla sua bocca voluttuosa uscì un mormorio che l’uomo non comprese, ma che aveva un suono decisamente minaccioso.
Con entrambe le mani lo spinse sul divano e gli si sedette a cavalcioni: adesso Peter non poteva fare a meno di guardarla, i suoi occhi scuri parevano tizzoni d’inferno, ma le sue labbra dipinte promettevano il paradiso. Sentiva i suoi seni nudi schiacciarsi contro il petto, nelle narici quel profumo che gli faceva perdere la ragione…il suo calore, il calore della sua pelle perfetta come quella di nessuna donna mortale potrà mai essere …
Era sull’orlo del baratro, ma ancora tentava di resistere.      
“Io posso fare tutto ciò che vuoi, Padrone, tutto ciò che mi comanderai” bisbigliò, vicinissima alla sua bocca, tanto che i loro respiri ormai si confondevano.
 “Tutto…”.
 
***
 
 “Quindi quella cosa era Lilith?!” strillò Elizabeth.
“Già, penso proprio di sì” ribatté Moz “Non potevo esserne sicuro ma, dalla descrizione che ho letto nel libro di Michael - una donna bellissima con lunghi capelli, ho pensato che potesse essere lei e, quando l’ho chiamata per nome e lei è scomparsa, ho capito che avevo visto giusto!”.
La ragazza rivolse a Neal uno sguardo truce e sbottò: “Neal, dimmi che non c’entra niente con la statua che mi hai regalato…TI PREGO… dimmi che è soltanto una coincidenza…”.
“Calmati, El” rispose il truffatore, tentando di mantenere una certa compostezza mentre, in realtà, se la stava facendo sotto dalla paura.
“Dobbiamo cercare di capire perché questa creatura ce l’ha tanto con te… cosa può mai volere?”.
Elizabeth ci rifletté qualche istante e poi, d’improvviso, impallidì e cacciò un grido.
“Ci sono! Ma non capite?” urlò con rabbia all’indirizzo dei due, che ancora la fissavano allibiti “Mozzie, ricordi quello che hai detto la sera della festa? Di come Lilith vaga di notte a tormentare gli uomini…”.
Moz e Neal, interdetti, si scambiarono ancora un’occhiata e non replicarono.
“Insomma, è chiaro!” insisté lei, ormai sull’orlo di una crisi di nervi “Non vuole me, vuole Peter! Ha cercato di uccidermi perché è gelosa e voleva togliermi di mezzo ma adesso, dato che non le è riuscito, sarà andata da lui…”.
Afferrò il cellulare con mano tremante e compose il numero del marito, pregando con tutte le sue forze che si sbrigasse a rispondere; squillò un paio di volte e poi le parve di udire il segnale di risposta, ma subito dopo l’apparecchio tacque e rimase silenzioso nonostante tutti i tentativi di chiamata che lei e Neal fecero nei minuti successivi.  
 
***
 
“Non puoi resistermi, Baali” mormorò di nuovo Lilith contro le labbra, ormai aride, del federale “Nessun mortale può…”.
“Coloro che mi hanno amata sono ormai cenere, le loro ossa polvere, ma i loro desideri rivivono in te… sono potenti, io riesco a sentirli… tu non vuoi resistermi….” bisbigliò insinuante mentre con le mani lo percorreva, lo esplorava facendo tremare la fibra stessa della sua anima vacillante.
Il trillo del cellulare che il poliziotto portava ancora agganciato alla cintura dei pantaloni fece ripiombare Peter Burke, che ormai brancolava tra le nebbie di civiltà perdute da innumerevoli ere, nella New York dell’anno 2012.
Lilith mormorò un’imprecazione incomprensibile per quella interruzione inopportuna e fissò l’uomo che tentava, con le mani che gli tremavano, di raggiungere l’apparecchio e rispondere.
Ora, ho buone ragioni di ritenere che Agrat bath Mahlat non avesse mai visto un telefono cellulare, né possedesse la benché minima idea dell’uso di quel molesto oggetto trillante; fatto sta che il demone della lussuria non tollerava di essere interrotto - men che meno da un fastidioso rumorino metallico -  e quindi con un solo sguardo tramutò l’innocente apparecchio in un guizzante serpentello, così che Peter istintivamente lo scagliò lontano sul pavimento ove il cellulare, riacquistata la sua forma originaria, terminò la sua breve e infelice esistenza con un tonfo secco.
Quindi tornò a fissare il federale con lo sguardo di un leone che sta per saltare alla gola di una gazzella e si passò la lingua appuntita sulle labbra tinte di rosso.
“Tu mi vuoi, Baali, come potrebbe essere altrimenti?” sospirò, sensuale e dolce come il miele.
“Perché stai facendo questo?” mormorò il poliziotto, ormai prossimo a perdere il controllo.
“Perché ne ho bisogno” rispose la Regina di Zemargad, fissandolo con i suoi occhi di velluto nero “Perché ho bisogno di te e perché…sei tu a volerlo”.
“Lasciati andare, mio Signore … vedrai, sarà meraviglioso ….”.
 
***
 
“Mio marito è lì dentro con la meretrice di Babilonia e tu mi dici di stare calma?” tuonò Elizabeth aggrappandosi con tutte le sue forze alla porta di casa; aveva tentato ripetutamente di aprire ma, per qualche inspiegabile ragione, la serratura era bloccata dall’interno e non c’era riuscita.
“Peteeer!” chiamò, in preda al terrore ma anche a una gelosia furibonda.
Mozzie e Neal si fissarono senza sapere bene cosa fare, ma Elizabeth rivolse al truffatore un’occhiata omicida: “Neal, se scopro che è colpa tua, ti giuro che prima uccido lui, poi lei e infine te!”.
“Ehm… tecnicamente, Elizabeth” rispose quello, in evidente imbarazzo “Lilith è un demone, quindi non è possibile ucciderla…”.
“Vuoi scommettere?” ribatté lei, con uno sguardo che lo fece rabbrividire: occhi sgranati, guance paonazze, labbra tremanti… Neal non ricordava di averla mai vista tanto fuori di sé.
Il ragazzo deglutì e guardò la porta, inesorabilmente chiusa.
“Forza, fate qualcosa!” insisté lei, gli occhi velati di lacrime e pestando i piedi per terra “A quest’ora quella cosa potrebbe… loro potrebbero già aver… Peteeeer!”.
Neal si scagliò con tutte le sue forze contro la porta, ottenendo solo di finire in ginocchio e con una spalla dolorante.
Elizabeth allora sbuffò, si lanciò a sua volta contro l’uscio e lo sfondò, facendo schizzare le schegge della cornice di legno dentro l’appartamento; senza aspettare i due si precipitò in casa come una furia, mentre Moz e Neal si scambiavano uno sguardo tra l’esterrefatto, l’ammirato e il terrorizzato.
“Ricordami di non far mai arrabbiare El…” bisbigliò Neal all’amico.
L’altro annuì ed entrambi, scavalcando ciò che rimaneva della porta, seguirono la ragazza dentro casa.
“Ehi tu! Metti giù le tue luride zampacce da mio marito!” ringhiò Elizabeth non appena mise piede nella stanza in penombra.
Per tutta risposta Lilith si sollevò dal divano con un gesto flessuoso, si passò un dito sulle labbra scarlatte e poi si voltò verso la nemica, fissandola con aria di aperta sfida: gelosa… follemente gelosa di una mortale nonostante la sua natura di demone o, forse, proprio a causa di essa.
“Ho sbagliato per troppe volte” disse con un sorriso crudele, senza distogliere da Elizabeth i suoi occhi fosforescenti “Ma il mio potere è in aumento e non commetterò altri errori!”.
Fece un passo verso di lei, abbagliante e temibile come un esercito schierato in battaglia.
“Maledetta sgualdrina preistorica …” disse allora la ragazza, sforzandosi di guardare oltre Lilith verso il divano, dove le era parso di scorgere il corpo riverso di Peter “Che cosa hai fatto a mio marito?”.
Le rispose una risata bassa risata cantante.
“Nulla che non desiderasse anche lui …” chiarì il demone, fissandola da dietro le sue lunghe ciglia ricurve con un freddo sguardo carico di odio mortale “E comunque non avevo ancora finito…”.
“Ma brutta…”  Elizabeth masticava fiele e le sarebbe volentieri saltata al collo, incurante del fatto che si trattava di una creatura demoniaca che avrebbe potuto ucciderla con un solo gesto della mano, se Neal e Moz non fossero intervenuti frapponendosi tra le due donne.
“Lilith” esordì Neal tenendo aperto davanti a sé il libro di negromanzia “Lilith! Ritorna alle tenebre della Notte Dimenticata! Il tuo tempo è passato, coloro che ti adoravano sono divenuti polvere millenni fa… non hai nulla da fare qui!”.

“Perciò vattene, Ardat Lilî! Vai via e lascia in pace i vivi!”.
 

“Non tormentare i vivi, Regina di Zemargad!” ripeté con voce decisa.  
Di nuovo quella risata diabolica, dolce e letale come un veleno.
Lilith si volse verso i due uomini che la fissavano perplessi: il solenne comando, l’esorcismo indicato dal libro di Michael Leight questa volta aveva fallito…
“Non ho nulla da fare qui?” ripeté le parole dell’incantesimo, come canzonandole, e si avvicinò ai due squadrandoli da capo a piedi con studiata intensità.
Piegò la testa da una parte e ancora una volta si accarezzò i magnifici capelli corvini, che risplendevano come di luce propria, con un gesto terribilmente seducente; Neal ricambiò il suo sguardo, come paralizzato da quella radiante bellezza femminile e incapace di opporvisi per quanto ella fosse malvagia.
“Quale errore…” disse ancora Lilith con voce bassa e insinuante, ormai vicinissima ai due uomini “Al contrario, credo che da queste parti potrei trovare qualche piacevole modo per occupare l’eternità…”.
Istintivamente Neal fece un passo verso di lei, ma ciò che proprio non si aspettava fu che Lilith gli passasse accanto come se non lo avesse nemmeno visto e, con gli occhi scintillanti di desiderio, si avvicinasse ancora di più a Moz che, dal canto suo, era rimasto immobile e come incatenato da quel fascino ultraterreno.
“Ma…” mormorò Neal, sbalordito.
“Uff!” sbottò Elizabeth “Senti, capisco l’interesse per gli uomini più giovani di te, ma non ti rendi conto che sei ridicola? Potresti essere la sua bis, bis, bis, bis, bis, bis, bis, bis, bis, bisnonna!”.
Evidentemente ci sono argomenti sui quali le donne - mortali e immortali - sono ugualmente suscettibili, giacché a quelle parole Lilith si voltò come un serpente verso Elizabeth e con un grido basso le si scagliò addosso.
Neal tentò di intercettare quella demoniaca bellezza, ma lei evitò la sua presa e scivolò come una pantera per afferrare Elizabeth; una frazione di secondo dopo le serrava la gola con entrambe le mani, sollevandola di alcuni centimetri dal pavimento.
La ragazza si dibatteva e cercava di allontanare quegli artigli che la stavano strozzando, ma Lilith era incredibilmente forte…
Neal allora si sovvenne della pistola di riserva che Peter custodiva in un cassetto della credenza e in un balzo afferrò l’arma e la puntò contro la creatura diabolica che, per nulla impressionata, continuava ad affondare le dita esili nel collo di Elizabeth, ormai cianotica.
“No!” gridò Moz “Il proiettile le passerebbe attraverso, rischieresti di colpire Elizabeth!”.
Neal gettò via la pistola con rabbia e si guardò intorno, confuso e sconvolto.
Era la fine, dunque?
“Io ti comando, Lilith, Signora dei Lilin” riprovò Moz “Io conosco il tuo nome e ti ordino di andare via!”.
Il demone lo guardò con scherno e strinse ancora di più le mani; le sue labbra dipinte erano adesso trasfigurate in un malefico ghigno di trionfo, mentre la ragazza, prossima a perdere i sensi, aveva cessato di divincolarsi.
In quell’istante a Neal tornarono in mente le parole di Elizabeth, si guardò intorno e riconobbe la sua ultima speranza: con un grido attraversò la camera, afferrò il simulacro di Lilith, lo sollevò e poi con esso colpì la mensola di marmo del camino. Aveva impiegato tutte le sue forze e la statuetta fu decapitata al primo colpo.
La testa rotolò per terra e schegge di pietra verde volarono intorno, mentre Moz urlava: “Funziona! Funziona! Non fermarti!”.
Infatti Lilith, non appena la sua immagine aveva iniziato a infrangersi, aveva immediatamente lasciato la presa, così che Elizabeth era scivolata al suolo semisvenuta: evidentemente - considerò il truffatore - quel simulacro era il centro del suo potere occulto, il punto focale che concentrava la sua energia e le consentiva di materializzarsi.   
Un altro urto e la statuetta su spezzata a metà, un ultimo colpo e tra le mani di Neal non rimase che un grosso frammento che ne era stata la base; il truffatore lo gettò sul pavimento come se fosse diventato d’un tratto incandescente. 
La Regina delle notti di luna piena, l’eterna Signora dei Lilin stava ora scomparendo: i lineamenti distorti dalla rabbia divenivano di istante in istante più rarefatti e nel giro di pochissimi secondi di lei non rimase che una nebbiolina fosforescente che ben presto si disperse nella penombra, portata via da un vento soprannaturale che subito dopo si placò.
Nulla in quella stanza, se non i frammenti di ciò che era stata una meravigliosa immagine di crisoprasio sparsi al suolo, avrebbe lasciato immaginare l’orrore di cui quelle mura borghesi erano state testimoni solo poco prima.    
Neal e Mozzie corsero accanto a Elizabeth che, in ginocchio e con le mani intorno alla gola contusa, respirava affannosamente tentando di riprendere il controllo di sé.
“Peter…dov’è Peter?” mormorò con voce flebile non appena riuscì a parlare.
 
***
 
“Siete sicuri che non volete che vi accompagniamo in ospedale?” chiese Neal sulla porta di casa Burke.
“No, grazie, hai già fatto abbastanza…” ribatté Elizabeth, gelida.
“E poi” proseguì seccamente, voltandosi verso Peter che, ancora un po’ pallido, era rimasto dietro di lei “io e mio marito dobbiamo discutere di alcune cose”.
Il federale lanciò un’occhiata ai due oltre la spalla della moglie quasi volesse chiedere aiuto, ma con sul viso un’espressione ormai rassegnata.
L’uscio, già rimesso in piedi alla bell’e meglio, traballò quando la ragazza lo chiuse con violenza senza aggiungere altro.
Neal e Mozzie scesero le scale e prima di prendere la via di casa sostarono ancora un istante sul marciapiede; ciò che era accaduto era stato incredibile - spaventoso e incredibile - e loro non si erano completamente ripresi dallo choc.
“Accidenti, Neal” sospirò il piccoletto fissando le finestre illuminate dell’appartamento e tendendo l’orecchio per cogliere eventuali rumori che provenissero dall’interno “Certo che Mister F.B.I. deve essersela vista proprio brutta tra le grinfie di quell’essere…”.
L’altro fece spallucce e rispose: “Sinceramente, credo che l’incontro con Lilith non sia stato nulla a paragone di ciò che lo aspetta ora…”.
I due si fissarono in silenzio un istante.
“Già…” confermò poi Moz.
Si avviarono verso casa percorrendo lentamente i marciapiedi deserti; un’arietta gelida spirava dal mare, doveva essere caduto da poco uno scroscio di pioggia perché l’asfalto era bagnato e intorno ai lampioni aleggiava una nebbiolina che ai due diede un’impressione vagamente spettrale.
Mozzie rabbrividì e si strinse nella giacca.
“Chardonnay?” disse, continuando a camminare.
“Chardonnay…” assentì stancamente Neal.
 
FINE
 
(1) Si tratta di una parola semitica che vuol dire “padrone”, ma anche “marito”.

(2) Agrat bath Mahlat, Regina di Zemargad, Ardat Lilî, etc… sono appellativi riconducibili nelle diverse tradizioni esoteriche e religiose alla figura di Lilith.
 

(3) Il Northern Westchester Hospital è, tra le altre cose, una clinica psichiatrica di New York.
 
Nota: il titolo è una citazione della celeberrima frase che Amleto dice a Horatio (“Ci sono più cose in cielo e in terra di quante possa sognarne la vostra filosofia”) nella tragedia shakespeariana, ma soprattutto è un richiamo al titolo del bellissimo racconto omonimo di Jorge Luis Borges con il quale egli, a sua volta, volle citare (anche parodiando) H.P. Lovecraft e i suoi libri horror-fantascientifici. Il nome dell’occultista Michael Leight è un omaggio all’omonimo personaggio del racconto “L’orrore di Salem” di Henry Kuttner(The Salem Horror, in Weird Tales, maggio 1937). Il racconto è liberamente ispirato alla novella "L'evocazione" di Thorp McClusky, comparso sulla rivista americana Weird Tales.
 
 
Questa fanfiction partecipa al contest “In the Darkness” indetto da The Weaver of Tales su efp, nonché sul forum “Cavalcatori di racconti”.
 
 
 
 
 
 
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