Disclaimer:…
Ah…Oh, grullo d’un nasone! Che tu c’hai i diritti
di ‘sta bischerata?
Altrimenti non so che scrivere!
A Koori_chan per il suo compleanno <3
.: Sanza Speme Vivemo in Disio :.
Voce di futuro, voce di verità, questa è la voce dei
morti.
Un canto lugubre d’ombre tormentate da uno ieri che
non possono rivivere, di un domani che non possono raggiungere, di un oggi che
nemmeno esiste; le orbite vuote annegano in visioni di albe ancora da venire e
illanguidiscono di mille tramonti, i
denti sbeccati modulano armonie crepuscolari di uomini e dei, inneggiano ai
perdenti e deridono i vittoriosi.
Virgilio lo sa, come sa che è impossibile dialogare
coi ciechi che tutto possono vedere, chiedere loro di annusare con le nari
vuote i profumi dell’orizzonte prossimo. Sono solo tenebre e ceneri, nulla più:
abbracciale tre volte e tre volte stringerai al petto solo aria.
Tuttavia, il poeta domanda, chiede e prega una
risposta a quel malessere che forgia catene di melanconia nel suo cuore, che
gli si appende nell’animo e lo stordisce di languido torpore, mentre si tende
verso un orizzonte lontano che sa di dover raggiungere, ma senza conoscerne il
motivo.
Sente l’attesa,
la avverte vibrare attraverso ogni nervo.
Sfrigola lungo le braccia e rode le dita, che
scattano e schioccano senza la più vaga idea di cosa afferrare, ma col desiderio implacabile di stringere
qualcosa tra le nocche. È un bisogno
fisico che nessuno a Roma, nemmeno Mecenate, riesce comprendere.
È la ricerca disperata di un volto privo di nome e
di voce, il vano inseguire di una nulla che sa esistere al di là della propria
percezione terrena, che avverte con sensi altrimenti sopiti e nascosti tra le
pieghe dell’animo umano.
Sono sogni di un mondo lontano e sconosciuto, un
legame che trascende lo scibile e si snoda alla sua vista sottoforma di un
fiume spezzato dal sole, di edifici dalle forme mai viste, corone d’alloro che cingono solo
per vezzo di fantasia una fronte di poeta –Solo
questo è l’indizio che la notte gli concede, un sussurro dell’Iside d’Oriente
che disegna tre cerchi tra le stelle, tanto fulgidi da non poterli guardare, e sotto
di essi un monte incoronato di fronde e tinto d’alba, e infine una piramide affondata
nelle tenebre, soffocata da fiamme e ghiaccio.
Inutili le parole dalla Sibilla, come aria i
discorsi dei sapienti.
Virgilio interroga i morti, ma i morti tacciono.
Solo vaga nell’esistenza, alla ricerca disperata di
quel qualcosa che lo strema di desiderio, che lo lascia ad illanguidire su
sentieri polverosi nella luce del sole declinante. Ma nemmeno nel tramonto che
si spegne tra i colli il mantovano trova la risposta che cerca, né la pace o il
ristoro.
Però, più s’avvicina il momento di recare a Caronte
l’obolo che gli spetta, più gli pare che i sussurri dei morti si facciano meno
oscuri: le parole crepitano nelle orecchie, ma ancora non hanno forma precisa, i
sogni si ammantano di colori e profumi nuovi, coglie un brulicare di voci agli
angoli della fantasia.
E il volto sconosciuto si definisce con l’incalzare
della brama che gli scuote l’animo fin dalle radici del proprio essere. Il naso
spiovente sulle labbra serrate, gli occhi neri sotto l’ampia fronte, se solo
avesse un nome, se solo la sicurezza della sua esistenza..!
“Ah, morti!” sembrano urlare gli occhi slavati,
accesi nell’ora del suo ultimo tramonto “Ora vengo a voi e come vostra sarà la
mia voce! Non sarò sordo alle mie stesse parole, né cieco alle mie visioni! Se
non in vita il mio desiderio poteva essere colmato, dunque è nella morte che si
nasconde la pace dei sensi!”
Virgilio chiude gli occhi per l’ultima volta e per
la prima li riapre nell’Ade. Nessun futuro, però, cola lungo i costoni di
roccia dell’Inferno, la nebbia del Limbo non s’attorciglia a guisa di immagine
alcuna.
E ancora il mantovano vaga senza meta, preda di quel
desiderare che nemmeno la morte ha placato.
Conversa con sapienti ed illuminati che erano e che
furono dopo di lui, chiede, domanda, ma da loro non viene risposta alcuna, se
non di affidarsi proprio a quella brama che gli strazia il petto: se è stata la
causa della sua fine, che nella fine almeno diventi grazia del suo inizio.
Nello scorrere incessante di secoli che non ha senso
contare, quello che prima gli è parso un capriccio, insofferente assume però la
forma di verità: quel tendersi infinito può essergli guida, giacché può avvertire
quel rintocco sempre più veloce e doloroso altro non è che squillo bronzeo dell’ora
in cui tutto avrà finalmente senso.
Infine eccola, in un giorno dove il giorno non
esiste, la donna di luce! Viene a lui in
un’armonia di Paradiso -e gli pare così
familiare…Certo! Ora la riconosce! E’ il volto dell’Iside d’Oriente! Suo lo
sguardo e le labbra e la voce di silenzio beato!- e gli indica la strada
verso la Selva. Là, ella gli dice, troverà un uomo. E, senza bisogno del nome,
Virgilio sa che è lui.
Ad ogni passo il desiderio si acuisce tanto da fare male,
da far lacrimare gli occhi e spezzare il fiato nel petto. Aumenta l’andatura,
quasi corre, già la lungimiranza dei defunti cresce e sboccia dentro di lui…! Il
futuro, la quiete della brama placata dolce come miele, è dietro quegli arbusti…!
Per una vita intera Virgilio ha ricercato il volto
del proprio desiderio, per una morte senza fine l’ha chiamato fino a non avere
più voce. Ha pregato numi antichi e il
nuovo Padre perché gli concedessero la visione dei morti.
Ed ora che l’ha avuta, preferirebbe soffrire tutte
le morti del mondo senza più assaporare la vita, sarebbe disposto a rinunciare al
Limbo per il più profondo dei gironi se solo gli venisse di nuovo concessa la
cecità.
Perché davanti a sé vi è il poeta, il volto tanto
caro e sognato in vita, bramato nella morte. Oltre, la promessa di un sogno
ancora più lungo, unica, straziante compagnia che gli rimarrà allo spegnersi
del giorno, tra le nebbia immote dove non v’è speranza che il desiderio si
spenga.
<< Semo
perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio >>
{ Divina Commedia,
Virgilio
Canto IV }