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Autore: Mushroom    19/06/2012    3 recensioni
E, sebbene questo fosse un dato ancora incerto, Sherlock era quasi convinto che John amasse quel fatto. Il non parlare, intendeva; e il sapere comunque tutto. Allo stesso modo, lo odiava, ma non appariva come un elemento rilevante.
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Genere: Angst, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Resistenza
Fandom: Sherlock (BBC)
Personaggi: Sherlock Holmes, John Watson
Rating: Verde
Avvertimenti:
One-shot, assurdità sparse, Sindrome post-traumatica trattata un po' con i piedi, Pre-slash, Angst (anche se non ci sono portata)
Scritta per I ♥ Shipping , con il prompt "Fantasmi dall'Afghanistan" lasciato da E m m e
WordCount: 1229
Note: Time line nella prima stagione, quando John litiga con le casse automatiche e ha qualche problema con il ri-ambientarsi a Londra.

 

Sherlock l’aveva capito immediatamente. Fin dal laboratorio del Barts (John Watson, Afghanistan, medico militare, disturbo psicosomatico) e forse per questo John Watson era andato così bene.
Agli inizi si era rivelato un tipo abbastanza silenzioso. Un sorriso di circostanza qua, una buona parola là, ma non diceva mai veramente niente di importante.
Non che Sherlock ne avesse bisogno. Bastava osservare – disinteressato, obbiettivo, solo perché era lì e lui non poteva non vedere – per sapere tutto: la più piccola emozione o il più marginale dettaglio della giornata.
E, sebbene questo fosse un dato ancora incerto, Sherlock era quasi convinto che John amasse quel fatto. Il non parlare, intendeva; e il sapere comunque tutto. Allo stesso modo, lo odiava, ma non appariva come un elemento rilevante.

John Watson odiava tutto, e non sapeva neanche come era iniziato. Si guardava intorno – per strada, nei luoghi affollati, a volte nella rampa di scale che divideva il mondo intero dal suo (loro) appartamento – e si sentiva allo sbando. Il mondo sembrava estrometterlo e lui aspettava che passasse. Aspettava di riconoscere ciò che lo circondava.
All’inizio non ti importava. All’inizio andavi avanti – non va bene avere paura, non va bene. Sentiva quasi la vocina della sua coscienza ripeterlo diligentemente e costantemente. Ma poi peggiorava. Giorno dopo giorno dopo giorno.
E non si trattava degli incubi.
Accadeva in quei periodi di vuoto in cui non c’era nessun caso, nessuna corsa per la città, nessuna buona – vecchia – scarica di adrenalina. Accadeva nei momenti di silenzio di Sherlock: quando stava su quel divano per giorni, senza parlare, a volte senza mangiare; negli occhi quel velo languido che si poteva scorgere solo nei momenti di più sincera apatia. Qualche volta John trovava l’appartamento pregno di fumo e piccole boccette colme di polvere bianca, ma non diceva mai niente.
Gli era capitato di sentire il bisogno di prendere la sua vecchia pistola e sparare a quella parete, quella dove stava il divano, proprio sopra la testa di Sherlock, tanto per suscitare in lui una minima reazione.
Poi passava, ovviamente. Erano alti e bassi.
C’erano momenti in cui si svegliava ancora, dopo tanto tempo, con gli stessi sogni. Anche se avevano un caso, anche se Sherlock affrontava uno dei suoi periodi buoni; anche se John affrontava uno dei suoi periodi buoni.
Fissava il soffitto. Contava fino a dieci. Il corpo che non rispondeva, i respiri faticosi. Poi si alzava – senza un minimo di considerazione, sbattendo i piedi, aggrappandosi alle pareti, finché non doveva correre giù per le scale e arrivare velocemente al bagno, dove vomitava tutto, anche l’anima.


Sherlock aveva iniziato a alzare lo sguardo verso John Watson un po’ troppo spesso. Involontariamente. Aveva rilevato questo dato dalla costanza, l’aveva osservato ma non ancora totalmente elaborato. Stava ancora decidendo quanto fosse importante –
se dovesse essere importante. Nel frattempo, attendendo di sviluppare ipotesi su questa osservazione, Sherlock si concedeva il lusso di analizzare il suo coinquilino. Registrarne i comportamenti e sorriderne, allettato dalle abitudini confuse e dal modo in cui si ostinava, disordinatamente, a fingere che andasse tutto bene.
C’era una certa frequenza nei suoi sogni, un rigore particolare nel modo in cui si abbandonava alle crisi di panico, dignità – se tale si poteva dire – nella disperazione.
John Watson sembrava dire “Sono a pezzi ma resisto”.
Sherlock, al contrario, si era arreso troppo tempo prima per poter esprimere qualcosa di diverso dall’ironia nei confronti del dottore.
Eppure era capitato (capitava tutt’ora) che non si limitasse a osservare. Qualche volta si alzava, qualche volta arrivava fino al bagno, e faceva su e giù; qualche volta sbuffava e si lamentava, ma rimaneva lì, con John, perché aveva gli occhi socchiusi e il viso sulla porcellana, e allora no, non poteva solo guardare. Doveva presenziare.
John che non chiedeva aiuto e che gli diceva «Vattene» e «Non sono un tuo cazzo di esperimento» e «È solo un intossicazione alimentare».
Una volta era stato veramente il latte scaduto, in effetti, e entrambi avevano passato la nottata sul pavimento del bagno, con la forza di fare sì e no una bruttissima battuta sull’essere parzialmente scremati. Era veramente di pessimo gusto, ma avevano riso come se fosse stata la cosa più divertente del mondo.

John aveva smesso di andare dall’analista perché preferiva stare male senza ammetterlo che ammetterlo e stare peggio. Quando rantolava nei periodi peggiori, gli vibrava nella mente l’idea di star andando in corto circuito. Che ci fosse un limite oggettivo di tempo entro il quale uccidere, ricucire e scappare e tremare diventasse semplicemente abbastanza o troppo per una sola mente. E sapeva come andava a finire. Qualcosa non andava, qualcosa smetteva di funzionare, e tutto diventava così disgustoso dall’essere insostenibile; così tornavi a casa, leggevi la posta e ti facevi un bagno con un sacchetto di platica legato intorno alla testa. Succedeva all’improvviso e sembrava molto giusto. Gli avevano raccontato casi del genere, nei quali i soldati se ne andavano, prima dal punto di vista mentale, poi fisico. John sapeva di un suo collega che aveva fatto una fine simile: era tornato a casa e aveva fatto a pezzi il figlio, prima di imbottirsi la testa di piombo.
Lo conosceva, era quasi un amico.
Non fare l’idiota, si disse. Smetti di pensarci. Smettila. Ma l’ansia non si comanda.
E John lo conosceva
. Dio. Era solo un ragazzo, con una moglie (giovane, troppo giovane) e un’altra figlia (così piccola).
Non poteva smettere di pensarci.
Semplicemente, non poteva.
Poi correva di nuovo giù, perché la faccia di quel ragazzo gli faceva venire il voltastomaco, mente il salotto di Baker Street era invece l’unico punto fisso che avesse stabilito. Faceva su e giù, accendeva il computer, leggeva, forse decideva di farsi un thè. Tutte quelle volte, Sherlock era sempre presente – con le occhiaie di chi non dormiva mai, sul suo divano o a terra o sulla sua poltrona. Una o due volte si era appisolato, altre avevano discusso del niente.
Dopo un po’ – e John non sapeva dire quanto – era diventato un appuntamento stabile. Anche quando aveva smesso di avere costanti incubi, e Sherlock aveva abbandonato le sue giornate sul divano (nella noia, nel fumo, negli stupefacenti).

La prima volta che John disse qualcosa su se stesso, senza che Sherlock la potesse dedurre da solo, raccontò un aneddoto sulla sorella. La seconda volta, invece, sulla guerra – e John non parlava mai della guerra. Fu anche l’unica volta, probabilmente perché era tardi e entrambi erano stanchi e sembrava uno di quei momenti in cui tutte le cose dette rimanevano nell’aria per poi dissolversi.
Gli raccontò di un ragazzo che non ce l’aveva fatta; che era tornato e si era suicidato e aveva ucciso il figlio. Sì, ma non in quell’ordine. Prima il figlio, poi il suicidio, gli disse. Poi si fermò serrando le labbra e non proseguì.
Sherlock lesse sul suo viso il disagio e, ancor peggio, il dubbio; l’idea di starsi confidando con il suo coinquilino, che conosceva da un paio di mesi ma del quale si fidava ugualmente.
Già, John Watson si fidava di lui
.
Era un bene, o un male, o entrambi.
Forse era un bene a senso unico, forse era un bene solo per Sherlock. Forse, proprio per quello, perché Sherlock era una persona egoista, non gli importava. A Sherlock piaceva il posto che John Watson occupava sulla poltrona di Baker Street, anche se non era un vantaggio.
E Sherlock l’aveva capito subito, fin dal Barts. Aveva capito immediatamente che John era scaduto, come lui. Per questo era andato così bene.

 

 

Crack, fanon o canon? Slash, Het, Threesome? GOD SAVE THE SHIP!
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