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Autore: Delirious Rose    08/01/2007    1 recensioni
“A Mathilda sembrava che la sua vita si ripetesse ad intervalli ciclici e secondo un canovaccio ben definito: variavano le età ed i nomi, ma sostanzialmente gli accadimenti erano sempre gli stessi. Un po’ come le stagioni, che si riproponevano una dietro l’altra, con qualche variazione certo, ma la primavera restava pur sempre primavera...”
Storia che ha partecipato al secondo concorso di Out of Time.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il vento era freddo e le foglie morte degli ippocastani danzavano nella nebbia leggera che avvolgeva il viale. Confusa fra la gente, la donna teneva con una mano il bavero del cappotto premuto contro il collo e con l’altra l’anonima ventiquattrore: la gente non badava a lei, se non per quella brevissima frazione di secondo necessaria ad evitarla. Non attirare l’attenzione, dare poco nell’occhio, era stata quella una delle prime lezioni che lui le aveva impartito... non ricordava neanche quanto tempo fosse passato, ma le sue parole erano ancora fresche nella sua mente come se gliele avesse appena sussurrate in un orecchio e quella era una delle sue lezioni che ancora metteva in pratica.
La donna si aggiustò gli occhiali da sole sul setto nasale mentre con passi veloci svoltava l’angolo guardando un attimo il suo orologio per controllare se fosse in orario: non si poteva permettere di sprecare secondi preziosi.

“Ho deciso cosa fare nella mia vita. Voglio fare le pulizie.”

Sorrise a se stessa quando ricordò quella frase, detta con la sua voce ancora da bambina e forse con un po’ di leggerezza. Dopo che lui era morto, dopo un periodo in cui non aveva fatto altro che trascinarsi da un giorno all’altro, la sua vita aveva preso lentamente una nuova piega: un ambiente più sano di quello in cui era cresciuta, degli adulti che non la picchiavano per un nonnulla; la direttrice dell’istituto aveva trovato per lei una buona famiglia che l’accogliesse e le donasse un po’ di serenità familiare. Mrs. Talich era stata molto puntigliosa per quanto riguardava la scuola ed alla fine la sua figlia adottiva era uscita dal liceo con una buona media, anche se non eccelsa, ed era riuscita ad entrare in una buona università, anche se non fra le migliori.
Da una decina d’anni lavorava presso un’importante ditta come buyer per il settore ricerche: avrebbe preferito avere uno stipendio un po’ più alto, ma fra il suo e quello di suo marito riuscivano a pagare il mutuo della casa che avevano comprato cinque anni prima in un bel quartiere residenziale, con un giardino in cui il loro bambino poteva giocare con il cane senza preoccuparsi delle automobili.
“Mrs. Dumontet, è arrivata finalmente! Il meeting sta per cominciare.”
“Sono costernata, ma ho avuto un contrattempo con la babysitter e ho dovuto accompagnare il bambino a scuola io stessa.” si giustificò mentre entrava nella sala e prendeva posto.
“Mr. Quinlan non è ancora arrivato, per fortuna... Ha con sé la relazione? È molto im-” ma l’uomo s’interruppe vedendo entrare la persona attesa.
Il meeting procedeva come sempre; lei non capiva perché sostanzialmente la gente non ascoltasse quello che dicevano gli altri in una simile situazione: un’azienda concorrente aveva da poco messo in commercio un prodotto in tutto simile a quello cui il suo team stava lavorando e tutto quello che i manager sapevano fare era litigare, litigare, litigare.
Ad un tratto qualcuno bussò alla porta, che si schiuse appena. “Scu-scusate, ma...”
“Miss Velanati, le avevo detto che non volevo essere interrotto durante una riunione!” tuonò un uomo lanciando alla giovane donna un’occhiataccia.
“L-lo so ma... Mrs. Dumontet... c’è una telefonata per lei... se-sembra una cosa importante...”
Lei alzò gli occhi sulla segretaria, corrugando appena la fronte: chi poteva chiamarla durante una riunione tanto importante, e per una questione urgente poi? Di primo acchito, pensò che fosse una chiamata dalla scuola e che qualcosa potesse esser accaduto a suo figlio. Ma poteva anche trattarsi di Mr. o Mrs. Talich, i suoi genitori adottivi, o anche di suo marito... Si scusò con i suoi colleghi, pregandoli di continuare perché lei non sarebbe mancata più di un paio di minuti: uscita dalla stanza, prese la cornetta che la segretaria le porgeva e la portò all’orecchio.
“Sì?”
“Mi dispiace Mathilda, ma...”

* * *

Lentamente le persone sincere e gli ipocriti se ne andarono dal cimitero, lasciando soli la vedova e l’orfano. Mathilda strinse la mano di suo figlio, aggiustandosi spasmodicamente gli occhiali da sole sul setto nasale: non aveva pianto, era da quando era morto Léon che non lo faceva, per questo preferiva nascondere gli occhi che tutti si aspettavano gonfi e rossi. In fondo chi diceva che il dolore di una perdita doveva essere espresso con le lacrime? E poi, se doveva esser sincera, il suo dolore e la tristezza passavano in secondo piano davanti alla rabbia che provava in quel momento: rabbia contro se stessa per aver scelto come amico, sposo e amante un poliziotto; rabbia nei confronti di suo marito Vincent, che si era lasciato cadere in quella che per lei era un’imboscata bella e buona –glielo diceva sempre, di non fidarsi di ogni informatore– e soprattutto rabbia per quel bastardo che stava dietro all’omicidio di suo marito e che sembrava intenzionato a far passare Vincent per un poco di buono e per un incompetente. Proprio la notte stessa della veglia funebre qualcuno s’era introdotto in casa e l’aveva messa a soqquadro, mascherando con un tentativo di furto una sparizione di prove, perché Vincent aveva la pessima –secondo Mathilda– abitudine di non lasciare in commissariato la documentazione importante.
Il bambino si strinse alle gambe di sua madre, tirando un lembo della gonna e attirando la sua attenzione. “Ma il papà non sentirà freddo?” chiese dopo un po’, pensieroso.
“Quando una persona è morta non sente più freddo, Leo.” rispose Mathilda mentre fissava la lapide e la bara non ancora coperta di terra.
Non aveva usato giri di parole né favole sul Paradiso per spiegare a suo figlio quello che era accaduto; in fondo lei aveva solo qualche anno più di lui quando il suo fratellino era stato ucciso e non vedeva il motivo di negare la realtà delle cose proprio con suo figlio. Forse era questa sua disillusione che non la faceva piangere, che la faceva sentire più arrabbiata che triste, un po’ come quando era morto suo fratello, con la differenza che allora il rapporto fra rabbia e tristezza era invertito. A Mathilda sembrava che la sua vita si ripetesse ad intervalli ciclici e secondo un canovaccio ben definito: variavano le età ed i nomi, ma sostanzialmente gli accadimenti erano sempre gli stessi. Un po’ come le stagioni, che si riproponevano una dietro l’altra, con qualche variazione certo, ma la primavera restava pur sempre primavera: la sua, di primavera, era stata un po’ fredda e piena di promesse non mantenute, seguita da un’estate appagante e tutto sommato felice ed infine l’inverno era arrivato di colpo, senza aspettare l’autunno.
O forse l’autunno era stato così fugace che lei non se ne era accorta? Ricordò che una sera suo marito le aveva confidato di star indagando su politico coinvolto in affari poco puliti: non le aveva detto molto, poiché fra loro c’era il tacito accordo di non parlare mai di lavoro a casa, ma a volte Victor sentiva il bisogno di sfogarsi e Mathilda lo lasciava fare. A quel pensiero, sentì di nuovo la rabbia crescerle dentro come una marea, gli occhi iniziarono a bruciarle e dopo due giorni le lacrime iniziarono a sgorgare dai suoi occhi. Lacrime di rabbia, non di tristezza. Istintivamente, Mathilda strinse i pugni e Leo emise un gridolino di dolore: lei si rilassò di nuovo, sorridendo amaramente a suo figlio.
“Su, andiamo, la nonna e gli altri ci staranno aspettando,” mormorò sistemando meglio la sciarpetta ed il berretto di lana del bambino, e mentre era chinata in quel gesto che Vincent aveva fatto tante volte, sentì qualcuno camminare verso di loro.
“Condoglianze, Mathilda, sono addolorato per la morte di tuo marito.”
Lei volse appena la testa e annuì leggermente rialzandosi: l’ultima volta che aveva visto il vecchio Tony era stato qualche mese prima, per caso; s’erano scambiati due parole e poi s’erano dovuti lasciare in fretta. La vita era andata avanti anche per Tony, che riusciva a camminare grazie ad un bastone e ormai non andava più neanche nel suo ristorante a ricevere clienti. Clienti in ogni senso. Ad un tratto le parve molto più vecchio e stanco di quanto ricordasse.
Per qualche minuto nessuno disse nulla, poi Mathilda si aggiustò per l’ennesima volta gli occhiali da sole e chiese: “Hai ancora un po’ dei soldi di Léon, vero?”
Tony fece spallucce. “Lo sai che delle banche non ci si può fidare. Ma se hai bisogno di quei soldi, sai dove trovarmi.”
“Il commissario mi ha promesso che faranno luce sull’omicidio di Vincent, ma trattandosi di quel Smithers non penso che arriveranno a qualcosa, per cui se tutto dovesse andare storto...”
“Io sono fuori dal giro.” mormorò lui senza permetterle di terminare la frase.
“Ma hai contatti nell’ambiente.”
“Mathilda, quello è un pezzo grosso, ti verrebbe a costare troppo... e se anche volessi fare il lavoro per conto tuo, ricorda che hai un bambino. E noi non vogliamo che la mamma si faccia male, eh Leo?” concluse strizzando l’occhio al bambino, che annuì con decisione.
Mathilda strinse le labbra, rabbrividendo ad una folata di vento. “Allora speriamo che l’inchiesta vada bene, altrimenti... non me ne starò con le mani in mano.”

* * *

Mathilda aveva aspettato per due anni quel momento, il giorno in cui si sarebbe vendicata della morte di suo marito: l’inchiesta era finita con un buco nell’acqua grande come una casa ed il fascicolo sull’omicidio dell’agente Vincent Dumontet era stato archiviato senza che ci fosse un colpevole. In un certo senso Mathilda se lo aspettava; dopotutto quell’uomo aveva denaro sufficiente per passare bustarelle a dritta e a manca e per fare il bello ed il cattivo tempo. All’inizio era stata tentata di prendere la pistola di suo marito e di aspettarlo davanti alla Prefettura, per freddarlo lì, alla luce del sole e davanti agli occhi di tutti; ma poi aveva ricordato quello che le aveva detto Tony il giorno del funerale e lei sapeva che non poteva lasciare il suo Leo da solo.
Sei mesi dopo la morte di Vincent, Mathilda aveva ripreso a frequentare il poligono di tiro: un giorno, dopo la nascita di Leo, suo marito era tornato a casa con una pistola di piccolo calibro per lei. Per il mio lavoro ho qualche nemico nella malavita, le aveva spiegato, mi sentirei più tranquillo sapendo che la mia famiglia può difendersi. Vincent era rimasto sorpreso dalla facilità con cui sua moglie maneggiava le armi e dalla sua mira, ma in fondo Mathilda non gli aveva mai confessato che il suo primo amore era stato un sicario italiano che le aveva impartito i primi rudimenti del mestiere.
Mathilda s’era decisa ad aspettare, a fare le cose con calma: era andata da Tony e gli aveva chiesto di procurarle un fucile; lui all’inizio era stato contrario a quell’iniziativa e solo dopo una dozzina di visite e di discussioni s’era convinto e l’aveva accontentata. Gli chiese anche di tenere ancora da parte quanto restava del denaro di Léon per suo figlio, se per caso fosse finita male anche per lei.
Saputo al telegiornale che quell’uomo sarebbe andato a Boston per la fine di novembre, una settimana prima del giorno stabilito Mathilda aveva portato Leo dai Talich, ufficialmente perché lei doveva fare un viaggio di lavoro, poi s’era spostata in Canada, aveva noleggiato un’auto con un documento falso –anche questo procuratole da Tony ed ancora una volta aveva usato il nome di una persona che trovava particolarmente antipatica– ed era andata a Boston. La prima cosa che aveva fatto, era stato un lungo bagno caldo: doveva ricordare ogni singola cosa che Léon le aveva insegnato per fare le pulizie, poiché erano passati troppi anni da allora.

Il fucile è la prima arma che si impara ad usare, perché ti permette di mantenere una certa distanza dal cliente. Più ti avvicini ad essere un professionista, più ti avvicini al cliente. Il coltello, ad esempio, è l’ultima cosa che si impara.

Mathilda aveva aspettato ancora. Tre giorni di tensione e rabbia soffocata passati a vedere e rivedere il suo piano, a fare un ennesimo sopralluogo senza dover dare troppo nell’occhio, a dirsi che sarebbe andato tutto bene e a breve sarebbe tornata da Leo, si sarebbe licenziata, avrebbe venduto la casa che con tanti sacrifici lei e suo marito avevano comprato e poi sarebbe andata via da quella maledetta città che si era portata via una ad una le persone più care che aveva: già da un po’ di tempo una società di Sacramento la corteggiava con un salario e con un lavoro migliori di quelli che aveva.
Ed ecco che con una stretta allo stomaco, Mathilda vide quell’uomo arrivare come se fosse un re o un dio, stringere le mani e sorridere galante alle cameriere più giovani: pareva già un po’ brillo e non sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima coppa di champagne. Mathilda strinse le labbra mentre aggiustava il calcio del fucile contro la spalla: un po’ le dispiaceva dover mantenere tanta distanza, uccidere quell’uomo con una lama sarebbe stato di gran lunga più soddisfacente, ma almeno aveva la consolazione d’essere una buona miratrice.
Inquadrò l’uomo nel mirino, respirò con lui, bevve champagne con lui ed attese, e attese, e attese...




 




BANG

   
 
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