Nata
per errore
Primo
Capitolo
Disperazione...?
Nemmeno lei sapeva cosa fosse quella strana
sensazione che le percorreva il corpo, lenta
quasi fosse una lacrima.
Sentiva la stessa amarezza, lo stesso sapore
salato.
Sua madre, mancava dalla sua vita ormai da tre anni, l'aveva
abbandonata, portando
con sč quella ninna nanna
che da bimba le faceva addormentare.
La voce di sua madre? Stentava persino a ricordarla, solo una cosa le
era rimasta in mente, quel profumo d'incenso e patchouli che abbandonava lungo i corridoi
al suo rientro.
A notte fonda , quando lei con le luci spente
ascoltava quel rumore di tacchi
estinguersi per la casa.
Era cresciuta in un mondo diverso lei, dove la casa odorava di 'uomo'.
Quella parola la infastidiva,
la spaventava.
Sua madre? Una prostituta. Bel lavoro per crescere tua figlia. Infondo,
considerava la sua genitrice
una donna forte, l'aveva cresciuta sola, non aveva
abortito,
s'era tenuta con sč la
figlia di uno sconosciuto.Una bastarda.
Un uomo, con questa parola era cominciata la vita notturna di sua madre
e cosė
s'era conclusa.
"Tornerō tardi stasera" le aveva detto.Non era pių tornata.
Ventitrč anni di sofferenze silenziose, di pianti nascosti e ora?
A cos'era servita quella disperazione se poi la sua vita era rimasta
vuota?
L'unica persona che l'aveva 'amata' anche se a modo
suo, cresciuta, nutrita, messa al mondo...
Se n'era andata.
Le murazioni bianche, un pō
scrostate ai lati, erano piene di lei, della sua voce, dei suoi
sussurri.
Tutto parlava di lei, anche quella credenza, soprattutto quella.
Un mobiletto alto, finemente intarsiato di sfumature settecentesche.
Semplice, come sua madre, abbellito solamente da un centrino
all'interno.
Usava mettervi dentro di tutto.
Ricordō i suoi sedici anni, non v'erano specchi in casa, quella
vetrinetta centrale,
disposta come sportello, fungeva da
specchio.
Ricordō quelle labbra rosse, piene, le stesse con le quali intonava quella ninna nanna.
Rimaneva ore ad osservare l'attenzione con la
quale metteva il rossetto...
Ricordi. Dei se bruciavano quei pensieri.
Distesa sul letto, un oggetto capace di rilassare o donare piacere.
Odiava quel letto.
La, sua madre consumava le sue notti, si
vendeva, donava il suo corpo come una gustosa
ed ambita pietanza.
Strinse i lembi delle coperte consunte, d'un
grigio cenere. Tetro.
Inspirō quelle lenzuola.
Sapevano di lei, di patchouli ed incenso.
Sollevō un poco il capo, rigettando di lato le chiome d'ebano.
Non somigliava a sua madre.
Aveva tratti docili a contornarle il volto, pallido, niveo come una coltre
d'inverno.
Le labbra si schiudevano ad ogni respiro, nč
troppo sottili nč troppo
carnose, d'un rosso spento, simile ai petali nascosti di
un garofano, mai increspate in un
sorriso.
Non poteva permettersi di farlo, i sorrisi erano
per le persone felici. Lei non poteva esserlo.
Gli occhi neri, di un taglio quasi felino, mostravano solamente il vuoto
attraverso le lunghe ciglia scure,
due conche profonde d'infelicitā.
Nemmeno la tristezza era capace d'evadere da quelle nere prigioni di
carbone.
Apatica, lasciava ricadere le braccia sul materasso, una sola stringeva
i lembi bigi delle lenzuola.
Immersa nella penombra della stanza, rimaneva lā, immobile, logora di
rimorsi, avvolta solamente nella candida
sottoveste di ciniglia che si piegava
all'altezza delle gambe perfette, sulla coscia leggermente sollevata indietro.
La mano prese a carezzare la stoffa del letto. Il telefono continuava ad
emettere quel fastidioso
rumore simile al pulsare di un insetto.
Doveva cambiare vita?
Non credeva pių in nulla ormai. Era un rifiuto, una cosa nata per
errore, non per amore.
Il frutto di una notte pagata in contanti.
Perchč ancora, dopo ventitrč anni pensava a questo?
Perchč una vita donata per sbaglio rimane in mente come una canzone,
monotona, ciclica.
Ne porti il marchio perenne.
Non poteva dimenticare di essere qualcosa di
non desiderato, un progetto sbagliato della vita...