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Autore: CarolPenny    11/07/2012    4 recensioni
Raccolta di One-shot scritte grazie all'ascolto de 'Le Quattro Stagioni' di Antonio Vivaldi.
[L'Estate]: "Il problema era un altro. Oh sì. Sherlock Holmes sembrava essere così presente anche quando non c'era."
[L'Autunno]: "Mi precipitai fuori dalla stanza, senza rendermi conto di aver urtato sia il tavolo, sia la ringhiera delle scale e senza neanche avvertire la signora Hudson, per non farle prendere uno spavento, uscii."
[L'Inverno]: "Vedi, John... il piccolo Paul mi ricorda tanto un bambino che conoscevo. Secondo i suoi genitori, non ha molti amici e passa molte giornate chiuso nella sua stanza per dedicarsi a giochi come 'Il piccolo chimico'"
[La Primavera]: "Forse non voleva ammettere di aver fallito, ma se ne stava prendendo tutte le colpe. Ritornarono a guardare le due lapidi.“Si dice che la primavera porti la vita.” riprese John “Ma è solo un modo di dire, no?”"
Genere: Angst, Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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A volte mi svegliavo pensando di trovarmi ancora al Barts, seduto su uno dei sediolini del laboratorio, in attesa. Con lui.
Pregavo silenziosamente che fosse così.
Soprattutto, speravo di svegliarmi nel momento esatto in cui gli avevo parlato l'ultima volta faccia a faccia.
Avrei trovato il modo di salvarlo, di evitare quel salto nel vuoto, tutto quel sangue sul volto e sul marciapiede.
Avrei ancora potuto vedere la luce della vita nei suoi occhi di ghiaccio.
Mi era tornato di nuovo il male alla spalla, e avevo ripreso la stampella. Spesso mi svegliavo ai piedi del letto, immaginando di saltare nel vuoto o di correre per le strade di Londra fino a perdere fiato.
Non rispondevo spesso al cellulare e non avevo scritto più alcuna parola sul mio blog, da almeno tre anni. Tre.
Li contai sulle dita come i bambini e rimasi a fissare la mia mano tremante per qualche secondo.
Non si trattava più della sofferenza dovuta alla sua morte, né al cambiamento radicale della mia vita   da quando era accaduto. Il problema era un altro. Oh sì.
Sherlock Holmes sembrava essere così presente anche quando non c'era.
Descriveva nel dettaglio qualunque persona avessi accanto, in strada, in metropolitana, in taxi, al supermercato, ovunque.
La mia analista mi aveva consigliato di fare esercizi per liberare la mente. Diceva che di questo passo non sarebbe stata più in grado di aiutarmi e che se ne sarebbe occupato qualcun altro. Aveva parlato di una clinica psichiatrica.
Di tutta risposta, mi ero alzato e le avevo stretto la mano, ringraziandola per l'aiuto datomi.
“Non mi succede niente” erano state le mie ultime parole in quella stanza.
Sentivo la voce di Sherlock, lo sentivo mentre mi parlava, sentivo la sua presenza costantemente, come un'ombra. Lo sentivo ancora suonare malinconicamente il violino, e poi allegramente. Noia e movimento. Questo mi faceva girare la testa. Ma prima di quel momento era anche ciò di cui vivevo.
Intorno alla sua lapide era cresciuta l'erba alta, e nessuno si era curato di tagliarla. Il suo nome si leggeva appena.
“Vieni qui almeno una volta a settimana, John. Io troverei estremamente noioso restare inginocchiato di fronte ad una lapide e parlarci, facendo finta che si tratti di me.”
Risi.
“In mancanza del tuo teschio...”
Anche lui rise.
Sospirai gravemente. L'avevo fatto di nuovo. Avevo immaginato di parlare con lui.
Mi morsi un labbro, strappai e scostai l'erba dalla tomba. Mi accorsi che qualcuno l'aveva graffiata. Forse erano stati i rametti appena tolti.
No. Quei graffi erano molto più profondi, sembravano delle vere e proprie incisioni sul marmo.
Girai leggermente la testa a sinistra.
Torna a casa. Torna a Baker Street.”
Strizzai gli occhi pensando di aver soltanto immaginato di averlo letto.
Ma c'era scritto, c'era davvero. Presi il cellulare senza pensarci e scattai una foto.
Continuai ad osservarla per tutto il viaggio in taxi, e quando arrivai davanti al 221 B sembrò davvero come essersi svegliati da un sogno.
Avevo ancora le chiavi. Non le avevo mai riconsegnate alla signora Hudson, anche se non vivevo più lì. Stranamente, mi ricordavano costantemente chi ero.
John Hamish Watson è il mio nome, e sono un ex medico militare.
La casa odorava di  vecchio ed era umida. L'entrata era buia, come sempre e le scale cigolavano, come sempre.
Ebbi un tuffo al cuore. Dal piano di sopra proveniva della musica. Una melodia già sentita. A suonarla era un violino.
Avanzai lentamente. Avevo il cuore che batteva a mille, la testa mi girava di nuovo, respiravo a fatica.
Qualcuno mi stava facendo uno scherzo, me lo sentivo.
Tutto ciò non poteva essere possibile. Non ora. Non dopo tre anni.
Dovevo comportarmi in modo razionale.
Sherlock era morto. Di sopra probabilmente c'era qualcun altro a cui la signora Hudson aveva affittato l'appartamento. Qualcuno che stava ascoltando Vivaldi. Ah sì, ecco cos'era quella musica. Mi meravigliai di essermelo ricordato.
Sherlock non mi aveva risparmiato niente. Mi aveva elencato i nomi di tutti i più grandi musicisti e di tutte le più grandi sinfonie per violino.
Ero arrivato davanti alla porta spalancata che dava sul salotto. Sembrava essere vuoto. Ma la melodia era ancora udibile.
Mi mossi a piccoli passi, ed entrai.
I capelli neri scompigliati. La vestaglia blu. La camicia viola. I pantaloni del pigiama. I piedi nudi. Il violino e l'archetto. Gli occhi di ghiaccio, illuminati dal sole e pieni di sfumature.
Sherlock Holmes.
Mi venne da piangere.
“L'Estate, John. Ed è appena finita.”

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L'unica cosa che voglio dire ai lettori è: immagino che abbiate trovato questa piccola one-shot molto strana.  Mi sono lasciata ispirare dalla musica di Antonio Vivaldi, e quindi non ci sono stata parecchio a pensarci. Spero abbiate capito il senso di alcune frasi ed espressioni. E so che probabilmente il titolo è stato già utilizzato. In ogni caso, vi ringrazio per la lettura.
Alla prossima, con L'Autunno.

   
 
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