Le
notti di Las Vegas
Eccomi con la mia seconda fic, aggiornerò questa e ‘Nata per errore’ assieme, così da mandarle avanti con la stessa perizia.
Non preoccupatevi, non sono tipa da lasciare fanfic incompiute, quindi state tranquilli.
Spero mi seguiate in tanti.
Kag87
“Da oggi allora saremo alleati, riuscirai a sopportarmi per tutto il tempo?”
Constatò lei
leggermente nevrotica nel timbro. Non le piaceva affatto
l’idea di
condividere tre giorni con quell’essere.
Chi si credeva
d’essere? Un dio? Figuriamoci. Lo sorpassò, snobbandolo
categoricamente.
“No, non credo…tu
riuscirai a sopportarmi?” lui sorrise. Le squadrava ogni
movimento con gli occhi, malizioso e sarcastico.
La portiera della
macchina s’aprì in modo automatico. Lex non era una
macchina
come le altre, pareva avere vita propria.
“Prego signorina”
proferì con la voce meccanica.
Kagome passò la mano sulla portiera dell’auto
sportiva. “Lei si che è gentile…”
fulminò con lo sguardo il detective che aveva, nel
frattempo, risposto alla sua
domanda questionandone un’altra “Sicuramente no” rispose
lei tra un sorrisetto
ironico ed un’occhiata smaliziata…
Capitolo Primo
Higurashi Nomura era un
uomo sui quarantacinque anni, non molto alto, seppur di bell’aspetto.
Seppur anche per lui il tempo passasse, tentava di
mantenersi in forma tra sport e circoli.
Era famoso per esser
proprietario d’uno dei Casinò più caldi di Las Vegas.
Luxor. Era tra i
locali più in voga giacchè si trovava in un punto
strategico qual era Las Vegas Boulevard South dove
sorgevano Grand Hotels e
Casinò di fama mondiale.
Ricco, famoso e
impegnato.
E lei…lei era nata in quel mondo colorato,
pieno di fish e roulette, stracolmo di gente famosa
che vinceva, strapagava o perdeva.
Osservò da lassù il
suo bel mondo, quello di cui lei era la regina, e come tale vedeva di rimanere
ad una buona distanza dai suoi ‘sudditi’.
Agli occhi balzavano i
colori distinti, il rosso, il verde,l’arancio. Fatiscenti
scritte, lampioncini rossi e blu.Tutto intermittente
e brillante.
Poggiò le braccia
sulla ringhiera del terrazzo. Ormai quell’hotel era divenuta la sua casa, non si lamentava certo.
Avere una suite al Royal Resort,
avrebbe fatto gola a chiunque. Spaziosa, era composta d’un
piccolo soggiorno, imbiancato dai mobiletti in noce e dalle trapunte a frangia
che scendevano a cascata sul pavimento.
Percorrendo il
corridoio che sostava tra stanza e stanza si potevano
scorgere gli spiragli di luce filtrare dalle piccole finestre, aperta la porta
della camera si rimaneva assuefatti da una luce azzurrina accompagnata in
armonia perfetta all’ambiente disegnato in style moderno.
Si ritrasse dalla
balconata. Non che non fosse felice della sua sistemazione, della sua vita.
Suo padre. Lui non
c’era mai.
Questo la rendeva
triste. Aveva bisogno di qualcuno accanto a se, un uomo che le riempisse
La mancanza del padre.
Tanti ne aveva avuti, nessuno era durato più di uno o due mesi.
Era frivola, capricciosa e viziata.
Sin da bambina tutto
quello che voleva l’aveva sempre ottenuto, bastava un ‘voglio’,
così era anche
per gli uomini.
Percorse
il corridoio che portava ad una delle camere correlate alla suite. Solamente un minuto tacchettìo
accompagnava i suoi passi.
Vestiva come una gran
dama, vestiti firmati e delle migliori stoffe. Mentre camminava, lisciò un paio
di volte il tailleur albicocca che costringeva al suo interno
la sua femminilità.
Partiva dal seno, in
una leggera scollatura, la camicetta al di sotto tratteneva i lembi del
colletto leggermente rialzati, sopra la giacca si richiudeva con un
doppiopetto, lasciando che il decolletè giocasse col
vedo e non vedo dei pizzi.
La gonna arrivava poco
sopra il ginocchio, mostrando le gambe diritte e ben curate. Lanciò un’occhiata
ad un quadro poco distante. Sua madre.
Non l’aveva conosciuta
giacchè era morta dandola alla luce, però la
immaginava come un angelo meraviglioso che possedeva i suoi occhi.
Sorrise malinconica,
avviandosi verso la camera da letto. Sedette dinanzi allo
specchio, sul tavolinetto dinanzi erano posti
cosmetici d’ogni genere.
Sciolse la chioma
corvina che discese lungo le spalle morbida. Afferrò
la spazzola che giaceva alla sua destra, cominciando a percorrere i capelli in
tutta la loro lunghezza.
Osservò la sua
immagine riflessa. Era una donna oramai. Ventiquattro anni compiuti, bella, col
viso ovale e delicato reso sbarazzino dalla frangetta che le bagnava la fronte
ribelle.
Aveva sempre creduto
alla storia che la sua governante le raccontava da bambina, d’essere la
principessa delle favole, se avesse pettinato i suoi
capelli ogni sera, il principe sarebbe presto arrivato per portarla via, con
se, sul suo cavallo bianco.
Era
una bambina, quella era la
verità. Dov’erano finite le favole? Ora c’era solo il sesso, l’amore era scomparso.
Vide gli occhi farsi lucidi, quelle iridi d’un profondo bruno che contenevano il
nero e l’oro al loro interno, già, aveva sempre notato quelle particolari
pagliuzze dorate che rendevano l’espressione del suo volto più dolce. Questo le
diceva suo padre.
I pensieri della donna
vennero interrotti dal bussare quasi incessante alla
porta della suite. Chi poteva essere?
Quasi seccata
dell’essere stata interrotta, si alzò dalla sua posizione, poggiando la
spazzola sul comò.
“Arrivo…” proferì pacata, celando il suo malumore.
Quando aprì la porta,
un uomo grassottello, sui sessant’anni con la barba
ispida, le si fece incontro trafelato.
Dal vestiario doveva
trattarsi del proprietario dell’Hotel.
“Signorina Higurashi” mormorò con la voce roca
spezzata dall’ansimare continuo, la fronte rugosa era imperlata di
sudore, doveva aver corso.
“Cosa
c’è?” domandò lei leggermente incuriosita, cosa ci faceva il proprietario alle
due di notte in camera sua?
Rimase ad osservare
quei piccoli occhietti cerulei, tondi che si socchiudevano appena.
“Suo padre…” si fermò
per riprendere fiato, abbassando lo sguardo da quello della donna. Lei
sobbalzò, cos’era accaduto? Cosa
c’entrava suo padre?
“E’ morto…” concluse
il vecchio volgendo il capo di lato. Kagome rimase
immobile, non una parola, un lamento, una lacrima.
Continuò ad osservare
l’ometto come se dovesse ancora immagazzinare l’informazione ricevuta.
Lasciò ricadere
entrambe le braccia lungo i fianchi.
“Papà…”