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Autore: Fusterya    16/07/2012    17 recensioni
Dopo lo shock di Reichenbach, ognuno ha immaginato a suo modo il ritorno di Sherlock, e questo è il mio.
John è spietato, oltre che devastato. E Sherlock non è più lui.
Gli eventi stanno per precipitare di nuovo, in un modo che John non avrebbe mai potuto immaginare: ma uno è la salvezza dell'altro, come è sempre stato. Come sempre sarà.
(Era nata come OneShot, poi ho deciso di continuare, sperando di aver fatto bene.
Vi chiedo solo di lasciarmi una parolina, buona o severa che sia, per aiutarmi a capire meglio la mia strada. Grazie a tutti e buona lettura. )
NOTA: non ho fatto passare i soliti 3 anni, ma più o meno uno solo.
DISCLAIMER: nessun personaggio mi appartiene, nè lo farà mai.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Canzone ispiratrice: “Lord, I’ve been trying” - Richard Ashcroft

(purtroppo su youtube ci sono solo un paio di versioni live il cui audio è pessimo, ma il pezzo ascoltato dall’album è bellissimo e il testo veste PERFETTAMENTE il capitolo - o almeno così voglio vederla io... gosh!)

http://www.youtube.com/watch?v=BJJy44P1UVs&feature=related


Lord, I've been trying

Trying to keep myself from crying

And it gets hard, there's no use denying

There's been some nights when I did a little lying

Sure feels like I've been here before

Yes it sure feels like I've been here before


Captain tell me where I've been,

Are there waves left there for me?

Is there something left to see?

Is there something left to be?

Oh I know that I'm holding on but I've got time to grow

Alright, alright, alright

Said it's alright, now


Days that I've been spending

And all these blues - they're never ending

And it gets hard, and life will go on again

Gonna shake off these blues, I'm leaving them now


Sure feels like I've been here before

Yes it sure feels like I've been here before


Captain tell me where I've been,

Are there waves left there for me?

Can you see the warning sign

Flashing there in my mind?

My mind is free and I'm talking up to you - I say

"Alright, alright, alright"


It feels good, it feels good,

My love is alright now,

It's alright, it's alright


                       ***



- Sherlock -


David, il fisioterapista.

Grosso, alto. Triste.

Ha grandi mani dai palmi rosati e usa magliette troppo strette. Va in palestra, ma ha una pancia prominente che non va via a causa dell’alcol che ingurgita di venerdì e sabato.  

Un tipo ombroso, di cattivo umore. Neanche un briciolo di ironia, non sul lavoro. Non che mi interessi.

Un uomo sbiadito, che nel portafogli ha la foto di un figlio che oggi dovrebbe avere sei o sette anni, ma che in quella specifica foto ha ancora pochi mesi: uno non troppo sentimentale, quindi.

Nostalgico, forse. Ma non attaccato alle persone nel presente.

Alle cose, sì. Controlla cento volte che il costoso smartphone nuovo sia al suo posto, nelle tasche dei jeans che sembrano esplodere attorno a una vita bassa e molle. Si porta dietro il laptop, non si capisce bene per far cosa, visto che il suo lavoro è allungare i muscoli e rinforzare le ossa alla gente: è evidente che teme che qualche coinquilino non fidato glielo rubi, da quando ha dovuto traslocare dopo la separazione. Un appartamento grande ma spoglio, tipico da lavoratori, condiviso con almeno altre due persone.

Glielo leggo negli abiti non stirati, nell’odore sempre diverso di shampoo e deodorante, chiaramente presi a caso in un bagno troppo condiviso, nella mania che ha di enunciare cosa tocchi a lui comprare dal supermercato ogni mercoledì: un turno prestabilito.

Un uomo senza luce, ma nemmeno oscuro nel senso romantico del termine: uno opaco.

Gentile perché sul lavoro deve esserlo, ma brusco il più delle volte, soprattutto con me, che mi diverto a stuzzicarlo per far irritare John di riflesso: uno che non ha niente da dire.

David l’opaco, quindi, che ogni pomeriggio, quando ha finito con me, chiacchiera con John, il luminoso.

Siedono al tavolo del soggiorno, uno di fronte all’altro, con il thé tra le mani, in una perfetta opposizione di niente e di tutto.

Inconsistenza e massa.

Vuoto e significato.

John che ha trova sempre un modo gentile per intrattenerlo, ligio alla sua educazione, fedele al suo temperamento in apparenza quieto ed equilibrato.

John che sorride a lui e mai a me.

Non credo se ne renda conto.

Io sto qui sul divano, seduto come sempre, dolorante dopo la sessione, e lo fisso in attesa di un cenno, di una battuta, ma quando c’è David lui fa finta che io non sia nella stanza.

E non solo quando c’è David.

Non che mi interessino minimamente le loro chiacchiere sportive o di circostanza, insopportabili e da morte cerebrale, dio me ne scampi, ma preferisco stare qui in attesa che John mi parli.

Ma non succede mai.

A volte, quando David è di buon umore e indugia nella conversazione, sapendo che John non chiede di meglio che poter parlare con qualcuno che provenga dall’esterno, ci resto anche un’ora, qui, ad ascoltare queste scempiaggini.

Quando se ne va, il silenzio ripiomba nella casa.

Io sono arrabbiato, e John, inconsapevole, va in cucina a lavare le tazze e a fischiettare.

Come se io non ci fossi.

Sempre come se io non fossi qui.

Allora prendo le stampelle, che riesco finalmente ad usare da qualche giorno, seppure con una certa difficoltà, e cerco di alzarmi per andare nella mia stanza.

Quando sente il tramestio che provoco incrociando le grucce tra loro per darmi lo slancio, John esce dalla cucina, placido come sempre, e viene ad aiutarmi, senza dire una parola. Probabilmente, verosimilmente, temendo che io cada e mi rompa l’altra gamba, tenendolo bloccato qui per altri due mesi.

Io a volte grugnisco, a volte neanche quello.

Non ce n’è motivo, è tutto inutile.  

Appena potrò, scapperò sul tetto a fumare una sacrosanta sigaretta.


Non è vero che il mio cervello sia un motore a reazione.

O, meglio, non è sempre vero.

Non lo è mai stato.

Lo controllo come riesco a controllare qualunque altra mia parte del corpo: so calmarlo ed eccitarlo a mio piacimento, e questo è il momento della calma. Niente rotelle che mulinano, dunque: niente meccanismi vorticosi che girano fino al surriscaldamento.

Ci sono, certo che ci sono, spesso io stesso ne sento il rumore; è vero che a volte, durante i casi, sfuggono momentaneamente al mio controllo e mi fanno assumere comportamenti pericolosi, inusitati, stravaganti... ma non mi fanno del male, non mi rendono loro schiavo, non c’è nulla che io non possa gestire, smussare, organizzare nella mia testa.

Altrimenti sarei uno psicopatico incapace di pensieri compiuti.

E sappiamo bene che non lo sono.

Il mio è un problema emotivo. Ho difficoltà a provare empatia, non sono capace di entrare nella sfera emotiva della gente. O, meglio, ne sono capace come per tutte le cose, ma non la so condividere.

Più semplicemente, non mi interessa.

Non mi interessava.

Non fino a John.  

Quando l’ho conosciuto, ho analizzato il suo mistero fino allo sfinimento, per capire in seguito che non c’era niente di complesso da analizzare.

Notti intere sul divano, a guardare il soffitto, a tracciare diagrammi mentali perfettamente logici che incrociavano i dati che accumulavo su di lui durante la giornata: perché in quella circostanza aveva detto proprio quella cosa, perché aveva riso in un certo modo, perché si era arrabbiato con me, cosa gli piaceva, cosa no, come mangiava, come dormiva, gusto, abitudini, preferenze.

Dati comuni a chiunque, stupidi, senza alcun significato, se presi singolarmente: che davano, però, un quadro generale di una compiutezza disarmante alla luce di tre aspetti che ho rilevato da subito, e in cui si risolveva tutta l’analisi.

John è un essere umano completo, perfetto, io l’ho sempre percepito così, a causa di tre sole caratteristiche che davvero lo contraddistinguono: a) l’essere totalmente, profondamente empatico nei miei confronti; b) l’essere onesto con sé stesso e con gli altri; c) avere la capacità di ammazzare la gente a sangue freddo.   

John è l’essere più a sangue freddo che io abbia mai conosciuto: più di me, più di Mycroft.

Il che non vuol dire che non abbia un temperamento istintivo e sanguigno, so bene cosa succede quando perde le staffe, ma più semplicemente che non prova rimorso.  

Non si guarda indietro.

L’ho indotto a seguirmi nelle imprese più folli, a compiacermi in alcune mie piccole manie, a collaborare con me nelle forme più disparate e pericolose, ma solo perché lui lo voleva.  

Al contrario di come tutti pensano, io non ho mai controllato John.

E’ impossibile.

E’ una cosa che si colloca fuori da ogni scenario, o immaginazione.

E’ ciò che mi ha indotto a fingere la mia morte senza renderlo partecipe del piano, nonostante il dolore che ciò abbia causato a tutte le parti in gioco.

Per primo, a me.

John decide per sé stesso, e quando decide una cosa, anche inconsciamente, non torna indietro, mai.

Ecco perché ho sinceramente, effettivamente paura.

Che se ne vada, intendo.

Da quando mi sono ripreso, le prima delle tre caratteristiche vacilla pericolosamente.

Non è più empatico nei miei confronti: non comunica, non stabilisce un contatto che non sia legato a un mero fatto di quotidianità o doveri da sbrigare (doveri? Ancora non mi è del tutto chiaro perché lo stia facendo!), non mi interpella, non mi fa domande più incisive o personali che non siano cosa voglio per colazione o se ho bisogno di un cuscino in più.

Il che mi porta alla seconda caratteristica.

E’ onesto con sé stesso e con gli altri. Se lo è ancora, per come lo conosco io, non credo sia vero che è passato oltre. Nemmeno se lo ha detto.

Nemmeno se ha pianto sulla mia spalla.


Questo mi fa soffrire in un modo che non credevo possibile.


La vera sfida che so sostenendo con me stesso, ora, è questa.

Sopportare la sofferenza che John mi da inconsapevolmente.

Nulla di ciò che mi ha fatto Moran è minimamente paragonabile a ciò che mi sta facendo John fin da quando sono tornato.

Non che io non abbia mai sofferto prima, sono un essere umano: ho passato la vita a dare l’impressione che io fossi totalmente immune dai grossi impatti emotivi, e invece no.

Ma è sempre stato per motivi diversi da questi.

Pochi motivi, sepolti tanto tempo fa. La morte di mio padre, quella di mia madre, il problema con Mycroft.

Il problema di Mycroft.

Roba vecchia, su cui non mi sono mai più soffermato da allora.


Non ho mai voluto farmi vedere da nessuno.

Non credevo neanche ci fosse qualcosa da vedere.

Mi conosco, so chi sono, so quello che faccio: chi lo sa meglio di me?

Non c’è niente da vedere, solo il mio lavoro, la mia precisione, la mia assoluta superiorità in questo, la mia ossessione per le sfide, il piacere puro che ciò mi procura.

Di nuovo, fino a John.

John ha visto delle cose, senza tanti preamboli, dopo poche ore che ci conoscevamo.

L’ha fatto quando, con tranquillità disarmante, mi ha detto che stavo per prendere quella capsula solo per dimostrare quanto fossi intelligente, e poi mi ha dato dell’idiota, ridendo. Dopo aver sparato a un uomo.

Cedo di non aver potuto rispondere, stranamente non ricordo.

Ero impegnato a capire chi fosse lui, probabilmente.

Non sa che tutto è cominciato allora, da quella sera.

Non lo sapevo neanch’io.

Erano solo sensazioni che ricacciavo indietro, distrazioni, note stonate, non interpretabili a causa delle mie calcolate mancanze.

Ho sempre avuto delle mancanze: sono uno che vive di mancanze nei confronti degli altri esseri umani.

La mia sociopatia non è neurologica (no, Mycroft!), ma mi si è impiantata dentro per pura necessità di difesa, per istinto di sopravvivenza, nella mia prima infanzia, ed io l’ho coltivata: mi rende le cose facili, mi da la giusta distanza che cerco per ragionare.

So cos’è il sentimento.

So cosa sono le emozioni, di qualunque natura esse siano. Spesso non le capisco, non le provo, non riesco a sentire mie le loro sfumature, ma quando le vedo sulle facce degli altri, le riconosco, o non potrei fare quello che faccio.

La loro mancanza mi da la visione più chiara del mondo.

A quella mancanza, ne ho aggiunte altre per mio comodo, per gli stessi motivi.

Mancanza di educazione, sì, lo so; mancanza di tatto; mancanza di interesse nella gente. 


Tutto è più semplice, se si riduce a mera osservazione e mero perseguimento degli obiettivi, senza sovrastrutture in mezzo.

Era così, prima di John.

Quando è arrivato lui, io sono partito per un viaggio senza rendermene conto.

Lentamente, inconsapevolmente.

Ho iniziato ad avere dei dubbi.

Dubbi.

Io.

Quando, in sua compagnia, le cose si semplificavano ancora di più, in un modo diverso.

La gente collaborava.

Io insultavo, lui chiedeva scusa per me.

Io correvo via, lui restava a fare l’altra parte del lavoro, il suo viso gentile gli rendeva più facile tutto. Con le persone.

Le porte si aprivano meglio. Le messinscene per arrivare all’obiettivo primario - la risoluzione di un caso - funzionavano alla perfezione.

Affidabile. Presente. Perfettamente efficiente. Letale, all’occasione.


Un’immediata dipendenza, ecco cosa ne ho guadagnato.


Come il tabacco, come la droga.

Convinto, io, di potermene liberare senza difficoltà come ho fatto in passato con le prime due.

Il primo errore della mia vita.

Il secondo, è stato non fermarmi mai a pensare davvero a John, prima di dovermi separare da lui.

A cos’altro c’era dietro l’efficienza, la lealtà, il vago desiderio di morte che si è sempre trascinato dietro.

Impulsivo, John. Coraggioso. Affamato di pericolo. Di oscurità.

Come me.

Molto più simile a me di quanto si creda.

E poi, invece, lo guardavo preparare con aria dimessa il thé nel suo piccolo, orribile appartamento del dopo, e io restavo lì a osservarlo, a pensare, focalizzato su di lui con un’urgenza sconosciuta.

John e il suo thé.

Due cose saldate col fuoco. Non ho bevuto thé per un anno, mai, men che meno da Mycroft.

Ero perso in uno strano viaggio e non potevo semplicemente bere del thé, mi scendeva in gola amaro come veleno.

Guardavo John attraverso le telecamere in ogni momento della giornata, bevendo caffè. Lui thé, io caffè. A volte mi portavo la tazza alla bocca nel suo stesso momento, con il suo stesso movimento. Io con la mano destra, lui con la sinistra.

Infantile, inevitabile.

E, osservandolo, mi sentivo giorno dopo giorno distaccarmi da me stesso, da quello che ho coltivato e costruito per tutti questi anni.

Capivo.

Vedevo.

Come in uno specchio.

Attraverso quello che vedevo, riuscivo a interpretare quello che provavo, e che volevo ricacciare indietro.

Dolore. Abbandono. Solitudine. Nostalgia.

Mancanza.

Sempre in difetto, sempre per sottrazione.

All’improvviso non sono stato più capace di sentire tra le mie mani quello che ancora avevo: il mio piano, l’intuito, la sicurezza di star facendo bene quello che mi ero prefissato.

Vedevo solo ciò che non c’era. Ciò di cui mi ero privato consapevolmente e inevitabilmente, con le mie stesse mani.

John.

Lui che si aggirava per l’appartamento senza sapere bene cosa fare.

Lui che restava ore in poltrona a guardare la tv ma con gli occhi fissi sul muro bianco dietro essa.  

Lui che non andava a dormire. Che non mangiava. Che qualche volta nascondeva la faccia tra le mani.

E io con lui, da quell’altra parte.

Mentre fluttuavo via non so dove, perso, confuso in una nebbia di sentimenti mai provati prima.

Sentimenti atroci.

Non li volevo, non potevo. Ho passato una vita a tenerli sotto la suola delle mie scarpe, ad addomesticarli con rigidità esasperante.

E poi, all’improvviso, John mi ha reso impotente.

A volte, di notte, mentre dormiva, quelle rare volte e per quelle poche ore, restavo a fissare lo schermo buio, nel quale si intravedeva appena il fioco riverbero della luce del lampione stradale che filtrava dalla finestra della sua camera da letto, e io restavo a pensare a me, a cosa mi ha fatto diventare quello che sono.

Avrei voluto telefonargli.

Immaginavo di prendere il cellulare e cercare il suo numero nella rubrica. Immaginavo che avrebbe acceso la luce, assonnato, e poi avrebbe preso il telefono dal comodino, e avrebbe risposto, preoccupato, gentile.

John - gli avrei chiesto- perché sono così? Perché faccio queste cose?

E lui si sarebbe messo a sedere, la schiena contro la spalliera del letto, e mi avrebbe detto: perché è necessario, Sherlock. Perché tu sei tu, sei infallibile. Sei fantastico.

No, non mi avrebbe risposto così.

Ma io avrei avuto bisogno che lo facesse.

Allora mettevo in stand by il pc e tiravo una striscia di eroina. Poca, giusto per staccare l’angoscia da ogni osso del mio corpo mentre John dormiva.


Lui crede che io sia stato sempre fermo nei miei propositi.

Che lo abbia sempre osservato freddamente, focalizzato solo sul mio piano.

No. Non è vero.

C’erano giorni che lo osservavo per strada, o al lavoro, e il suo modo di tenere la testa bassa mi faceva venire voglia di spaccare tutto, in quel seminterrato.

Perché io provavo le stesse cose e non avevo la testa bassa.

Guardavo lui e lavoravo su altri tre laptop per stare dietro a Moran e ai suoi, per seguire tutti i movimenti della rete internazionale.

Forza, John, lo esortavo parlando allo schermo, stai dritto! Stiamo per farcela, non manca molto!

Lui invece continuava a camminare per strada e andare al supermercato a passo lento, assorto in un mondo di pensieri lugubri.

Pensando a me. Distrutto da me.

Come ho potuto non capirlo prima? Come ho potuto credere che avrebbe fatto più male a me che a lui?

Arrogante come sempre. Impacciato e ignorante su tutto ciò che riguardi la sfera dell’umano.

Cominciavo a realizzare.

Lo fissavo da lontano, al cimitero, e cominciavo a vedere, finalmente.

Capivo giorno dopo giorno, thé dopo thé, che il suo non era un lutto normale. Non era un pianto normale.

Era come il mio dolore, la mia nostalgia. Pressante, continua, asfissiante.

Quello che mi faceva stordire di droghe di notte, che mi rendeva pieno di odio per me stesso, per tutti.

Quando ero sul parapetto del Barts’ sapevo che avrei dovuto fare i conti con il mio dolore, ma non con quello di John.

Non sapevo... non so cosa fare davanti al dolore di John.

Avrei dovuto immaginare che la sua tenacia avrebbe giocato un ruolo pericoloso anche in questo caso.

John è uno che persevera. E’ un cane da guardia. E’ un mastino che non molla la presa.

John resiste anche nel male.  

E non va avanti, se non ha nulla per cui andare avanti; rimane lì, attaccato al suo osso.

A me.

Non lo avevo previsto.

Pensavo riguardasse solo me.

Qualche mese, e poi di nuovo una serata al pub con Greg, una nuova ragazza con cui confortarsi per un po’, fino alla successiva, e poi la routine che riprende lentamente, la normalità che avanza: ecco, cosa avevo immaginato. 


Avrei avuto più tempo, sarei stato meno disperato.

Avrei potuto finire con calma quello che stavo facendo e trovare un modo non dico indolore, ma meno traumatico per tornare a casa. Per tornare da lui. Sapendo bene che avrei potuto trovare dei cambiamenti definitivi, che avrei rischiato di non poter tornare mai più.

Ma ero pronto ad avere a che fare col mio dolore.

Lo avrei gestito, combattuto: il fine era tenerlo al sicuro, sapere che sarebbe stato vivo, e bene, da qualche parte. Bastava questo per stringere i denti.

Non ero preparato a quello che ho visto accadere, invece.

Non ero preparato a prendere il suo polso.

Non ancora!


“Sei stanco? Vuoi sdraiarti?”

Non mi sono nemmeno accorto che David è andato via.

John è in piedi vicino a me e mi guarda con la solita bonarietà.

Io scuoto solo la testa, affondando la nuca sulla spalliere morbida del divano, e chiudo gli occhi, disperato.

Impotente.

Mi sento scavare dentro.

E’ come se avesse infilato le mani dentro di me e stesse aprendo un buco con le dita.

Mi ha scaraventato in un posto sconosciuto e non riesco a tornare indietro, ho bisogno di aiuto.

Siediti qui vicino a me e parlami come una volta.

“Sicuro che non vuoi andare un po’ sul letto?”

Non voglio aprire gli occhi.

Faccio ancora cenno di no con la testa.

“Sherlock, ti senti bene?”

Annuisco. So di avere l’espressione impassibile di quando parto con i miei pensieri per ore ed ore, e so che lui la interpreterà così e mi lascerà stare.

Sento i suoi passi allontanarsi dopo qualche istante.

John. Ti prego.

Non so che cosa fare.

So cosa ho visto in quei mesi di telecamere nascoste. Ma so anche cosa vedo adesso.

Due cose contrapposte, che il mio cervello non sa mettere insieme in nessun modo.


Durante il pomeriggio, dopo un pranzo silenzioso, triste, durante il quale ho mangiato qualcosa solo per non sentirmi assalire da rimbrotti ed esortazioni continue, e durante il quale sono stato scrutato, analizzato e sezionato dal suo sguardo indagatore come una cavia su un tavolo da laboratorio (lui ci prova sempre ma non ci riesce, non è colpa sua), mi accorgo che John sta lavorando intensamente sul sul pc.

Sono sul divano (maledetto divano, ti odio, ti darò fuoco, liberami dalle tue spire!) e lo osservo, mentre io sono col mio laptop sul mio grembo, la gamba destra tesa e appoggiata sul pouf davanti a me, comprato appositamente per questo. John non ha lasciato nulla al caso, ha pensato proprio a tutto.

Lui è seduto al tavolo, ha la fronte corrugata, digita due o tre parole, poi si ferma. Appoggia il mento sulle mani, rilegge varie volte. Fa cenno di no con la testa, le labbra strette nel disappunto, poi cancella, riscrive.

Non è il blog.

Ha ripreso a scriverlo mentre io ero ancora in ospedale, stupendosi del numero assurdo di utenti che ormai ha raggiunto, e che lo seguono trepidanti.

Quando scrive sul blog è felice.

Sorride con soddisfazione mentre digita velocemente, cerca di star dietro a tutti i messaggi (impossibile!): a volte, se c’è qualcosa che lui ritiene divertente, si alza, mi porta il pc, mi fa vedere quanto io sia ammirato, quanto la gente mi ami, come se me ne potesse importare qualcosa, senza rendersi conto di quanto amino lui, invece.

Per non aver mai mollato, come un vero soldato che non lascia mai i compagni indietro, scrisse un tizio dalla vena particolarmente melodrammatica.

Ricordo che sputacchiai non so quale frase caustica in proposito, e lui rise, in un rarissimo momento di appena accennata complicità che io anelavo come  l’aria, rimarcandomi che mi aveva mostrato quel post proprio per osservare la mia reazione di fronte a un tale orribile esercizio di scrittura.

Senza sapere che io la penso esattamente come quel tizio.


Il mio capitano non ha mai mollato.  


E non so perché lo abbia fatto adesso, ora che sono qui in carne ed ossa, e non mi guardi quando gli parlo.


Non resisto.

Abbandono il mio pc sul cuscino di fianco a me e prendo le stampelle, appoggiate al divano: mi metto in posizione.

Il solito rumore metallico fa alzare la testa a John.

“Stai fermo là, mi voglio alzare da solo.”

“Sherlock...”

“Ho detto non ti muovere!”

John si alza, ma non viene subito verso di me.

Io metto lentamente giù la gamba dal pouf e scivolo con le natiche sul bordo del divano, caricando il peso sul ginocchio flesso dell’altra: punto le stampelle per bene per terra e mi preparo a darmi lo slancio.

John mi si è avvicinato, è teso.

“Sentirai dolore.”

“No.”

“E’ presto.”

“NO.”

Devo tornare ad essere quello di prima, devo eliminare questa patetica barriera di bisogno, di compatimento, di disgustoso assistenzialismo che lo tiene inchiodato qui.

Devo poter vedere come John mi guarda adesso, senza obblighi, stampelle e medicine di mezzo.

E devo vedere cosa c’è sul suo pc, senza che abbia il tempo di non rispondermi e di abbassare lo schermo.

Mi do lo slancio, testardamente, e sono quasi in piedi quando un’inaspettata fitta mi parte dal torace, dalla ferita ormai quasi del tutto rimarginata dell’intervento alla costola, e mi attraversa il corpo come una sciabolata.

“AH!”

Perdo il respiro, vacillo, mi sfugge la stampella sinistra.

John, come sempre, viene in mio soccorso e mi afferra saldamente da sotto le ascelle, in un abbraccio frontale goffo ma efficace.

Un’altra fitta quasi insopportabile si irradia dai miei lombi fino a tutta la schiena, io trattengo il respiro, mi aggrappo alle sue spalle con disperazione.

Vorrei urlare dalla frustrazione. Sembra non finire mai.

Restiamo così qualche lunghissimo secondo: John aspetta che io riprenda una respirazione regolare, io vedo dietro i miei occhi chiusi lampi bianchi di dolore e percepisco il suo corpo teso nello sforzo di sorreggere tutto il mio peso.

Lentamente recupero, riesco a restare stabile sulla gamba sinistra fino a che il dolore comincia a defluire, a liberarmi l’interno delle palpebre da quel bianco insopportabile, e io inizio a rilassare il mio petto contro il suo torace e prendo ad assorbire il suo calore, che calma il mio corpo e placa la mia furia.

“Te l’avevo detto, imbecille. Ma tu non ascolti mai” mi sussurra quasi sul collo.

Ciò mi provoca delle scariche di pura elettricità lungo tutto lo sterno, fino al basso ventre. Non riesco ancora a parlare.

“Rimettiti giù” mi esorta, spingendomi leggermente indietro.

“No. E’ passato. Voglio stare in piedi.”

“Sherlock, ascoltami, meglio di no.”

“Voglio camminare un po’, lasciami fare!”

Sono rabbioso, ora.

Si scosta da me con circospezione, assicurandosi che io ora sia saldo su una gamba e una stampella, e si china a prendere l’altra. Me la porge con un’espressione scettica, è corrucciato.

“Lentamente.”

“Ovvio.”

Mi sistemo la stampella sotto l’altra ascella e provo a fare qualche passo, sotto il suo sguardo vigile. Me la cavo, al contrario di quello che pensa lui.

Mi segue da vicino, io faccio un giro casuale per la stanza e poi punto verso il tavolo.

“Puoi continuare a fare quello che stavi facendo, faccio solo qualche giro qui intorno” gli dico brusco.

John si ferma e mi lascia andare un po’, ma senza mai distogliere gli occhi da me.

E’ fastidioso. Per quanto io voglia che mi guardi, non voglio che lo faccia in quel modo.

Finalmente passo davanti alla sua postazione e provo una piccola soddisfazione nel notare che le vecchie abitudini non sono cambiate, e che non ha attivato lo screensaver. Non lo ha mai fatto in vita sua.

Mi fermo spudoratamente davanti al pc e guardo lo schermo. Con la coda dell’occhio percepisco John che scuote lentamente la testa, rassegnato, e incrocia le braccia.

Quello che vedo non mi piace.

Sollevo lo sguardo e lo trafiggo.

“Stai compilando una domanda di impiego per la clinica.”

Lui sostiene il mio sguardo con fermezza, gli si forma tra le sopracciglia quella ruga verticale che riesce a far comparire quando è molto serio, sul ciglio della rabbia.

“Devo tornare al lavoro. Ho parlato con Sarah e ho sistemato le cose, c’è ancora una possibile posizione aperta.”

“Quando?”

Sospira spazientito.

“Ieri. Tu dormivi.”

Resto in silenzio, ma posso sentire lo stridio dei miei denti mentre serro le mascelle.

La consapevolezza irrompe dentro me con il rumore secco di un ramo che si spezza. Il suo desiderio di tornare alla vita che ha avuto senza di me mi attraversa in maniera crudele.

Ma non faccio trapelare nulla con le parole, credo possa leggermelo in faccia.

Vedo la sua espressione cambiare. Ammorbidirsi.

“Sherlock, non... ascolta, per me è giusto così. Ne ho bisogno.”

Mi rivedo a caccia per Londra, da solo, una cosa che desidero con ogni fibra del mio corpo, che mi fa bruciare di aspettativa e occupa tutti i miei pensieri che non siano John, ma che in questo momento mi lascia un sapore rivoltante in bocca.

Se quella che sto provando è autocommiserazione, credo sia la cosa più brutta che abbia mai sperimentato in tutta la mia vita.

“Certo. Fai bene.” Lo dico, ma è come se stesse parlando un altro al posto mio.

“Vado in camera.”

John abbassa la testa e combatte con sé stesso.

Cosa vuoi dirmi? Se c’è qualcosa che vuoi dirmi, dimmela, per dio!

Ma non dice niente.

Sospira. Uno dei suoi sospiri prolungati, con i quali si è sempre caricato di pazienza nei miei confronti, e si muove per accompagnarmi e aiutarmi a sdraiarmi.


                       ***


Due pillole grosse e farinose che prendo la sera, antidolorifici abbastanza potenti da servire anche da sonnifero.

Ho grosse difficoltà a stare steso per così tante ore senza svegliarmi pieno di dolori. Non posso ancora girarmi nel letto senza cautela, la gamba è ormai libera dal tutore, ma se faccio movimenti bruschi mi fa male.

Ho ancora un indolenzimento fastidioso al torace, e tanta immobilità mi fa urlare i muscoli della schiena al mattino.

Mi sento esasperato e sull’orlo della follia, ma non ho scelta. Aspettare e impegnare la mente sono le uniche cose logiche da fare.

Per cui, durante le notti che sarebbero interminabili se restassi sveglio, le due pillole sono quello che ci vuole.

Anche stasera John me le porge sul palmo della mano.

E’ seduto sul mio odioso letto da ospedale, che non vedo l’ora di scaraventare fuori dalla mia stanza, e ha un bicchiere d’acqua nell’altra mano.

Non ho parlato per tutto il pomeriggio, fino ad ora, e adesso lui ha lo sguardo di chi vuol capire.

Prendo le pillole dalla sua mano con un movimento brusco.

“Perché hai quel muso?”

Sorride appena, come un adulto farebbe con un bambino di sette anni.

“Vorrei tornare nel mio letto. Se non ti dispiace.”

Mentire a John è come vestire una seconda pelle, ormai.

“E’ troppo basso, ci vorrebbero troppe manovre, è ancora presto. Quello che è successo oggi pomeriggio dovrebbe averti convinto.”

Allunga una mano e mi sistema il colletto del pigiama. Io sussulto lievemente.

Fa sempre dei gesti del genere. Tutto il giorno.

Non riesco ancora a vestirmi da solo senza digrignare i denti, ma lui interviene prontamente contro ogni piccola piega, bottone saltato, stortura o difficoltà.

Sento per un attimo la punta delle sue dita sul mio collo.

Tutto quello che voglio è baciare quelle dita.

Per un attimo ho come un’allucinazione, o forse è un ricordo... non posso saperlo, è scientificamente impossibile.

Ho chiara in mente la visuale del soffitto della mia stanza di ospedale, quella in cui mi sono risvegliato la prima volta, dalla prospettiva del letto.

Sono sdraiato, vedo tutto sfocato. Nel mio campo visivo appannato c’è quella che sembra un’asta di flebo che incombe su di me. Ho la nausea. Ho paura. Non riesco a muovermi né parlare.

Sono in preda a un terrore sconosciuto. Posso udire i bip cadenzati di una macchina che evidentemente sta rilevando i miei battiti cardiaci: li sento accelerare bruscamente.

Vedo gli occhi di John. I begli occhi scuri e blu di John, che mi scrutano dall’alto, il suo viso indefinito ma non confondibile. E’ lui, è lì. Credo fosse il mio terzo o quarto tentativo di connettermi col mondo esterno.

Sento qualcosa di caldo sulla fronte: le sue labbra. E poi la sua mano. Il palmo grande e confortevole della sua mano sulla mia fronte, sui capelli.

Movimenti lenti, calmanti.

Una bellezza infinita nel mio mare di dolore fisico, nel mio distacco farmacologico dalla realtà.

“Stai tranquillo” dice una voce.

“Passerà presto, devi stare tranquillo.”

Potrebbe essere la sua, come non potrebbe. In quel momento non so se sia davvero lui, potrei star sognando. Ma io voglio che sia lui.

Deve essere lui.

Credo fermamente che fosse lui, ma non saprei dire con certezza se questo sia accaduto davvero o meno.

Voglio pensare che sia stato così.

E adesso questo ricordo-sogno-allucinazione mi risale in gola, soffocandomi.

Poso le pillole sul comodino che John ha posizionato accanto al mio orribile letto.

“Le prendo tra un po’, adesso voglio leggere.”

Anche lui posa il bicchiere d’acqua accanto ad esse.

“Cosa ti porto?”

Sto guardando le mie mani abbandonate sul copriletto.

Sto pensando di afferrarlo per le spalle e spingerlo contro di me.

“Una cosa qualunque.”

“Uh, idee confuse, non è da te.”

Ora lo guardo, inferocito.

“Niente è più... da me, John.”

Mi osserva stupito per qualche istante.

Chiedimi cosa! Perché!

No, invece starà pensando alla mia insofferenza per l’immobilità. Con la sua solita accondiscendenza, ora starà pensando che mi deve lasciar perdere, che è uno dei miei momenti no.

Infatti si alza e va di là, tornando con un libro qualsiasi, e me lo mette in grembo.

“E’ ok?”

Non ho nemmeno guardato cosa sia.

“E’ ok.”

John va via di nuovo, e mi lascia solo.


Quando viene a dormire, quella notte, le pillole sul comodino sono sparite e l’acqua nel bicchiere è a metà. Ma le pillole sono nel cassetto del comodino e io fingo di dormire. Sento che mi toglie il libro dalle mani, delicatamente, e poi odo il fruscio delle lenzuola quando lui si mette a letto.

Non so neanch’io perché non abbia preso le pillole.

Attendo paziente per lunghi minuti, senza muovermi. Passo attraverso tutta la gamma dei tipici rumori che John fa prima di addormentarsi.

Sospira. Si gira varie volte sotto il piumone, cerca la posizione. Tossicchia un paio di volte.

Sospira di nuovo, più pesantemente, adesso: come se avesse un peso sul petto. Poi resta in silenzio.

Se avessi potuto alzarmi da solo senza far rischiare di cadere o far rumore con le stampelle, sarei sgusciato fuori e sarei andato a sdraiarmi accanto a lui.

Per cercare un indizio, un segnale.

O semplicemente un po’ di pace.

Niente mi calma come John, niente mette a riposo il mio tumulto interiore continuo, rabbioso, a volte estenuante.

E’ stato un azzardo lavorare su Moran senza lui vicino.

A volte ho perso il controllo in maniera grottesca.

Ho esagerato con la droga. Ho rischiato di mettere le mani addosso a Mycroft per una parola di troppo. Ho spaccato oggetti e vandalizzato muri in quel tugurio di seminterrato.

Ho posato le mie mani sul video, un pomeriggio, mentre lo guardavo visitare i pazienti al lavoro. E ho pianto.

Una volta sola, ma senza potermi fermare, come se dovessi piangere anni interi della mia vita.

Come se John mi fosse mancato dal giorno esatto della mia nascita.

Per questo ora sto qui, immobile, e lascio che il suo lievissimo russare culli delicatamente il mio dolore.


                              ***


Il mattino successivo sono un unico grumo di indolenzimenti ossei e muscolari.  

Mi sono assopito per pochi minuti alla volta durante il corso della nottata, e ho cercato di cambiare posizione, ma senza grande successo. Ad ogni fitta, restavo fermo e cercavo di coordinare la mia respirazione al leggero russare di John. Così sono riuscito restare sveglio, come volevo, ad ascoltarlo.

Quando si alza, non sono ancora le sette.

Io sono riuscito a scostare la tenda dalla finestra che è alla mia destra, proprio sopra il letto, e guardo il panorama poco attraente del cortile interno su cui affaccia la mia camera. Il solito palazzo di fronte, le sue finestre, di cui ormai conosco ogni abitante, ogni dettaglio, ogni particolare.

John viene verso di me, spettinato e con gli occhi ancora mezzi chiusi.

E’ il segnale della routine che ricomincia.

Mi aiuterà ad alzarmi, a camminare in parte con le stampelle e in parte sostenuto da lui, andremo in bagno. Dovrò fare pipì con un braccio appoggiato saldamente alla sua spalla, dal lato della gamba rotta, cosa che comincio seriamente ad odiare, e poi mi aiuterà a stare in equilibrio davanti al lavandino per potermi lavare la faccia, i denti, il collo.

Poi andremo nel soggiorno e io sederò sul divano, dove lui mi porterà il caffè e insisterà perché mangi una brioche, o delle uova. Preferirei le uova, oggi.

Non mi dice buongiorno.

Invece si siede sul mio letto e mi guarda con aria serena. Quando lo guardo negli occhi sento un groviglio che mi si attorciglia nello stomaco, sempre più stretto e nervoso.

“Ti sei annoiato senza di me?”

Sgrano un po’ gli occhi. Non rispondo.

“Durante tutto quel tempo, ti sei annoiato senza di me?” Ripete.

“Molto. Sì.”

Le sue labbra sono stirare in un placido sorriso. E io non capisco.

E’ come se avesse assorbito i miei pensieri durante tutta la notte, ma ovviamente non è possibile.

“Pensa che quando starai bene ricominceremo con i casi, niente più noia.”

Il suo tono è consolatorio, ma anche allegro.

Io sento un tonfo sordo dentro di me, come se fossi un pozzo e qualcuno mi avesse gettato dentro un grosso masso.

“Ricominceremo?”

John sorride di più. Gli si formano le tipiche rughe d’espressione attorno agli occhi.

“Ovviamente. Caffè?”

Mi posa una mano sulla gamba, quella buona, ancora sotto le coperte, e me la strizza amichevolmente.

“Così non ti dovrò mai più vedere dell’umore che avevi ieri.”

Le parole che vorrei dire mi si accavallano talmente violentemente nella testa che non riesco ad articolarne una.

Lo guardo con meraviglia assoluta.

Sa di avermi spiazzato ed è divertito al massimo. Io ho una deflagrazione di felicità assoluta dentro me, che mi vibra in tutto il corpo e mi fa accelerare il respiro.

“Riprenderai... a lavorare con me?”

Ergo, non andrai mai via. Resterai qui. Non mi lascerai più solo in una stanza quando non voglio esserlo.

Tornerà tutto com’era.

E’ questo il tuo perdono. E’ questo, John?

John.

“Non prima di aver trovato di nuovo un lavoro come medico. Ho bisogno del mio lavoro, ho bisogno di qualcosa di mio. Ti aiuterò nel tempo libero.”

Fatico a rimettermi insieme, a mantenere un contegno.

Vorrei abbandonarmi contro il suo petto, abbracciarlo con ogni muscolo del mio corpo.

“Ok” dico in un soffio “Part time... è ok. Sì. E’ perfetto.”

(No, non è perfetto, ma io farò in modo che lo sia).

E’ come se mi fossi fermato.

Come se stessi tornando da quel viaggio oscuro e confuso per il quale lui e la sua assenza mi avevano fatto partire: come se vedessi una strada, finalmente.

La gioia che provo è la mia strada, John me la sta indicando.

Come ho potuto pensare che mi lasciasse solo e disorientato chissà dove?

Non lo ha mai fatto.


Perché John, a suo modo, mi ama.

E io amo lui, nel mio modo.


Poso le mani sulla sua, quella che è sulla mia gamba, e non posso dire niente. Lo guardo come se fosse acqua fresca che sgorga dentro un me disidratato da millenni. Uno che non sono più io, ma che sono sempre io, contemporaneamente.


Dove sono stato, John?

Dove mi hai condotto con il tuo dolore, con la tua perseveranza, e il tuo coraggio?

Dove mi stai portando, adesso, con la tua gentilezza?

E con il tuo amore?


Sfila la mano da sotto le mie, dopo interminabili secondi in cui ci fissiamo scavandoci nel profondo, ma io non me ne dolgo, perché ormai so.

Anche se dovessimo restare così per sempre, chiusi in questa strana amicizia blindata, fatta di piccoli gesti e mezze frasi, io sarei felice lo stesso: lui è mio.

Di nuovo.

“Vado a preparare la colazione, più tardi invierò il documento a Sarah: è una fortuna che abbia capito e non ce l’abbia ancora con me.”

“Nessuno può avercela con te, John.”

Sto sorridendo.

Sto ridendo, in realtà.

“Vuoi alzarti o te la porto qui?”

Qui. Devo processare. Mi devo calmare.

E’ quasi dura accettare l’insperata idea che torneremo ad essere quelli di prima... non sono abituato ad avere a che fare con queste sensazioni.

“Qui, voglio riposare ancora. Non ho dormito molto bene.”

Vedo la sua fronte aggrottarsi con preoccupazione.

“Ti senti bene? E’ tutto ok?”

Annuisco, lo rassicuro con l’espressione più rilassata che io possa avere in questo momento.

“Ok” ribadisce lui, e si alza per andare via.

Abbandono la testa sul cuscino, chiudo gli occhi e lascio andare un profondo sospiro.

Mi sento tornare al mio posto.

Tutto si ricompone armoniosamente, tutto va dove deve andare.

Io sono qui, dove devo essere. E John è con me.

Non so se sia tornato col caffè o meno, perché mi addormento profondamente prima di scoprirlo.

Ma non dubito che l’abbia fatto.

John.


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Note: dedico questo capitolo ad AssenzIa-Giusy, la mia soulmate di fandom. Ti voglio bene, gurl. Don’t give up!


Grazie con il cuore a Minerva74-Emma W., che stavolta non ha potuto betare ma mi ha dato l’incoraggiamento più caloroso che si possa sperare. Minerva cara, alla fine ho lasciato intatta la parte centrale, non ho davvero trovato un modo efficace per risolvere il nodo che sai, ma mi sento stanca e spremuta (e altre idee avanzano prepotenti). Mi sono detta semplicemente... whatever!  


Infine, chiedo scusa a tutti coloro che detesteranno il mio Sherlock profondamente OOC (credo), ma il cambiamento non può avvenire se uno, appunto, non... cambia un po’. Quando parla lui in prima persona, non so davvero fare di meglio. E comunque, a me uno Sherly totalmente robotico proprio non piace. Sorry. :-)  


 


  
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