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Autore: Shari Deschain    31/07/2012    3 recensioni
Per ironia della sorte, quell'anno che non era mai esistito Jack lo riviveva spesso. Di sicuro più di quanto avrebbe voluto. Di notte, perlopiù. Era una reazione automatica: la sua memoria innescava i sogni, e i sogni si trasformavano in incubi che gli davano il tormento fin da quando era tornato a Cardiff.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ianto Jones, Jack Harkness
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Warnings: Slash; Timeline tra la fine della S3 di DW e le prime puntate della S2 di TW.
Word Count: 1634 (fdp)
Disclaimer: non sono miei, non ci guadagno, non me li porto a letto, niente di niente.
N/A: Scritta per il MARcatino @ maridichallenge, Prompt:
1. individualità
2. "You were made to be ruled. In the end, you will always kneel." (The Avengers)
3. "On the Radio"  (Regina Spektor)
4. "I feel like an idiot. But I am an idiot, so it kinda works out." (Billy Madison)
─ Scritta anche per 500themes_ita, prompt #435. Vivere un incubo
─ Ho le fiamme al culo perché la challenge scade tra poche ore, il che significa che gli avrò dato sì e no un paio di riletture, il che significa non fatevi del male a leggerla, plis.






This is how it works





Per ironia della sorte, quell'anno che non era mai esistito Jack lo riviveva spesso. Di sicuro più di quanto avrebbe voluto. Di notte, perlopiù. Era una reazione automatica: la sua memoria innescava i sogni, e i sogni si trasformavano in incubi che gli davano il tormento fin da quando era tornato a Cardiff.
Per quanto infastidito, Jack non ne era per nulla sorpreso. Avventure del genere hanno sempre delle brutte conseguenze, e spesso è una fortuna, perché vuol dire che almeno gli sei sopravvissuto (non che questo sia un problema che lo riguardi, ovviamente).
Per come la vedeva lui, poi, i sogni non erano nemmeno questo gran problema, almeno quando dormiva da solo. In quei casi si svegliava, si prendeva quei dieci minuti di tempo che gli occorrevano per realizzare che Il Maestro era morto e che la Terra non era sotto un dominio alieno, e poi si rimetteva a dormire, oppure si scolava una bottiglia di whiskey direttamente in gola (la seconda più spesso della prima. Non aveva certo motivo di preoccuparsi per il suo fegato, dopotutto).
Il vero problema era quando c'era qualcun altro nel letto con lui. Be', non qualcun altro in generale. Ianto.
E da quando il Dottore lo aveva riportato a casa, aveva passato solo le prime notti da solo, poi era riuscito a placare l'ira e il senso di tradimento del resto del team e a convincere Ianto a riammetterlo nel suo appartamento.
Le prime volte che gli incubi di Jack li avevano svegliati nel bel mezzo della notte, il suo compagno si era limitato a rifilargli una gomitata nello stomaco e a borbottare maledizioni in gallese, per poi girarsi dall'altra parte e rifiutare in modo categorico i suoi suggerimenti di alleviargli il brutto risveglio con un po' di sano sesso.
Poi però le cose erano peggiorate. Jack si svegliava gridando parole senza senso, il nome del Dottore e quello di Martha impigliati nella gola, e con fitte acute di dolore in quei punti dove le ferite si erano rimarginate senza alcuna cicatrice. Quelle volte Ianto non lo insultava né lo toccava, ma lo fissava con occhi spalancati e spauriti. Jack, dal canto suo, non riusciva più a costringersi ad alleviare la situazione con avances fuori luogo.
Perlopiù, quindi, rimanevano in silenzio fino a quando uno dei due non si rimetteva a dormire. Ma se Ianto cominciava a raccogliere il coraggio per chiedergli che diamine fosse successo con quel suo Dottore, Jack si alzava e si infilava sotto la doccia, oppure tornava direttamente all'Hub, lasciando l'altro da solo tra le lenzuola sudate, e a volte perfino strappate nella foga di fuggire da quelle ombre che gli popolavano la testa.
Era il suo modo di dire non ne voglio parlare, e di buono c'era che il messaggio era piuttosto chiaro: Ianto non faceva certo fatica ad interpretarlo. Il che, comunque, non significava affatto che fosse d'accordo.


Gli incubi erano per metà ricordi e per metà degenerazione di quei ricordi.
A volte c'era anche Gray incatenato con lui. A volte c'era Rose, intrappolata a poca distanza da dove si trovava, ma nascosta ai suoi occhi e alla sua voce. Ianto, Gwen, Owen e Toshiko vi apparivano altrettanto spesso. A volte lui moriva, moriva per davvero, e quelli era forse gli incubi meno spaventosi. A volte morivano tutti tranne lui, e quelli erano gli incubi peggiori.
Al risveglio scuoteva la testa e si diceva che era passato, anzi che non c'era mai stato, e che doveva semplicemente andare avanti. Era in quel modo che funzionava la vita. Persino la sua.


Certe volte Ianto si sentiva un idiota. Il sentimento si rafforzava soprattutto in quelle situazioni che coinvolgevano Jack, ma anche più in generale riteneva di aver fatto abbastanza stronzate, nella sua vita, da essere classificato, a buona ragione, come un idiota (c'è da dire, però, che a suo parere chiunque lavorasse per Torchwood anche solo un giorno in più del periodo di prova poteva tranquillamente essere classificato come un idiota).
Il fatto è che c'erano cose a cui non era abituato. Non era abituato a Jack in certe condizioni, tanto per cominciare. E non era abituato alle situazioni che non potevano risolversi con una tazza di caffè o un proiettile sparato in testa.
E sì, Torchwood gli aveva insegnato a fronteggiare cose incredibili, impossibili e poco probabili, ma cosa dovesse farsene di un capitano in preda ai brutti sogni nel suo letto, be', quello non glielo aveva insegnato nessuno.
Da quel che ricordava, con Lisa era tutto molto più facile. Con Lisa, in quei casi, bastavano un abbraccio e un sorriso. È anche vero che, con Lisa, i problemi erano ben altri: le bollette, le pressioni della madre di lei perché le mettessero al mondo un nipote (non l'aveva più vista, la madre di Lisa. E, vigliaccamente, sperava di non vederla mai più), mettersi d'accordo sul ristorante dove andare...
Jack, invece, era una specie di buco nero di traumi e drammi e dolore in generale. Quell'oscurità gli faceva paura, ma avrebbe comunque preferito che Jack la condividesse con lui, piuttosto che ritrovarsi all'improvviso a guardarci dentro senza sapere né come uscirne né come tirarne fuori l'altro.
Il problema di fondo, lo sapeva, era il concetto di fine.
Lui aveva una fine e Jack no.
Un giorno (non molto lontano, temeva, almeno stando alle statistiche di sopravvivenza media degli agenti di Torchwood) lui avrebbe smesso di ridere, piangere, amare, respirare ─ di vivere, insomma ─ e Jack no.
Chi avesse diritto ad esser più turbato da questa cosa non avrebbe saputo dirlo.
Ma dal momento che quel problema in particolare non poteva essere risolto, gli sarebbe piaciuto almeno risolvere quello degli incubi. Non per altro, ma a quelle poche ore di sonno che il Rift gli lasciava era davvero affezionato.


A volte gli incubi si riducevano ad una stanza vuota, buia, senza entrate né uscite. Jack era al centro di essa, e tutto intorno a lui turbinavano le voci. Quella più forte avrebbe dovuto essere quella del Dottore, e invece era quella del Maestro.
Siete piccole cose, voi esseri umani, gli sussurrava all'orecchio, con quel suo tono canzonatorio. Fatti per essere schiavizzati e governati. Non siete in grado di prendere in mano le vostre vite, non è così?
Jack scuoteva la testa. Poi pensava ai suoi anni da Agente del Tempo prima, e a quelli da Agente di Torchwood poi. Qual era stato lo scopo?
Non è così, Jack?
All'inizio non c'era stato uno scopo preciso, ammetteva. Girare l'universo. Dimenticare il suo passato con sesso e alcool e divertimento. Per un po' si era limitato a quello.
Poi era arrivato il Dottore.
Lui gli aveva insegnato ad essere altro. A vivere e a combattere per qualcosa di più che per se stesso.
La risposta del Maestro era un verso tra il disgustato e l'annoiato.
Ma alla fine vi arrendete. Lo fate sempre. Lo avete già fatto, gli ricordava poi, sornione.
Non io, rispondeva Jack, ed era una verità solo a metà, ma in quel momento non aveva importanza.
Non ancora, lo correggeva Il Maestro, ridendo sottovoce. Ma hai davanti l'eternità, Jack. La vera, immutabile, minacciosa eternità. Per quanto tempo ancora pensi di poterti rialzare e combattere?
Jack non aveva una risposta a quella domanda. Un tempo avrebbe forse risposto per sempre, ma adesso che cominciava davvero a capire quanto fosse lungo quel per sempre, non ne era più molto sicuro. Per la maggior parte della sua vita era stato più furfante che eroe, e non era certo che la cosa fosse cambiata di molto.
Da quei sogni si svegliava sudato, ma non troppo scosso, almeno non in superficie. Se non altro Ianto continuava a dormire indisturbato al suo fianco. Jack di solito gli passava un braccio intorno alla vita e rimaneva sveglio fino all'alba, di nuovo al buio, ma questa volta in compagnia del respiro regolare dell'altro.


Due settimane e tre giorni dopo il suo ritorno, Ianto aveva smesso di tentare di costringerlo a parlare del suo viaggio, aveva dichiarato di essersi stufato di tutta quella storia, e Jack si era ritrovato, con suo grande shock, a dormire sul divano.
Era una cosa che credeva non gli sarebbe mai accaduta ─ essere buttati fuori dal letto e finire relegati sul divano è qualcosa che capita agli altri, di sicuro non al Capitano Jack Harkness, pensava ─, ma Ianto si era mostrato irremovibile: era stanco ed armato, e Jack non se l'era sentita di tentare la fortuna.
Così era rimasto a fissare il soffitto del salotto di Ianto ─ un salotto pulito, spazioso e moderno, con quell'aspetto tipico di quei salotti in cui la gente non ci vive davvero, ed era un'impressione applicabile a tutto il resto della casa, esclusa forse la camera da letto ─ cercando di addormentarsi nonostante le molle del divano gli si conficcassero nella schiena.
Un'ora dopo, ancora non era riuscito a chiudere occhio, e si rigirava come un'anima in pena sui cuscini, prendendo a testate il bracciolo.
Un'ora e mezza dopo, evidentemente mosso a pietà (o forse troppo infastidito dai tonfi continui della sua testa contro la plastica e dallo scatto metallico delle molle contro le sue costole), Ianto gli aveva concesso di tornare a letto.
«Prova solo a darmi un calcio e prima ti sparo e poi ti butto giù dalla finestra», l'aveva minacciato, serissimo.
Jack aveva sorriso.
Tre ore e parecchie-posizioni-sconosciute-anche-al-Kamasutra dopo si erano accasciati esausti sul materasso e si erano addormentati sul colpo.
Jack non aveva sognato.
La quotidianità aveva finalmente cominciato a fare il suo lavoro, aveva pensato la mattina dopo, cucinando le uova per sé e Ianto.
O forse era la minaccia di dover dormire di nuovo sul divano, chissà.
(Anche se il sesso-dopo-la-cacciata-sul-divano era davvero niente male, riteneva Jack, con un po' di rimpianto)
(Ianto sarebbe stato d'accordo, ma non rimpiangeva affatto gli incubi dell'altro)
(Anche perché c'erano altri miliardi di motivi per bandirlo sul divano).


A volte quegli incubi tornavano. Raramente, però. O comunque con la stessa frequenza di tanti altri. A Jack non importava. Ianto faceva finta di non notarlo.
La solita routine, insomma.



   
 
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