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Autore: Miss_Nothing    01/08/2012    1 recensioni
Dopo essermi dilettata a scrivere "pensieri di una ragazza suicida" ho voluto rappresentare un altra drammatica storia. Una storia che prende le sue radici da fatti reali trasformati in un racconto per aver la consapevolezza di chi sono veramente i mostri. E come Giulia direbbe: i veri mostri non escono di notte ma con l'augurio della luce del sole. Chi penserebbe mai che un mostro scelga il calore dei raggi invece che la protezione delle tenebre? Nessuno. Ed è proprio per questo che si credono intoccabili.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A volte raccontare una storia implica ascoltare i ricordi delle persone. Ma quanto ci può essere di vero in un ricordo? I ricordi sfumano, si infrangono, si mischiano come se fossero su una tavolozza di colori e poi è impossibile separarli. Ma ci sono ricordi che seppure vorremmo svanissero restano dentro di noi e non riescono a mischiarsi e a modificarsi con nessun altro.
Alle mie amiche ripetevo sempre che era inutile correre dietro a un fantasma eppure io lo facevo, ogni giorno. Sì. Sono una di quelle persone che predica bene e razzola male ma se avete qualche minuto potete anche ascoltare i miei ricordi.
Sono  nata e cresciuta a Milano. Nell’hinterland di Milano per la precisione. E vivo tutt’ora in quel paese che tanto detesto. Ora ho trent’anni, sono sposata e ho una figlia di cinque anni.
Per quanto ami la mia famiglia a volte penso di farla finita. Molti mi chiedono perché ? Ma io porrei un'altra domanda.  Chi è il mostro che mi ha rovinata?
Ricordo ancora tutto di quel tremendo anno in cui sono cresciuta improvvisamente. Avevo dodici anni e sentivo il mio cuore cambiare battito sotto seno leggermente accentuato. Ero gracile, la pelle pallida come la neve e una massa di capelli rossi che mi copriva il viso ricoperto da lentiggini. Mi sentivo vulnerabile in fondo mio padre era morto proprio quell’anno. Mi ricordo ancora il suo funerale. Le rose nere e rosse adagiate sulla sua tomba, proprio come lui aveva voluto. Mia madre mi stringeva le spalle troppo esili. Sembravo un fantasma in quel vestito nero che rendeva ancora più pallida la mia pelle. E proprio come se fossi un fantasma nessuno chiese di me. Mi ritrovavo a passare le giornate in camera a guardare il tempo cambiare dalla finestra. Amavo la pioggia. I suoi rintocchi mi ricordavano i passi di mio padre quando tornava stanco dal lavoro. Mia madre era un altro pallido fantasma. Cominciò anche lei ad ammalarsi. La ricordo con i capelli scompigliati e coperta da un vecchio e bucato maglione mentre era ai fornelli. Ho questa immagine di lei mentre cucina che non se ne andrà mai. È stato il giorno in cui era svenuta tra le mie braccia. Il giorno in cui si manifestò il primo sintomo.
Non chiedetemi che malattia avesse. Non ricordo il nome so solo che ora è paralizzata e lei è il solo motivo per cui non me ne vado da questo schifo.
Ma continuiamo con la storia.
L’odore di disinfettante dell’ospedale mi inondava le narici per l’ennesima volta. Ormai i medici e le infermiere mi conoscevano. Ero stata solo un mese prima ad aspettare che mio padre sconfiggesse il cancro. Ricordo perfettamente i loro occhi che mi guardavano camminare per il corridoio. Erano occhi ricolmi di compassione. A volte le infermiere mi accarezzavano le spalle come per darmi forza. Illuse. Nessun tocco può darti forza quando sai per certo che per te è la fine.
Potrei aprire un bel discorso sull’illusione. Ma forse è meglio evitare perché mi addentrerei in discorsi troppo complicati per la mia persona che si è fermata solo alla licenza media. Ma ci tengo a dire che per quanto l’illusione e le menzogne siano dolci e per quanto avrei voluto bearmi di esse mi era toccata la cruda, dolorosa e reale realtà.
A volte non ci chiediamo quante persone vivono seriamente la realtà. Posso assicurarvi che sono veramente poche. Il più si trovano in un limbo tra menzogna e fantasia dove possono restare sereni nei loro letti senza aver paura dell’uomo nero. A me non è stato dato questo privilegio.
 
<< Mamma >> Bonficchiai mentre le sfioravo la mano ricoperta dalla flebo. Anche se i dottori avevano affermato che non era nulla di grave ma solo stanchezza sapevo che non era così. Lo leggevo negli occhi verdi di mia madre. Erano opachi, troppo opachi come un vetro non lavato da anni. O per meglio dire come la realtà per i più.
Quel giorno cenai da sola. In casa mia. Mi preparai un panino veloce dopo aver fatto il bagno. Ricordo ancora quel momento. Ero ricoperta dal calore dell’acqua e la mia testa distratta dal profumo dolce degli oli. Ricordo che avrei voluto che quella vasca fosse il mare per poi sprofondare per sempre e ricongiungermi a mio padre. Avrei voluto addormentarmi e morire scivolando in quel confortevole calore ma poi vedevo il viso di mia madre in quella stanza d’ospedale e i pensieri morivano sul nascere mentre i singhiozzi spingevano le mie labbra a dischiudersi.
Quando mi alzai mi guardai allo specchio, completamente nuda a guardare quel corpo da bambina che non voleva cambiare. Mi osservavo il seno, o meglio osservavo le due piccole curve. Il mio corpo era quasi privo di peli se non per un piccolo e quasi invisibile spruzzo sulle gambe.
Ma questo è stato solo l’inizio di una grande decaduta. La vera storia inizia ora.
 
<< Giulia >> Mi chiamò mia zia. Sì, mi chiamo Giulia. Un nome comune come comune è quello che ho subito e che troppo spesso è taciuto.
A volte rimpiango di essere scesa dalle scale quel giorno e di non aver finto di dormire.
Appena scesi le scale mi ritrovai davanti l’uomo che mi avrebbe rovinato la vita. Un catechista di nome Giacomo che all’epoca aveva trent’anni.
Potrei descrivere la scena nei minimi dettagli. I miei passi che scendevano le scale velocemente. Il maglione nero che mi faceva da vestina/pigiama. I capelli annodati in un groviglio di nodi.
Il suo viso che sembrò illuminarsi alla mia vista. I suoi vestiti puliti, simili a quelli che mio padre metteva per recarsi in ufficio.
<< Giulia ho pensato di mandarti a catechismo se a te non  dispiace >> Mi disse dolcemente zia Rosa mentre rimanevo ferma a osservare con i miei occhi grigi. Zia Rosa è una di quelle persone che pensa che la fede possa salvarti da tutto. Un cristiana dop potremmo dire con tanto di crocifisso per ogni sala e rosario a mo’ di ciondolo. La sua figura grassottella e impacciata mi aveva sempre divertito.
Annuii. Non so perché lo feci ma lo sguardo di Giacomo mi aveva ammaliata. Era come ritrovare mio padre di nuovo lì, davanti a me pronto ad aiutarmi.
<< Ciao Giulia >> Mi salutò con la mano ed io ricambiai il saluto alzando la mia manina pallida.
A volte i detti sbagliano ma per questa volta il detto: Non giudicare un libro dalla copertina. Era perfettamente azzeccato. Perché Giacomo sembrava splendente, un angelo della comunità ma le pagine che quella perfetta e impeccabile copertina conteneva erano marce e rovinate. 
  
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