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Autore: Helter Skelter    13/08/2012    3 recensioni
Liverpool, 1959. Diciannove anni, tanti sogni e una chitarra in spalla.
Un giovane John Lennon si prepara ad affrontare la vita, fra amicizie, amori e rock n' roll. Insieme a lui c'è Abbey, l'amica di sempre, che resterà al suo fianco fino alla fine. Una storia d'altri tempi, narrata in prima persona da colei che ha condiviso tutta una vita con l'uomo dietro alla leggenda.
{ Trattenni il fiato involontariamente, le labbra serrate, strette, immobili. Seguivo la scena con occhi che non sembravano i miei, come osservassi il tutto da una differente prospettiva. John mi sorrise rassicurante nella timida penombra della camera. Era arrivato ormai a pochissimi millimetri da me. Riuscivo a sentirne l’odore, mentre le sue dita mi sfioravano impercettibilmente il labbro superiore. Tabacco, soprattutto, misto a quello della caramella al limone. Stavo scoppiando; schiusi la bocca per prendere una grossa boccata d’ossigeno, ma il respiro si bloccò.
Arrivò prima il gusto agrodolce della gelatina, il lento sfrigolio dello zucchero sulla lingua, e poi il brivido lungo la schiena. Una lieve scossa mi fece contrarre il petto. Mi ci volle qualche istante per metabolizzare. John mi aveva appena imboccata }
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: George Harrison, John Lennon , Paul McCartney , Ringo Starr , Stuart Sutcliffe
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Avviso: la storia è interamente frutto della mia fantasia malata e, di conseguenza, i personaggi non mi appartengono in alcun modo. 

Breve angolino autrice:
 due paroline prima di iniziare :) Ringrazio di cuore tutti quelli che - spero - vorranno seguirmi, recensirmi e supportarmi. 
Sono alla mia prima fanfiction e sono senza pretese; chiunque abbia consigli, critiche o quant'altro è ben accetto. Mi scuso in anticipo se in futuro potranno esserci incongruenze con le date o avvenimenti vari ma, a favor di narrazione, mi concederò di prendere qualche libertà. Non me ne vogliate :)
Vi lascio alla lettura, fatemi sapere. Tutto il mio più sincero affetto, Giulia.

 

STORIA IN FASE DI MODIFICA E CORREZIONE.

CAPITOLO REVISIONATO L'11 DICEMBRE 2012.

 
 

 

La storia mai raccontata di John Lennon 
di Helter Skelter.


 

 

 

*


1. In my life

"But of all these friends and lovers
there is no one compares with you. 
And these memories lose their meaning 
when I think of love as something new."


 


13 Agosto 2012  Londra



Un alito freddo. Mi rigiro fra le coperte, strofino le mani l’una contro l’altra in cerca di un po’ di calore e schiaccio ulteriormente una guancia contro il cuscino ruvido. Questa mattina mi sono svegliata prima del solito, decisamente molto prima della sveglia. Ieri sera, fra le mille cose, ho dimenticato di chiudere i vetri. La camera è gelida, il mio fiato è gelido, persino i miei piedi sotto il piumone lo sono.
 
Ma dove avrò la testa?
 
Il freddo vento inglese entra nella stanza e si trascina pigro insieme al blu dell’alba, fa svolazzare ed ondeggiare le tendine bianche a suo piacimento. Solitamente, a quest’ora del giorno, per le strade londinesi ci sono ancora leggeri residui della nebbia che si forma durante la notte, ma ora sta cominciando a cadere una pioggerella sottile, fitta, che – ne sono sicura – continuerà per tutta la giornata. Mi stiracchio appena ma l’indolenzimento rimane, dentro le ossa e nei muscoli. Ormai è inutile rimanersene a letto, non riprenderei mai sonno. E poi mi fa anche male la schiena. Sbuffo, mi alzo e avvolgo la vestaglia attorno le spalle.  
 
Nella penombra grigia della casa, mi dirigo in cucina per preparare una tazza di tè; una vecchia abitudine mai persa. Quando alzo le persiane per far entrare la luce, il flebile sole mattutino colpisce il mio riflesso sul vetro della finestra e, se non fosse per gli occhi, probabilmente non mi riconoscerei. Il mio viso è scavato, stanco, e tante piccole grinze mi fanno da cornice; agli angoli della bocca, al centro della fronte, sotto le sopracciglia scure. Distolgo lo sguardo, trattenendo un sospiro. Sembra che tutti i miei anni mi siano crollati addosso, la cifra della mia esistenza è ben lontana dalla leggerezza, ormai. Intingo lentamente le foglie di Earl Grey nell’acqua bollente della teiera. Il suo dolce aroma si diffonde per tutta la stanza, la riscalda e mi avvolge.
 
«Nonna?» mi chiama una vocina alle mie spalle, ancora impastata di sonno. Mi giro e vedo una figura minuta stropicciarsi gli occhi con il dorso della mano. La piccola Lucy ha i capelli ramati tutti scompigliati e il suo adorato pigiamino viola è pieno di pieghe. Mi stupisce ogni volta, la piccolina. Il suo sguardo furbo, vispo, intelligente; è esattamente come quello…
 
«Tesoro, che ci fai in piedi? Torna a dormire, è ancora presto».
 
«Jude occupa tutto il letto». La guardo lamentarsi, con aria complice. I due non la smettono mai di stuzzicare l’altro, nemmeno mentre dormono.
 
Va bene, ho capito…Dal pensile sopra il fornello, afferro al volo due grandi tazze in ceramica ed una scatolina di alluminio gialla che nascondo furtivamente dietro la schiena, lanciando alla piccola Lucy un occhiolino. Le tendo una mano, sorridente. Lei si avvicina e arriccia il suo piccolo nasino mentre la sistemo sulle mie ginocchia. Le ho comprato i biscotti al burro, quelli che le piacciono tanto, quelli che le illuminano il viso quando li mangia.
 
Abitando lontani non abbiamo la possibilità di vederci spesso durante l’anno. Così, ogni estate, mia figlia Julia porta i miei due nipotini a stare da me per qualche giorno. A detta sua mi fa male stare troppo da sola, ma a me non dispiace. Devo ammettere però che quando sono in compagnia dei due piccoli la casa si anima, prende calore.
Lucy raccoglie minuziosamente le briciole di biscotti che sono cadute oltre la sua tazza di tè, radunandole una ad una con il suo ditino. Sembra assorta, concentrata nel suo lavoro.
 
«Ti manca» chiede improvvisamente «il nonno?»
 
La sua domanda mi lascia di stucco, senza replica. Come mi avesse letto nel pensiero, come sapesse esattamente che è dalla sera precedente che non riesco a pensare ad altro.
 
«Certo che mi manca. Ma lui è sempre qui con me». Mi porto una sua manina sul cuore, ad indicarle dove lo sento più vicino. Sarebbe stato un nonno fantastico, mi ripeto spesso.
 
 
«Come vi siete conosciuti?»
 
Guardo Lucy, perplessa. La guardo mentre beve il suo tè, e rivedo in lei molto di lui. Come entrambi piegano la bocca, o come alzano le sopracciglia quando ottengono finalmente ciò che vogliono. Sì, sarebbe stato un nonno fantastico.
 
«Oh, tesoro è una storia così lunga».
 
Per tutta risposta, la piccola si sistema comoda sulla mie gambe, rivolta verso di me, in attesa che cominci il mio racconto. Si pulisce il mento da una piccola goccia di tè e mi rivolge uno sguardo radioso, pieno di speranza. Le lascio una lieve carezza sui i capelli e mi sfugge un sorriso.
 
«Non sono più giovane come un tempo. Temo che anche la mia memoria ne risenta».
 
Lucy si scurisce in volto, ma non abbassa lo sguardo dal mio. Le do un tenero bacio sulla guancia, promettendole che un giorno le avrei raccontato tutta la storia. Sorrido, la stringo forte fra braccia e lei fa altrettanto, con affetto.  
Sbadiglia, mormora un «va bene, nonna» e si lascia riaccompagnare tranquillamente a letto. Le piace quando le rimbocco le coperte, dice che nessuno lo fa meglio di me. «Neanche papà».
 
Ritorno in cucina, felice, dove, pervasa dall’odore di vaniglia, salgono alla mente vecchi ricordi. Non posso più impedirmelo. Dalla strada i suoni della città arrivano ovattati, trattenuti dalla spessa coltre di nubi nel cielo.
 
In questa casa addormentata, con una punta di nostalgia, ammetto sospirando di non essere stata completamente sincera con la mia piccola Lucy; mi basta solamente chiudere gli occhi per rivivere tutte le emozioni della mia gioventù, tutti i colori, i suoni, le sensazioni. Riesco a vedere distintamente loro quattro, li vedo tutti davanti a me come se non fosse passato un solo giorno, come se il tempo si fosse fermato e i nostri volti sorridenti fossero rimasti intrappolati per tutti questi anni in attesa che qualcuno raccontasse la nostra storia.

 

*

 
 

3 Luglio 1949  Liverpool


Erano da poco passate le due del pomeriggio, non c’era nessuno per le strade calde di Liverpool. Nell’aria solo silenzio e odore di erba appena tagliata. Ero seduta sul marciapiede di fronte casa, ginocchia al petto. Sentivo il calore dell’asfalto riscaldare i palmi delle mie mani e le lacrime rigarmi il volto. Quella mattina avevo indossato il mio vestitino a fiori preferito, raccolto i capelli in una coda alta e l’avevo fermata poi in un fiocco, con un nastrino azzurro. Ero scesa così, sorridente, per farmi vedere dalla mamma, per vedere il suo volto illuminarsi. Ma avevo trovato solo i miei genitori intenti nella solita discussione. Non capivo bene i loro litigi, non li capivo proprio. Perché agli occhi di una bambina come me non c’era nulla che non potesse essere risolto con un abbraccio, o con un sorriso.
 
Avevano continuato così, con risentimento e rancore, senza curarsi dei miei occhi sempre più lucidi, o del mio cuore sempre più triste.
 
Subito dopo pranzo mi ero allontanata per non ascoltarli più, ma le loro urla continuavano imperterrite a rimbombare nelle mie orecchie. Stavo pensando di scappare, proseguire per le strade di Liverpool fino ad arrivare in un posto sicuro, sereno, silenzioso. Perché agli occhi di una bambina come me non c’era nulla di impossibile.
 
Un rumore lontano, costante. Le ruote di una bicicletta stridettero in strada, sempre più vicine. Il mulinare frenetico dei pedali si faceva man mano più debole. Velocemente, mi asciugai le lacrime con la manica della mia giacchetta rosa, sgualcendola. Inutile; le mie ciglia umide parlavano al mio posto. In quell’istante, un bambino dai capelli biondo scuro e con dei bellissimi occhi color nocciola fermò la sua bicicletta davanti a me, guardandomi sorridente ma cauto.
 
«Va… tutto bene?»
 
Sussultai, ma non mi azzardai a parlare.
 
Indossava una camicia bianca a maniche corte e un paio di pantaloncini marroni da marinaretto. Il cardigan era stropicciato, i calzini gli ricadevano ad altezze diverse sui polpacci. Era un vero disastro; disordinato e caotico.
Abbassai subito lo sguardo. Presi a fissarmi le scarpe nere lucide, adesso un po’ graffiate. Annuii semplicemente, imbarazzata; non volevo che nessuno mi vedesse così, ero a disagio.
Per qualche secondo anche lui tacque, ma capivo che mi stava studiando. Spostava il peso da una gamba all’altra in un goffo tentativo di rimanere in equilibrio. Lo sentii prendere una gran boccata d’ossigeno, come stesse per dire qualcosa. Improvvisamente, si rese conto del gran vociare che risuonava nel silenzio. Alzai timidamente la testa, di pochissimo. Il bambino diede una rapida occhiata alla casa alla mie spalle e, vedendo i miei occhi arrossati e gonfi, capì.
           
«Anche i miei litigavano, sai?»
 
Perché faceva così? Perché cercava di consolarmi? Comunque, non avevo alcuna intenzione di parlargli.
 
«Adesso non vivo più con loro, però»proseguì imperterrito con una punta di malinconia nella voce. «Sto con zia Mimi e zio George. Abitiamo nella casa all’angolo, laggiù». Con lo sguardo, scavalcai, andai oltre il suo dito indice, puntato su una casetta grigia proprio in fondo alla strada. Mi era sempre piaciuta quella casa. Il suo tetto spiovente, il giardino ben curato. Cominciai a tormentarmi le unghie, una con l’altra, spezzandole agli angoli. Il mio silenzio vacillava.
 
Niente, non lo degnavo di una risposta. Forse ora se ne andrà. 
 
«Come ti chiami?» domandò il ragazzino, scandendo attentamente ogni parola, in un ultimo tentativo. Si avvicinò piano, intralciato ancora dalla bicicletta; abbassò la testa su una spalla per cercare i miei occhi. I suoi erano buoni, furbi. La sua espressione compiaciuta mi fece pentire del mio comportamento. Piegai le labbra in una smorfia che poteva ricordare l’ombra di un sorriso. Timorosa, titubante, impacciata.
 
«Abbey» sussurrai, sperando di non dover ripetere. Lui alzò le sopracciglia, evidentemente soddisfatto.
 
«Io sono John. Quanti anni hai?»
 
Tirai su con il naso e mi schiarii la gola. John.
 
«Ne ho sette».
 
«Sette? Sei piccola, allora» cinguettò, e sul suo viso apparve un’aria beffarda. Quell’atteggiamento mi infastidì molto, chi si credeva di essere? Che fine aveva fatto il bambino tanto gentile? Le mie guance diventarono immediatamente rosse, imbarazzate ed indignate. Ti prenderei a calci… John!
 
«Perché tu quanti ne hai, scusa?»
 
«Nove» affermò fiero, gonfiando il petto e sistemandosi in maniera più comoda sul sellino della sua bici – come non aspettasse altro che quella domanda.
 
Mi alzai di scatto per replicare, senza più paura di doverlo guardare negli occhi, ma notai che il mio vestitino, da bianco, era diventato dello stesso colore del marciapiede. Macchiato, stropicciato, rovinato. Cercai inutilmente di levare via lo sporco con la mano, passandola più e più volte sulle pieghe della gonna.
 
«Io… stavo andando giù al porto con il mio amico Pete, vuoi venire con me?»
 
Alzai la testa verso di lui, bloccandomi. Mi stava invitando a passare il pomeriggio con lui, mi stava davvero invitando? Allora non gli importava se ero piccola. Non gli importava e non si vergognava di farsi vedere con me. Per la prima volta, quel ragazzino – e quei suoi occhi – mi apparve come il mio posto sicuro, sereno, tranquillo da raggiungere. La mia via di fuga, lontano dalle urla e dalla tristezza. Per la prima volta.
 
«Cosa dirà mamma?» chiesi, più a me stessa che a lui.
 
«Torneremo prima di sera, promesso».
 
Le sue parole scaldarono il mio cuore di bambina. Quel John mi conosceva appena, eppure mi stava offrendo quello che avevo sempre desiderato; risate e spensieratezza. Il suo sorriso me lo stava promettendo.
 
«Io… io però non ho una bici».
 
Con le mani ben salde sul suo manubrio, John si guardò un po’ intorno come cercasse qualcosa. Poi si fermò, fissò i suoi occhi nei miei e si fece serio.
 
«Sali dietro, andiamo insieme».
 
 

*


 
1 Agosto 1958 – Liverpool


Come tante sere prima di quella, stavo rientrando a casa verso l’ora di cena dopo aver passato la giornata insieme a John e  i suoi amici. Da qualche tempo avevano formato un gruppo; i Quarrymen. Si divertivano, strimpellavano qualcosa e ridevano, tanto. Quei giorni bazzicavano a casa del nuovo chitarrista, George; i genitori erano contenti che il figlio suonasse e concedevano volentieri il salotto per le prove del gruppo. Era un ragazzo davvero dolce, avevamo la stessa età e condividevamo un sacco di interessi. Poi c’era Paul, il bel ragazzo dagli occhi verdi. Un po’ pieno di sé, ma era piacevole passare il tempo insieme a lui. Quando non ero impegnata con altro, ero ben felice di stare con i ragazzi. A volte andavamo al Cavern, il locale in centro. Sentivamo i gruppi che suonavano, bevevamo, ballavamo e ridevamo, tanto.
John, però, non era lo stesso ultimamente. Il suo sguardo si era spento, lui si era spento. Era ancora parecchio scosso per quello che era successo alla mamma, Julia, solo pochi giorni prima. Così come lui, avevo appena imparato a conoscerla e, anche se non capivo le motivazioni che l’avevano spinta a lasciare il figlio molti anni prima, ammiravo la donna che era diventata. Ora che non c’era più, avevo il dovere di stare  il più vicino possibile a John, di non farlo sentire solo. Dopotutto, lui era il mio posto sicuro, sereno, tranquillo. Sarei stata lo stesso per lui, non lo avrei abbandonato.
Quella sera l’aria era ferma, umida, come lo è sempre dopo un bell’acquazzone estivo. Trascinai i piedi sul vialetto di fronte l’entrata di casa, calpestando e giocando col tappeto di foglie morte incollate all’asfalto. Capii subito che c’era qualcosa di diverso; tutto era stranamente silenzioso, sereno e tranquillo. Il rumore della porta rimbombò nel salotto, sbattendo sulle pareti e tornando indietro fino a me.
 
Nessuno, niente radio accesa, niente voci. Nessuno.
 
Mi affrettai al piano superiore, senza curarmi di star stampando passi rumorosi e pesanti sui scalini in legno. Arrivai in camera, affannata e con un brutto presentimento sulle spalle. Trovai i miei vestiti sparsi, buttati disordinatamente sul materasso, i miei pochi libri impilati ai piedi del letto e una grande valigia vecchia e consumata aperta sulla scrivania. Maglione dopo maglione, gonna dopo gonna, mia madre sistemava con mano tremante tutta la mia vita.
 
Aveva gli occhi arrossati dal pianto, gli zigomi e le labbra gonfi. Louise, mia madre, era una donna estremamente emotiva ed impulsiva; alcune volte – pur avendo solamente sedici anni – mi sentivo io l’adulta fra le due.
Avvertita dal rumore dei miei passi, mamma alzò di scatto la testa, spaesata. Potrei giurare di averla vista sospirare di sollievo nel vedermi. Asciugò le lacrime in fretta dalle guance con il dorso della mano e sorrise in modo tirato, senza riuscire a nascondere quanto sconvolta fosse in realtà.
 
«Preparati, ce ne andiamo via».
 
Poche parole, dirette, chiare. Il silenzio bloccò l’aria, la comprimeva, mi soffocava. Mi mancava l’ossigeno, consumato tutto da quella tranquillità innaturale. Speravo davvero fosse soltanto una delle sue crisi passeggiere, di una delle solite discussioni con papà, speravo si trattasse di una di quelle decisioni avventate che se ne vanno tanto presto quanto arrivavano. Tentai di convincerla in tutti i modi, supplicandola, cercando di farla ragionare, ma lei aveva già egoisticamente deciso per entrambe.
 
«Staremo meglio a Manchester» disse, usando un tono che, invece, mi convinse del contrario.
 
«E papà?» Lo sguardo di mia madre si rabbuiò; vidi la sua mascella serrarsi per qualche secondo, stretta, immobile, senza via di scampo.
 
«La vita di tuo padre ora non mi riguarda più. Basta discutere, farai come ti ho detto» urlò, come a marcare la sua posizione. Lei aveva deciso, a me stava adattarmi in silenzio.
 
L’aria era diventata irrespirabile, avevo la nausea. Dovevo scappare, in un luogo sereno, silenzioso e tranquillo. Un luogo sicuro, il mio luogo sicuro. Assestai bene i piedi a terra ed uscii in fretta dalla camera, cercando di sbattere la porta il più violentemente possibile. Mia madre non mi avrebbe mai seguita; avrebbe aspettato e, non appena fossi tornata, mi avrebbe trascinata con lei.
 
In pochi secondi mi ritrovai in strada, a correre in fondo alla via, verso casa di John.   
Il piccolo cancello era aperto, fortunatamente. Attraversai il giardino ben curato di casa Smith, senza fiato. Bussai più volte, forse troppo energicamente. Sperai solo che ad aprire non fosse Mimi.  
Quando – finalmente – la porta si spalancò, davanti a me si stagliò una figura nella penombra, alta, atletica e con i capelli scompigliati. Non lasciai il tempo neanche per un saluto. Mi lanciai istintivamente verso John e lo abbracciai, allacciando le braccia attorno alla sua vita; tenevo il viso nascosto nel suo petto caldo. Dopo qualche istante di perplessità, anche le sue braccia mi attirarono a sé, stretta. Inspirai profondamente il suo profumo, intriso nella leggera maglia che indossava. Sapeva di tabacco e di dopobarba.
Non so per quanto tempo restammo così, abbracciati in silenzio sull’uscio della porta, ma fu abbastanza per far asciugare tutte le mie lacrime.
Noi eravamo così; non avevamo bisogno di molte parole. Ma quella sera avrei dovuto parlargli, spiegargli, abbandonarlo.
 
«Andiamo in camera tua» soffiai, premendo la bocca sulla sua spalla.
 
John si scostò leggermente per guardarmi negli occhi, come volesse capire cosa mi stesse frullando per la testa. Ma non disse nulla. Con i volti a pochi centimetri l’uno dall’altro, annuì semplicemente.  
La sua stanza era davvero piccolissima, c’erano un letto, un armadio ed una scrivania, incastrati in modo tale da occupare meno spazio possibile. Il pavimento era perennemente disseminato di vestiti e fogli – disegni, scarabocchi o parole – le lenzuola sempre arruffate, le coperte ammassate ai piedi del materasso. Mimi aveva rinunciato da un bel pezzo ad insegnare a John cosa significasse la parola “ordine”. Tutto odorava di tempere e di sigarette, come i tanti pacchetti vuoti abbandonati qua e là. Mi guidò, mi fece sedere sul  letto, prendendo il posto accanto al mio e cingendomi la vita con un braccio.
 
Con le altre persone John si comportava sempre da coglione, una cosa che non era – non del tutto o sempre, almeno. Ma c’erano quelle rare volte in cui si mostrava senza la sua maschera, senza la patina da duro. Io me ne accorgevo. Capitava quasi sempre con me; forse perché continuava a vedermi come la bambina con il vestitino sporco e gli occhi gonfi di pianto.
 
Piano la sua mano scivolò sulla mia, accarezzandola delicatamente. Mi sforzai di guardarlo negli occhi, ma quella scintilla di dubbio che vi scorsi mi fece dimenticare il breve discorso che mi ero preparata. Per mia fortuna, fu lui a parlare per primo.
 
«Ti deciderai a dirmi cosa hai o devo stare qui tutta la notte a sentire te che piagnucoli?»
 
Non lo disse con cattiveria, solo… preoccupazione.
 
«John, ti voglio bene» fu tutto quello che uscì dalla mia bocca. Non una parola in più.
 
Capii che stava sorridendo, potevo quasi sentire le sue labbra piegarsi divertite. La presa intorno alla mia mano si fece più stretta, come mi incitasse a proseguire. Mi rilassai un pochino. A contatto con il suo corpo caldo mi sentivo al sicuro. Ero certa che avrebbe capito, che neanche lui mi avrebbe abbandonata nel momento del bisogno. Ma di cosa avevo paura? John non avrebbe mai fatto nulla per ferirmi. Presi coraggio, un grande respiro e mi lasciai andare.
 
«I miei hanno litigato».
 
«Sai che novità…» si fece sfuggire una risata amara, eco della mia.
 
«Mamma ha tirato fuori la valigia. Stava piegando i vestiti quando sono tornata».
 
Silenzio. Assordante. Sentii gli occhi pizzicare di nuovo, le lacrime salivano e spingevano. Trattenni il fiato per non piangere, mi morsi un labbro in attesa che lui facesse qualcosa, che dicesse qualcosa.
 
«Vuole andarsene?» Il suo tono era troppo piatto, troppo tranquillo perché avesse capito veramente. Percepivo però la tensione; una punta di riluttanza. «Con chi rimarrai?»
 
Si scostò, girando il corpo completamente verso di me. No, aveva decisamente frainteso. Per qualche strana ragione, mi fece sentire anche peggio; come se ammettendo ad alta voce la mia partenza questa si trasformasse in qualcosa di più reale, vero, sbagliato. Sospirai con un enorme peso sul cuore.
 
«John, non mi lascia qui» sussurrai con un filo di voce, a mala pena udibile. Ma noi eravamo soli, in una stanza silenziosa, a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altra. Eppure mai come in quel momento lo sentii tanto distante.
 
Il vorticare frenetico del suo cervello cessò. Realizzò, si rese conto della situazione, di cosa volessero dire le mie parole. Si alzò bruscamente, sbattendo le mani sul materasso. Il letto tremò.
 
«Te ne vai?» ringhiò, con voce bassa, arrabbiata e roca. Nel suo sguardo si distingueva un’unica scintilla; fiamma, lampo, collera. Il viso era ridotto ad una smorfia indefinibile, sfigurato, incupito dalle grandi sopracciglia corrucciate. Aveva un’ombra scura sospesa sul volto.
 
La sua reazione mi spaventò. Erano rare le volte in cui lo avevo visto così, anche se ero più che consapevole di quel suo lato. Quello era il John che temevo di più, quello che non rispondeva delle sue azioni; solo dell’istinto.
 
«Non… non vorrei» tentai di giustificarmi, flebilmente. Le parole si incastrarono sulla lingua, forse balbettai, incapace di articolare una vera frase.
 
«E tu diglielo! Mandala a fanculo, fai qualcosa!»
 
Prese a gesticolare vorticosamente. Andava su e giù per la stanza, incurante di tutte le cose che capitavano sotto i suoi piedi. Per qualche istante sentii solamente il rumore della carta stropicciata sotto il suo peso, attutito dai spessi calzini di spugna grigi che indossava.
 
«E’ mia madre, John».  
 
«Quindi rinunci così? Senza neanche opporti!»
 
La conversazione non stava andando come avrebbe dovuto, come mi sarei aspettata. Lui doveva stare dalla mia parte, non abbandonarmi. Doveva essere il mio posto sicuro, sereno e silenzioso. 
Potevo capire il suo risentimento; non era di certo il momento migliore per allontanarmi. Ma di certo non mi sarei mai mossa dal suo fianco volontariamente, e questo lui lo sapeva bene.
 
«Mi dispiace John, vorrei starti vicino ora ma…»
 
«Ti stai comportando da stronza» mi interruppe.
 
Le sue parole mi colpirono come uno schiaffo, sentii distintamente lo stoc sordo del suo palmo contro la mia anima. Una mano immaginaria si avviluppò salda attorno alla bocca del mio stomaco, stritolandolo.
 
Avrei voluto urlare, urlargli in faccia tutto il mio sgomento e la mia collera. Avrei voluto urlargli “non dipende da me”, ma avevo paura che il mio tono potesse tradire tutta la mia fragilità. Nulla di quello che avrei potuto dire sarebbe mai stato abbastanza.
 
Serrai la mascella, mi avvicinai furente e, con tutta l’energia che avevo in corpo, gli diedi una spinta sul petto, caricando la forza sui gomiti. Nulla. Lui si mosse solo di pochi centimetri, ghignando soddisfatto. La mia impotenza nei suoi confronti non fece che aumentare la mia rabbia; la sua espressione mi spedì il sangue direttamente al cervello.  
 
«Vattene con tua madre, vai, e impara a scappare di fronte ai problemi». Non mi aveva mai tratta così prima, mi stava ferendo. E non poco. Sprezzante, freddo, John. Non mi avrebbe fatta piangere, non glielo avrei permesso.
 
«Fanculo, Lennon. Non voglio più vederti».  
 
Diedi un’ultima, rapida occhiata verso di lui. Se me ne fossi andata in quel momento lo avrei perso – lo sapevo bene. Mi aveva trattata di merda – sapevo bene anche quello. Avrei saputo rinunciare a lui? La risposta era tanto scontata quanto dolorosa; no, mai.
 
Col petto dolorosamente in fiamme, mi voltai.
 
«Abbey!» Mi abbaiò dietro, in uno strascico di richiesta. Un comando.
 
Scesi le scale di corsa, inciampando goffamente sull’ultimo grandino. Mi augurai – che Dio me la mandi buona! – che Mimi non fosse in salotto e, con la testa bassa, uscii il più velocemente possibile, il più lontano possibile. La vista era appannata, dalla foga e dalle lacrime. Mi accorsi di star serrando i pugni solamente quando le unghie mi graffiarono la morbida pelle dei palmi. Un piede dopo l’altro, combattei contro il pianto.
Non appena fui fuori dal giardino di casa Smith, un po’ per sbadataggine, un po’ per il momento,  urtai contro qualcuno che proprio non avevo visto arrivare. Mi riparai dallo scontro, portando le mani in alto, aperte sul petto dello sconosciuto. Alzando lo sguardo mi aspettavo di trovare una signora austera in un completo pastello ma, al contrario, di fronte a me si pararono due occhi verdi intensissimi. C’era odore di sigaretta.
 
Paul.
 
Era leggermente più alto di John e, contrariamente a lui, sempre sorridente. Indossava un maglioncino chiaro, pulito ed impeccabile. A tracolla la custodia della sua chitarra.
 
«Oh, Abbey! Guarda dove vai» mi riprese tranquillo, facendomi l’occhiolino.
 
Non risposi con la sua stessa affabilità, però. Il mio unico pensiero era di mettere quanta più distanza possibile fra me e John. Ero contenta di vedere Paul, quello sì, ma non ero proprio al settimo cielo di dover dare spiegazioni anche a lui. Avrei potuto far finta di nulla? Cercai di controllare il mio tono, per farlo sembrare il più naturale possibile. Mi schiarii la gola con un colpetto di tosse e tentai di sorridere.
 
«Paul, cosa fai?» Che idiota…
 
Fortunatamente, lui sembrò non notare il fatto che la risposta fosse palesemente ovvia – stupida, anche –, ed indicò la casa alle mie spalle.
 
«La zia di John non c’è; ne approfittiamo per provare un po’. Sai, credo che Mimi mi odi». La sua voce si affievolì, diventando quasi un sussurro sull’ultima parola, come stesse confidando un segreto.
 
«Lei odia tutti, non prenderla sul personale».
 
«Già» assentì, alzando le sopracciglia. «Te ne stai andando?»
 
A quella domanda il mio cuore prese a martellare furioso. Anche le mie lacrime sembrarono ricordarsi che fino a poco prima stavano prepotentemente smaniando per uscire. Oddio, e lui che ne sa?! Calma, calmati Abbey. Presi un grosso respiro. No, a quanto pare non avrei potuto far finta di nulla.
 
«Sì, io… Paul, senti…»
 
«Mh?» mugugnò con un espressione teneramente ingenua dipinta in volto.
 
«Io e mamma andiamo a Manchester… Domani».
 
«Ah, fate una vacanza?»
 
Ingoiai a fatica il groppo che sentivo in fondo alla lingua. Inutile. Abbassai gli occhi in un gesto quasi colpevole.
 
«N-non esattamente» fu tutto quello che riuscii a farfugliare, trattenendo a fatica i singhiozzi.
 
Silenzio. Le mie orecchie stavano quasi scoppiando. Aveva capito? Non ce l’avrei fatta a dirlo apertamente.
 
«Cosa ne dice lui?» Si fece serio, scuro in volto.
 
Non risposi, ma fu come se lo avessi fatto, perché improvvisamente Paul mi abbracciò. Non era un abbraccio come quelli di John – non ci si avvicinava neanche – ma era tenero e percepivo una punta di imbarazzo.
 
«Mi dispiace, Abbey» soffiò, allentando la presa dalla mia schiena.
 
«Mi mancherete tanto, tutti quanti».
 
La mia mente era stata completamente svuotata. Non sapevo se sarei tornata, se li avrei rivisti – se lo avrei mai rivisto. E quella era una consapevolezza che non ero disposta ad accettare. Bruciava. Una piccola lacrima scivolò sul mio volto, ed immediatamente mi pentii di essermi fatta prendere dall’emotività. Non volevo che Paul vedesse la parte più fragile di me, non volevo che nessuno la vedesse.
 
«Ci rivedremo presto» mi rincuorò Paul. Avevo, per caso, parlato ad alta voce? No, era lui ad essere così meravigliosamente empatico. «E potremmo scambiarci delle lettere. Sì, certo! Ti scriverò, ti scriverà George e…» interruppi il flusso incontrollabile delle sue parole prima che potesse finire la frase. Sapevo cosa stava per dire. Lo strinsi nuovamente a me.
 
«Sarebbe fantastico, ma per favore – per favore – John non lo deve venire a sapere» lo supplicai, con quel poco fiato rimastomi. Nella mia voce però si percepì distintamente una punta di amarezza e… delusione. Sentivo di non poter più fare affidamento sul mio istinto. Fino a quel momento avevo sempre creduto di conoscere bene John, il suo carattere enigmatico. Eppure mi ritrovai a non sapere più come agire.
 
“Ti stai comportando da stronza”
 
La sua voce mi rimbombava nel cervello, assillante, disarmante, gelida. Era meglio che John mi ritenesse sparita per sempre, nessun contatto, niente di niente; decisamente non potevo correre il rischio che anche loro due litigassero a causa mia.
 
Paul ebbe un attimo di incertezza, poi si aprì in un sorriso che avrebbe dovuto rassicurarmi. Stranamente mi agitò. Mi resi conto, forse per la prima volta, di quanto fosse veramente belloquel ragazzo. La curva delicata e liscia della sua mascella, le labbra carnose, quei suoi capelli scuri ordinati, pettinati, tirati all’indietro. Tutto in lui sembrava sprigionare dolcezza, possibile che non me ne fossi mai accorta? Le mie guance avvamparono e probabilmente lui se ne accorse, ma, se avesse detto qualcosa, ero pronta ad incolpare il pianto.
 
«Okay. Va bene, non ti preoccupare».
 
Gli diedi un ulteriore abbraccio, posando la mia testa proprio sotto il suo mento. Emanava un calore rincuorante, proprio quello di cui avevo bisogno in quel momento. Mi fece sentire meno…
 
«Non sarai sola». Tuffo al cuore. I suoi occhi me lo confermarono; no, non lo sarei stata. Mi strinsi attorno le sue spalle.
 
«Aspetto tue notizie, Abbey» mi disse, pizzicandomi lievemente una guancia in modo affettuoso.
 
«Salutami tanto George» mi alzai sulle punte per lasciargli un leggero bacio sulla guancia e, senza poi incrociare il suo sguardo, mi allontanai.
 
I miei piedi si strascicarono lenti lungo la strada, come fossero fatti di piombo. Il vento asciugava tutte le mie lacrime. Silenziose, prepotenti, deluse. Stavo andando incontro a qualcosa di sconosciuto e spaventoso. Pensai a come la mia vita sarebbe cambiata nel giro di pochi giorni, a cosa sarebbe rimasto lo stesso e a cosa, invece, avrei inevitabilmente perso.
Il sole era ormai quasi completamente sparito dietro l’orizzonte; proiettava strane ombre sull’asfalto, sulle case. Respirai a fondo, a pieni polmoni, e immediatamente venni invasa dal famigliare odore salmastro della città che mi stavo lasciando alle spalle e – insieme a lei – tutto quello che aveva sempre rappresentato per me. 

 
  
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