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Autore: AntheaMalec    16/08/2012    6 recensioni
Deglutire, respirare, modulare il tono di voce. Impermeabile. “Non sta passando nessuna fase, John. Non c’è nessun miglioramento, nessuna accettazione. Credo che il problema tocchi dei punti che…” “La smetta, sto bene.” Il sorriso di circostanza che affiorò sulle labbra del suo paziente, ancora volto di schiena con il capo fieramente alzato, gli dimostrò che la sua ipotesi poteva essere confermata sotto tutti i punti di vista. “Ha mai sentito parlare del disturbo dell' adattamento, John?”
[...]
Si perse un momento a fissarlo mentre l’altro restava immobile, come se potesse sgretolarsi in qualsiasi momento. Richiuse gli occhi, stringendo bene le palpebre e tornando a riaprili. Era ancora lì. Era ancora lì? Era confuso. Decisamente. John non aveva nessuna intenzione di parlare, se il suo cervello aveva voluto creare quello spettacolo per lui, non si sarebbe di certo tirato indietro. “John?” Fu quello, esattamente quella parola pronunciata da lui –era morto, l’aveva visto, era sicurissimo davvero davvero davvero– che fece crollare tutto.
Storia a lieto fine.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Foro d’uscita
 
Note: Della serie Sono-ancora-qui-purtroppo-per-voi, rieccomi! Ho sfornato un’altra fanfiction e, a quanto posso notare, non ho fatto un bel lavoro nel fare una corta-e-carina one-shot, ma è venuta così e ce la teniamo. Il titolo sarebbe “Exit wounds” che deriva dalla canzone come citazione all’inizio della storia. Significa, per l’appunto, foro d'uscita, ma siccome si parla di una sofferenza, potrebbe fare anche riferimento ad un dolore,
 visto che "wound" significa ferita. L’avvertimento angst spero non vi farà spaventare LOL E’ tutto okay, ragazzi! Non sono una persona cattiva (non ancora) e ho messo l’happy ending fluff che amo e adoro e tutte le cose arcobalenose di questo mondo. Detto questo, buona lettura a voi!
 
 
My hands are cold my body's numb 
I'm still in shock what have you done 
My head is poundin, my vision's blur 
Can anybody help me with these exit wounds? 
I don't know how much more love, this heart can lose 
And I'm dying, dying from these exit wounds 
where their leaving, the scars you're keeping?
A million pieces of me on the floor 
I'm damaged goods for all to see 
Now who would ever want to be with me? 
Yeah this is living but without the will 
I'm Blacken out I'm shutting down 
You've left a hole, you walked out 


 
 
 
 
 
 
“Ci sono cose che avrebbe voluto dire ma non ha detto?”
“Sì.”
“Le dica ora.”
“No, mi dispiace, non ci riesco.”
Ella lo continuava a fissare con quell’occhio che serviva nel suo mestiere. Osservava il comportamento del suo paziente e vedeva che dopo un mese dall’accaduto –scoperto tragicamente dai giornali locali– John Watson non aveva fatto alcun progresso in avanti. Gli occhi leggermente umidi ma impassibili, la postura rigida: una persona totalmente staccata dal mondo.
“Lei è un dottore, sa meglio di me qual è la sua situazione, ora come ora.”  
Il paziente fece una breve risata incolore, spostando lo sguardo fuori dalla finestra –pioveva, il tempo era l’unica cosa che aveva in comune con il mondo– per poi ritornare a fissare Ella. “Le cinque fasi di elaborazione del lutto, giusto? Negazione e rifiuto, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. Perfetto, non ho bisogno di altro.” John si alzò dalla poltrona con un impercettibile sospiro, andando dritto verso la porta. “Lo sa che non è questo, vero?” Si fermò lì in piedi, lo sguardo smarrito perso contro al muro asettico della stanza. “Come scusi?”  
Deglutire, respirare, modulare il tono di voce. Impermeabile. “Non sta passando nessuna fase, John. Non c’è nessun miglioramento, nessuna accettazione. Credo che il problema tocchi dei punti che…” “La smetta, sto bene.” Il sorriso di circostanza che affiorò sulle labbra del suo paziente, ancora volto di schiena con il capo fieramente alzato, gli dimostrò che la sua ipotesi poteva essere confermata sotto tutti i punti di vista. “Ha mai sentito parlare del disturbo dell’ adattamento, John?”
Improvviso irrigidimento della postura, pugni stretti, respiro trattenuto: combattuto. “Ne ho sentito parlare, certo.” “Si verifica tramite sintomi emozionali o comportamentali clinicamente significativi in risposta a uno o più fattori stressanti psicosociali identificabili. John, se potesse ritornare a sedersi…”
Si girò finalmente verso di lei, l’aria di un portatore di pace e tranquillità. Decisamente fuori dalla norma. “Il problema, Ella, è che non voglio e non posso essere curato, visto che non ho nulla che non va.” Si diresse con passo deciso verso la porta in legno dello studio, girandosi un’ultima volta nella direzione della terapista.
“Non sento niente e questo è meglio di qualunque altra cosa.”
Si chiuse rumorosamente la porta alle spalle, sparendo dalla sua vista. Ella si portò una mano sugli occhi, stropicciandoli stancamente. Fu l’ultima volta che John Watson entrò in quella stanza.
 
 
 
Strinse forte le palpebre, inspirò una grossa boccata d’aria e riaprì gli occhi. Niente. Lanciò lo spillo sul piccolo tavolo di legno, andando a mettere il dito ferito sotto l’acqua del rubinetto. Nessun dolore, nessun fastidio, l’apatia che creava una membrana tutto intorno al suo corpo. Finalmente invulnerabile –o forse solo troppo vulnerabile.
Si sentiva come se fosse una bomba ad orologeria sul punto di esplodere o forse era già esplosa e non se n’era nemmeno accorto.
Le tre e un quarto di pomeriggio e il nulla davanti a sé. Si era licenziato due settimane prima dalla clinica in cui lavorava, in realtà l’avevano licenziato loro, ma John non ci pensò più di tanto.
Hai bisogno di una pausa, hai bisogno di pensare, hai bisogno di superare la morte di Sherlock, hai bisogno di cambiare appartamento, hai bisogno di dimenticarlo, all’improvviso tutti quanti riuscivano a comprendere di lui più di quanto egli stesso sapesse realmente. John sapeva solamente che al secondo mese dal suo suicido, era arrivato a un bivio, l’eco di un dolore che non riusciva più a sopportare né nel corpo né nella mente. Tra la sofferenza e il nulla, John aveva scelto il nulla e ne era stato felice –almeno credeva.
La prima settimana in cui lui era morto, John aveva cercato di convincersi che andava tutto bene, che nulla era cambiato da quando doveva preoccuparsi più dell’altro che di se stesso. Si alzava dal letto e finchè durava l’effetto del sonno, era l’uomo di sempre. Ma via via che prendeva coscienza, con le ore che passavano inesorabili –nessun segno, nessuna traccia che potesse far riaccendergli la speranza– era come se un veleno filtrasse dentro di lui. A volte non ce la faceva nemmeno a scendere dal materasso, restava lì sotto un peso enorme mentre la gamba faceva così male da fargli scoppiare la testa. Si era sentito gravato dal senso di colpa, la mano di Dio che lo schiacciava dicendogli “Tu non c’eri quando lui aveva più bisogno di te”.
Percepiva come un grande foro d’apertura all’altezza del petto, un foro grande quanto un buco nero e che non accennava a richiudersi. Sentiva, sentiva tutto, fino a quando quel tutto era diventato troppo e allora aveva smesso di lottare. Non c’era più nessun dolore psicosomatico, nessun senso di colpa, nessuna persona a cui pensare –o per cui lottare. Semplicemente aveva smesso di fare tutto, fossilizzandosi, restando in quella quiete che sapeva tanto di resa.
Chiuse l’acqua, poggiando la testa sulla piastrella fredda del monolocale in cui si era rinchiuso in quei giorni. Tranquillo, silenzioso. Tedioso all’inverosimile.
Respirò profondamente e poi trattenne il fiato. Cercò di rimanere immobile il più a lungo possibile. Diventare piccolo e duro come un sasso. Piegare gli angoli e nasconderli sotto, dove nessuno poteva vederli. Faceva così dal giorno antecedente al decesso. Doveva indurirsi, doveva diventare indistruttibile. Smettere di guardare per davvero le persone negli occhi, smetterla di credere in qualcosa, qualunque cosa. Non voleva più cercare di rispettare le aspettative degli altri. Non voleva più essere niente, né soldato, né un blogger. Solo un anonimo cittadino londinese, qualcuno di cui si dimentica presto il nome.
Fuori pioveva? Non gli importava. Sarah sarebbe stata disposta a uscire con lui? Non gli importava nemmeno di quello. Sentiva solo lo strano impulso di provare qualcosa, qualunque cosa che gli ridasse la scarica di adrenalina che lo aveva accompagnato per tutta la vita.
Si era accorto di non riuscire più a provare nulla allo scadere del primo mesiversario dalla morte del suo compagno –non lo era più, no, lo sarebbe rimasto per sempre. Si stava preparando la cena quando aveva accidentalmente messo la mano sulla fiamma del fornello, bruciandosi lievemente il palmo.
Aveva pensato a una coincidenza perché nessuno era immune al dolore che provocava il fuoco, ma gli incidenti continuarono a ripetersi e piano piano tutto in John si assopiva, come in un letargo a tempo indeterminato. La sofferenza, la nostalgia, la rabbia, l’abbandono, le lacrime, i sorrisi genuini, tutto scomparì, facendo rimanere solo un banale involucro di ciò che era prima di conoscere lui.
Non gli piaceva pensarlo, non gli piaceva più nemmeno dargli un nome, era sempre lì, nella sua testa, ma in una zona protetta dove non poteva più fargli del male –doveva ancora decidere se fosse un bene o un male. Si alzò dalla sua postazione, prendendo in gran fretta il cappotto e uscendo di casa, l’aria che improvvisamente gli mancava nei polmoni.
Voleva adrenalina e la voleva in quel momento. A qualunque costo.
 
Noioso, noioso, noioso.
Quella stanza in cui era rinchiuso lo stava facendo impazzire. L’orologio che ticchettava insistentemente ogni secondo gli faceva schioccare la lingua, irritato, il vento fuori dalla finestra era un’incredibile stress per i suoi nervi e quel noioso silenzio senza nessuna morte cruenta che lo facesse divertire gli provocava un continuo urlo mentale.
Non aveva nemmeno qualcuno con cui lamentarsi. Tic, toc, tic, toc. E Mycroft non si faceva sentire da giorni. Tic, toc, tic, toc. John? Cosa stava facendo John in quel momento? Tic, toc, tic, toc. “Ho bisogno di un caso!” sbottò, alzandosi dal divano e sbattendo l’orologio sul pavimento, rompendolo in mille pezzi. Nessun rumore squarciò l’aria e la noia ricominciò a ottenebrarlo, la lancetta dei minuti che rimase a indicarlo per molto tempo.
 
Oh, ora sì che era tutto perfettamente al proprio posto.
Gli scappò un sorriso mentre un pugno allo zigomo sinistro lo fece inginocchiare per terra. Un altro tizio, quello più robusto dei due, gli diede una ginocchiata in pancia, facendogli mancare l’aria per un momento. Finalmente qualcosa, finalmente qualcuno che non lo riempiva di parole, ma di fatti.
A chi importava se era stato lui a pagarli? Li avrebbe neutralizzati in pochi minuti se fosse stato quello il suo intento, ma John aveva voglia di respirare e quella sembrava l’unica soluzione. Un altro pugno, qualcuno lo tirava per i capelli, un altro, un altro ancora.
Si stese per terra, riaprendo gli occhi solo per osservare il cielo –bellissimo, non è vero?– da quell’orrendo viottolo di periferia in cui si era trascinato.
“Continuiamo?” Aprì gli occhi, incontrando il volto aggrottato dell’uomo robusto che sembrava avesse in mano le redini del gruppo. “Sì, sì, fin quando non sentirò qualcosa.” Sembrava non capire il senso di quelle parole, ma come avrebbe potuto? Un ragazzo che probabilmente non sapeva nemmeno che cose fosse, un disturbo.
La sua terapista avrebbe dovuto tacere, tutti avrebbero dovuto farlo.
Si toccò la faccia, vedendo il sangue che gli macchiava le dita. Perché dannazione quel blocco non accennava a sparire? Era lì, era tutta l’adrenalina che potesse desiderare in un posto come Londra –in un posto senza lui.
Il sapore ferroso che sentiva in bocca sembrò accentuarsi quando due uomini in un completo dal taglio classico ed elegante sputarono dall’angolo del vicolo camminando verso di loro. La tipica postura gli fece affiorare l’identità del loro lavoro e del loro superiore. Accidenti alle telecamere di sorveglianza, pensava di averle evitate tutte quante, ma a quanto pare si sbagliava –quale grande sorpresa.
“E voi chi siete?” Chiese l’uomo robusto, dividendo la sguardo tra John e i nuovi visitatori. “Il signor Holmes chiede un incontro con il dottor Watson.” Ovviamente. Ovviamente il caro Mycroft non riusciva a lasciarlo in pace per un giorno intero, proprio ora che era iniziata la festa. Ironico come più cercasse di allontanarsi da quella famiglia e più quella non gli lasciava tregua. Ironico o solamente irritante. “Beh, credo proprio di dover rinunciare a questo piacere.” Rispose John, facendo fatica a tirare un respiro tra una parola e l’altra.
Probabilmente quei tizi gli avevano fatto più male di quanto pensasse –peccato che non riuscisse a sentire niente, ancora. “Non credo che il signor Holmes abbia a cuore una risposta negativa da parte sua.” Perché, aveva forse a cuore qualcosa?, avrebbe voluto chiedere, ma si impose il silenzio.
Non erano loro le persone senza sentimenti? Quelli che mollavano tutto quando la situazione si complicava? Codardi, meschini, calcolatori. Un gruppo di egoisti. Le ciglia incominciavano ad essere appiccicate e la testa gli sembrava ogni secondo più vuota e pulsante.
Batté più volte le palpebre, intento a focalizzare l’attenzione sul gruppetto di ragazzi che aveva pagato poco prima. Parevano parecchio arrabbiati e il capo della banda non sembrava intenzionato a lasciarlo andare senza un’altra razione di botte gratuita. “Hai chiamato i poliziotti per metterci in gabbia?”  Idioti, fu l’ultima cosa che John riuscì a pensare prima di perdere i sensi, dopo il calcio che l’aveva fatto raccogliere in posizione fetale sull’asfalto sporco di un posto sperduto. Una parola che gli era molto comune tempo prima. Una persona che, nel buio dell’incoscienza, non gli faceva più paura.
 
 
 
 
Stava rischiando di impazzire. Il suo cervello sembrava essere scoppiato in una guerra contro se stesso, riducendo Sherlock in una massa informe sul divano. Tutta quell’improduttività lo avrebbe ucciso, ne era certo. L’orologio che aveva fatto a pezzi poche ore prima era ancora a terra, cosa che lo irritava maggiormente. Non c’era nemmeno il suo fidato teschio con il quale dialogare –o John, John che lo innervosiva in un modo tutto suo, speciale. Alzò la manica della camicia e guardò l’orologio da polso. Sei e trenta, John doveva essere uscito dalla sua clinica giusto mezz’ora fa, a quest’ora stava tornando a casa. Si era già trovato un altro coinquilino con cui rimpiazzarlo? O una banale ragazza che baciava al posto suo? Sherlock si irritò maggiormente –Dio, odiava quel posto, noia noia noia. Perché Mycroft non gli dava notizie? Il cellulare che gli aveva dato per le emergenze sembrava prendersi gioco di lui dal tavolino sulla quale era appoggiato. Non continuare a mandarmi inutili messaggi sul tuo buon dottore, usalo per le cose veramente importanti, gli aveva detto. Cercherò di tenerti il più aggiornato possibile, gli aveva detto. Noia. Quando il suddetto telefono emise il classico segnale di avviso, Sherlock balzò giù dal divano, pieno di energie. Nuove informazioni, nuovi problemi, era giunto il momento di andare a far fuori i colleghi di Moriarty, finalmente. Il cellulare era un vecchio modello con l’intento di non viziarlo troppo, aveva buttato lì Mycroft, Sherlock perse subito la pazienza con la lentezza esasperante di quell’aggeggio medievale.
 
Sherlock, devo rivelarti una cosa che non ti piacerà. MH
 
Non si fece prendere dal panico, cercando di razionalizzare tutte le possibili difficoltà che Mycroft avrebbe potuto trovare come ‘non piacevoli’. Una lista bella lunga, ma in quel momento non si sentì invogliato a tirare deduzioni una dopo l’altra. Con una strana sensazione allo stomaco, digitò in fretta la risposta.
 
Parla in fretta. SH
 
Si mise a battere le dita sul ripiano di legno, impaziente. Suo fratello e la sua incontrollabile guerra contro i messaggi.
 
E’ John. MH
 
Bum. Bum. Bum. Il suo cuore prese a battere a un ritmo più veloce del normale, mandandolo in confusione –sentimenti, davvero un brutto affare. In che cavolo di pasticcio si era cacciato? Avrebbe dovuto seguirlo come si era ripromesso di fare all’inizio della faccenda.
 
Cosa significa ‘E’ John’, Mycroft? SH
 
Dieci minuti dopo la risposta che Sherlock stava aspettando, ancora in piedi davanti al tavolo, non accennava ad arrivare. Mycroft e i suoi stupidi, stupidissimi modi di fare. Era ferito? Stava male? Era grave? Di sue notizie non ne aveva ricevute per due mesi, nonostante avesse provato a chiedere a suo fratello, ma le regole erano chiare. Messaggi solo se la situazione fosse stata urgente. Urgente. John. Ansia.
 
MYCROFT!? SH
 
Gli è accaduto qualcosa, Sherlock… MH
 
Accaduto qualcosa? Prese un respiro profondo. Logica, concentrazione, razionalità. Niente di grave, niente di irreparabile. La paura era potente: irrazionale e tenace, intensa e manipolatrice. Agiva veloce: da un momento all’altro il controllo scivolava via di mano come un sapone umido e si perdeva il controllo rendendo il panico re incontrastato.
 
Torna indietro, Sherlock, per lui. MH
 
Dimmi cosa è successo, ora. SH
 
Disse, incominciando a prepararsi per lasciare l’appartamento in cui era stato rinchiuso in quei giorni. Se Mycroft che era stato restio anche a farlo uscire dalla porta di casa per paura che potesse essere scoperto –o peggio, gli stava dicendo di tornare a casa, c’era sicuramente qualcosa di profondamente scorretto sotto. Sherlock non aveva voglia di scherzi in quel momento, non con John in mezzo.
 
In questi mesi non è stato propriamente in sé, ti basti sapere questo. MH
 
Avrebbe ucciso qualcuno in quel momento –si ricordava di esserci arrivato vicino per molto meno. Espirò dal naso, pentendosi di aver lanciato l’orologio a terra. Avrebbe voluto romperlo ora, lanciare tutto in aria e arrabbiarsi con Mycroft perché non lo aveva avvisato.
 
Dimmi tutto quello che sai. Ora. Dov’è John? SH
 
L’hanno licenziato, era sotto terapia fino a settimana scorsa. Disturbo dell’adattamento, a quanto sembra. La terapista, per quanto incompetente, ha azzeccato. Credo abbia…fatto quello che una persona comune avrebbe fatto. MH
 
L’ho portato a casa, 221 B Baker Street, spero che ti ricorderai la strada. MH
 
Simpatico, davvero. Aveva vissuto nella completa oscurità per tutti quei giorni senza che nessuno gli dicesse niente. Non una parola di John, come se stesse bene, come se fosse in pace con il mondo. Prese il cappotto mentre ripensava a tutto ciò che sapeva su quel disturbo. John. John che era passato dalla guerra a un proiettile nella spalla, da un problema psicosomatico alla guarigione –e di quello se ne dava il merito– a l’ennesimo disturbo –quello? Quello non era certamente un merito.
Disurbo derivato da sintomi emozionali –emozione, sentimento, John– e si sviluppano a uno o più fattori stressanti identificabili. I sintomi si manifestano entro tre mesi dall’inizio del fattore stressante. La reazione deve essere sproporzionata rispetto alla natura dello stress, compromissione del funzionamento sociale o lavorativo. Reazioni disadattative, di breve durata –mesi sei–, a ciò che si può vivere come una calamità personale, fattore stressante.
John. John che aveva smesso di essere il suo blogger.
Chiamò un taxi e si diresse verso casa.
 
 
 
C’era uno strano odore nel posto in cui si trovava. Un odore che gli sfuggiva ma che, allo stesso tempo, sembrava ricordare perfettamente. Sentiva la pioggia cadere contro il vetro della finestra e qualcosa di morbido sotto al corpo. Non si ricordava ancora molto, ma gli piaceva rimanere con gli occhi chiusi, facendo finta che tutto andasse bene.  Sentì qualcosa solleticargli il collo, come una piacevole carezza che diffondeva calore alla pelle. La memoria incominciò a ritornargli –botte, disturbo, Holmes, uomini, caduta, Sherlock!– e questo non fece altro che peggiorare la situazione, facendolo ritornare alla realtà. Percepiva ancora le ciglia impastate e si stropicciò gli occhi, nell’intento di aprirli.
Oh. Oh. Avrebbe riconosciuto quegli occhi ovunque, anche tra migliaia di persone. Quel colore particolare che nessun altro possedeva,  quei particolari zigomi e quelle labbra –ah, quelle labbra. Così vicino, così bello. Si perse un momento a fissarlo mentre l’altro restava immobile, come se potesse sgretolarsi in qualsiasi momento. Richiuse gli occhi, stringendo bene le palpebre e tornando a riaprili. Era ancora lì. Era ancora lì? Era confuso. Decisamente. John non aveva nessuna intenzione di parlare, se il suo cervello aveva voluto creare quello spettacolo per lui, non si sarebbe di certo tirato indietro. “John?” Fu quello, esattamente quella parola pronunciata da lui –era morto, l’aveva visto, era sicurissimo davvero davvero davvero– che fece crollare tutto. Dio, sembrava così vero. Dio, era lui. Dio, era vero ed era lì, con lui –Dio, grazie. Allungò un momento la mano, lasciandola lì, nel poco spazio che distanziava il viso di John da quello di Sherlock, in ginocchio davanti al divano. Era strano tutto quella quiete, di certo non da lui che era sempre iperattivo e logorroico –stava forse…esitando?. “S-sh-“ Da quanto tempo non pronunciava il suo nome? Sembravano passati decenni. Eppure adesso era vicino a lui, ancora. “Sei in stato di shock.” Annuì, deciso. Avrebbe annuito a tutto quello che usciva da quelle labbra, in verità. Non ricordava che fosse così bello. E reale. “S-Sherlock?” Ce l’aveva fatta. Quel nome era venuto fuori dalla sua bocca e ora volteggiava in aria, vicino alla mano che restava ferma in bilico nella sua posizione. Sembrava indeciso, Sherlock, lo guardava con quell’occhio clinico che era solito usare per uno di quei morti che gli piacevano tanto. Lo stava osservando come se fosse il miglior omicidio del secolo e la cosa, per quanto fuori dal comune e inquietante, lo lusingava. Sherlock. Mosse appena la testa, facendo incontrare la guancia contro la superficie della sua mano. Ed eccola lì, la prova finale. Caldo, morbido e perfetto sotto il suo tocco.
Non gli sembrò nemmeno vero che tutte quelle emozioni fossero riemerse così, davanti alla vista del suo fidanzato morto da due mesi. “Sherlock. Sherlock?” “Dimmi.” Mormorò Sherlock, continuando ad appoggiarsi al suo palmo, in una perfetta posa di dolcezza che non aveva mai avuto il piacere di vedere in tutta la loro convivenza. Mosse piano le dita in un’incerta carezza, finendo per sfiorare i riccioli che cadevano, ribelli, sulla fronte. Si alzò con il busto fino ad unire le labbra con le sue, chiudendo quel cerchio di tristezza in cui era scivolato per quei mesi. Tenne gli occhi aperti, fissi su Sherlock, assicurandosi del fatto che non sparisse in una nuvola di fumo –o scaraventato su un marciapiede. Si dimenticò dei colpi ricevuti fino a poco prima, si dimenticò anche del quieta isteria che aveva tenuto fino a quel momento. Si dimenticò tutto –o quasi. Si staccò da lui, sorridendo.
“Fammi alzare, dai.” Disse John, facendo forza sulle braccia e ritornando in piedi. Sherlock si alzò a sua volta, sistemandosi il cappotto e rimanendo fermo davanti a lui. John stava meglio di quanto si fosse aspettato, non sentiva nessun dolore alle costole –ottimo segno–, avrebbe avuto dei lividi, ma quello poco importava. Ora che lo aveva di nuovo davanti a lui, poteva finalmente fargli capire ciò che aveva passato in quei mesi. Continuò a sorridere, cosa che incominciò a far preoccupare Sherlock, che aggrottò la fronte, accigliato. “Sei ancora sotto shock?” “No, no davvero, non sono mai stato meglio in vita mia.” Il colpo partì senza che nemmeno se ne accorgesse, andando a colpirgli lo zigomo destro e togliendo a John un peso dal cuore. “Sei un dannato idiota! Due mesi, ho aspettato! Un finto suicidio? Davvero? E’ stato questo il grande e furbo piano di Sherlok Holmes?”
Ora sì che poteva fargli capire cosa aveva passato in quei mesi.
 
 
17 aprile - 04:28
 
John si strofinò la faccia con la mano, cercando di scacciare la brutta sensazione che gli si era annidata alla bocca dello stomaco. Si trovava davanti al frigorifero aperto –non sapeva nemmeno come ci era arrivato lì, in realtà– brandendo tra le mani un vasetto contenente della viscosa materia viola. Aveva davvero paura di sapere cosa fosse e, sinceramente, non aveva davvero la voglia di scoprirlo. Lo rimise sul ripiano e richiuse l’anta, abbandonandoglisi addosso.
Era passato quasi un mese da quando Sherlock era tornato a convivere con lui al 221 B di Baker Street, aveva lasciato perdere tutti i suoi disturbi e, con un sospiro –sollevato o rassegnato?– si era rimesso a giocare il tutto per tutto con il suo compagno.
Avevano avuto un bisticcio prima di andare a dormire e Sherlock, nella sua innata drammaticità, era andato spedito in camera sua, facendo capire perfettamente a John che per quella notte il suo letto sarebbe stato vuoto. Non che facessero chissà che, la notte, dormivano e basta, uno accanto all’altro. John non aveva nemmeno avuto il coraggio di chiedergli di spingersi oltre, anche se la voglia c’era e si faceva sentire frequentemente.
Fatto sta che, solo nella notte, John aveva avuto un incubo –l’incubo, per la precisione– facendo sparire il sonno che aveva conquistato con fatica.
“John?” Sherlock comparve sulla soglia, i capelli scarmigliati e il pigiama tutto stropicciato che gli conferivano un’aria di un bambino troppo cresciuto. “Ehi…” Abbassò lo sguardo, cercando le parole adatte per sistemare la questione di poco prima –o per defilarsi nella sua camera come un dannato codardo, doveva ancora decidere. “Un altro incubo? Ovvio che sì.” Proruppe, restando fermo nel vano della porta. “Non ti posso lasciare una notte da solo che ritorni a fare brutti sogni? Pensavo l’avessi superato.” John sapeva che non era vero, che continuava a parlare solamente per farlo distrarre e rilassare.
“Preparo il thè?” Chiese John, con un sorriso. Sherlock espirò, più rilassato, capendo che l’aria di tensione era definitivamente sparita tra di loro. “Sì, ti aspetto sul divano.” Lo osservò svanire nell’altra stanza, prima di prendere due tazzine e preparare in fretta la bevanda, cambiando il peso da un piede all’altro e strofinandosi le braccia scoperte con le mani.
Quando il the fu pronto andò in salotto, non distogliendo nemmeno un attimo lo sguardo dalle due tazzine in modo da non farne cadere il contenuto. Posò i sottobicchieri sul tavolino e alzò gli occhi verso Sherlock, steso sul divano con un plaid ancora piegato tra le gambe rannicchiate. “Ho pensato avessi avuto freddo.” Gli si accoccolò vicino, prendendo la coperta e facendo in modo di avvolgerli entrambi. “Sei pieno di sentimento altruistico la mattina presto, non l’avrei mai detto.” “Non abituartici, John, perché è una situazione più unica che rara.”
Si protese verso il piccolo tavolino davanti al divano per prendere le tazze e porgerne una a Sherlock. Bevvero in silenzio, vicini così tanto da sfiorarsi le braccia. “Hai mai pensato di non tornare?” Chiese ad un tratto John, volgendo il capo verso Sherlock. A nessuno dei due piaceva ripescare quell’argomento in particolare, ma quella domanda aleggiava nella sua mente da troppo tempo e aveva bisogno di una risposta concreta da affibbiargli. “Sì, sì l’ho pensato.” “Avevi intenzione di farlo? Di non tornare, quindi?” La voce era poco più di un sussurro, ma risuonava alta e impaziente tra le mura silenziose dell’appartamento. “No, è stato solo per un momento, poco dopo che è accaduto ciò che è accaduto.”
L’ombra del mutismo ritornò a inondarli, fino a quando fu Sherlock a interromperlo, con un gesto impaziente della mano che gli porgeva la tazzina vuota. “E tu? Ti saresti rifatto una vita se non fossi ritornato?” John proruppe in una risata senza tonalità, poggiando le due tazze sul tavolino.
“Era un disturbato, Sherlock, non so se te ne sei accorto.” Non voleva sembrare così acido, non lo voleva davvero, ma la ferita era ancora così fresca da sembrargli viva e pulsante. Era lì e aveva paura che non se ne sarebbe mai andata. Aveva tradito la sua fiducia e, nel bene o nel male che fosse, lui se n’era andato e l’aveva lasciato da solo. Sembrò passare qualcosa nello sguardo di Sherlock, ma fu troppo sfuggente per dargli un nome.
Sentì solo la sua bocca calda e al sapore di the incontrare la sua, facendo sbattere i nasi in un gesto goffo ma al contempo destabilizzante. Non l’aveva mai baciato, prima d’ora, non aveva mai preso nessuna iniziativa che non fosse affondargli la mano nei capelli e muovere le labbra contro le sue. Oltre il sapore della bevanda, però, riusciva a scorgerne anche uno più forte e decisamente più sentito: il sapore delle scuse. Sherlock era troppo orgoglioso e introverso per dire quelle parole, ma glielo stava facendo capire e a John andava bene così. Era come se stesse baciando tutto di lui, dalla bocca alle guance, il petto, le braccia, il collo e le cicatrici, sia interne che esterne.
Quando si staccò dalle sue labbra, John restò con gli occhi chiusi e allungò una mano verso il viso di Sherlock, in quella presa che era stata, tempo prima, la riunione di un legame indistruttibile. “Non volevo usare quel tono, prima.” Sherlock si alzò dal divano in tutta fretta, dirigendosi verso le scale e aspettandolo impaziente. “Dai John, smettila di fare quella faccia e andiamo a letto!” Lo vide salire le scale a due a due, fino a lasciarlo da solo, con ancora la mano alzata per afferrare la sua guancia e l’espressione da stupido. Non c’era proprio nulla da fare, Sherlock lo avrebbe fatto sentire un idiota sempre e comunque, era una regola a cui non ci si poteva opporre. Si alzò e posò le tazze nel lavandino, prima di salire anche lui fino alla propria camera, dove Sherlock stava…”Cosa stai facendo con il mio cellulare?” “Chi è questa Sophie?” Dannazione. “E’ la stessa Sophie che abbiamo incontrato sulla scena del delitto questo pomeriggio, John?”
Gli serviva un angolo abbastanza appuntito dove sbattere la testa, magari dall’altra parte di Londra c’era proprio quello perfetto per lui, era meglio mettersi in cammino. “John, questa ragazza ti ha mandato una marea di messaggi!” “Non le ho dato retta, Sherlock, ora posa quel telefono e dormiamo.” Disse in modo conciliante e pacifico, cercando di non perdere la calma. Era certo di non avergli mai dato il permesso di frugare la cartella dei suoi messaggi né in quella vita né in tutte quelle passate –gli dispiaceva davvero tanto per i suoi precedenti John Watson che avevano avuto la spietata pazienza di sopportare noiosi sociopatici maleducati- John si infilò sotto le coperte mentre Sherlock schiacciava pulsanti a tutta velocità dall’altra parte del materasso.
“Che cosa stai facendo?” Nessuna risposta. “Sherlock! Cosa diavolo stai scrivendo a Sophie?” Gli si lanciò addosso appena in tempo per vedere apparire sulla schermata la scritta ‘messaggio inviato’. L’avrebbe ucciso un giorno di questi, una lenta e dolorosa morte. Non che non se la sarebbe meritata, altroché, e al diavolo che non avrebbe potuto vivere senza di lui. Arrossì appena a quel pensiero, cercando nel cellulare fino a trovare ciò che stava cercando. Lesse tutto d’un fiato, trattenendo il respiro e urlando il nome del suo quasi-non-più fidanzato.
Lui gli sorrise, mettendosi sotto le coperte e girandosi di schiena. “Mi ringrazierai domani, ora dormi.” Ringraziare? Lo avrebbe ucciso nel sonno, ne era assolutamente sicuro.
Sbuffò, osservando la testa riccioluta prima di infilarsi anche lui a letto e spegnere la luce della lampada. Allungò la mano verso la sua schiena depositandola lì, in una carezza appena accennata.
 
“Sherlock, ma cos’è quell’intruglio viola nel frigorifero? Stavo quasi per mangiarmelo, prima.”
“Buonanotte John.”
 
 
 
 
 
 
 
 
Citazioni:
La prima settimana in cui lui era morto, John aveva cercato di convincersi che andava tutto bene, che nulla era cambiato da quando doveva preoccuparsi più dell’altro che di se stesso. Si alzava dal letto e finchè durava l’effetto del sonno, era l’uomo di sempre. Ma via via che prendeva coscienza, con le ore che passavano inesorabili –nessun segno, nessuna traccia che potesse far riaccendergli la speranza– era come se un veleno filtrasse dentro di lui. A volte non ce la faceva nemmeno a scendere dal materasso, restava lì sotto un peso enorme mentre la gamba faceva così male da fargli scoppiare la testa. Si era sentito gravato dal senso di colpa, la mano di Dio che lo schiacciava dicendogli “Tu non c’eri quando lui aveva più bisogno di te”.  Semicitazione tratta da ‘Amabili Resti’
 
Tra il dolore e il nulla, lui aveva scelto il nulla. Citazione da ‘Fino all’ultimo respiro’
   
 
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