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Autore: EvgeniaPsyche Rox    18/08/2012    6 recensioni
Axel era pazzo, ma Roxas faceva finta di non saperlo.
Axel lo amava, e Roxas aveva paura.
-
Un miscuglio di ricordi sporchi, amarezze e solitudine, sensazioni insanguinate ed emozioni soffocate, fili che intrecciano un passato sfocato e un presente inesistente.
[Mi scuso enormemente per questa mia assenza e per aver interrotto le mie long-fic in corso.]
Genere: Dark, Horror, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Axel, Roxas, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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''Qui c'è troppa puzza di sangue che non è stato ancora pulito.''

 

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Lo sentì ridere tra le coperte mentre stringeva con forza (troppa forza) i suoi fianchi, abbassando il volto per potergli regalare altri baci (sporchi baci) sulla spalla sinistra.
La sua risata era strana; qualche volta gli piaceva, sembrava un raggio di sole che bucava i nuvoloni grigi alla fine di una tempesta, pareva la primavera dopo il lungo inverno e la punta del diamante più prezioso; altre volte, invece, forse addirittura la maggior parte, la sua risata quasi lo infastidiva.
Era pungente, tagliente, sinistra e vuota; vuota nel senso di piena, però. Era uno di quei vuoti pieni di qualcosa che non sai; un vuoto indecifrabile, un vuoto che conteneva segreti (oscuri segreti).
Non voleva conoscere quei segreti. Preferiva di no, voleva che restassero lontano (molto lontano) da lui. Non voleva tagliarsi. Lo scrigno doveva rimanere nell'angolo più buio della stanza, anche sotto il letto o dentro l'armadio, insieme a quei mostri brutti e cattivi che lo avevano sempre perseguitato da bambino.
I segreti dovevano stargli alla larga.
Udì il proprio respiro farsi più irregolare e graffiò le lenzuola mentre un violento brivido si impossessò di lui; socchiuse gli occhi e urlò, urlò forte, lasciando che il silenzio della camera venisse finalmente spezzato.
Tremò violentemente e Axel gli lasciò un altro flebile bacio sulla nuca, sui capelli intrisi di sudore; le gocce gli ricoprivano la pelle chiara e nuda e lui pensò a quando il suo ragazzo gli aveva detto che non c'era sesso senza sudore.
Il sesso gli piaceva, il sudore invece un po' meno.
Chiuse le palpebre e tentò di calmarsi, sentendo il ticchettio dell'orologio in corridoio che scandiva i secondi che passavano.
I giorni ormai gli sfuggivano dalle mani e la sua vita sembrava fluire nel cielo, così infinito, troppo infinito, nel nulla, in una fredda esistenza macchiata. La sua vita era un disegno a carboncino leggermente sporco.
Detestava rimanere in silenzio con Axel; con gli altri invece trovava estremamente piacevole l'assenza totale delle parole, il vuoto galleggiante dell'aria e le labbra serrate.
Invece con lui no.
Aveva paura del silenzio con Axel. Aveva paura dei suoi pensieri e dei propri. Aveva paura del suo sguardo; sapeva perfettamente che quando non parlava quegli occhi verdi come lo smeraldo lo scrutavano, cercavano di sporgliarlo di qualsiasi cosa e lui aveva paura (tanta paura). Aveva paura che le sue iridi fossero in grado di superargli la fronte, di forargli la testa, di giungere al cervello per leggergli nel pensiero; aveva paura del silenzio e dei suoi occhi indagatori che riflettevano i propri.
Eppure, al tempo stesso, temeva anche che potesse succedere l'esatto opposto; aveva paura di vedere il suo cranio svitarsi, permettendo ai suoi pensieri (oscuri segreti) di saltar via dalla sua testa e di attaccarlo, affondandolo per sempre.
Cercò di alzarsi, ma Axel era ancora lì, sopra di lui, e sentiva il forte profumo della sua pelle invadergli le narici: tentò di sollevarsi sui gomiti, senza riuscire comunque a muoversi di molto.

«Axel, spostati.», disse così con durezza e si sentì sollevato dall'udire la propria voce riempire la stanza immersa nelle tenebre; eppure sbuffò quando si accorse che l'altro lo stava bellamente ignorando. «Spostati.», ripeté poi alzando la voce, scocciato.
Axel rise; la risata sinistra, quella che nascondeva cose sconosciute (oscuri segreti). «Perché?», la sua voce bassa e profonda galleggiò nell'aria che odorava ancora di sesso ed eccitazione, tra le coperte in disordine, i cuscini manomessi e i vestiti sul gelido pavimento.
«Devo alzarmi», mormorò Roxas, sempre più irritato dal comportamento del compagno. «sai, non voglio restare su questo schifo di letto per il resto dei miei giorni.»
Sentì Axel ridere ancora, come se ogni parola che usciva dalla sua bocca fosse una sorta di barzelletta -Di quelle volgari, possibilmente, visto che gli piacevano tanto-. «Perché schifo?»
«Eh?»
«Perché hai detto ''schifo di letto''?», riformulò la domanda il più grande, prendendo a mordere avidamente l'orecchio dell'altro che si lasciò sfuggire un lungo (troppo lungo) gemito. «Perché adesso questo letto fa schifo. E' tutto bagnato.»
Axel a quel punto scoppiò in una grassa e squillante risata; non era la risata del sole tra le nuvole, e neanche quella che nascondeva chissà cosa: era fastidiosa e basta. Era improvvisa e trapanava le orecchie di Roxas; era un tuono, un tremendo tuono che rimbombava nel cielo notturno, sporcando le stelle.
C'erano cose di Axel che Roxas non capiva. Tante, troppe cose.
Rideva e lui non ne capiva il motivo.
«Tu non sei normale.», fece improvvisamente il biondo, gelido.
Quell'affermazione sembrò infastidire particolarmente Axel perché si spostò immediatamente dal giovane, rimanendo però sdraiato accanto a lui; le sue iridi divennero più scure, ma questo Roxas non poté vederlo a causa delle tenebre.
«Lo so.», bisbigliò poco dopo con aria assorta; il compagno girò appena la testa verso di lui, perplesso. «Cosa?»
Axel ridacchiò nuovamente. «Il letto è bagnato a causa nostra. A me piace.»
Roxas sbuffò rumorosamente con il naso, socchiudendo le palpebre. «A te piace perché l'unica cosa a cui pensi è il sesso.»
C'era un'altra cosa che lo spaventava, in realtà, oltre a rimanere in silenzio con Axel; non gli piaceva nemmeno rimanere solo in casa sua.
Spesso Axel usciva, magari per comprare una pizza, qualche lattina di birra o un film, quindi gli diceva di aspettarlo e di non uscire perché sarebbe tornato presto.
Solo una volta aveva aperto la porta, era velocemente sceso per le scale e si era messo a correre lungo il marciapiede bagnato a causa della pioggia.
Aveva sentito il proprio cuore battere a mille e stava muovendo le gambe così velocemente che era scivolato su una pozzanghera, cadendo rovinosamente sul sedere. Si era preso una brutta botta, ma ciò che aveva attirato la sua attenzione era il taglio di circa sei centimetri che si era fatto sulla coscia.
Era rimasto seduto su quella pozzanghera per un tempo indecifrabile, in mezzo alla pioggia; lo sguardo fisso nel vuoto, i capelli inzuppati e un dolore insopportabile che gli percorreva il fondoschiena.
Si era poi voltato appena alla sua sinistra e aveva spostato lo sguardo verso i suoi jeans fradici, notando così una macchia scura e sentendo automaticamente un forte bruciore proprio in quel punto.
Dopo essersi accertato che non ci fosse nessuno, si era abbassato leggermente i pantaloni, accorgendosi della ferita abbastanza profonda impregnata di sangue denso e scarlatto.
L'aveva osservata a lungo, rigido, gli occhi blu vacui e galleggianti nell'alta marea; da bambino ricordava perfettamente di essersi tagliato decine e decine di volte sui marciapiedi, ma non riusciva a capire perché allora quella dannata ferita sembrava turbarlo così tanto.
Lo aveva messo in qualche modo a disagio e quindi si era rialzato i jeans, riprendendo a camminare verso casa.
Ma non fu il taglio ad impedirgli di dormire quella notte.
Aveva varcato la soglia di casa e si era tolto le scarpe, anch'esse terribilmente bagnate e sporche di fango, intenzionato a farsi una doccia calda prima che suo padre tornasse, quando aveva sentito scattare la serratura della porta e il cuore gli era salito immediatamente in gola.
Roxas pensò che se si fosse guardato allo specchio avrebbe letto nei propri occhi la paura nuda e cruda nel suo essere; avrebbe potuto anche vomitare le viscere dalla tensione, ma rimase immobile. Perfettamente immobile. Come se avesse voluto essere invisibile, confondersi con la casa ancora immersa nel buio.
Quella notte, poi, con le coperte fino al naso e lo sguardo rivolto al soffitto come un bambino che temeva di sentire le ante dell'armadio aprirsi per mettere in mostra gli orrori dei mostri più violenti e crudeli, si era accorto che la sua reazione era stata davvero illogica; insomma, poteva benissimo essere suo padre che era tornato prima del previsto, o semplicemente suo fratello.
O ancora Axel.

Quel giorno si era pentito amaramente di aver consegnato una coppia delle chiavi di casa sua ad Axel; il fatto è che quest'ultimo un pomeriggio gli aveva fatto una sorpresa, regalandogli il cd dei ''The Doors'' che tanto bramava da tempo di avere, e così lui, in un certo senso per 'ricambiare' il dolce ed inaspettato gesto, gli aveva dato le chiavi di casa, dicendogli che avrebbe potuto usarle per le emergenze.
Tanto a suo padre Axel non faceva né caldo né freddo; non gli interessava, ecco tutto.
Anzi, in realtà non è che non gli interessava di Axel: a lui non interessava mai nulla di niente.
Suo padre era morto cinque anni prima con sua madre e continuava ad alzarsi la mattina di ogni maledetto giorno soltanto perché altrimenti sarebbe rimasto incollato davanti alla televisione a guardare le vecchie partite dei Red Sox.
Suo padre era uno zombie che camminava: si svegliva la mattina presto per andare a lavorare (giusto per pagare le bollette), girava per la città a vuoto, beveva qualche birra di tanto in tanto e poi tornava a casa, piazzandosi davanti alla TV fino alle undici e mezza di sera.
Una volta aveva tirato fuori un vecchio album pieno di fotografie del suo matrimonio e, guardandole, era rimasto a piangere fino a mezzanotte inoltrata, ripretendo come un disco rotto: «La stella s'è spenta e il cielo è morto.»
Roxas era rimasto immobile sulla soglia del soggiorno a fissarlo, basito, senza dire una parola.
Lo preferiva sicuramente quando se ne stava zitto zitto a guardare quelle dannate partite di baseball. Tralasciando il fatto che a lui non era mai importato nulla di quello sport; il problema era che che dopo la morte di sua madre aveva iniziato ad avere strane fisse.
Come quella di ripetergli sempre la stessa frase prima di andare a dormire, quasi fosse una sorta di buonanotte. Si fermava di fianco a lui, senza però guardarlo, e gli diceva: «La notte è troppo buia per noi e il vento è forte.»
A suo fratello non gli ripeteva mai quelle parole senza alcun senso; con lui invece sì, sempre. E, oltre ad infastidirlo tremendamente, gli facevano venire una terrificante inquietudine che si espandeva poi in tutto il corpo. Altro che buonanotte, suo padre era diventato completamente pazzo, ecco qual'era la verità, l'amara verità.
Tre giorni dopo aver conosciuto Axel si era seduto accanto a lui mentre stava guardando l'ennesima partita; aveva preso un profondo respiro e aveva iniziato a parlare. «Papà, ho conosciuto un ragazzo», non si sentiva per nulla a proprio agio.
Senza contare i mormorii insensati che gli diceva prima di andare a letto, non si parlavano praticamente più. Nei mesi successivi alla morte di sua madre aveva cercato di avere qualsiasi tipo di dialogo con lui, anche il più stupido. «Papà, per cena preferisci gli spaghetti o i gamberetti?»
Silenzio.
«Papà?»
Nulla.
«Papà? Allora?»
''I Red Sox vincono! I Red Sox hanno vinto ancora!'', Roxas era rimasto per qualche secondo immobile, ascoltando la voce del presentatore della partita che riempiva con entusiasmo la stanza; successivamente si era voltato ed era tornato in cucina senza più dire nulla per il resto della serata.
Dopo circa due anni Roxas Jasser aveva capito che per suo padre non faceva alcuna differenza se mangiava gli spaghetti al pesto, i gamberetti ripieni o la marmitta di una moto: lui impugnava le posate, si portava il cibo alla bocca e mangiava con lo sguardo perso nel nulla.
Quella sera comunque aveva preso un secondo sospiro e aveva cercato di proseguire, leggermente imbarazzato. «Un ragazzo... Ecco... Un ragazzo più grande di me e lui... Lui, io, non so», si era bloccato di nuovo e aveva voltato gli occhi blu verso quelli grigi di sua padre, i quali erano ancora rivolti al televisore.
A quel punto aveva stretto i pugni e aveva improvvisamente sentito una scarica di rabbia attraversargli il corpo. «Papà, ascoltami. Ho conosciuto un ragazzo più grande di me. Ha detto che io gli piaccio e che vuole fare sesso con me.»
''Sembra che oggi non sia serata per i Red Sox e Tom Gordon ormai...''
«Papà! Un ragazzo vuole scoparmi!», questa volta aveva alzato la voce fino ad urlare e l'uomo aveva finalmente voltato la testa verso il ragazzo con estrema lentezza.
I suoi occhi blu si erano immediatamente illuminati e per un attimo aveva sperato.

Aveva sperato che suo padre gli gridasse contro; che lo rimproverasse, che gli dicesse che faceva schifo, che era tutto sbagliato e che gli tirasse uno schiaffo.
Aveva sperato che si liberasse.
Eppure non era successo nulla. Lo aveva osservato per pochi secondi e poi era tornato a guardare la televisione; lui invece, dal canto suo, aveva spalancato la bocca, sorpreso e profondamente deluso.
«Roxas, non devi», si era poi voltato di scatto e aveva incrociato gli occhi di suo fratello minore Sora: le iridi tremanti e il volto immerso in una maschera di tristezza, nonostante solitamente fosse allegro e vivace. «Non devi lasciare che ti tocchi.»
Roxas era rimasto fermo per qualche minuto a fissarlo; dopodiché si era alzato, avviandosi in camera propria finché il richiamo di Sora non lo aveva nuovamente raggiunto. «Roxas, aspetta»
«Vaffanculo.», aveva ringhiato lui a denti stretti prima di aprire la porta e sbatterla rumorosamente dietro di sé.
Quella sera i Red Sox avevano perso e a Roxas era sembrato di sentire i singhiozzi di suo fratello nella stanza accanto.
A suo padre non importava né di Axel, né di lui, né di nient'altro; una volta era entrato in bagno senza bussare e l'aveva sorpreso mentre si lasciava toccare dal suo ragazzo, eccitato e voglioso come non mai. Dopo che i due si erano accorti dell'ospite indesiderato, avevano entrambi sbarrato gli occhi e Roxas aveva pensato seriamente di raggiungere suo madre nell'aldilà, quando suo padre si era limitato a chiudere la porta con il solito sguardo spento e apatico.
Ricordava perfino che poi Axel era scoppiato in una grassa e rumorosa risata e aveva chinato la folta chioma scarlatta all'indietro. «Possiamo anche scopare nella sua stessa stanza; tanto sono sicuro che lui non si accorgerebbe di niente!»
Ma Roxas non l'aveva trovato altrettanto divertente.
Così, dopo aver capito che a suo padre non importava assolutamente niente dell'esistenza di Axel, gli aveva dato senza problemi la coppia delle chiavi di casa sua e non si era pentito di quella decisione fino a quando quella sera se l'era ritrovato sulla soglia della porta; i capelli rossi bagnati fradici che gli ricadevano sulle spalle, l'eye liner colato che gli macchiava i tatuaggi viola sugli zigomi, le braccia scoperte e gocciolanti, la mano sinistra che reggeva un sacchetto azzurro e gli occhi felini illuminati dai lampi che squarciavano ripetutamente il cielo.
Era Axel e lui avrebbe dovuto sentirsi sollevato; eppure il suo cuore continuava a battere all'impazzata e non aveva avuto il coraggio di muoversi in alcun modo.
Il fulvo aveva fatto un passo in avanti, lasciando cadere a terra il sacchetto dal quale erano rotolate via due lattine di birra; Roxas le aveva osservate a lungo, come pietrificato, e aveva immediatamente capito che non appena Axel si era accorto della sua assenza non aveva neanche fatto in tempo ad appoggiare ciò che aveva comprato, che si era messo a correre per cercarlo.
Ecco che cosa lo spaventava davvero. Non era il silenzio o la casa di Axel; era la rabbia di quest'ultimo che gli faceva venire i brividi di notte, i suoi occhi verdi che si facevano più scuri, i pugni serrati e le labbra che disegnavano un ghigno storto e sinistro.
«Mi avevi detto che potevo usarle in caso di emergenza», aveva iniziato lentamente a parlare il più grande, facendo dondolare le chiavi a destra e a sinistra prima di infilarle nuovamente nella tasca dei suoi pantaloni. «e questo mi sembrava il momento giusto per utilizzarle.», poi aveva sorriso e Roxas aveva avuto paura. Tanta paura.
Odiava quel sorriso. Quel maledettissimo sorriso falso, schifosamente falso, che nelle viscere nascondeva i segreti più oscuri, gli orrori più letali sotterrati in un candido prato fiorito.
Axel aveva fatto un altro passo in avanti senza prendersi nemmeno la briga di chiudere la porta di ingresso, lasciando così che la pioggia bagnasse le piastrelle bianche; successivamente aveva alzato entrambe le mani, continuando a sorridere, e proprio in quel momento un altro lampo lo aveva illuminato, permettendo quindi a Roxas di notare i suoi palmi sporchi di un liquido denso e rosso.
Axel aveva ridacchiato nervosamente e l'altro si era sentito immediatamente male; i filamenti della sua testa si erano ingarbugliati e il suo stomaco di era stretto in una morsa estremamente dolorosa.
Una sorta di inquietudine.
''La notte è troppo buia per noi e il vento è forte''
«Mi sono preoccupato molto», Axel aveva ripreso la parola e si era indicato il naso dal quale pendeva una striscia scarlatta che gli sfiorava appena le labbra. «e così mi sono precipitato a cercarti. Però ero talmente in ansia che mentre correvo non ho visto dove stavo andando e sono andato a sbattere contro un palo.»
Poi aveva ridacchiato ancora, come se stesse raccontando un suo vecchio ricordo alquanto bizzarro. «Quel cazzo di palo in mezzo ai coglioni mi ha fatto un male della miseria.»
Roxas aveva ormai capito il vero motivo della sua paura; non aveva terrore dei ladri (anche perché era molto improbabile che potessero avere le chiavi di casa sua), e neanche dei mostri sotto il letto o dentro l'armadio.
Lui sapeva che era Axel, lo aveva già capito, lo aveva sentito prima, prima delle chiavi nella serratura.
Roxas aveva paura di Axel. Un presagio, un dannatissimo presagio del diavolo. Era tutta colpa di suo padre e della sua buonanotte del cazzo che lo stava completamente rincoglionendo.
Non si era ancora mosso di un centimetro; la paura lo teneva inchiodato al pavimento.
Axel aveva cercato di pulirsi il sangue dal naso con la mano sinistra e si era avvicinato pericolosamente all'altro fino a toccare il suo corpo con il proprio, fino a tuffarsi nell'oceano blu di quelle iridi immerse nel terrore.
«E' colpa tua se mi sono fatto male», questa volta non stava più sorridendo e dell'altro sangue aveva ricominciato ad uscire dalle sue narici doloranti. «Non dovevi andartene da casa mia.»
Roxas non aveva parlato e si era limitato a fissarlo intensamente, lasciandosi nel frattempo divorare dalle mani artigliate della paura: il sangue gli pulsava in tutto il corpo come un tamburo e temeva seriamente che il cuore potesse esplodergli nel petto. Era questa la paura? Quella viva, violenta, forte; era questo che succedeva quando i bambini incontravano i mostri cattivi dentro l'armadio o sotto il letto?
Non bisognava avere paura di loro, adesso Roxas lo aveva capito. Ciò che lo inorridiva era la paura, il suo essere, così maligno e bastardo da paralizzarlo come una statua. La paura rendeva tutto irreale, orribilmente irreale, ti faceva sperare di essere in un tremendo incubo e pregavi, pregavi qualcosa, qualsiasi cosa, che fosse tutto un incubo, sì, un incubo, soltanto un incubo.
Axel era rotto e lui lo sapeva.
C'era qualcosa che funzionava in modo strano nel suo cervello, il suo essere era macchiato, orribilmente macchiato, e al posto degli occhi aveva un paio di smeraldi splendenti che però se venivano tolti avrebbero lasciato posto a due voragini nere e vuote.
Aveva ventiquattro anni ed era uscito dalle superiori con un buon voto; questo dimostrava che non era stupido, anzi.
Eppure Roxas non era ancora riuscito a scoprire che cosa faceva attualmente nella vita. Studiava all'università? Lavorava? Chi lo sa (oscuri segreti).
«Perché cazzo te ne sei andato?», Axel aveva improvvisamente alzato la voce e aveva afferrato il giovane per le spalle con forza (troppa forza), spingendolo contro lo specchio che aveva iniziato a barcollare. «Perché cazzo te ne sei andato?! Ti avevo detto di startene lì buono, porca puttana! Che cazzo ti è saltato in mente, eh?! Roxas, apri questa fottuta bocca del cazzo e rispondi!»
Anche lui aveva cominciato a tremare, proprio come lo specchio; Roxas stava tremando e nel frattempo aveva sgranato gli occhi blu, spaventato a morte.
L'oceano si era aperto di fronte alla tempesta e le acque cercavano di ritirarsi al più presto (presto, presto).
«Rispondi, cazzo! DAMMI UNA FOTTUTA RAGIONE CHE TI ABBIA SPINTO AD ANDARTENE!»
Non aveva mai visto una persona così arrabbiata, così fottutamente incazzata, così piena di ira, di nuvole cariche di pioggia.
I lampi bombardavano il cielo e le vene sulla sua fronte stavano pulsando, mentre i suoi occhi verdi sembravano un prato notturno.
Axel era rotto e questo turbava molto Roxas.
Aveva schiuso le labbra leggermente tremanti, cercando di far finalmente sentire la propria voce, quando Axel aveva improvvisamente rafforzato la presa sulle sue piccole spalle; lo aveva fissato intensamente per qualche secondo e a Roxas era parso di vedere sulle sue labbra un sorrisetto sinistro.
Ma non aveva avuto il tempo di capire se era vero o meno che lui lo aveva spinto leggermente in avanti prima di sbatterlo con violenza (troppa violenza) contro lo specchio.
Aveva chiuso gli occhi per l'impatto e aveva provato a gridare, ma Axel si era fiondato con forza (troppa forza) sulle sue morbide labbra e l'aveva baciato con dolcezza e ferocia al tempo stesso.
Era riuscito a sentire il pungente odore del sangue dell'altro, anche se non era più esattamente sicuro che fosse il suo, dato che qualche secondo dopo Axel aveva iniziato a mordergli la bocca con così tanta forza da ferirla e farla sanguinare.
Roxas aveva paura e aveva seriamente pensato che sarebbe impazzito dal dolore. Axel lo avrebbe ucciso, se lo sentiva, lo avrebbe ammazzato senza pietà perché lui era rotto e lo disturbava.
Gli era sembrato davvero di udire le ossa delle spalle scricchiolare a causa della sua violenta presa: lo aveva guardato ancora, ancora aveva sorriso e ancora lo aveva sbattuto con forza contro lo specchio.
Ancora lo aveva baciato per farlo tacere e ancora lui aveva guardato implorante la porta aperta, sperando di vedere la figura di suo padre o di suo fratello apparire sulla soglia; se li era immaginati fuori, l'espressione vuota e spenta di suo padre insieme a quella terrorizzata di suo fratello. Li aveva visti, li aveva visti davvero, e, Dio mio, aveva pensato, la paura ormai lo aveva fatto impazzire.
Axel lo aveva spinto di nuovo e questa volta per zittirlo gli aveva messo il palmo sinistro sulla bocca, premendolo con forza (troppa forza); aveva nuovamente sentito il sapore del suo sangue asciutto mescolato al proprio, ancora denso e vivo.
Si era poi avvicinato pericolosamente al suo volto e Roxas, guardando nei suoi smeraldi splendenti, aveva definitivamente capito che era rotto: completamente rotto.
«Mi sono preoccupato per te.», gli aveva sussurrato accanto all'orecchio prima di afferrare lo specchio con la mano libera, buttandolo violentemente a lato e infrangendolo così sul pavimento nello stesso momento in cui un altro tuono era rimbombato nell'aria.
Centinaia di frammenti taglienti si erano dispersi sulle piastrelle, addobbandole come splendenti luci di Natale.
Axel aveva lasciato la presa sull'altro che però era stato costretto a rimanere incollato al muro a causa dell'atroce dolore alla schiena; per un attimo aveva avuto il timore di svenire o di veder saltar via le vertebre dalla sua colonna.
Non aveva più provato a gridare ed era rimasto immobile ad osservare quei frammenti luminosi per terra.
Lo specchio si era rotto, ma Axel restava comunque il più rotto, sia dentro che fuori.
Soprattutto dentro.
Lui era una statua di vetro, e si sa che il vetro non si può aggiustare quando si rompe. Eppure lui ci aveva provato e queste erano le conseguenze.
Gli aveva detto che doveva essere un gioco innocente; gli aveva raccontato che dovevano divertirsi e che non si sarebbe mai immaginato che tutto si sarebbe trasformato in una tragedia.
Axel aveva quindici anni, quattro mesi e ventitré giorni quando era andato in gita sul lago durante la stagione estiva; faceva così caldo che perfino rimanere seduto a non far niente lo faceva sudare come un porco.
Lui era il leader in mezzo a quel branco di svitati dei suoi amici e insieme si divertivano parecchio a combinarne di tutti i colori, facendo impazzire la città che li considerava dei delinquenti del diavolo.
Quando gliel'aveva raccontato, gli aveva detto che molto probabilmente con tutti quei malauguri che li gridavano dietro, alla fine qualcosa doveva pur succedere.
Ma non pensava qualcosa di così grosso. No, assolutamente no.
A inizio luglio gli era venuta quella che i suoi amici avevano considerato come l'idea perfetta: recarsi al lago che distava venti chilometri circa a est della città e fare una sorta di campeggio per un paio di giorni.
Una cosa da sballo, no? Aveva chiesto Axel mentre raccontava a Roxas, il quale si era limitato ad annuire con estrema attenzione mentre l'altro proseguiva.
Per i primi dieci chilometri avevano preso un autobus e per il resto avevano fatto l'autostop, terminando il viaggio in un camion pieno di gente fumata e fuori di testa.
«Erano simpatici.», aveva commentato Axel ghignando prima di mettersi le mani dietro la nuca e appoggiare la schiena sul divano rosso; Roxas lo aveva osservato attentamente, notando il suo lieve nervosismo nel parlargli di quel ricordo ancora vivo nella sua mente.
Il primo giorno era andato tutto abbastanza bene; avevano fatto un tuffo in acqua, due suoi amici si erano presi a botte, qualche volta litigavano per la direzione da prendere, ma tutto sommato non era male e il posto era estremamente piacevole.
Di notte, inoltre, si stava alla grande: dormire sotto le stelle era rinfrescante, altro che in città dove si schiattava di caldo e c'erano quasi trentasette gradi.
Il giorno successivo si erano svegliati vivaci e allegri, pronti a vivere una nuova mattinata, quando ad uno di loro era venuta la folle idea di guidare.
«Guidare?», Axel ricordava ancora il tono pacato e perplesso di Zexion di fronte a quello eccitato di Marluxia. «Sì, dai, gente! Vi immaginate che figata? Saremo i primi quindicenni della città ad aver impugnato il volante prima dei diciotto anni!»
«A me sembra una cazzata.», si era intromesso Riku, scuotendo la testa. «E poi dove diavolo la troviamo una macchina?»
Marluxia aveva così sorriso allegramente, assumendo un'espressione saccente. «Mio padre ha detto che poco distante da qui c'è un vecchio deposito di auto abbandonate o qualcosa del genere. Un paio di ore e ci arriveremo: ne varrà la pena, vedrete!»

I genitori di Marluxia erano i classici menefreghisti di turno; entrambi lavoravano fino alla tarda sera e non si accorgevano neanche della presenza del figlio, il quale se ne approfittava continuamente, combinando tutto ciò che gli passava per la testa.
Zexion Hugens, orfano di padre, viveva con sua nonna; sua madre era stata portata via dalla polizia e si diceva che avesse spacciato in giro droga o qualcosa del genere. Detestava quando si parlava della sua famiglia.
Successivamente tutti si erano voltati verso Axel che si stava fumando tranquillamente una sigaretta; sapeva perfettamente che la sua parola sarebbe stata quella finale, la più importante.
E proprio per questo, anche a distanza di nove anni, sentiva ancora i sensi di colpa che gli mettevano lo stomaco sottosopra; quei dannati, fottutissimi, sensi di colpa che gli riempivano i sogni di incubi letali.
Quei cazzo di sensi di colpa che lo avevano rotto.
Bastava un ''no''. Uno stramaledetto no e non sarebbe successo niente. Un no li avrebbe salvati.
L'idea di camminare così tanto non gli era piaciuta per nulla, data la sua natura estremamente pigra; eppure, nonostante ciò, aveva buttato la sigaretta per terra e l'aveva calpestata, sorridendo. «E vada per il deposito.»
Un ''no''. Bastava un maledettissimo no e non si sarebbe mai rotto.
«In realtà per arrivare ci mettemmo quasi tre ore.», aveva ammesso Axel socchiudendo gli occhi con aria spossata. «Con tutti quegli insetti non facemmo altro che rallentare il passo e gridare come delle femminucce del cazzo.», poi aveva ghignato e Roxas non aveva comunque aperto bocca, quasi timoroso di interrompere il nastro dei suoi ricordi.
La verità era che, oltre agli insetti, negli ultimi due chilometri avevano imboccato il viale sbagliato; per scegliere la direzione da prendere avevano lanciato una moneta in aria e si erano accorti solo mezz'ora dopo che quel metodo era e sarà sempre estremamente idiota.
Comunque alla fine erano arrivati sani e salvi, anche se nervosi e sudati come non mai.
Non era una cazzata; il deposito c'era davvero e davanti a loro si ergeva un'imponente recinto di rete su cui vi era appeso un cartello che diceva: ''Attenti al cane.''
A quel punto tutti si erano voltati in contemporanea verso Marluxia con aria irritata; quest'ultimo aveva deglutito e si era affrettato a parlare. «Vi ho già detto che il deposito è chiuso da tempo. Il cartello sarà sicuramente vecchio; scommetto quello che volete che non c'è nessun cazzo di cane.»
«E se invece c'è? Magari è anche pronto a morderci le palle.», aveva commentato aspramente Riku; Axel si era lasciato sfuggire un'affilata risata, quando tutti avevano iniziato ad osservare Demyx, il più vivace (e anche tonto, aveva ammesso Axel sghignazzando mentre raccontava) del gruppo, intento a scavalcare il recinto. «Ehi, gente, venite! E' facilissimo, dai!»
«Oggi è un giorno memorabile», aveva ripreso a parlare Marluxia, assumendo un tono da presentatore mentre imitava il compagno, appoggiando le mani sulla rete. «al nostro Dem-Dem è venuta un'idea!»

Axel era scoppiato rumorosamente a ridere e aveva iniziato anch'egli a scavalcare il recinto, canticchiando ad alta voce la canzone ''Drive my car'' dei Beatles.
Dem-Dem era un soprannome che gli aveva dato lui stesso a quattordici anni; erano appena uscite delle favolose caramelle alla menta chiamate ''Zem-Zem'' e Demyx ne andava matto. Ogni giorno si riempiva lo stomaco di quella robaccia, come la chiamava Riku, e una volta ne aveva ingoiate venticinque in meno dieci minuti, finendo ovviamente in bagno a vomitare.
Axel aveva così sostituito la ''z'' con la sua iniziale e ormai era diventato il suo soprannome ufficiale.
«Baby you can drive my car, yes I'm gonna be a star!», aveva continuato a canticchiare Axel, scendendo dal recinto con un balzo insieme a Zexion, Riku e Marluxia.
«Ehi, guardate lì che roba!», quest'ultimo si era illuminato, indicando una vettura bianca alla sua sinistra. «Proviamola!»
«Sì, che vuoi fare? Spaccare il vetro ed entrare? Così parte l'allarme e siamo tutti fottuti.», Riku aveva una certa diffidenza nei confronti delle folli idee di Marluxia e non perdeva mai l'occasione di sottolinearne i lati negativi.
«Ma chi vuoi che ci sia qui? Anche se parte l'allarme non lo sentirà nessuno!», e mentre Riku e Marluxia avevano iniziato la loro quarta discussione della giornata, Axel si era avviato verso una macchina celeste; sembrava una corvette molto vecchia, ma ancora in buone condizioni, tralasciando la targa mezza rotta e sporca.
«Ehi, ehi, ehi, ehi!», si era così fatto sentire dagli altri, schioccando un paio di volte le dita. «Branco di idioti, venite un po' qui.»
«Idioti a chi?», aveva replicato ringhiando Riku non appena aveva raggiunto il rosso; quest'ultimo, però, gli aveva fatto cenno di tacere e aveva indicato la vettura.
«Cosa? Questa? Ma è una talcagna!»
Axel ancora adesso si chiedeva dove diavolo Marluxia avesse preso la parola ''talcagna''; era un modo tutto suo di dire che una cosa era particolarmente vecchia, insomma, che faceva schifo.
«Però è aperta.», aveva osservato Zexion non appena aveva splancato la portiera del sedile davanti; Marluxia a quel punto si era immediatamente illuminato e aveva spinto il compagno, sedendosi al volante.
Demyx lo aveva seguito a ruota, prendendo posto accanto a lui. «Saremo dei piloti di formula uno, gente!»
Axel aveva ridacchiato, sedendosi sui sedili posteriori mentre Zexion diceva: «Io e Riku vi apriremo il cancello.»
La chiave era già infilata e Marluxia aveva dovuto solo girarla per accendere il motore: Axel aveva pensato che quella era una vera e propria botta di culo, ma non sapeva ancora che invece era il destino, pronto a tirare fuori i suoi artigli più letali.

«Ma hai mai provato a guidare?», aveva domandato Demyx con lieve titubanza, osservando Riku e Zexion che si erano avviati al recinto, cercando qualcosa che potesse assomigliare vagamente ad una porta.
«Forse si è allenato con il triciclo di sua cugina.», si era intromesso Axel ghignando, ottenendo un'occhiataccia dal diretto interessato e facendo ridere come un matto Demyx.
Gli altri due nel frattempo erano appena riusciti ad aprire il cancello e avevano fatto un cenno positivo con la testa; Marluxia allora aveva stretto con maggiore forza il volante tra le mani. «Tenetevi forte.»
«Ci conviene metterci la cintura?»
«La cintura è per le ragazzine impaurite, Dem-Dem», e Axel si era odiato immensamente per aver dato quella risposta.

A quel punto del racconto Roxas lo aveva visto prendersi la testa fra le mani e aveva pensato che sarebbe scoppiato a piangere, o che comunque avrebbe smesso di parlare.
Ma così non era stato.
Marluxia aveva premuto l'acceleratore e la vettura era immediatamente schizzata in avanti, raggiungendo il recinto aperto e uscendo in pochi attimi dal deposito.
Stavano ridendo tutti e tre come dei pazzi e Axel ricordava bene che le lacrime gli colavano lungo le guance da quanto forte stava ridendo; la macchina stava andando su un lungo viale e si allontanava velocemente dal bosco.
«Cazzo, guido alla grande!», aveva gridato Marluxia tra le risate e proprio in quel momento l'auto aveva colpito di lato un albero; Axel aveva avuto seriamente paura di farsela addosso dal ridere e continuava a pensare che l'idea di guidare era stata fantastica.
«Sì, fantastica a farsi ammazzare.», aveva commentato aspramente stringendo i pugni con un mezzo sorriso dipinto sul volto; Roxas continuava ad ascoltare in completo silenzio.
Erano tutti troppo idioti per chiedersi perché diavolo quelle macchine erano state abbandonate in un vecchio deposito.
Erano troppo suonati, troppo fatti e strafatti dalla voglia di provare pazzie sotto il caldo sole di quella stagione estiva.
«L'albero, cazzo! Sta' attento a quel fottuto albero!», aveva improvvisamente urlato Axel da dietro, indicando l'abete di fronte a loro; Marluxia si era affrettato a girare il volante e Demyx si era immediatamente irrigidito sul sedile, tirando un sospiro di sollievo non appena aveva visto la vettura allontanarsi.
L'albero. Sarebbe stato meglio andare a sbattere contro quel fottuto albero.
«Adesso però basta», aveva mormorato il rosso. «Marluxia, frena. Riku e Zexion si staranno preoccupando.»
Eppure l'auto continuava ad andare e gli alberi continuavano ad allontanarsi, così come il sole continuava a picchiare e il tempo continuava a scorrere.
«Marluxia, ho detto di fermarti. Basta.»
Gli alberi continuavano a correre

«Marluxia?»
e il sole continuava a picchiare;
«Marluxia, mi senti o no?!»
un gioco innocente. Doveva essere un cazzo di gioco innocente.
«BRUTTA TESTA DI CAZZO, FERMATI!»
L'auto correva sempre più veloce (troppo, troppo veloce); giù, giù, oltre il viale, supera il cespuglio, via, vai.
Demyx si era voltato lentamente e Axel aveva letto tutto in un attimo.
Era la prima volta che vedeva la paura, l'orrore, il terrore che divoravano gli occhi di una persona.
Aveva sentito lo stomaco fare un violento balzo quando aveva capito che il freno non funzionava.
L'auto aveva superato il cespuglio ed era sbucata in mezzo alla strada 49 di Street Black, colpendo in pieno un'altra macchina.
Lui era rimasto cosciente per tutto il tempo; aveva visto la morte in faccia, aveva assaggiato l'inferno intriso di sangue, tra il fuoco, l'odore di benzina, il rumore dello schianto e le urla.
Per un secondo aveva sentito invece il silenzio e aveva pensato di essere morto. Aveva sperato di essere morto; aveva sperato nella pace dopo la violenza.
Era rimasto fermo, immobile, e quando si era guardato attorno si era meravigliato di essere ancora in grado di respirare.
Era sopravvissuto; l'auto si era conficcata nell'altra vettura raggiungendo soltanto i primi due posti.
Era vivo ed era un miracolo.
Era vivo e non si era fatto nemmeno un graffio; soltanto qualche scheggia sulle braccia, ma era vivo e il suo cuore batteva ancora.
Axel Lewis non sapeva che in realtà si era rotto; non aveva ancora visto i frammenti di vetro del suo essere sparsi nella macchina.
Aveva alzato la testa e a quel punto era morto.
Ciò che aveva visto di fronte a sé non erano esseri umani; no, non lo erano più ormai. Erano rotti, era tutto rotto.
Marluxia aveva la testa penzolante su un lato e i capelli erano immersi in un lago di sangue denso, dall'odore forte e pungente; Demyx, accanto a lui, sembrava non esistere più.
Il parabrezza si era completamente rotto e lui era finito sul cofano dell'auto con i tergicistralli conficcati nel petto; il suo corpo sembrava rimanere unito per miracolo.
Axel aveva immediatamente aperto la portiera e si era piegato sull'asfalto, vomitando a causa dello spettacolo osceno; quando aveva rialzato lo sguardo aveva visto l'uomo dell'altra vettura con le palpebre socchiuse, il volto sporco, le gambe che non erano più insieme al resto del corpo. Era un ammasso di ossa sporgenti, carne e tendini vive.
A quel punto si era stretto la pancia e aveva vomitato ancora, udendo in lontananza le urla della gente.

«Demyx era morto; il parabrezza gli distrusse la cassa toracica e gli si conficcò nel cuore.», Axel aveva preso una sigaretta e se l'era accesa sotto lo sguardo scioccato di Roxas.
«Se si fosse messo la cintura forse sarebbe ancora vivo. Anzi, sono sicuro che sarebbe così.», si era portato la sigaretta alle labbra e aveva inspirato il forte odore del fumo. «Il tipo dell'altra macchina finì sulla sedia a rotelle. Aveva quarantacinque anni e quando sua moglie mi vide voleva spaccarmi la faccia.», poi aveva sorriso, come se la cosa fosse davvero divertente.
Roxas si era stretto la schiena sul divano, a disagio, mentre l'altro continuava. «Marluxia andò in coma profondo e non si risvegliò più. E' un vegetale.»
Altra pausa.
«Quando Zexion ha visto cos'era successo è svenuto e Riku non ha parlato per tre giorni. Anche se alla fine non è che parlasse molto.», aveva aggiunto poi ironicamente, ghignando.
Il biondo lo aveva osservato a lungo prima di decidersi finalmente a parlare. «Vorrei dirti che mi dispiace, ma in fondo ve la siete andati a cercare.», la voce tremante e i brividi lungo tutto il corpo; dopo quel racconto, oltre a sperare che Axel gli dicesse che se l'era inventato, non era più riuscito a guardarlo allo stesso modo.
Axel aveva visto la morte e sapeva che non era uno scherzo perché lui era rotto.
Il compagno era scoppiato a ridere, scuotendo la testa. «Non è vero. Noi eravamo le vittime.»
«Cosa?»
«Ho fatto credere a tutti che noi eravamo le vittime.», aveva ripetuto Axel, voltandosi lentamente verso il giovane che lo fissava ad occhi spalancati.
«Ho obbligato Zexion e Riku a stare al gioco; Marluxia era pazzo, ma noi non lo sapevamo e ci aveva costretti a salire in auto.», poi era rimasto in silenzio per un po', riflettendo. «Non volevo che mi sbattessero in prigione, Roxas. Mi capisci?»
Il diciottenne continuava a guardarlo, inorridito dal suo comportamento.
«E... E... E se Marluxia si risvegliasse?»
«Non si risveglierà.»
«Ma se-»
«Anche se si risvegliasse, non si ricorderà più niente. Prima dovrà imparare a parlare e a camminare, poi forse potrà essere un problema.», Axel si era avvicinato al ragazzo e gli aveva afferrato con dolcezza il mento.
«E' il nostro piccolo segreto, Roxas.», gli aveva poi bisbigliato accanto all'orecchio, accarezzandogli i capelli dorati con l'altra mano. «D'accordo?»
E lui aveva annuito meccanicamente; lo sguardo perso nel vuoto e la testa che gli pulsava all'impazzata.
Axel era rotto e aveva provato inutilmente ad aggiustarsi.
«Non so come l'abbiano presa i genitori di Demyx e di Marluxia perché poi me ne sono andato. Come ti avevo già detto, i miei erano degli ubriaconi del cazzo e non hanno neanche saputo dell'incidente. Sono venuto qui e ho vissuto tre anni con mio zio, terminando gli studi. Adesso faccio quello che voglio. Io sono forte, Roxas.», aveva appoggiato le mani sul petto del giovane e lo aveva fatto sdraiare lentamente sul divano. «Sono forte, Roxas. Ho sconfitto la morte e sono qui.», gli aveva sussurrato prima di sbottonargli la camicia bianca.
E quella sera aveva avuto la prova concreta che Axel era da tempo rotto.
Gli aveva mostrato i palmi sporchi di sangue come se fosse innocente: non sparatemi, bum, bum, bum, sono innocente.

Ma Axel non lo era per niente.
Lui aveva sotterrato decine e decine di cadaveri e poi aveva buttato la pala in mano a qualcun altro.
Roxas si stava chiedendo se lui avrebbe fatto tutto questo anche con la presenza di suo padre o Sora.
Chissà. Forse.
Suo padre non si sarebbe comunque mosso di un centimetro e suo fratello si sarebbe limitato a gridare a vuoto.
Era solo contro colui che aveva sconfitto la morte.
Axel si era chinato per raccogliere le lattine di birra e poi si era voltato verso la porta aperta. «Domani ti verrò a trovare, così farò anche un saluto a tuo padre.», poi era scomparso in mezzo alla pioggia, sorridendo.
Suo padre era tornato circa dieci minuti dopo e quando aveva visto Roxas chinato a terra, intento a raccogliere i frammenti di vetro, si era limitato a guardarlo per qualche secondo prima di avviarsi a prendere le cassette dei Red Sox.
E il giorno successivo Axel era andato davvero a casa sua; se l'era ritrovato sulla soglia della porta con un cerotto sul naso, un largo sorriso dipinto sulle labbra, mentre nella mano sinistra reggeva un mazzo di fiori e nella destra una cassetta.
Lo aveva salutato con un fugace bacio sulle labbra prima di avviarsi in soggiorno per appoggiare la cassetta sul tavolo. «E' una delle prime partite dei Red Sox. Quando torna tuo padre digli che è da parte mia.», successivamente gli aveva fatto l'occhiolino e gli aveva consegnato il mazzo di rose. «Come va la schiena?»
Fu proprio quella domanda a spaventare Roxas.
''Come va la schiena?''
Gliel'aveva chiesto normalmente; anzi, gli era sembrato addirittura preoccupato, come se non fosse realmente colpa sua. Come se tutto quello che era accaduto la notte precedente fosse stato soltanto un sogno, un fottutissimo sogno.
Non era la tempesta a spaventarlo, ma il modo in cui dopo tornava a splendere il sole.
Gli aveva detto che talvolta sentiva dei forti dolori e che si era formato un livido viola; Axel allora lo aveva portato in farmacia a prendere qualche crema e quando gli avevano domandato come si era procurato un livido del genere, il fulvo aveva detto che aveva avuto una brutta caduta.
Già. Proprio una brutta caduta.
Poi si era voltato verso di lui e aveva accennato uno strano sorriso. «Dovrebbe stare più attento a dove mette i piedi.», e il farmacista aveva annuito, completamente d'accordo.
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*Note di Ev'*
...
Giuro che non so come iniziare. Cioè, sono bloccata. Allora, ehm...
Allora, facciamo che vi spaccherò le ovaie parlerò del perché ho fermato momentaneamente le mie long-fic e di come è nata questa storia.
Questa storia è speciale per me. Dico davvero.
Volevo continuare le mie storie. Insomma, sì, sono tutte bloccate. Sia 'Tutor And Boyfriend', sia 'Evanescenti Giornate Incorniciate Da Sguardi Indiscreti', sia 'Insidie Interiori' che 'La Terra Di Mezzo.'
Non è propriamente una mancanza di ispirazione. E' una mancanza di voglia. E questo mi ha spaventata a morte.
Cioè, io, che amo la scrittura alla follia, non ho voglia di scrivere?
Sacrilegio, porco pinguino. Sacrilegio, cazzo, sì.
Ho iniziato ad avere paura, come ho già detto. Ero terrorizzata a morte; avevo paura che la mia carriera (?) si fosse conclusa -Come se fosse mai iniziata-, che non avrei più scritto, che, che...
Poi mi sono fermata e ho riflettuto.
Non avevo granché voglia di terminare quelle storie perché stavo aspettando qualcosa. Qualcosa doveva arrivare, me lo sentivo, giuro. Qualcosa di speciale, qualcosa di particolare e ho deciso di attendere, limitandomi a scrivere aforismi, poesie, e roba del genere tanto per sfogarmi.
Non se sia questa storia quel 'qualcosa', ma non credo. O forse sì, boh, chissà.
Comunque è arrivata improvvisamente e io ho avuto una folle voglia di scrivere dopo non aver toccato foglio per tre o quattro giorni -E vi assicuro che per me equivalgono ad un'eternità, non sto scherzando.-
E' la prima volta che scrivo una storia in maniera così... Così liscia, porco pinguino, si è scritta da sola, ma proprio da sola- solissima (?).
Tre giorni fa mi sono svegliata alle 07.40, dopo aver passato una schifosissima notte piena di incubi, e il mio primo pensiero è stata questa storia. Mi si è formata automaticamente una trama del genere, ho fissato il vuoto per mezz'ora e mi sono accorta che, cazzo, era un'idea buona. Non potevo scartarla, assolutamente no. Così ho atteso che i miei uscissero e ho iniziato immediatamente a scrivere.
La cosa strana è che ho scritto tutto su un foglio. Solitamente, lo ammetto, preferisco il computer, ma questa volta... Accidenti, ho scritto, ho scritto e la storia si è dilungata in maniera oscena. Mentre scrivevo mi venivano duecento idee al secondo e dovevo addirittura fermarmi per scriverle su un foglio a parte per evitare di dimenticarle. Ho scritto per ore ed ore, mi interrompevo soltanto per andare in bagno o per bermi un frappé.
'Fanculo, mi si è pure gonfiata la mano, eh? Ho sudato forte per far uscire questa... Questa cosa.
Lo so, poi magari non è neanche un granché. Ma io ci tengo ad essa, non tanto per la storia di per sé, ma per il modo in cui mi è uscita. E' stato pazzesco. Non so se siano tutti quei libri di Stephen King che mi sto divorando, i miei Dvd horror o che ne so, però sentivo che dovevo scriverla.
Per cercare di ambientarmi meglio nel clima dell'orrore ho ascoltato per ore e ore la theme del film di Gothika. Mi ha rincoglionito completamente, giuro.
Sono pazza, questa storia è una pazzia assurda e... E... Boh, non lo so. Si vede che sono suonata forte, eh?
Poi, mentre scrivevo, accorgendomi che stava diventando estremamente lunga, mi sono accorta che sarebbe stata dura pubblicarla tutta. Avevo paura che nessuno avesse voglia di leggere -E magari sarà davvero così, eh-, ma mi sono detta che ci avrei pensato dopo e ho continuato.

Questa storia potrebbe anche essere un caos senza capo né coda, e non vi biasimo se la pensate in questo modo.
Mentre scrivevo mi è uscito in automatico uno stile... Non so, questo nuovo stile che ho inventato per questa storia involontariamente. Una sorta di 'Ricordi nei ricordi'; il presente si interrompe e lascia spazio ad un passato, il quale a sua volta potrebbe interrompersi per creare un altro flash-back.
Io ho cercato in ogni modo di non creare confusione, e credo di esserci riuscita. Almeno spero, questa sta a voi dirmelo. Però doveva essere scritto così, me lo sentivo, era tutto dentro, nella mia testa.


Bene, adesso andiamo all'analisi della storia e dei suoi personaggi.
Roxas è un ragazzo di diciotto anni diverso dagli altri; sua madre è morta e suo padre è uno zombie che cammina.
Axel è un uomo di ventiquattro anni che ha qualcosa di strano, molto, molto strano che inquieta assai il biondo; ha un tragico passato a causa dell'incidente, è piuttosto stronzo sotto diversi punti di vista e ha degli strani scatti di ira per motivi alquanto banali.
Axel è furbo; è riuscito ad entrare nella vita di Roxas e ad essere la sua dipendenza proprio perché il secondo non ha delle figure adulte accanto a sé. Automaticamente Axel è diventato la sua unica ancora di salvezza, ma, al tempo stesso, non si accorge -O forse se ne accorge, ma cerca di non badarci- che lui lo sta buttando giù, nel fondo più oscuro del mare.
Proprio per questo ha continuato a frequentarlo nonostante la strana scenata che gli ha fatto per essersene andato di casa; e proprio per questo non ha detto nulla alla polizia sul fatto che Axel abbia mentito sull'incidente di nove anni prima.
Roxas ha bisogno di Axel anche se ha paura di lui e dei suoi atteggiamenti.
E il vero problema è il fatto che nessuno lo ha messo in guardia da Axel; quando ha parlato della sua nuova conoscenza a suo padre, utilizzando anche termini espliciti e volgari, ha desiderato ardentemente che suo padre gli prestasse attenzione, ha sperato che lo punisse come avrebbe fatto un padre normale. Eppure così non succede e questo simboleggia il fatto che Roxas è solo, nonostante suo fratello cerchi di aiutarlo.
Sia Roxas che Axel sono dei personaggi estremamente complicati con delle insidie interiori; solamente che le mostrano in maniera differente.

Well, ho finito. Ah, un'ultima cosa: la storia ha due capitoli e il secondo dovrei postarlo a breve, dato che ho solo bisogno di risistemare il finale.
Ero incerta se pubblicarla tutta in una volta o meno, ma poi mi sono accorta che vi è un punto in cui potrei dividerla per far risultare la lettura meno pesante e per preparare i lettori al finale inaspettato.
Oh, e l'ultimo capitolo sarà sicuramente meno breve di questo.

Che altro dire... Beh, per quanto riguarda le mie storie, non lo so. Forse potrei continuare ''Insidie Interiori'', perché è quella che mi sento di più di scrivere contando i miei sentimenti attuali, e speriamo bene per le altre storie. Detesto interromperle, ve lo assicuro, e sono abbastanza sicura che andranno avanti anche prima di Settembre.
Detto ciò, lascio a voi la parola. Vi prego veramente di recensire perché, come ho già detto, tengo molto anche a questa storia e vorrei dei commenti su questo stile un po' particolare che ho utilizzato. Mi incazzo assai se vedo che aggiungete la storia tra le seguite senza commentare è_é
Alla prossima,
E.P.R.

Ps. Mi scuso enormemente se non ho ancora risposto alle recensioni nelle altre storie; mi sento uno schifo, giuro, però proprio non sono ancora riuscita a trovare il tempo. Mi dispiace tantissimo, ve lo posso assicurare, ma vi ringrazio per aver avuto la pazienza di commentare, siete stati davvero gentilissimi!

 

   
 
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