punti
di un luogo geometrico
{ I’m happy. Hope you’re happy too }
1982
Tutto
è esattamente come diceva Sam e al tempo stesso è molto
più irreale.
Eppure Alex lo sente – sente tutto di questo folle mondo malato che
nasce a metà strada tra la vita e la morte. Di giorno sente gli odori e
gli umori dell’adrenalina che le percorre il corpo, il rombo del sangue
nelle orecchie, nel momento subito precedente a un arresto o a
un’irruzione non propriamente legale. Di notte si sente la testa pesante
e poi la dura consistenza del legno della scrivania, sulla quale puntualmente
cade addormentata in mezzo a un mare di documenti, perché in fondo fa
molti meno incubi in centrale che non nella solitudine di
quell’appartamento vuoto dove neanche Molly viene più. Sente,
soprattutto, la presenza fissa di Gene Hunt, quel punto
di fuoco che se la strattona sempre appresso e fa sì che il folle mondo
malato orbiti tutto attorno a loro – se lo sente accanto in ogni istante,
il calore della sua vicinanza appena prima di erompere dal furgone della
polizia e impossessarsi della scena, la sicurezza del suo passo e delle sue
mani ogni volta che la scopre assopita e le copre le spalle con una giacca
scivolata sul pavimento. Alex finge
di non sentirlo ma lo sente sempre,
perché più di tutto e più di tutti – di Chris, di Ray, di Shaz – Gene Hunt è esattamente come diceva Sam e al tempo stesso
è molto più reale.
Qualche volta ha davvero paura che, se non
starà attenta, quell’uomo si prenderà la sua vita come ha
fatto con quella di Sam.
~
1 aprile 2006
La
prima volta che l’ispettore Drake viene a trovarlo, Sam non ha ancora
parlato con nessun altro.
Alza gli occhi quando la sente entrare, ma la
stanza è semibuia e lei non gli chiede di accendere la luce. Sam la
sogguarda in silenzio per qualche istante, prima e dopo che la porta si chiuda.
I suoi occhi abituati alla penombra identificano il profilo di una bella donna,
con un buon profumo, scarpe eleganti e un’energia interiore che traspare
da tutto il suo portamento – sorride tra sé e pensa che al capo piacerebbe. Magari per un po’
la tratterebbe come una pezza da piedi, però gli piacerebbe. Il capo è fatto così
dopotutto. Poi l’ispettore Drake viene a sedersi sul letto accanto a lui
e Sam ha un sussulto involontario, perché non è mai stato tanto
vicino a una donna da quando è tornato e perché odia il fatto che
quella donna non sia e non potrà mai più essere lei.
«Sa perché sono qui.»
Sam butta fuori uno sbuffo che è un
po’ un sospiro e un po’ una risata. «So perché
è qui» ripete, come per dare più peso alle parole; in fondo
soltanto le parole gli sono rimaste.
L’ispettore Drake tace e gli resta vicina
senza forzarlo a parlare. Sam gliene è grato e al contempo la odia per
questo. Il mondo – questo mondo
– va avanti secondo una logica sequenza di domande e risposte, non come quello in cui tutto andava in
un’unica direzione e tu non potevi fare altro che lasciarti trascinare.
È difficile pensare se non si ha la sicurezza di un punto di arrivo.
È già abbastanza difficile parlare a se stesso, in quel piccolo
registratore di produzione giapponese, modello anni novanta, nella stupida
illusione di fare chiarezza in tutto quel casino e di sentirsi un po’
meno alla deriva e un po’ meno solo.
Ci mette un’eternità di tempo a
formulare una frase e quando ci riesce la sua non è una risposta, ma una
domanda.
«Lei mi crede pazzo, Alex?»
L’ispettore Drake continua a tacere e Sam
stavolta la odia un po’ di più. Ma d’altro canto odia tutto,
da quando è tornato. È strano come e quanto lotti per tornare a
casa quando ne vieni bruscamente strappato via, e poi una volta lì
continui a rimpiangere il viaggio burrascoso che, un guaio dopo l’altro,
ti ci ha riportato. Rimpianto, ecco cos’è, e forse rimorso. Ecco
perché fa così male. Ecco perché lei non è quella lei.
Si volta verso la figura immobile e silenziosa,
offre il volto a uno spiraglio di luce filtrata dalla tenda bianca alle spalle
di Alex Drake. «Finora mi ha solo sentito parlare. Adesso mi guardi. Per
favore, mi guardi.»
Così stagliata in controluce,
l’espressione della donna gli è inaccessibile, ma il tocco
improvviso quanto leggero dei suoi polpastrelli sullo zigomo ha il potere di
placare quell’onda di rabbia che si è levata dalla parte
più nascosta del suo stomaco. Chiude gli occhi, espira, cerca di
ricordare il tocco delle mani di lei,
il suo cuore che batteva.
«Non credo che lei sia pazzo, Sam.»
È la prima volta che l’ispettore
Drake viene a trovarlo, ma Sam sa già che non riuscirà a parlare
con nessun altro. Forse lei, lei sola, lo capirà.
~
30 aprile 2006 – 30 aprile 2008
Il
giorno del suicidio di Sam Tyler resterà sempre marchiato a fuoco nella memoria
di Alex Drake.
La cosa che più le ha fatto male è
stato l’apprendere la notizia dai media. Dopotutto era convinta di
rappresentare qualcosa per lui, anche se ha sempre saputo che quel qualcosa non
sarebbe sopravvissuto a lungo. Hanno dormito insieme, qualche volta, ma nessuno
dei due si è mai aspettato niente dall’altro. Sam si è
illuso fino alla fine di trovare in lei qualcosa di più forte di –
qualunque cosa fosse ciò che incupiva tanto i suoi occhi, e Alex si
è solo illusa di capirlo, forse. Eppure le fa davvero male che lui se ne
sia andato così.
Un mese. Un mese
è tutto ciò che è riuscito a sopportare. Quattro
settimane. Trenta giorni. Settecentoventi ore.
Chissà quanto deve essergli sembrato
lungo, quel tempo, e se sapesse che per lei invece è stato così
breve.
Ha iniziato a studiare il suo dossier con
più impegno e più passione del previsto, perché le sembra
di doverglielo, ora che ha definitivamente fallito nel salvarlo; non era la sua
psicologa, ma non gli è comunque servita a dimenticare i fantasmi che di
notte lo tenevano sveglio – anche quando c’era Alex, soprattutto
quando c’era Alex. Spesso si svegliava e lo vedeva così, con gli
occhi fissi sul soffitto, e «Continuo a vedermi davanti la sua faccia»
diceva Sam, e qualche volta era la faccia di un lui e qualche altra volta di
una lei. Baciarlo non lo riportava indietro allora e studiare le sue parole lo
farà oggi meno che mai, ma forse, se riuscirà a capire, Alex si sentirà meno in
colpa nei suoi confronti.
Ha iniziato a studiare il suo dossier il giorno
stesso in cui la tv le ha sparato quel titolone negli occhi, giovane ispettore capo svegliatosi dal coma
si getta da un tetto, e lo stesso giorno ha raccontato a Molly la sua
storia.
Esattamente due anni dopo, un uomo con una
pistola in mano le mostra il mondo di Sam Tyler.
~
11 ottobre 1981
I
ragazzi se ne sono andati da un pezzo e Luigi ha già portato via una
quantità imprecisata di bottiglie quando Drake crolla sul banco,
ridacchiando come una puttanella in calore. Gene si ritrova costretto a scuotere
un po’ la testa perché, santiddio, va bene che lui potrebbe
scolarsi una trentina di birre ed essere ancora abbastanza lucido da scalare il
K2 e piantarci sopra una bandierina con i colori del Manchester, ma vai a
capire quanto cazzo ha bevuto stasera. E quando Drake gli scivola addosso il
suo primo pensiero non è
esattamente quello più sobrio che si potrebbe avere.
«Va bene, Mutandine, muovi il culo e vai a
letto» grugnisce, scrollandosela via con poca convinzione, «e prima
che cominci a domandartelo, non è una proposta.»
Drake si alza malamente sulle gambe tremanti,
solo per ricadere sullo sgabello con un’altra risatina. Gene si guarda intorno,
ma anche se il ristorante non fosse vuoto sa che comunque toccherebbe a lui.
Evita di sbuffare – gli serve tutto il fiato possibile – e si china
per prendersi Drake in braccio, urla un «buonanotte» a un Luigi che
non riesce a mettere a fuoco e col suo carico tutto sghignazzante se ne va
verso le scale, sforzandosi di ricordare la strada per l’appartamento del
suo detective dalla scarsissima sopportazione alcolica.
«Sei tu, capo?» farfuglia Drake,
sempre ridendo tra sé. «Sei ancora tu, vero? Come puoi esserci
ogni volta che mi servi, eh? Com’è che c’eri per lui e anche
per me, eh?»
«Shh.»
Gene si ferma un attimo a metà rampa, aspettando che la vista gli si
schiarisca. Poi riparte più convinto. «Non dovresti parlare quando
sei sbronza, donna, è chiaro che non puoi reggere lo sforzo.»
Drake ha gli occhi chiusi, le mani aggrappate al
bavero del suo cappotto, le guance rosse almeno quanto le labbra. Continua a
biascicare parole incomprensibili, ma si lascia portare – in qualche modo
– fino in casa e poi in camera da letto. Gene la lascia cadere senza
troppi complimenti sopra le coperte impeccabili e si volta per andarsene,
barcollando appena, ma la mano che prima gli sfiorava il collo ora si chiude
come una morsa attorno alla sua, e come
cazzo fa ad avere tanta forza in questo stato si chiede lui voltandosi di
nuovo verso il letto, e Drake adesso ha gli occhi aperti e Gene li scopre
così lucidi che per un attimo ha l’impressione che né la
sbornia né le risate c’entrino niente. Cristo, dev’essere
davvero ubriaco.
«Eri tu, capo, eri tu» boccheggia
Drake, i capelli sparsi sul cuscino, il petto sollevato nel respiro irregolare.
«Eri tu anche allora. Non dovevi essere tu, doveva essere lui... Invece
eri tu. Perché eri tu? Perché sei ancora tu? Io non capisco...
Non ci capisco niente.»
«Siamo in due, Mutandine» sbotta,
seccato dal modo in cui un goccio di vino è in grado di farla delirare. Ok,
forse non proprio un goccio. «Ti
sei stancata di me? Allora lasciami andare, no?»
La stretta si fa ancora più forte e Drake
chiude di nuovo gli occhi, e le sue ultime risatine sfumano in una serie di
singhiozzi duri e secchi. «Ci ho provato.»
Gene la fissa impassibile, ma con il cervello
bene in funzione: non ha la minima idea di cosa diavolo fare con lei. Non può
lasciarla così. Non può lasciarla e basta – ma questo lei non dovrà mai saperlo.
Siede sul letto al suo fianco e non dice niente,
neanche quando Drake lo abbraccia e scoppia in lacrime sulle sue ginocchia.
«Ci ho provato... Ti giuro che ci ho
provato... Ma tu ci sei sempre, e io
non so perché.»
Gene resta immobile a guardare un maledetto muro
finché Alex non si addormenta.
~
1983
È
diventato familiare, così familiare. Saprebbe definire con analitica
precisione ogni ruga del suo volto, la sfumatura d’azzurro dei suoi
occhi. Avverte i suoi movimenti non dal suono dei suoi passi, ma dall’aria
che improvvisamente si trasforma, si fa attenta, viva. Conosce a memoria ogni
sua espressione, il modo in cui scopre i denti dopo aver tracannato un sorso di
scotch, la piega delle sue labbra durante gli interrogatori, persino le
emozioni che cerca di sopprimere e che lo tradiscono nei momenti più
imprevisti – il tradimento di Chris, le paure di Shaz,
i rimpianti di Ray, il nome di Sam Tyler. Alex conosce tutto di lui e non sa, proprio non
sa come farà a tornare a casa, perché una cosa è ormai
certa: Gene Hunt si è preso la sua vita come
ha fatto con quella di Sam.
E forse non succederà mai, forse non
rivedrà mai più Molly o Evan e non potrà
più guardare Thelma & Louise
e non sentirà mai più il conforto silente di un abbraccio di
Bryan, ma forse sopravvivere a questo non sarebbe più difficile che
lasciarsi alle spalle Gene Hunt.
«Tu vieni, Mutandine?»
«Arrivo, capo!»
Perché Gene Hunt
si è preso la sua vita, e non in un modo in cui potrebbe prendersi
quella di chiunque. Ma questo lui non
dovrà mai saperlo.
Spazio
dell’autrice
Questa
storia non ha né capo né coda, ne sono pienamente consapevole e
non rimpiango niente, f*ck yeah.
Guardando
Ashes to Ashes mi
sono interrogata più volte sui possibili rapporti esistenti tra Alex e
Sam; sappiamo che Alex essenzialmente non ha fatto altro che studiare il suo
caso, come ha studiato mille altri casi di colleghi che avessero vissuto un
trauma, però non mi dispiace neanche pensare che la particolarità
della situazione di Sam l’avesse resa più vicina a lui che a
chiunque altro. Giuro che non avevo intenzione di costruire questa sorta di
triangolo amoroso, ma il risultato è venuto così, del tutto
spontaneo, quindi suppongo che forse a livello inconscio l’idea non mi
dispiaccia poi molto – anche se il Gene/Alex è l’OTP, ovviamente. ♥
Ci sono
un sacco di piccoli riferimenti alle due stagioni di LoM
e alle tre di A2A, ma il più importante è il presupposto della
quarta ‘scena’ – l’11 ottobre 1981 corrisponde al
giorno dopo la scoperta di Alex circa l’identità dell’uomo
che l’ha portata via alla morte dei suoi genitori, colui che lei credeva
essere Evan e invece era Gene. Ci tengo a
sottolinearlo perché è importante sapere che Alex si è
ubriacata dopo un preciso shock, ecco u__ù Un
poco prima, Sam che pensa a una ‘lei
che non è quella lei’ intende il fatto che nei suoi pensieri Maya sia
stata sostituita da Annie. Nonostante l’accenno Sam/Alex, il filo
conduttore di tutti i sentimenti di Sam è assolutamente Annie. Per il
resto nessun particolare spoiler, credo.
All’inizio
il titolo voleva essere diverso: avevo pensato a qualcosa che alludesse alla
circonferenza (il luogo geometrico di
punti equidistanti da un punto detto centro, quale sarebbe stato Gene), ma
poi ho pensato che mutilare la definizione avrebbe reso meglio il caos
assolutamente voluto di questa specie di raccolta. Il sottotitolo
è invece un verso dell’omonima Ashes to Ashes di David Bowie e si riferisce a
una sorta di congedo interiore che Alex prende da Sam, dopo essersi resa conto
che Gene si è preso la sua
vita in tutt’altro modo rispetto a quella dell’altro.
Concludo
ringraziando Frosba, la mia gentilissima sensei che mi ha appassionata a entrambi i telefilm: senza
di lei questa shot non ci sarebbe stata e forse
sarebbe stato meglio così ♥
Aya ~