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Autore: MedusaNoir    22/08/2012    2 recensioni
[Sine Requie]
Il 6 Giugno 1944, la storia dell’umanità cambiò per sempre: i Morti sono tornati dalle tombe e continuano a risvegliarsi.
L'Europa è divisa tra Sanctum Imperium, IV Reich e la Russia dominata dall'inumano Z.A.R. Nelle Terre Perdute gli Stati (Gran Bretagna, Francia e Spagna) sono lasciati a marcire e i Sopravvissuti non possono fare altro che difendere la propria vita a tutti i costi.
In Inghilterra, a sud di Londra, si trova uno dei rifugi attrezzati per i Vivi: quindici persone lo abitano, cercando di condurre una vita normale, ma pur sempre da relegati. Fin quando si presenterà ad alcuni di loro l'occasione di cambiare le carte in tavola.
[GDR su "Sine Requie - Terre Perdute"]
Genere: Angst, Avventura, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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F A T H E R L A N D

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Il mattino ha l’oro in bocca

 

 

 

La Morte! La Morte! La Morte che arriva!

La Morte rognosa, la Morte lasciva,

la Morte che dona, la Morte che prende,

la Morte che ruba, la Morte che rende.

 

 

 

 

 

12 ottobre 13 A. D-D.

h. 8.00 a.m.

Sud di Londra

 

Il primo pensiero di Heathcliff, quando quella mattina aveva sbirciato fuori dalla finestra del capanno in cui dormiva – preferiva affondare la schiena tra la paglia piuttosto che lasciare la sua motocicletta incustodita – fu che le nubi nel cielo non prospettavano una bella giornata. Ormai, tredici anni dopo il D-Day, il Giorno del Giudizio, l’unica caratteristica capace di rendere una giornata una bella giornata era il tempo: tra i mucchi di Morti che si stendevano fuori dalla fattoria fortificata in cui quindici Sopravvissuti erano riusciti a trovare rifugio, era ben difficile sperare in qualcosa di meglio di una bella giornata di sole.

Heathcliff grugnì, infastidito dal tempo che ancora una volta lo aveva tradito, e si diresse a passo pesante verso il grosso cortile dove stavano facendo colazione alcuni Vivi. Si sistemò come di consueto tra Iris e Bob, divertendosi a interrompere il loro idillio, e afferrò la tazza di latte – o forse era meglio dire il fondo della tazza – che l’americano gli passò. Strano gruppo quello seduto al tavolo, rifletté Heathcliff mandando giù a piccoli bocconi la sua fetta quotidiana di pane, in modo da razionare le porzioni come stavano facendo anche Bob e Jean.

C’era Iris O’Hara, la ragazzina – ormai aveva ventisei anni, ma Heathcliff faticava a smettere di vederla come l’indifesa quattordicenne che aveva trascinato via da quei medici da strapazzo – che per lui era diventata come una sorella; i capelli biondi, gli occhi verdi e la corporatura esile, tutto di quell’aspetto angelico contribuiva a darle le sembianze di un’ingenua Sopravvissuta che non capiva nemmeno per quale motivo fosse scampata ai Morti, ma Heathcliff sapeva – e ne rideva sotto i baffi – che Iris avrebbe potuto tranquillamente essere la Viva più letale che si trovava in quel rifugio.

Bob Armstrong, l’americano: com’era possibile che un ex ballerino dei varietà per le truppe alleate fosse diventato un Cacciatore di Morti come lui? Di certo la cicatrice che gli deturpava il volto giocava a suo favore, nonostante non fossero in pochi a scherzare sul suo passato. Era grazie a Heathcliff e Iris se in quel momento si trovava là, in quella fattoria a sud di Londra, come d’altro canto era stato grazie a lui che Heathcliff aveva evitato di morire dissanguato. Se le sue doti di ballerino e cantante era pari alle sue abilità nel campo medico, non c’era da stupirsi che fosse stato così famoso tra gli alleati.

Davanti a loro sedeva Jean Chevalier, un – Heathcliff sbuffava ogni volta che lo definiva così – francese. Era un mercante e molto probabilmente la nobile arte del baratto era l’unica cosa che sapesse fare; Heathcliff lo aveva visto imbracciare un’arma, però mai per uccidere. Per fare la guardia, per ferire i Morti che barcollando si avvicinavano alla fortezza, quello sì, ma le teste spappolate non erano il suo genere. L’aspetto curato non pareva appartenere a un uomo che, come Heathcliff e Bob, si era fatto le ossa combattendo i Morti. Eppure il suo ottimismo aveva portato il trentenne Jean ovunque, dalla Francia a Dover, da Dover al resto dell’Inghilterra, e continuava a farlo: dal cortile alla camerata, dalla camerata al cortile.

Infine c’era lui, Heathcliff. Si chiese come avrebbero potuto definirlo gli altri: misterioso? Taciturno? Solitario? Con la mania di comandare? Oppure si sarebbero soffermati sul suo aspetto, sulla scura chioma incolta che gli ricadeva sulle spalle o sulla barba che incorniciava la sua bocca, sui profondi occhi neri o sulla corporatura slanciata? Di certo non avrebbero fatto parola del suo passato, dal momento che nemmeno Iris era a conoscenza del ragazzo che era prima di incontrarla, prima di compiere ventitrè anni. Prima del Giorno del Giudizio. Onestamente, Heathcliff stesso tentava di dimenticarlo: forse era per tale motivo che aveva scelto un soprannome, ma forse aveva optato proprio per “Heathcliff” in modo da rimanere ancorato a quel passato che detestava. E che il libro che teneva nella borsa gli ricordava costantemente.

- Non ho fame, - esclamò improvvisamente Iris distogliendolo dai suoi pensieri. Allontanò la fetta di pane. – Potete dividervela.

- Non dire assurdità, ragazzina, non è il momento di fare la schizzinosa, - la rimproverò Heathcliff; stava per spingere il pane verso di lei, ma intercettò il suo sguardo testardo: inutile insistere.

- Dividiamolo e teniamolo per dopo, - propose Bob.

Heathcliff, come Jean, afferrò il pezzo di pane che Bob gli porse, ripromettendosi di tenerlo con sé fino al momento in cui Iris non avrebbe avuto fame; sapeva che sarebbe arrivato, come sapeva che Christine Talbott, la bambina di sei anni seduta sulla soglia di uno dei capanni, sarebbe inciampata sulle costruzioni con cui stava giocando o che William Sinclair, l’ex poliziotto di Londra ormai vecchio e deperito, si sarebbe lamentato della tosse che non accennava a lasciarlo in pace. La vita nella fattoria fortificata era uguale giorno per giorno, Heathcliff poteva chiudere gli occhi e descrivere ciò che lo circondava nei minimi dettagli: il cortile in cui facevano colazione e tenevano le armi più ingombranti; i quattro capanni che ospitavano le camerate, una piccola sala da pranzo e un sotterraneo; il pozzo mal funzionante che sicuramente qualche Vivo stava utilizzando per lavarsi… Ogni tanto le sentinelle sparavano ai Morti che sbucavano dai boschi circostanti e risalivano la collina, colpendo le loro gambe e obbligandoli così a strisciare fino a che la fame non li uccideva una volta per tutte.

La fattoria poteva essere monumentale, ma a chi, diversamente dalla piccola Christine, aveva attraversato mari e lande appariva soltanto come la minuscola cella di una prigione. Abbastanza comoda, un riparo sicuro dai Morti; comunque una cella.

- Heathcliff, - tuonò una voce.

L’uomo alzò il capo e incontrò gli occhi grigio scuro del vecchio Sinclair; accanto a lui la presenza del ventisettenne Henry Burton, biondo e nel pieno delle forze, evidenziava ancora di più i suoi sessant’anni. Si diceva che un tempo Sinclair fosse stato uno dei migliori poliziotti londinesi, un incubo per ladri e assassini; tuttavia ora dell’eroe di un tempo restavano solo i capelli bianchi e una cicatrice che attraversava il braccio destro dalla spalla al gomito.

- Abbiamo finito le provviste, - spiegò Burton sedendosi vicino a Jean. Sembrava strano che a dare ordini – perché stava per darli, oh, sì – fosse un ragazzo così giovane rispetto agli altri membri della comunità, ma quando Heathcliff e i suoi amici erano arrivati nella fattoria quattro anni prima era stato Burton ad accoglierli e a fornire loro un rifugio sicuro, per cui poteva permettersi di comandare quanto voleva. Beh, ovviamente senza lenire l’orgoglio di Heathcliff. – Ci serve soprattutto carne: l’ultima volta che sono uscito a cacciare ho trovato una colonia di cinghiali a nord-est, dietro il vecchio castello. Potete pensarci voi?

Suonava più come un: - Portateci tre cinghiali a costo della vostra vita o vi daremo in pasto ai Morti domattina.

Il cibo era importante per la sopravvivenza della comunità e la loro era una delle poche che dopo quattro anni non si era ancora scannata per la scarsità di provviste, perciò ordine o non ordine bisognava fare buon viso a cattivo gioco.

- Partiamo subito, - rispose Heathcliff, alzandosi in piedi. – Facciamo rifornimento di armi.

Poteva sembrare strano parlare di “rifornimento bellico” dal momento che il tratto di strada che divideva la fattoria dal rudere del castello era meno di un chilometro; tuttavia, era più facile ammazzare un Vivo che un Morto, e solo Dio sapeva quanti Morti avrebbero potuto incontrare lungo il breve cammino. Entrarono nel secondo capanno e si armarono più che poterono: Iris prese una pistola, lasciando da parte l’arco, Jean un fucile e Bob un machete – da aggiungere al consueto equipaggiamento che tenevano sempre con sé –, mentre Heathcliff si limitò a mettere in tasca una scatola di fiammiferi e a tornare dalla sua moto, dove aveva lasciato lo Springfield e l’accetta.

- La porti con te? – gli chiese Jean, notando che Heathcliff stava trascinando la motocicletta.

- Se ce la vediamo brutta, io e qualcun altro potremo sempre fuggire, - rispose l’uomo in tono piatto, celando l’ironia nera della sua affermazione. Lanciò un rapido sguardo a Iris, evidenziando chiaramente chi sarebbe stato quel “qualcun altro”.

- Iris, Iris! – chiamò la piccola Christine, correndo verso la ragazza con una bambola rattoppata tra le pallide mani. – Perché te ne vai?

Iris si inginocchiò davanti a lei e le passò una mano tra i capelli dorati: era così bella Christine, così sfortunata a crescere in una valle di Morti. – Esco a prendere qualcosa da mangiare.

- E quando torni giochi con me?

Heathcliff colse il lampo di incertezza negli occhi verdi di Iris.

Non sapeva se sarebbero tornati, o in quale forma lo avrebbero fatto: nelle Terre Perdute niente poteva essere dato per scontato.

- Sì -. Iris posò le labbra sulla fronte di Christine e l’abbracciò rapidamente per non farla preoccupare. – Ci vediamo dopo!

 

Heathcliff amava uscire dalla fattoria; nessun altro lo avrebbe mai ammesso, tremante per il terrore di venire attaccato, ma sembrava di poter prendere fiato una volta varcato l’imponente cancello. Il tragitto intorno al vecchio castello somigliava all’ora d’aria dei carcerati, con l’irrilevante eccezione che avrebbero potuto perdere la vita a ogni passo. Le giornate nella fattoria li stava rammollendo, pensava Heathcliff, li avrebbe resi incapaci di difendersi in caso di necessità se non ci fossero state quelle brevi incursioni di caccia.

Il gruppo percorse l’immensa distesa erbosa puntellata da resti di Morti, superando i ruderi del castello un tempo utilizzato dalle truppe statunitensi come rifugio. Heathcliff, Iris, Bob e Jean erano arrivati ormai a cinquecento metri dalla fattoria quando la videro: una bella famigliola di cinghiali composta anche da parenti di terzo grado. Era difficile colpirne uno durante la fuga, per cui era sempre meglio trovarne tanti.

Senza dare agli altri il tempo di estrarre le armi, Iris sfoderò la pistola e uccise la prima preda, colpendola dritta fra gli occhi. Come l’aveva definita Heathcliff? Ah, sì: letale.

Tirò anche lui un colpo con il fucile, mostrando di non essere inferiore alla sua “sorellina”, e con la seconda vittima di Iris arrivarono a guadagnarsi tre cinghiali prima che la mandria si disperdesse verso i boschi.

- Bob -. Heathcliff fece segno all’americano di avvicinarsi e si mise sulle spalle il primo cinghiale, aspettando che il compagno facesse lo stesso; si voltò verso Jean e storse il naso, scettico. – Chevalier, il terzo è tuo.

Amava chiamarlo per cognome: “Chevalier”, con il suo suono così delicato, sembrava rendere perfettamente l’idea che Heathcliff aveva di Jean.

Si rimisero subito in marcia verso il rifugio, prospettando davanti a loro almeno tre settimane di provviste con quei cinghiali – avrebbero dovuto razionare attentamente, ma ormai ci avevano fatto l’abitudine; avevano fatto solo qualche metro quando udirono il rumore della motocicletta contro il terreno.

- Ma che diavolo…? – esordì Heathcliff, pronto a inveire contro Iris, che era incaricata di trascinare la sua amata moto, ma si interruppe quando notò che la ragazza stava puntando di nuovo l’arma. Non si trattava di un cinghiale questa volta.

Un Morto barcollava verso di loro.

All’apparenza i Morti – soprattutto nel caso dei cadaveri di anziani che in vita non sarebbero stati capaci di muovere un passo, come quello che camminava lentamente davanti ai loro occhi – per chi c’era abituato sarebbero potuti sembrare un ostacolo tranquillamente valicabile, se incontrati da soli; tuttavia non era così facile farli fuori una volta per tutte, e il gruppo di Sopravvissuti lo sapeva bene. Fu quello il motivo per cui gli altri non si stupirono quando uno di loro tranciò il collo del Morto e fece volare via la sua testa, senza però impedirgli di continuare ad avanzare.

Almeno finché non si accorsero che ad avventarsi con la propria ascia sul cadavere era stato Jean Chevalier. Non un dubbio, non un attimo di esitazione.

Purtroppo non c’era tempo per congratularsi e stringergli la mano: Heathcliff colpì con l’accetta il gomito del Morto, poi in fretta si spostò sul braccio sinistro e lo mandò a fare compagnia alla testa, schivando appena in tempo – e per pura fortuna – il proiettile di Bob che colpì il ventre, facendo cadere l’avversario a terra. Poco distante, Iris aveva stranamente fallito il suo colpo e si era allontanata per non essere coinvolta nella battaglia.

La “vita” del Morto durò ancora poco: Jean, come una furia, si avventò sul suo addome, dividendo il corpo in due, e continuò a infierire sugli arti che erano rimasti attaccati. Poteva sembrare una pratica poco ortodossa – d’altronde, non era ormai morto una volta per tutte? – però i Sopravvissuti avevano imparato a capire che un Morto non si alzava più in piedi quando non aveva gambe per farlo.

- Beh, anche questa è fatta, - esclamò Jean, sollevandosi e asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica del cappotto.

Heathcliff non lo stava ascoltando, qualcos’altro aveva attirato la sua attenzione.

- Iris?

La ragazza era a terra, in preda a una crisi di panico: respirava a fatica, cercando di muovere le braccia che minacciavano di paralizzarsi per il terrore, e ripeteva lo stesso nome come una preghiera.

- Sam… Sam…

Heathcliff aveva avuto occasione di vederla in molte situazioni, che stringeva i denti mentre Bob le medicava le ferite o che sorrideva a Christine quando la bambina le correva incontro; l’aveva scoperta piangere di nascosto dopo uno scontro piuttosto arduo e lungo con un gruppo di cinque Morti, aveva tentato di calmarla quando in preda a un attacco di nervi si era avventata contro di lui. Tuttavia era la prima volta che la vedeva agitarsi in quel modo, in preda al panico, e non riuscì a muovere un passo verso di lei.

Fu Bob – il fedele e innamorato Bob – a correre da Iris e a tenerla stretta finché non riprese a respirare e smise di pronunciare quel nome.

Sam… Sam…

Chi diavolo era Sam? Iris conosceva il vecchio Morto che voleva ucciderli? Avrebbe voluto chiederglielo, ma aveva paura di farla cadere di nuovo nel panico; dall’assenza di un qualunque tipo di sguardo rivolto al cadavere, però, Heathcliff intuì che non parlava di lui. Una vecchia fiamma, forse? In ogni caso, non era quello il momento giusto per indagare.

Si avviarono di nuovo verso la fattoria, tenendo tutti d’occhio Iris – aspetto angelico e indifeso, no? – finché non udirono il rumore di altri passi. Non sembrava la camminata di un Morto, erano svelti, forse in fuga da qualcosa, ma forse era meglio evitare brutte sorprese; si nascosero tutti e quattro, aspettando.

Poi, dopo qualche secondo, un uomo cadde a terra, privo di fiato.

Mark Gillers.

Heathcliff lo riconobbe immediatamente: moro, alto e robusto, Mark era stato un tenente di buone speranze finché non fu cacciato dall’esercito per “piccoli” e “occasionali” furti e per l’ossessiva dipendenza dal tabacco; perfino in quel momento, con il terrore nella gola che gli impediva di parlare, Mark riuscì comunque a tirare fuori un sigaro e ad accenderlo. Si raccontava molto su di lui – come del resto accadeva anche per gli altri Sopravvissuti: qualcosa dovevano pur fare gli abitanti della fattoria per passare il tempo – a partire dalla cicatrice che gli attraversava il torace, dal collo all’inguine. Disobbedienza? Una furiosa lite con un ufficiale? Campo di battaglia? O forse gli era stata inferta da un Morto parecchio bravo con le armi quando l’ex tenente era diventato Cacciatore?

- Cosa succede? – chiese Jean, allarmato dal suo strano comportamento.

Mark ispirò il fumo, cercando di calmarsi. – Sinclair è morto. Un attacco di cuore.

Il gruppo sgranò gli occhi, spaventato. Non era più tempo di dispiacersi per le vittime: un morto tornava sempre – o quasi. E non era mai disposto a passare il tempo sulla Terra da solo.

- Ne ha uccisi altri due, - riprese Mark, - ma non sono riuscito a capire chi fossero: c’era confusione, alcuni sparavano… Razza di idioti, non capiscono che così peggiorano tutto! Se colpissero i Vivi, eh?

- Sta’ calmo -. Bob gli posò una mano sulla spalla. – Tu sei ferito?

Mark scosse la testa. – Sono a posto. Dovete… dovete venire con me. Dobbiamo fermarlo…

- Fermarli, - puntualizzò Heathcliff, pensando alle due vittime di Sinclair. – Andiamo.

- Ehm… E i cinghiali?

Si voltarono tutti verso Bob, in piedi accanto alle carcasse dei tre animali.

- I cinghiali, Bob?! – chiese incredulo Jean.

- È solo che… Beh, ormai li abbiamo cacciati…

- Bob, andiamo!

 

C’era una bambina sulla soglia del secondo capanno; indossava un vestitino azzurro e un paio di ciabatte. Nella mano insanguinata stringeva il braccino di una vecchia bambola rattoppata, mentre i capelli biondi cadevano ricci dalla testa irrealmente piegata verso l’alto.

Alle sue spalle William Sinclair tendeva le braccia ai nuovi arrivati.

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TANTO SANGUE E POCO SVAGO RENDONO I MORTI PAZZI FURIOSI

Buooooon pomeriggio!
Ho appena iniziato una campagna di Sine Requie (inutile precisare quale sia il mio personaggio, dato il POV della storia) e ho già di che scrivere per altri due capitoli. Per questa sorta di "prologo" ho voluto andarci piano, con gli "stomaci delicati": chi mi legge SA quanto io adori l'avvertimento "Non per stomaci delicati", l'angst e tutto il resto; tuttavia ho pensato di descrivere la prima uccisione come qualcosa di "pulito" perché, in fondo, Heathcliff e gli altri Sopravvissuti sono abituati a combattere i Morti, ormai uccidere è diventato qualcosa di giornaliero, quasi come il canto del gallo o la piccola Christine (ehi, per il finale del capitolo prendetevela con il Master!) che gioca con le costruzioni, per cui non avrebbe avuto senso descrivere l'amputamento di ogni arto del Morto nei minimi dettagli... Non ho certo detto che poi non lo farò. Da come potute immaginare dalla conclusione di questo primo capitolo, sarà un po' più difficile per i Sopravvissuti lottare contro determinati Morti, per cui mi soffermerò di più sull'impatto psicologico (e fisico).
MaquantomipiaceilNonperstomacidelicati.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto (in realtà spero che qualcuno lo abbia letto!), al prossimo! Ah, dimenticavo: la poesia all'inizio di ogni capitolo è tratta da Dylan Dog.

Medusa
   
 
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