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Autore: monnezzakun    06/09/2012    3 recensioni
“Questo spiega tutto. Credo che nei paesi civilizzati non ci siano più streghe né maghi, né streghe e stregoni. Ma, come vedi, il Regno di Oz non è mai stato civilizzato, perché siamo tagliati fuori dal resto del mondo. Per questo abbiamo ancora streghe e maghi tra di noi." Aveva sempre creduto a quelle parole – in tutto il mare di fantasia che scorreva nei libri che nascondeva nella sua libreria, di cui mai si era permesso di credere nulla; fra tutti i libri The Wonderful Wizard of Oz era l’unico a cui si fosse attaccato, per quel semplice paragrafo. In poche parole aveva sempre confermato tutti i punti fermi della sua educazione, i capisaldi della sua infanzia, e come il vecchio Ansem gli ripeteva: “Stringiti pure alle tue fantasie, nuotaci finché vuoi, ma promettimi di non rovinare mai la tua vita per quelle illusioni, promettimi che le butterai via, un giorno”.
E l’aveva fatto.
[Demyx/Zexion - Happy Zemyx Day!]
Genere: Commedia, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Demyx, Zexyon
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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[I am the voice of Never-Never-Land
The innocence, the dreams of every man
I am the empty crib of Peter Pan]

 
 
 

C’erano giorni in cui si sentiva ancorato a sé il residuo sottile e appiccicoso dell’infanzia. Avvertiva il peso delle memorie e se ne lasciava cullare, portato al largo dall’immagine stridente di un sorriso materno, la carezza morbida di un pupazzo contro la guancia imberbe e paffuta di bambino. C’erano giorni in cui tostava il pane della colazione con il naso pregno dell’odore di candeline bruciate, spente con un soffio, e c’erano altri giorni in cui la valigetta era leggera come un palloncino gonfiato con l’elio. Nessuno getta veramente via la propria infanzia, specialmente coloro che vorrebbero in ogni modo separarsene: ci si dibatte nelle proprie giornate, si vive con l’affanno del “giorno per giorno”, si va a dormire con il peso gravoso del proposito di non pensare a nulla di quanto accaduto a meno che non sia assolutamente necessario. Le persone che avevano di queste preoccupazioni, che avrebbero voluto perdere ogni memoria della loro età bambina senza traumi o sofferenza, erano come il giaciglio sfatto ed impolverato di Peter Pan.
Anche coloro che hanno a lungo vissuto d’illusioni prima o poi sono costretti a crescere.
 
 
 
L’autobus sfrecciava per la stradina ghiaiosa, sobbalzando di tanto in tanto per le buche.
Era un veicolo piccolo, simile ai camper hippie che spopolavano durante la fine degli anni sessanta, di un apatico color ruggine e dall’aspetto notevolmente trasandato. Zexion sonnecchiava silenziosamente sul fondo, disteso sul sedile triplo, il braccio sugli occhi ed un giornale dimenticato sul petto. Sbuffando per il caldo e per il sole puntato contro il viso, si passò la mano sugli occhi e gettò uno sguardo all’orologio: le quattro.
Lexaeus, dal posto davanti alla sua testa, gli scosse con gentilezza la spalla. L’“Eroe del Silenzio”, come lo chiamava acidamente Vexen, si limitò a rispondere al suo cenno interrogativo indicando laconico fuori dal finestrino, dove un ordinato boschetto la faceva da padrone sul paesaggio. Sembrava non mancasse più di tanto all’arrivo. Sospirando, Zexion fece leva sui gomiti e si guardò attorno: di Xemnas, direttore del progetto e relegato alla guida, poteva vedere solo di sfuggita la brillante chioma argentata; Saïx, segretario e addetto alla stesura dei rapporti, era seduto vicino al conducente, e pareva non aver come lui niente di meglio da fare che osservare da sopra il suo sedile. Incrociò per qualche secondo i ferini occhi giallognoli, divisi da una particolare cicatrice a croce, ma entrambi distolsero subito l’attenzione l’uno dall’altro. Di Vexen e Larxene nessuna traccia. Non che avesse tutto quel piacere di vederli.
Lexeaus gli diede un altro buffetto, come aveva l’abitudine di fare per attirare la sua attenzione. Essendo così alto e massiccio di corporatura, altre persone della statura di Zexion si sarebbero probabilmente sentite umiliate da quelle pacche sul capo o sulle spalle, come se un fossero un affronto al loro orgoglio, ma conoscendolo da quasi dieci anni, Zexion si limitava a riprenderlo quando esagerava con il contatto in pubblico. Dopotutto era il metodo di comunicare di Lexeaeus, e nemmeno lui che gli era così vicino aveva la pretesa di obbligarlo ad esprimersi in modo convenzionale.
Pat, un altro colpetto gli arrivò sulla spalla. Doveva essere urgente.
«Dimmi, Lex».
L’uomo si chinò per avvicinarsi al suo viso, con una inusuale luce divertita negli occhi.
«Ti consiglio di sistemare quella copertina, prima che qualcuno se ne accorga».
“Traverse Town – Nuove frontiere della eco-urbanizzazione” diceva la sovraccoperta. Peccato che la copertina mostrasse il parte del volto del Leone Codardo, che di urbanistico ed avanguardistico aveva solo la parte di titolo che spuntava sotto le zampe del felino, la quale recitava un verdeggiante “Il meraviglioso Mago di Oz”.
Si affrettò a risistemare la copertura e si fece tirar giù il borsone. Scavò fra libri e camicie, fino a che non raggiunse la parte più bassa della valigia, dove posizionò il volume strategicamente fra le mutande. Dubito Vexen metterebbe il naso anche tra i boxer, pensò.
«Signori, siamo quasi arrivati» sibilò Saïx, lasciando scivolare lo sguardo su ciascuno di loro.
 
 
La Mermaid Lagoon, nonostante il nome, non era affatto una laguna, bensì un lago artificiale, creato probabilmente come meta turistica per poi essere abbandonato a causa di frequenti inondazioni. Una piccola cascata, generata deviando il corso di un fiume minore, scrosciava contro la parete rocciosa che circondava la valle su cui presto sarebbe spuntato il resort. Era un luogo dal clima mite, inverni corti e non particolarmente freddi, estati soleggiate ma non afose. Lo scroscio rilassante dell’acqua; la scarsa presenza di fauna; le piante aromatiche ed i fiori rari: tutti questi particolari lo rendevano un luogo calmo e adatto a trascorrere un weekend di relax con le proprie famiglie.
Questo era ciò che ben presto sarebbe comparso sul dépliant del Three Wishes Resort, perla turistica delle Destiny Island, più precisamente sull’isolotto di Neverland, così chiamato a causa delle frequenti nebbie che ne rendono difficile l’avvistamento, tanto che prima della colonizzazione la sua stessa esistenza non era accertata. Per ora, non si trattava altro di un lago fangoso e roccioso, ricolmo d’acqua sporca e sede di un clan piuttosto rumoroso e numeroso di rospi e ranocchie.
Ed era per questo, per rendere fattibile la creazione del ThreeWishes Project, che Zexion ed il resto del team si erano recati in quel luogo.
Non si poteva dire che fosse un progetto comune o canonico, specialmente nell’organizzazione: erano tutti scienziati, abituati più ad esaminare campioni di terreno o il livello di sostanze nocive nell’acqua, piuttosto che ad arrampicarsi per esaminare la zona e a studiare piani di adattamento dell’ambiente. Xemnas non era altro che il direttore del progetto, colui che avrebbe controllato lo svolgersi dei lavori; sarebbe invece stato Saïx a creare gli edifici e a sceglierne la disposizione, sotto la costante supervisione di Marluxia, che non era certo un facile acquirente.
Zexion, che di professione sopportava le angherie di Vexen in laboratorio – non ufficialmente, ma più o meno il mestiere era quello -, era rimasto piuttosto sorpreso ricevendo l’offerta lavorativa: una paga esorbitante per un lavoro che non era neanche il loro, con vitto e alloggio gratuiti e po’ che niente su cui lavorare.
Sarebbero bastati uno, due mesi al massimo: qualche controllo alla composizione rocciosa della zona, un piano per evitare frane e inondazioni; pochi lavori non troppo impegnativi o costosi. Chiunque avrebbe accettato una simile opportunità.
Ma, pensava Zexion, com’era possibile che un giovane imprenditore come Marluxia gettasse il proprio denaro affidando un lavoro simile ad una cricca di scienziati di laboratorio invece che ad una squadra specializzata? Con un salario così esorbitante, poi.
Sentir puzza di bruciato era ovvio come sospettare di qualcuno ricoperto di sangue.
«Zexion, dovresti mangiare».
Lexaeus lo guardava con pacatezza, senza mostrare espressione. Era difficile definire se certe osservazioni fossero preoccupazioni o commenti meccanici, soprattutto considerato il tono apatico che caratterizzava i suoi brevi interventi. Non che Zexion ne sminuisse l’amicizia – sempre che tale si potesse definire -, ma spesso trovava snervante l’incertezza delle discussioni con lui: lo faceva sentire insicuro, rendendolo spesso incapace di rispondere, e Zexion odiava non saper cosa dire.
Prese in mano la forchetta, arrotolando svogliatamente gli spaghetti alla buona che aveva cucinato. Non era né molto bravo né particolarmente capace, ma cucinare era un buon modo per tenere occupata la mente mentre era a casa e lui ne approfittava per accendere di tanto in tanto la televisione alla ricerca di nuove ricette, giusto per non rendere quell’acquisto totalmente inutile.
Masticò lentamente, ancora non del tutto riconciliatosi con il filo dei suoi pensieri.
La villetta era ampia, arieggiata, ben illuminata, fornita di piscina, bagno in camera, cantina e solaio. Il giardino era vasto e ben tenuto; la serra ordinata.
Alloggiavano nella stessa casa del loro datore di lavoro, che nonostante l’assenza per via di impegni lavorativi li lasciava scorrazzare liberamente per la sua proprietà farcita ed addobbata di soprammobili e quadri che da soli valevano come il suo appartamento.
C’era da chiedersi se fosse sciocco o solo ingenuo.
Vexen non aveva detto nulla, così come tutti gli altri.
Che fosse l’unico a trovarlo strano? Nessuno si era chiesto niente?
Probabilmente stava solo cercando il pelo nell’uovo, ma Zexion non era uno scienziato senza curiosità, anzi tutti quei particolari non facevano altro che impensierirlo e renderlo sempre più interessato a quel tal Marluxia.
Ma dato che non sarebbe arrivato prima di una settimana o due, lambiccarsi su quella parte del dilemma sarebbe stato inutile, perciò accantonò semplicemente la cosa.
«Lexaeus». Ecco una cosa che apprezzava di lui: non parlando quasi mai di sua iniziativa, il geologo sembrava genuinamente interessato ad ogni accenno di conversazione che si svolgeva nei suoi confronti. Be’, “interessato” per i suoi standard.
«Non ti pare che tutto questo sia un po’… strano?». Nessuno dava loro ascolto, quindi non si premurò di cambiare il suo tono di voce.
“Definisci strano”, sembrò dirgli in risposta Lexaeus, senza aprir bocca.
«Voglio dire, non ti sembra “singolare” che per un simile lavoro siamo stati chiamati noi? Nessuno di noi ha esperienze in questo settore. Inoltre, siamo ospitati in questa villa extra-lusso senza nessun domestico ad accoglierci oqualcuno a controllarci – a parte Xemnas, ma è lui stesso parte del nostro gruppo, quindi direi che non conta. E non dire che la paga non è ridicolmente alta» sbottò, con il tono che poteva avere uno studente mentre ripete un discorsetto imparato a memoria. Si sentì quasi imbarazzato, rendendosene conto.
«Ti stai solo preoccupando troppo. E’ solo un buon lavoro, dovresti esserne felice».
Ecco. Lexaeus aveva la capacità di farlo sentire un bambino troppo curioso, un archeologo che nella fretta di portar alla luce reliquie esagera con gli scavi e rovina i reperti.
Era un uomo tranquillo, pacato e schietto. Non era brillante nel suo lavoro, non aveva un bell’aspetto, una famiglia o alcuna qualità evidente.
Ma, aldilà dell’aspetto burbero e dell’espressione sempre seria, aveva l’aria d’essere estremamente più felice di lui. Zexion strinse la presa sulla forchetta, inghiottendo insieme alla pasta anche un nodo d’aspre parole.
 
 
Zexion allungò una mano, stirandosi il più possibile per raggiungere il prossimo appiglio.
Afferrò un ramo una ventina di centimetri sopra la sua testa, stringendo la presa e sudando freddo quando lo sentì scricchiolare.
Era passata quasi una settimana, ma non molto era cambiato. Quasi quattro giorni erano serviti ad ambientarsi e sistemarsi nella villa, per la quale serviva una mappa almeno quanto era necessaria per l’esterno. C’era stata, poi, una riunione per ripetersi le cose che si erano già discusse prima della partenza, giusto perché i termini del contratto fossero chiari a tutti. La spartizione dei compiti era, per ora, piuttosto confusa, dato che nessuno conosceva bene il luogo; si limitavano semplicemente a gironzolare e a discutere delle scoperte (per lo più specie rare di fiori o anfratti scovati fra le rocce) durante la cena.
Il pezzo di corteccia sotto ai suoi piedi cigolò sinistramente e lui si affrettò ad alleggerire il peso su quella gamba, non senza sentirsi il sangue gelare nelle vene. Di certo non era stata una scelta furba, quella di arrampicarsi sull’albero, ma di certo nessun altro ci avrebbe provato e quei nidi sparsi per le piante erano più che degni di attenzione.
Cip, cip cipoh, ma quindi ci sono anche dei piccoli!
Afferrò con entrambe le mani un altro appiglio, cercando di raggiungere con le gambe un ramo su cui avrebbe comodamente potuto star seduto. Croc, fece il sostegno e probabilmente anche la sua schiena avrebbe fatto croc molto presto, vista l’altezza da cui stava precipitando. Salutò con la mente nonno Ansem, che avrebbe riso della sua morte idiota, Pillola il gatto, Lexaeus che al funerale avrebbe scosso la testa e Vexen che aveva visto avverarsi il sogno di vedere uno di loro crepare. Non che avesse molta gente da salutare, come visto, ma gli parve carino pensar qualcosa prima di smettere di farlo e basta.
Ma non ci fu alcun tonfo né ossa che si spezzavano né spiacevoli emorragie interne – l’unica cosa che sentì, invece, fu l’impatto contro il petto di qualcuno ed un «Yep~!» esclamato con una esaltazione quasi imbarazzante.
Il mondo non era altro che un vorticoso susseguirsi di colori – e a quel proposito gli tornò alla mente l’estate in cui si era ostinato a donare il sangue, quando non poteva alzarsi dalla poltrona senza vedere uno spettacolo psichedelico mentale e sentir le gambe molli.
Fu adagiato su una roccia poco distante, più morto che vivo. Sentì una mano adagiarglisi sulla fronte e quasi arrossì al pensiero di essere così debole davanti ad uno sconosciuto.
«Come ti senti~?» Discretamente, se tu non parlassi urlacchiandomi nelle orecchie.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente, per poi tentare di mettere a fuoco l’ambiente circostante ed il suo “salvatore”. Ebbe, seguendo le macchie di colore che lentamente si riunivano e riassemblavano, la sensazione d’esser sospinto e cullato, ma in modo diverso dal lasciarsi trasportare dalla marea. Gli sembrò d’essere in una bolla d’aria, accarezzato da un debole vento, libero di fluttuare ovunque volesse. La sensazione s’interruppe non appena si fu ripreso dal giramento e Zexion si affrettò a cancellare la fantasia molesta dalla sua mente. Sospirò, invece, non appena riuscì a ragionare di nuovo con lucidità.
C’era un ragazzo, chino su di lui. Il bel viso abbronzato sembrava splendere insieme al sorriso che lo solcava, e lo stesso accadeva con gli occhi, che di glaciale avevano solo l’iride. Era di certo uno dei più bei ragazzi che gli fosse mai capitato di vedere, anche con quell’espressione ebete stampata in volto, ma Zexion non riusciva a capire cosa lo rendesse così a disagio. Era come un elemento di disturbo che… Sant’Aqua, cos’erano quelle?!
Ali. Due fottutissime ali sbrilluccicanti. Ali sulla schiena di quel ragazzo.
Mi… mi ha salvato con quelle?
Oh, no. No no no no no no. Le persone non hanno le ali. No, più importante, le persone non volano. E allora cos’era quel tizio? Un cosplayer (su un’isoletta deserta?), un travestito, uno psicopatico? Perché aveva quelle ali, soprattutto?
«Ehi? Riesci a sentirmi? Stai bene?». Come poteva un… un ragazzo con delle stupide ali da fatina, una camiciola con le maniche a sbuffo e la calzamaglia – e che, calzamaglia poi, così aderente e poco coprente; come poteva uno che sembra appena uscito dal nuovo film delle Winx essere così a suo agio? Non si vergognava neanche un po’?
«Ehiiii~? Mi stai facendo preoccupare!». Sorriso. Sorriso.
Zexion non ricordava di aver mai visto un sorriso simile neanche nei film Disney di quando era bambino e si ritrovava a doverli vedere all’asilo (con somma noia, sia chiaro). Si sentiva così scemo a guardargli i denti peggio d’un dentista, ma sembrava che non mangiasse da quant’erano bianchi. Davvero non aveva preso una botta in testa?
«Io penso… di stare bene». E stava bene, se non fosse per l’impressione d’aver le allucinazioni. Si tirò lentamente a sedere, sempre più a disagio.
Da quanto non si sentiva così? Peggio che al suo (disastroso) primo appuntamento con una ragazza (che tralaltro l’aveva bellamente scaricato la sera stessa), peggio del coming out con il vecchio.
«Oh! Bene! Sai, stavi lì in silenzio con quello sguardo un po’ perso – ma non voglio offenderti, eh! – quindi stavo iniziando a pensare che tu avessi battuto la testa – in un qualche strano modo, perché ti ho preso al volo e non riuscivo proprio a capire come tu avessi fatto». Sembrò soddisfatto di come aveva spiegato la questione, quindi tornò a fissarlo come fosse un interessantissimo animale sconosciuto.
Fossero rimasti zitti, lui e la sua logorrea; tanto carino e tanto rumoroso.
Zexion scrollò la testa, sentendosi davvero come se avesse battuto la testa.
Il ragazzo continuò a sorridere gentilmente, tenendogli una mano sulla spalla mentre cercava di alzarsi. Era abbastanza stupido reagire così per una semplice caduta, senza aver nemmeno subito un colpo o qualche danno, ma Zexion non era certamente una persona atletica o allenata e nemmeno tanto intrepida da tentare spesso quel genere di follie.
Fece quindi attenzione a non muoversi troppo bruscamente e anche a non appoggiarsi troppo allo psicopatico – di cui, si accorse, non sapeva assolutamente nulla.
«Ma tu chi saresti?» sibilò con un brivido freddo lungo la schiena. Be’, di certo non sembra una cattiva persona, ma è pur sempre uno sconosciuto.
«Eh?». Sembrò svegliarsi improvvisamente, come quando si nota qualcosa all’improvviso. «Oh, scusa, io sono Demyx!». Zexion si chiese se non gli facessero male le guance, dopo tutto quel sorridere. «Tu come ti chiami?».
«Oh, ehm, io sono Zexion». Aveva pensato per un secondo di mentirgli, per non avere alcun legame con lui se si fosse davvero dimostrato un tizio strambo come quelle cose lì sulla sua schiena sembravano presupporre, ma sarebbe stato inutile in caso avesse deciso di seguirlo verso la villa. E a questo proposito c’era anche da chiedersi dove lui abitasse, essendo l’isola abitata solo da Marluxia.
«Come mai sei qui? Di solito non viene mai nessuno».
«Sono qui per lavoro».
«E…uhm…ti piace questo posto?».
«Non so, non sono qui da molto». Si sta facendo insistente…
«Oh! Ecco…». Demyx arrossì all’improvviso, abbassando lo sguardo e cambiando il proprio linguaggio corporeo fino a sembrare decisamente in imbarazzo. «Magari io potrei mostrarti qualche bel posto, se ti va…» borbottò, quasi mangiandosi le parole. Più che timido, sembrava davvero che non fosse abituato ad interagire in quel modo con le persone e Zexion non seppe se sentirsi imbarazzato anche lui o ancora sospettoso. Non fece in tempo a rispondergli, però, che Demyx parlò ancora: «Ecco… io sono molto contento che tu sia qui, Zex-xion». Si era morso la lingua dicendo il suo nome. «Non viene mai nessuno qui, mi fa sempre piacere conoscere persone nuove!».
Era quasi più imbarazzante che parlare con Lexaeus. Era così palese nell’esprimere il suo interessamento in quel senso – o forse era lui a fraintendere tutto. Ma ne dubitava, visto il rossore che Demyx aveva in volto e sulle orecchie.
«Dipende, sono pur sempre qui per lavoro, posso venire solo se mi può essere utile» rispose, vedendolo arrossire ancora di più.
«Uhm, hai ragione...».
Scese un silenzio strano, quasi innaturale. Dopo tutto quello schiamazzo – Demyx aveva un modo di parlare molto rumoroso anche quando borbottava – una calma simile era irritante, specialmente considerando che l’unico a saper qualcosa dell’altro era Demyx, proprio quello che sembrava avere più cose da spiegare.
Vide le ali tremare un po’, e si costrinse a pensare che fosse solo il vento. Non riusciva a staccare gli occhi da quelle cose.
Di certo erano create magistralmente. Sembravano leggere e delicate come un origami di cartapesta. La trasparenza era fantastica, la sfumatura cambiava a seconda della luce. Le stesse rifiniture – piccoli cerchietti simili a squame – erano difficili da notare se non con la giusta luminosità, e Zexion rimase ad osservarle con l’impressione sempre più netta (e costantemente rifiutata) che sembrassero terribilmente vere.
Si chiese come fosse l’attaccatura. Finora aveva visto Demyx solo frontalmente, e la curiosità iniziava ad essere sempre più forte e dirompente. Chissà che razza di giustificazione gli avrebbe dato. C’era anche il dettaglio non indifferente che era vestito come un circense, ma non era certo accettabile come scusa, visto dove si trovavano.
Ci fu un altro tremolio, questa volta più intenso. Sembrava che Demyx si fosse accorto del suo sguardo insistente, o meglio di cosa stesse osservando. Divenne ancora più a disagio, come se sperasse davvero che non notasse quel particolare.
Come se fosse possibile,ridacchiò Zexion.
Era normale per lui notare le cose più nascoste di chiunque, a partire dall’odore. Demyx aveva l’odore umido e pungente di chi vive da tempo lontano dalla gente; il profumo calmo del muschio e del polline; l’aroma del lago e il sentore costante dell’erba appena tagliata.
Emanava un mischio di solitudine ed allegria quasi spiazzante.
«Mhm… pare proprio che tu te ne sia accorto, eh?» ridacchiò Demyx, senza convinzione. «Be’, non che ci sperassi davvero – che tu non te ne accorgessi, intendo, sembri tanto intelligente – ma un po’ ci speravo di non doverne parlare subito…».
«Non c’erano molte speranze neanche con uno scemo, a dir la verità».
«Probabile…». Altro silenzio. Davvero snervante.
«Allora? Sei vestito da fata turchina perché…?» sbottò, dopo due minuti d’attesa.
Gli occhioni blu di quel ragazzo – occhioni? Aveva di certo una commozione cerebrale, nessun dubbio a proposito – s’inscurirono un poco, e Zexion pensò che avrebbe potuto anche essere un po’ più gentile, dato che quel tizio aveva appena salvato il suo osso del collo. Ma il danno era fatto, ormai.
«Ehm… non penso che mi crederai – è più probabile che ti metterai a ridere, ora che ci penso – ma io… mhm… direi che sono il… il guardiano? Il maschile di fata non so neanche qual è, quindi direi che guardiano va bene – comunque, sono il guardiano del lago!».
Con metodica precisione la sua mente disegnò una amorevole “X” sulla voce psicopatico.
«Sì, certo – io torno a lavorare, tu intanto ragiona su cosa hai appena detto e poi torna da me, direi che uno psicologo te lo posso anche consigliare».
Il protettore del lago, sì. E io sono Jessica Rabbit con la tinta.
Sbuffando per non mettersi a ridere, Zexion si alzò e tornò a scrutare l’albero che aveva attentato alla sua vita. Di ritentare la scalata non se ne parlava, ma rimaneva comunque evidente che farsi un’idea della fauna del posto era una necessità.
Gli venne quasi in mente di andare a chiamare Lexaeus, ma se i rami avevano ceduto sotto il suo peso sarebbe stato più che inutile. Di altri nidi non ne vedeva, quindi quella era la sua unica opzione. Tsk.
Tornò a guardarsi attorno, setacciando le chiome degli alberi nei dintorni, e notò che Demyx si era seduto sul suo sasso/barella improvvisata, e che lo fissava con un’espressione degna di un bambino a cui è appena stato detto che è antipatico. Sembrava sull’orlo delle lacrime. Di certo non era affar suo, dato che una spiegazione simile non rientrava neanche lontanamente nei suoi canoni di “logica”, si limitò quindi ad ignorarlo.
«Cosa… cosa stai cercando?». Zexion ammise con sé stesso che al di là dell’ovvia faccia tosta, Demyx era una persona piuttosto forte. In genere le persone non continuavano ad avere quel tono gentile dopo aver parlato con lui.
«Nidi. Ero su quell’albero per cercare di raggiungere quello lassù, ma devo aver sopravvalutato le mie capacità di scalatore».
Demyx sembrò riflettere per qualche secondo, improvvisamente interessato.
«Se io ti aiutassi» mormorò dopo poco. «Poi tu mi crederesti?».
 «Non vedo come potresti fare, dato che sei palesemente più pesante di me. Cosa vuoi fare, svolazzare fin lassù, Fatina?». Ridicolo. Tutto quello era semplicemente ridicolo.
Demyx non sembrò trovarci proprio nulla di strano, nel suo discorso, perché si alzò e iniziò a rassettarsi la pantacalza – che era decisamente troppo aderente, decisamente.
Zexion fece per aprire ancora bocca, per chiedergli cosa diamine pensasse di fare, ma gli si seccò improvvisamente la gola.
Leggendo il mito di Dedalo ed Icaro, o una qualsiasi storia con angeli o fatine antropomorfi, aveva sempre riso fra sé e sé, pensando che degli umani alati sarebbero stati sicuramente sgraziati e demenziali, specialmente nel volo.
Demyx, però, che era ormai a diversi metri da terra, stava volando – e gli ci volle qualche secondo, anche solo per pensarlo – nella maniera più fluida ed elegante che riuscisse ad immaginare. Ora che riusciva a vederlo anche di schiena, vedeva le ali infilarsi in due piccole fessure nella sua tunica, che venendo così sballottata dal battito veloce sembrava davvero un piccolo torrente che scendeva dalle spalle del ragazzo.
Vedendolo prendere tra le mani il nido, e poi tornare a terra come niente fosse, sentì che aveva davvero bisogno di una caramella alla menta e di uno schiaffo di Lexaeus, perché era dannatamente evidente che lui fosse in coma post-caduta e che quello fosse un sogno.
Si pizzicò una coscia, per non farsi notare troppo, e si costrinse a riunire le labbra, perché aveva il vago sospetto di sembrare una cassetta per le lettere.
Se doveva far la figura del cretino, che almeno la facesse con compostezza.
«T-tu hai… hai davvero appena…» distrutto ogni legge umana e fisica in venti secondi?, completò mentalmente. Stava perdendo il dono della parola, per colpa di… egli.
«Vedi? La gente non mi crede mai, ma io non sono un bugiardo!».
Era tornato a sorridere, contento di averlo stupito e probabilmente orgoglioso di essergli stato d’aiuto. Gli tese le mani tenute a coppa, sopra cui un cumulo di rovi e rametti con tre uova all’interno sottolineava ancora di più la sua gioia di vederlo così attonito.
Zexion allungò le mani, scuotendo la testa e ritrovandosi a sussurrare un “Grazie” che non sembrava neanche detto da lui. Prendendo il nido fra le mani, cercò di far ritornare un po’ del buon vecchio spirito scientifico – che era però rannicchiato in un angolino del suo cervello in preda all’isteria, probabilmente.
Pur non avendo sotto un libro – o Larxene nei paraggi, che doveva essere la loro esperta di fauna o qualcosa di simile, ma che non si era ancora degnata di muoversi dalla villa – si sentì abbastanza sicuro nel dire che erano uova di AerialChamp, una specie pressoché introvabile e tremendamente emblematica dal punto di vista scientifico – di certo avere le ali in testa non è comune in natura. Non vedo l’ora di dirlo agli altri, si lasciò scappare, pieno di soddisfazione per poter sbattere loro in faccia una simile scoperta.
«E’ meglio se… lo rimetti a posto. E’ una specie abbastanza violenta, la madre non sarà contenta neanche se lo rimettiamo sul ramo, figuriamoci se lasciamo le sue uova qua pronte per i predatori».
Demyx fece una faccia strana, continuando a sorridere con uno sguardo… malizioso?
«Ah sì? E dimmi, se lo faccio me lo dai un bacio?».
 
 
Con le mani che ancora sfrigolavano per lo schiaffo madornale appena dato, Zexion si lasciò cadere sugli scalini della villa. Non credeva di essersi allontanato molto, ed infatti non era così, ma probabilmente il suo corpo risentiva ancora del duplice shock subito nell’arco di un paio d’ore nemmeno. Tirò fuori il cellulare da una tasca (ancora si chiedeva come fosse sopravvissuto al volo), esaminando ancora una volta le foto fatte alle uova, per assicurarsi che fosse chiara e non sfocata – e gli torno alla mente quell’ “Uh! Che fai?” che aveva esclamato Demyx, e che lui aveva semplicemente ignorato per non dovergli spiegare fino all’alba dei suoi cinquant’anni del funzionamento della tecnologia.
E, pensandoci, quella cosa lo aveva turbato quasi più dell’improvvisa richiesta di un bacio. Da quanto tempo era lì, Demyx? Chiunque nel ventunesimo secolo sa cos’è un telefonino, eppure lui ne era rimasto affascinato come se non avesse mai visto nulla di simile. Era un particolare che gli era rimasto impresso, ma si affrettò a scacciarlo quando vide gli altri spuntare dalla boscaglia.
«Uh? Nano, cosa ci fai qui? I bimbi come te non riescono a camminare per molto tempo, vero?» esclamò Larxene, che doveva il suo cattivo umore ad una probabile visita di Saïx alle sue stanze, con conseguente discorsino in stile “muovi il culo e fai il tuo dovere”.
«No, a dire il vero sono qui perché pensavo di metterci più tempo a tornare, e comunque sono arrivato cinque minuti fa». Si alzò in piedi, per nulla toccato dai commenti sulla sua altezza. I bulletti al liceo avevano più fantasia con gli insulti, comunque.
«Quindi? Scoperto nulla mentre facevi castelli di sabbia?».
«Siamo presso un lago, Larxene, non in villeggiatura al mare. Non ho visto molta sabbia, nei paraggi. E comunque sì, ho scoperto qualcosa di davvero interessante».
Larxene strinse le labbra, piccata. «Ah sì? Sei riuscito a scoprire qualcosa anche mentre flirtavi con quella specie di hippie?».
Zexion perse parecchio colore in volto, e ringraziò di esser sempre stato parecchio pallido, perché gli altri sembrarono solo stupiti dalle parole di quella strega, e non dalla sua espressione. Scrollò la testa, sperando che non avesse visto né la parte in cui si faceva salvare peggio di una Principessa Disney, né la parte in cui Demyx… faceva quella cosa per prendere il nido. «Oh, immagino che per una come te il semplice incontrare qualcuno equivalga a flirtare – si spiega anche perché in pullman tu dormissi con le gambe aperte pur avendo la gonna, ma non è questo il punto -, ma stavo semplicemente parlando con qualcuno trovato sul luogo, dato che non mi aspettavo nessuno».
Larxene sembrò sul punto di tirarsi su le mani e strappargli la milza tramite vie poco piacevoli, ma Saïx lanciò ad entrambi un’occhiata poco rassicurante, e dovettero lasciar perdere la loro lite.
«Moore». Zexion gli fece cenno che lo stava ascoltando. «Non sei stato tu ad iniziare questa pantomima, quindi ti lascio perdere, ma sarà meglio che tu vada a parlare con Sir Xemnas di chi hai incontrato e delle tue fantomatiche scoperte. Tu, Dubois, ci andrai più tardi a parlare con il capo, e ti assicuro che se non la smetti di piantar grane di faccio salire sul primo traghetto».
Facendo un lieve inchino all’incazzatissima signorina Dubois – e quello gli valse un’altra occhiata da Saïx, ma meno ostile -, Zexion si voltò ed imboccò il corridoio principale, lasciando la felpa nell’attaccapanni monumentale accanto alla porta del salone.
Sentendo Larxene e Saïx che iniziavano a digrignare i denti, pochi metri alle sue spalle, quasi gli venne da sorridere, ed iniziò a salire le scale con umore sempre migliore.

 
 
 

[Never met a kinder heart than yours
Let it bleed
Leave a footprint on every island you see]

 
 
 
 

Alla fine dovette cucinare ancora lui, ma la cucina di quella villa strabordava di ingredienti meravigliosi – tutti di prima qualità, ovviamente -, e non era un peso così grande.
Fu anzi dispiaciuto di non dover fare anche i piatti come in un ristorante, perché per un qualche strano motivo il kit di primo soccorso sotto il lavabo conteneva anche dei lassativi che sarebbe stato molto contento di versare in un certo piatto. Tagliò accuratamente il suo pezzo di salmone (rosa e morbido da far venire l’acquolina), spargendoci sopra la salsina verde con il massimo della cura, permettendosi di pensare ancora un poco a quei dispetti da ragazzino. L’influenza di Demyx deve essere istantanea, concluse.
Lexaeus fece tintinnare la forchetta con più forza contro il suo piatto, e Zexion alzò lo sguardo per forza dell’abitudine, come se non dovesse neanche ragionare per riconoscere i suoi segnali. L’uomo annuì velocemente, portandosi alla bocca un’altra forchettata, in una chiara esternazione di approvazione per la cena.
Considerato che la maggior parte delle loro conversazioni era più o meno di quella lunghezza – ricordava di aver sentito parlare Lexaeus lungamente solo agli esami orali universitari e quella volta in cui avevano parlato di fossili -, Zexion aveva accolto di buon grado la notizia che due di loro avrebbero dormito insieme, ed entrambi si erano accordati con un solo sguardo, anche se Saïx e Xemnas avrebbero palesemente fatto quello sforzo senza alcun problema.
Finì quindi di mangiare, obbligò gli altri a fare almeno lo sforzo di portare il piatto sporco in cucina e caricò la lavastoviglie, libero di poter tornare in camera in cinque minuti.
Il giorno seguente era il sabato, e loro avrebbero quasi sicuramente avuto una riunione per discutere dei progressi fatti nell’esplorazione della zona. Xemnas non aveva voluto parlarne chiaramente, dicendo che doveva prima “discuterne con Saïx”, ma era palese che avevano intenzione di organizzare tutto nei minimi dettagli entro quella sera – in camera da letto, probabilmente, ma era meglio non mostrarsi troppo consci di quel particolare.
Decise di passare per il salone principale, dal quale si poteva raggiungere un qualsiasi punto della casa molto più facilmente che partendo da un qualunque altro punto. Quella breve deviazione gli permise anche di incontrare una Larxene ancora piuttosto incazzata che marciava verso l’ufficio del capo, e passandole accanto gli parve di vedere qualche lungo capello turchino sulla sua felpa.
Arrivò alla porta della camera in poco tempo, e si fermò giusto qualche secondo per bussare prima di entrarvi. Lexaeus era sul suo letto, intento a lucidare i suoi scarponi di pelle, infangatisi durante la giornata.
La camera era più semplice delle altre ed essendo una doppia era quasi certo che fosse una stanza adibita al soggiorno dei figli di un ospite o ai figli stessi del proprietario, nel caso ne avesse avuti tanti da riempire tutte le singole; questo, però, la rendeva anche molto più spaziosa, e anche con una persona ingombrante come Lexaeus gli spazi erano molto più che sufficienti per entrambi. Zexion si limitò a salutarlo con un cenno della mano, come ai tempi della convivenza in periodo universitario, per poi lanciarsi sul letto in preda ad un attacco di stanchezza. La cosa più saggia sarebbe stata probabilmente riflettere e accettare tutto quel che era accaduto quel pomeriggio, ma per quel giorno si era già lambiccato abbastanza, quindi scavò nella montagnola di libri sul suo comodino, alla ricerca del finto-libro di eco-urbanistica. Gettò un’occhiata rapida alla copertina, quasi rimpiangendo di aver potuto comprare solo un’edizione moderna, dalla copertina scialbamente decorata e fin troppo all’avanguardia, poi sfogliò rapidamente le pagine fino ad un punto che conosceva quasi a memoria: "Però” disse Dorothy dopo un momento di riflessione “la zia Em mi ha sempre detto che le streghe sono tutte morte tanti e tanti anni fa.”
“Che è la zia Em?” domandò la vecchina.
“E’ mia zia, e vive nel Kansas, il luogo da cui sono venuta.”
La Strega del Nord sembrò riflettere un attimo, col capo chino e gli occhi rivolti a terra, poi alzò lo guardo e disse: “Io non so dove sia il Kansas, visto che non ho mai nemmeno sentito nominare questo paese. Ma dimmi, si tratta di un paese civilizzato?”
“Oh sì!” rispose Dorothy.
“Questo spiega tutto. Credo che nei paesi civilizzati non ci siano più streghe né maghi, né streghe e stregoni. Ma, come vedi, il Regno di Oz non è mai stato civilizzato, perché siamo tagliati fuori dal resto del mondo. Per questo abbiamo ancora streghe e maghi tra di noi." Aveva sempre creduto a quelle parole – in tutto il mare di fantasia che scorreva nei libri che nascondeva nella sua libreria, di cui mai si era permesso di credere nulla; fra tutti i libri The Wonderful Wizard of Oz era l’unico a cui si fosse attaccato, per quel semplice paragrafo. In poche parole aveva sempre confermato tutti i punti fermi della sua educazione, i capisaldi della sua infanzia, e come il vecchio Ansem gli ripeteva: “Stringiti pure alle tue fantasie, nuotaci finché vuoi, ma promettimi di non rovinare mai la tua vita per quelle illusioni, promettimi che le butterai via, un giorno”.
E l’aveva fatto. L’unico modo in cui si permetteva di fantasticare, di tanto in tanto, era rispolverando quei libri smunti, poche volte l’anno. Lo aveva fatto fino a quel giorno, in cui Demyx era riuscito a sradicare in pochi minuti tutto quello a cui in ventinove anni di vita si era aggrappato.
 
 
La notte porta consiglio, dice il popolo, ma nel caso di Zexion il popolo probabilmente era distratto, perché tutto ciò che aveva sognato era di venir colto da un ciclone e trasportato in un luogo dove stormi di AerialChamp volavano nel cielo plumbeo, e gagliardi uomini in calzamaglia svolazzavano insieme agli uccelli. Ed era, per quel che ricordava, il sogno più stupido e traumatizzante che avesse mai fatto. Una giornatina da poco aveva passato.
Svegliandosi in un simile stato mentale, si era lavato e vestito, per poi fiondarsi a preparare la colazione in modo da schiarirsi un po’ le idee.
Preparò velocemente dei pancake, spremette alcune arance, tostò il pane; preparò molto più di quanto avrebbero mangiato, ma tutto quello che era accaduto il giorno prima non voleva smettere di tornargli in mente. Non era rimasto così sconvolto, o meglio non lo aveva dato a vedere: Demyx aveva spiccato il volo davanti ai suoi occhi, Demyx aveva cercato di baciarlo con i piedi ad un palmo dal suolo.
Erano anni che non si scandalizzava tanto per un bacio, ma c’era da considerare che finora erano sempre stati baci appena appena più con i piedi per terra, per usare un umorismo sottile quanto Lexaeus in maglione d’inverno.
Si passò una mano sul volto, sospirando: Ansem gli avrebbe schizzato del gelato al sale marino negli occhi, vedendolo così  confuso per una simile fesseria – sempre che un uomo volante potesse essere considerato una fesseria, dal punto di vista di uno scienziato che lo ha visto volare. Per quanto cercasse di esorcizzare tutto quell’arco di ore, per quanto si sentisse tranquillo nel ragionarci su, tutto quello che riusciva a fare era girare attorno all’argomento, fare dell’ironia, lambiccarsi su cosa potesse essere diverso in Demyx per permettergli di volare. La cosa migliore sarebbe stata mostrarlo al resto del gruppo, ma si sarebbe sentito un mostro, come gli scienziati dei film fantascientifici/fantasy che torturano le creature pur di studiarle.
Non si era mai fatto simili scrupoli durante la sua carriera, ma mai aveva dovuto interagire con altri esseri umani se non per confrontare ricerche, ricevere ordini, esporre risultati. Si sentiva incapace di riconoscere il metodo da usare nei suoi confronti.
Sentì delle voci alle sue spalle, e si affrettò a slacciarsi il grembiule infarinato, controllando nel frattempo la cottura dei biscotti.
«Zexion». Lexaeus. Sulla porta. L’uomo lo osservò alzarsi e spolverarsi la farina dai pantaloni. Si avvicinò, incredibilmente silenzioso, e gli passò una mano fra i capelli.
«Zexion. Hai dormito?». Zexion lo odiò profondamente, in quel momento.
Dieci anni. Dieci maledetti anni che lo conosceva: dal primo giorno di università, in quel campus universitario il cui giardino era grande da solo quanto Trafalgar Square – o almeno quella era l’impressione che dava -, all’università più prestigiosa che ci fosse alle Destiny Islands. Ed in dieci anni, mai, mai Lexaeus aveva mancato di notare i suoi turbamenti, le sue insicurezze, tutte quelle minuscole incrinature che disperatamente cercava di riparare prima che divenissero troppo visibili.
Lexaeus gli sfiorò una guancia con la mano, e Zexion si chiese se la mano dello Spaventapasseri fosse stata così ruvida e calda sulla guancia di Dorothy.
 
 
Un’altra settimana era trascorsa.
Poiché sabato e domenica erano giorni liberi, il tempo che aveva trascorso con Demyx era di soli cinque giorni ed un pomeriggio, il primo, ma sembrava trascorso molto, molto più tempo. Non sazio dello schiaffo ricevuto e di cui aveva portato i segni fino al martedì, il fattucchiere gli era stato appiccicato per tutto il tempo, allegro, svolazzante ed entusiasta di ogni parola gli venisse rivolta – fossero ordini, insulti o pensieri borbottati sottovoce.
Aveva un modo d’agire così semplice, frizzante: lo salutava ogni mattina spuntando da dietro un albero, un sasso, una volta da dentro lo stesso lago; gli augurava il buongiorno, gli frullava un po’ attorno, si ostinava ad afferrargli le mani e a trascinarlo lungo i tratti più impervi, pronunciava il suo nome in quasi ogni discorso facesse, assordandolo di chiacchiere per tutto il tempo. Era la compagnia più strana e rumorosa che potesse immaginare, ma conosceva bene il luogo e di tanto in tanto sapeva rendersi utile.
Zexion ne veniva quasi totalmente assorbito, frastornato da tutte le premure di cui era soggetto, irritato dalle continue avances che Demyx gli faceva.
Era capitato una sola altra volta che gli chiedesse così direttamente un bacio, ed anche in quell’occasione aveva rischiato di beccarsi un manrovescio, evitato per un soffio grazie ad un fulmineo colpo d’ali.
Rideva spesso, sorrideva ancor di più. Parlava a voce alta, con tono squillante,  lo modulava solo quando erano più vicini o quando gli regalava un fiore raro, o quando eseguiva ciò che lui gli ordinava, rapido e contento di poter far qualcosa per lui.
Era fastidioso, irritante, perseverante, rumoroso, incorreggibilmente ingenuo e stupido.
Zexion trovava esasperanti le sue continue occhiate, il rossore sparso sul viso ogni volta che Demyx lo toccava, l’esaltazione inutile per il tempo trascorso insieme.
Lexaeus sbuffò, sciogliendo le spalle che si erano irrigidite dopo il lungo tempo passato fermo a leggere. Era seduto poggiato contro la testiera del letto, le lunghe gambe allineate sopra il materasso. Zexion gli era disteso affianco, il volto poggiato al suo petto, le mani intente a disegnare ghirigori sulla sua camicia.
Gli tornavano in mente gli anni della convivenza, dove scene simili erano all’ordine del giorno, ed il loro rapporto era ancora più ambiguo.
Non si erano mai baciati, abbracciati, toccati, amati in alcun modo o provato alcun sentimento d’affetto che andasse al di là di un’amicizia un po’ ruvida e scostante – ma non per questo non succedeva che nel leggere l’uno s’appoggiasse all’altro, o che improvvisamente due letti diventassero troppi, anche se si stava insieme solo per dormire.
Nessuno aveva mai fatto molto caso a loro due, al loro rapporto, a Zexion e Lexaeus come persone separate o come coppia di amici. Per entrambi la compagnia dell’altro era sempre stata la più ovvia e sicura, e così pensava anche Ansem, che non aveva mai veramente sperato di vedere il nipote con una donna – e che s’interessava, di tanto in tanto, di come andassero le cose fra i due, come se per l’intero universo fosse ovvio che prima o poi la loro relazione s’avviasse stancamente verso un forma più intima.
Non era mai successo, però erano entrambi ancora lì, solo con un nuovo appartamento a testa, un lavoro separato. Avevano solo traslato il loro universo in uno nuovo, che funzionava in modo diverso ma portava allo stesso risultato.
Ed ora si era aggiunto Demyx, che in poche ore trascorse assieme aveva scombussolato ogni parte dell’equilibrio interiore che si era faticosamente creato.
Demyx trascendeva ogni cosa si fosse mai permesso di sognare, lo portava a reinventare il suo modo di reagire e parlare ad ogni mutamento di argomento. Demyx mutava attorno a lui con la rapidità con cui l’acqua si conforma ad un nuovo recipiente, modellava il suo essere fino ad adeguarsi in maniera disarmante ad ogni angolo di quell’isola.
Lo scuoteva, lo metteva in dubbio, si faceva soggiogare ed ammaestrare come se non volesse altro – ma era lui quello a venirne colpito, era lui al centro del loro ciclone.
Zexion strinse il tessuto della camicia fra le dita, maledicendosi mille e mille volte per tutti quei pensieri inutili ed infantili, che lo confondevano e turbavano ancora di più.
Lexaeus non disse nulla, né lo accarezzo più come aveva fatto il sabato precedente.
Era stato avventato paragonarlo allo Spaventapasseri.
Lexaeus era più simile a Toto, sempre vicino a Dorothy, fedele ed inamovibile, ma mai veramente di spicco. Senza di lui Zexion non sarebbe stato lo stesso, ma allo stesso modo la sua posizione di rilievo era di stare al suo fianco, senza interferire in maniera concreta con la sua vita.
Si sollevò sulle ginocchia, osservandolo di sbieco da dietro la copertina mentre leggeva. Aveva la solita aria imbronciata e dura, ma durante la lettura la linea delle sopracciglia si addolciva un poco, conferendogli un aria più mansueta.
Allungò una mano, sfiorandogli una spalla con il palmo aperto. Lexaeus finì la frase, o forse il paragrafo, poi si voltò a guardarlo. Rimasero così per qualche secondo, in silenzio, più tranquilli e disponibili nei confronti l’uno dell’altro di quanto non fossero non stati in quelle due settimane. Quel breve scambio di sguardi bastò ad entrambi per risolvere le cose in sospeso fra di loro, come se per tutto quel pomeriggio non avessero fatto che pensare alle stesse cose, giungendo alla stessa soluzione.
Zexion scosse la testa lievemente, poiché era impossibile e poiché Lexaeus non sapeva nulla di Demyx o di quanto fosse successo.
«Lex… ti va una cioccolata calda?». Come anni prima, ma più stabilmente.
«Mhm». Wow. Addirittura un mugugno: doveva essere davvero di buon umore.
Zexion fece per spostarsi, quando un improvviso bussare alla porta lo fece rizzare e scattare verso il suo letto. Fece appena in tempo ad afferrare un libro e a stendersi in maniera umana sul materasso, che la porta si aprì e Saïx fece il suo trionfale ingresso.
Sembrava parecchio nervoso – i capelli parevano appena phonati, ed erano gonfi e scompigliati -, ma si premurò comunque di salutarli gentilmente, non senza notare il movimento che Zexion fece per voltar pagina al libro (poiché ovviamente gli era capitato il Mago di Oz, e per di più una pagina disegnata).
«Scusate se vi disturbo durante il vostro giorno libero, ma a breve arriverà il signor Marluxia». Occhiata obliqua, saettante. «E sir Xemnas vorrebbe che fossimo tutti presenti per incontrarlo, dopotutto è il vostro datore di lavoro». Saïx girò i tacchi, uscendo dalla stanza con il suo caratteristico passo felino, senza un’altra parola.
«La cioccolata dovrà aspettare, a quanto pare».
Si prepararono entrambi, rassettandosi i pantaloni ed infilando una camicia pulita. Mentre aspettava che Lexaeus finisse di radersi, Zexion sentì i tacchetti di Larxene al di fuori della porta, perfettamente udibili grazie all’andatura incazzosa tipica della donna.
In poco meno di dieci minuti tutti gli occupanti della villa furono radunati nel salone, scrutati da un Saïx (la magia di una piastrata veloce lo rendeva meno Re della Savana) che sembrava il maestro d’asilo con gli scolari.
Rimasero a ciondolare i piedi e ad aggiustarsi il nodo della cravatta per almeno una ventina di minuti, finché il rombo di una macchina non si fece sentire chiaramente nell’aia soleggiata. Sia Xemnas che il suo fidato segretario drizzarono immediatamente la schiena, tramutandosi da maestri a professori di scuola privata; e Saïx non si risparmiò di fulminarli per l’ennesima volta tutti, soffermandosi per più di un paio di secondi su Larxene, che evidentemente non si era ancora fatta perdonare la bambinata del sabato prima. La porta d’ingresso s’aprì lentamente, ed un paio di manine spuntarono attraverso la fessura, presto seguite dal corpicino d’adolescente e dai biondi capelli della ragazzina.
Di certo non era quel che si aspettavano, ma il “signor Marluxia” non fu certo meno sorprendente: alto non molto meno di Lexaeus, che superava Xemnas di una buona spanna, Marluxia era un uomo muscoloso, ben piazzato, dal fisico atletico e slanciato. Con una buona dose di boccoli rosa pallido ed un bel visino da signorina, però.
Sorrise loro con gentilezza, strinse le mani e dimostrò di conoscere i loro nomi, pur non sapendo chi era chi. Tutti fecero del loro meglio per essere professionali, ma il contrasto netto fra il viso candido ed il vocione virile gettarono nella confusione anche il più stoico Saïx immaginabile, che rispose allo sguardo del suo Sir con una sconsolata scrollata di spalle. Quella che loro avevano definito “la ragazzina” nella loro mente, saltò fuori essere Naminé, la giovane assistente di Marluxia, da poco diplomatasi in un prestigioso liceo e dai meravigliosi capelli biondo slavato – e Zexion quasi rise quando notò lo sguardo di sfida che il segretario e la sua chioma turchina lanciarono alla povera ragazza.
Era quasi ora di cena, quindi Zexion si defilò in fretta con la scusa di preparare il pasto, ma in verità non vedeva l’ora di sparire per non finire nella morsa assassina di Vexen, la cui più grande passione in simili avvenimenti era di prenderlo, passargli un braccio attorno alle spalle e parlar male di lui con la pseudo-celebrità del momento finché questi non se ne stufava o finché a Vexen spariva la voce (ed ogni volta Zexion ringrazia il maldigola cronico del vecchiaccio, augurandogli una broncopolmonite fulminante).
Per il grande evento Saïx aveva fatto in modo di preparare lui stesso un suntuoso tacchino con patate, che già si cuoceva in forno. Zexion si mise a preparare una torta al cioccolato, che avrebbe cotto comodamente anche durante la cena, e che avrebbe potuto controllare impostando il timer nel suo orologio.
Si lasciò scappare una risata, seduto su uno sgabello in cucina, il rimbombo delle chiacchiere degli altri risuonante nel corridoio.
Di certo Demyx non era l’unica stranezza di quel posto.
 

 
 

[The first thing I ever heard was a wandering
man telling his story
It was you, the grass under my bare feet
The campfire in the dead of night
The heavenly black of sky and sea]

 
 
 
Zexion strinse la corolla di petali fra le mani con più riguardo di quanto ne avrebbe usato con un neonato tra le braccia. La Divine Rose si lasciò toccare docilmente, tendendosi con il suo lungo gambo per seguire la presa delle sue dita, purpurea e raggiante come il sole di Twilight Town al tramonto, rimasto impresso nella sua mente dai tempi della gita universitaria.
Odorava di sabbia, di giornate sotto il sole cocente, dolce con il retrogusto di bruciato che ne bilanciava tutto l’aroma. Era il fiore più raro che sperava di poter vedere a Neverland.
Demyx lo aveva salutato tranquillamente, quella mattina. Nessun agguato, comparsa ad effetto, abbraccio a sorpresa. Lo aspettava quietamente sul sasso presso cui avevano avuto il primo incontro, con un sorriso brillante e dolce che lo aveva sorpreso.
“Buongiorno Zexion!” aveva esclamato, con il tono fresco e rilassato che usava solo ogni tanto; con l’inclinazione di chi da tempo progetta di dire quelle parole.
Gli si era avvicinato camminando – ed anche quella era una novità, poiché di solito svolazzava di continuo, conscio che Zexion non potesse fare a meno di guardarlo – e aveva continuato ad avere quello sguardo rassicurante (così poco Demyx) fino a che lo scienziato non rilassò le spalle, smettendo di essere all’erta come era sempre nei primi minuti.
Gli aveva afferrato allora le mani – e Zexion si era sentito molto Elizabeth di Orgoglio e Pregiudizio, con somma vergogna – con l’entusiasmo di un bambino che vede il gioco sperato nel regalo sotto l’albero di Natale, ed aveva strillato: “Zexion, ti va di venire con me in un posto? Ti prometto che ti servirà per il lavoro, giuro – oh! Prometto anche di starmene in silenzio e di non darti fastidio!” e allora proprio non se l’era sentita di dirgli di no, complice anche il fatto che era curioso di vedere questo posto di cui tanto aveva da blaterare.
Demyx allora gli aveva passato le braccia attorno i fianchi (“Demyx!”), e in un batter d’occhio Zexion si era ritrovato a quindici centimetri da terra, avvinghiato con cosce, braccia e piedi al corpo del fattucchiere, che rideva di lui e delle sue ingiurie e minacce, amorevolmente strillate nelle sue orecchie.
Zexion ebbe modo di dar fondo al suo repertorio in quei lunghi momenti di panico (quasi perse presa quando Demyx gli fece vedere il nido di AerialChamp grazie al quale si erano conosciuti), e quando atterrarono sani e salvi sentì le ginocchia cedere istantaneamente, e si ritrovò praticamente in braccio a quello psicopatico dal volto rosso come un pomodoro.
Una volta ripresosi dalla scossa di imbarazzo che lo aveva reso rigido come un soldatino, l’indescrivibile idiota aveva slacciato la presa da sotto le sue chiappe, dove le sue mani erano misteriosamente scivolate mentre Zexion era troppo occupato ad augurare tutti i mali possibili a Vexen prima della sua imminente morte per spappolamento.
“Zexion… ti senti bene?” aveva chiesto dolcemente Demyx, con le mani ancora fin troppo vicine ai suoi lombi.
“Potevi avvertire, cretino!” aveva risposto Zexion, con un acuto che neanche Whitney Houston ai tempi d’oro. Ma a quanto pareva neanche dare sfogo alle sue doti canore era un avvertimento abbastanza efficacie con Demyx, perché l’idiota intergalattico si limitò ad esclamare un “Attento, Zeku!” prima di ricaricarselo addosso e trasportarlo fluttuando allegramente attraverso la via erosa dall’acqua nella parete rocciosa.
Erano poi nuovamente atterrati, sul serio finalmente. E Zexion si era quasi scordato di scollarsi da Demyx - di nuovo rosso e con le mani dove non sarebbero dovute essere.
Quel… quel magico e utilissimo assistente (eh, l’euforia del momento) lo aveva portato in un piccolo anfratto nascosto dalla cascata, una grotta semplicemente meravigliosa. L’acqua sgorgava da delle aperture nelle pareti, formando una polla fresca e pura, illuminata da fasci di luce filtrati attraverso l’apertura del “soffitto”.
I giochi d’ombre e di riverbero di sole sull’acqua erano splendidi – e quasi si sentì arrossire quando gli venne in mente che nell’aria sembrava esserci polvere di fata -, l’aria umida e pulita, la temperatura perfetta. Non aveva pensato neanche di rivelare quel posto agli altri, troppo preso dall’entusiasmo, e quasi già pianificava di mettersi a studiare la composizione rocciosa di quel luogo quando la mano sudaticcia e calda di Demyx che sfiorava la sua lo aveva riportato improvvisamente alla realtà.
“Come hai scoperto questo posto?!” aveva chiesto, senza curarsi del tono completamente entusiastico che aveva adottato, e della gioia sul viso dell’altro.
Lo aveva assaltato di domande, la maggior parte delle quali sarebbe stata incomprensibile a chiunque non fosse uno scienziato come lui, e aveva continuato per diversi minuti, finché Demyx non lo aveva zittito e non gli aveva preso la mano – come progettava di fare da quando erano lì, sospettava -, portandolo fino alla Divine Rose.
Ed era lì, ora, con il fiore tra le mani ed il respiro tranquillo del suo accompagnatore alle spalle, che lo scrutava divertito per tutto quel suo entusiasmo.
La Divine Rose era una rosa rara, estremamente rara. Cresceva solo in zone ben protette dalle intemperie, né troppo esposte al sole né troppo umide. Era estremamente difficile da trovare in quanto apriva i propri petali durante la notte, a differenza della maggior parte dei fiori. Quella Divine Rose era probabilmente aperta perché la luce del suo angolino era scarsissima, ma nonostante il buio la sua bellezza era innegabile.
Ci passò quasi venti minuti attorno, contandone i petali, provando l’elasticità dello stelo, osservando il pistillo e la sfumatura del colore purpureo. Quando si alzò, quasi a malincuore, trovo Demyx seduto sul bordo della polla, le lunghe gambe a mollo nell’acqua e l’espressione soddisfatta da vero bambino.
Zexion si levò le scarpe, appallottolò i calzini, si tirò i pantaloni al ginocchio e gli si sedette vicino, immergendo anche lui le gambe nell’acqua gelida.
«Sono contento di averti portato qui, Zexion» disse, e lo sembrava davvero, genuinamente e profondamente contento di aver condiviso quel posto con lui. Zexion gli sfiorò una mano con le dita, come faceva con Lexaeus, ma ciò fece innervosire Demyx, che drizzò la schiena e guardò verso l’ingresso, le orecchie in fiamme.
«Sai… uhm, mi piace molto venire qui… però non ci passo mai molto tempo perché… di solito sono sempre da solo e non-non è molto divertente, ecco». Agitò un po’ i piedi, quasi confuso da ciò che lui stesso aveva detto. «Voglio dire, è più piacevole se ci si porta qualcuno, ed è per questo che mi ha reso così felice vedere che ti ha fatto piacere – e… e mi chiedevo se…» s’interruppe, s’azzardò a dargli un’altra occhiata e arrossì ancora di più, tanto che Zexion si chiese se gli stesse per venire la febbre. «M-mi chiedevo se tu… mi daresti un bacio». Sussurrò le ultime parole, così piano che quasi non si sentirono.
Zexion ebbe l’impressione di sentir esplodere una bolla di sapone, proprio vicino alle sue orecchie, sentendosi più pesante ed improvvisamente più stanco.
Si passò un mano sul volto, una, due volte; e bagnò l’altra per passarsela sulla fronte che aveva iniziato a far male da un momento all’altro.
Era irritante. Così maledettamente irritante da fargli male, male ovunque, lui ed il suo bel faccino da ventenne con le alucce che gl’incorniciavano il viso, e la calzamaglia che non copriva un bel niente, il sorriso innamorato dopo neanche due settimane che si conoscevano. Era così fottutamente bello da renderlo esaltato e sognante come un ragazzino per una fottuta grotta piena di nulla, e poi lo faceva incazzare in quella maniera, facendo svanire con pop le sue emozioni, la sua calma e pure il suo buonsenso.
Prese un respiro profondo, levandosi le mani dal viso e sbattendole contro la superficie del laghetto, stizzito ed incazzato come poche volte in vita sua.
«Perché devi dire queste cose? Io… io te l’avrei anche dato un bacio, forse, se tu ti fossi semplicemente avvicinato o cose simili, ma sono queste tue uscite che mi fanno veramente incazzare, io, io davvero non capisco cosa tu abbia in testa. Mi tormenti e mi stai appiccicato da due settimane, se non ti ho mandato a cagare vuol dire che forse sopportarti non è troppo spiacevole – ma se sei fatto così non importa, insomma, ormai l’ho capito che sei senza speranza, però» e prese fiato, perché non si ricordava d’essere stato così logorroico neppure durante il suo primo spettacolo di fine anno delle elementari. «Quello che DAVVERO non capisco è perché tu sia così dannatamente fissato con il chiedermi dei baci – e no, voglio dire, se ti piace qualcuno è logico voler essere baciati, ma dopo il primo “no” uno dovrebbe dirsi “ehi, aspettiamo la situazione giusta”, non “Continuiamo a chiederglielo random”, ecco». Rimase a respirare, le mani sollevate, il ciuffo sparso per il viso in completo disordine, lo sguardo stremato senza motivo. Per l’ennesima volta si prese il viso fra i palmi, sospirando. «Oddio, ho persino iniziato a parlare come te».
Quando alzò il viso per vedere in che stato fosse Demyx, trovandoselo davanti tranquillo e sorridente – per quanto mesto e piuttosto mogio -, si chiese se fosse appena stato vittima della presa per il culo più epica della sua vita o se la situazione fosse esattamente al contrario. Demyx gentilmente le dita fra i capelli, risistemandoglieli e sfiorandogli di tanto in tanto la punta del naso. Zexion non riusciva a capire se fosse immensamente triste o solo tranquillo, e la cosa lo faceva ribollire d’aspettativa.
«Penso di essere una persona molto sfortunata, Zexion» disse, parlando piano, con il tono di voce che si usa quando si legge una fiaba ai propri bambini. «Ma non sono sfortunato perché inciampo sempre o perché non trovo mai delle belle conchiglie» (Zexion sbuffò, trattenendo una risata, perché anche da serio Demyx era la persona più tonta che avesse mai conosciuto – e si sorprese di come l’atmosfera si fosse rilassata così semplicemente, solo grazie a quella frase d’esordio). «Io penso di essere sfortunato perché… non so come spiegartelo, sinceramente, dovrei fare un gran discorso e io non-».
«Demyx. Non stai zitto un secondo da due settimane, se avessi registrato tutte le cose che hai detto la tua registrazione sarebbe più lunga di una fatta a me in un anno e mezzo, e gli scrupoli sulla tua logorrea te li fai ora?».
«Uh, mi sa che hai ragione». Erano tonti in due, in quella caverna, non c’era alcun dubbio.
«Dunque, mhm… devi sapere che non ho idea di quando io sia arrivato su quest’isola, anche se sono sicuro di non essere sempre vissuto qui, quindi non è che abbia una gran conoscenza di come sia il mondo là fuori – tu non sei la prima persona che viene qui, ma è raro che mi faccia vedere da qualcuno, potrebbero anche farmi del male perché sono diverso, a te mi sono mostrato perché stavi cadendo e mi è venuto istintivo aiutarti.
Però è più il tempo che ho passato da solo, e penso che essendo io, uhm, magico?». Si voltò a guardarlo come per chiedere conferma delle sue parole. Come faccio a saperlo io?, gli fece cenno Zexion, che si era posizionato comodo sul suo pezzo di roccia come fosse sul divano a guardare un documentario. «Cooomunque, essendo io quello che sono, non penso di invecchiare, perché la mia faccia è identica da sempre, e anche… anche Axel…».
«Anche Axel…?» lo incitò Zexion, curioso come non mai. «Ma più importante, chi è Axel?». Demyx deglutì rumorosamente, rendendo chiaro che stavano arrivando alla parte importante della storia.
«Axel era come me. Lui non aveva le ali o dei poteri particolari (posso comandare l’acqua, prima che tu me lo chieda, ma è molto faticoso quindi non lo faccio mai), ma era il protettore della foresta qui attorno – ed era buffissimo, perché io sono tutto azzurro ed è c-coerente con il mio ruolo di protettore del lago, ma lui aveva i capelli rossi come il fuoco ed una passione smisurata per i falò, ma penso che tu possa capire da solo che per lo spirito del bosco non è una gran passione». E rise, con i denti candidi in vista e lo sguardo davvero divertito, nonostante la difficoltà che mostrava nel dover ricordare quelle cose.
«Era la persona più particolare che abbia mai incontrato. È saltato fuori dal nulla, con i suoi capelli a petardo ed i tatuaggi sotto agli occhi, e aveva l’assurda mania di fare lo spelling e di chiedere “Memorizzato?” dopo quasi ogni frase. Penso che mi sia piaciuto fin da subito, con tutte le sue stranezze, e siamo diventati amici quasi all’istante. Abbiamo passato un sacco di tempo insieme (ancora una volta, mi dispiace, ma non so proprio dire quanto), e dopo un po’ penso di aver iniziato a… guardarlo in maniera un po’ diversa». Non era imbarazzato come lo era stato prima, ma mostrava comunque un po’ di vergogna, dovuta probabilmente al fatto di non aver mai parlato di quelle cose con nessuno.
«Quindi ti sei innamorato di questo Axel». Zexion non aveva mai amato le storie di vita delle persone, che spesso erano infarcite di commenti personali sugli avvenimenti, e non davano mai un’idea chiara dei fatti – e quella di Demyx era così, ma lui si limitava a descrivere le persone e le loro caratteristiche, come se fosse solo quello ad importare per lui.
«Sì, penso si possa dire così. Me ne innamorai, ma proprio quando mi sentivo sempre più sicuro di quello che provavo, è comparso quel ragazzino» continuò, scalciando lievemente i piedi, molli e scuri come la calzamaglia.
«Si chiamava Roxas, era poco più che adolescente ed aveva i capelli biondi e grandi occhi azzurri, profondi, splendidi. Axel perse completamente la testa per lui. Lo portava ogni sera a vedere il tramonto in spiaggia, lo infastidiva ogni momento per avere le sue attenzioni» qui si fermò ed arrossì all’occhiata obliqua che gli aveva lanciato Zexion, per poi ricomporsi e proseguire. «E, beh, un giorno Roxas è scivolato dalla riva mentre passeggiava con Axel, che lo ha afferrato e gli ha parato il colpo sugli scogli, facendosi parecchio male ad un polso che era rimasto schiacciato sotto il corpo. Come ringraziamento Roxas lo ha baciato, ed Axel… Axel è diventato umano».
Zexion sentì l’ultima frase piombargli addosso come una cascata d’acqua fredda. Era questo che Demyx voleva da lui? Un bacio per poter essere umano? Fece per parlare, ma Demyx gli sventolò una mano davanti al naso, implorandolo con gli occhi di lasciarlo parlare. «Sono rimasti sull’isola finché il polso di Axel non è guarito, poi hanno costruito una zattera, mi hanno detto addio con la promessa di tornare, un giorno, e poi sono partiti per il mondo al di là del mare. Ci sono rimasto male, malissimo, tornando solo dopo tanti anni, ma penso che Axel ne fosse davvero molto innamorato, quindi penso che sia stato meglio così». Continuò ad agitare i piedi con un bambino, con la calzamaglia azzurrina pregna d’acqua ed il bordo della casacca blu tutto schizzato, ma Zexion non si azzardò a parlare, in attesa di un cenno per aver conferma che la storia fosse finita.
Si sentiva in subbuglio, come sempre era quando di trovava con Demyx, ma questa volta non era in agitazione riguardo alle proprie emozioni, anzi era preoccupato per quelle del tontolone che si stava esponendo tanto solo per fargli capire perché un bacio sarebbe stato tanto importante per lui. Passare tanto tempo da solo non doveva essere facile per nessuno, e specialmente non era facile tornare ad esser soli dopo che qualcuno di così importante ti lasciava.
«Continuai a gironzolare per il lago, cercando di riabituarmi ad essere solo e di non pensare troppo ad Axel, e penso che fossi ormai abbastanza abituato quando-».
«Non mi dire un altro possibile pretendente perché hai avuto più storie d’amore tu su un’isola semi-disabitata che io nel mondo civilizzato, e questo mi rode» scherzò Zexion, cercando di tirargli su il morale dopo la storia spiacevole –e sentendosi irrimediabilmente scemo perché la cosa dei pretendenti era vera.
«Allora mi dispiace, ma dovrai tormentarti ancora per un po’». Demyx era stato sorpreso e compiaciuto del suo commento, ed era ancora un po’ teso nel raccontargli la sua storia, ma molto meno di quando aveva iniziato, subito dopo lo sfogo – così inaspettato – dello scienziato. «Perché, devi sapere che nella mia luuuunga lista di ragazzi di cui mi sono, più o meno, innamorato (e che per ora conta solo Axel e, uhm, te)» e qui ebbero entrambi bisogno di una pausa, perché l’uno si vergognava di quel che aveva detto e l’altro stava strozzandosi con la saliva, ma poterono ricominciare abbastanza tranquillamente una volta smaltita la parentesi di Demyx. «In questa magica – so che ti fa ridere che io dica “magico” di qualcosa, Zexion, lo faccio apposta, non sono così stupido da non notarlo -; in questa magica lista, c’è, ebbene sì, anche una ragazza». Zexion fu quasi tentato di fare un “Ooooh” finto di sorpresa, ma il suo cervello gli aveva ricordato all’ultimo che era una adulto e pure un uomo di scienza, e non un adolescente al primo appuntamento, quindi si costrinse a tener chiusa la bocca per salvare un minimo della sua dignità.
«Questa ragazza, che per pura coincidenza aveva i capelli color rosso fuoco, si chiamava Ariel ed era una sirena». E Demyx rise di nuovo, a bocca aperta, fin quasi alle lacrime quando notò la sua espressione sconcertata, e quando lo sentì biasciare “Ma un amore normale no?” gli fece notare che c’era lui al suo fianco al momento, e che non aveva né ali, né capelli a petardo né coda di pesce, anzi era un perfetto umano senza alcuna stranezza.
Zexion si meravigliò della scioltezza con cui entrambi scherzavano, prendendosi in giro e affrontando quella discussione dolorosa con allegria ed intimità. Demyx continuò a sorridere anche mentre cercava le parole per ricominciare il discorso, e non lo perse più finché non ebbe finito la storia.
 «Duuuunque, dicevo, lei si chiamava Ariel ed aveva i capelli rossi, sì. Era una persona molto diversa da Axel, molto più curiosa ed attiva, sempre in movimento ed alla ricerca di nuove avventure o scoperte; ma in un lago non ci sono molte cose da fare, e lei che non poteva neanche esplorare la terraferma. Io facevo del mio meglio per farla contenta, e le portavo sempre conchiglie, fiori, cose trasportate dal mare…». S’interruppe ancora una volta per via dell’ennesimo sguardo obliquo di Zexion, che continuava a vedere fin troppe similitudini fra presente e passato. «Me ne sono innamorato, come ti ho detto, ma sembrava che lei provasse lo stesso per me, e ne ero tanto felice, come puoi immaginare. Però Ariel iniziava ad annoiarsi della vita qui, e continuava a sospirare che le sarebbe piaciuto nuotare in mare aperto, come tutte le vere sirene dovrebbero fare». Sospiro. Grattata alla nuca. «Io iniziai a mentirle, perché avevo paura che mi lasciasse come Axel e Roxas avevano fatto. Insieme a Roxas era capitata in spiaggia una cassa di legno, con dentro un libriccino sporco e strappato di storie strane, con draghi e mostri marini, e mi ricordo che lo leggevamo sempre insieme. Poi se lo portò via quando partirono, ma ci scrivemmo i nostri nomi sopra così che si ricordassero di me per sempre. Io iniziai ad usare quelle storie per spaventare Ariel, sperando che così smettesse di volersene andare, ma penso che peggiorai solo la situazione. Una mattina sparì (a quel tempo c’era ancora un fiume che collegava mare e lago, poi lo hanno fermato e fatto sparire.) e non la rividi più per qualche settimana. La consideravo già persa per sempre, invece tornò, ed insieme a lei c’era un uomo, un uomo che era capitano di una barca, e mi disse che erano innamorati e che sarebbero partiti per esplorare tutti i mari del mondo. Gli augurai buona fortuna, li salutai dalla spiaggia e poi credo di aver pianto giorno e notte per molto tempo, ma devo dire che non me lo ricordo poi così bene».
Demyx si lasciò cadere di schiena sulla roccia, accomodandosi e mettendo le braccia sotto la nuca per stare più comodo. Levò anche i piedi dall’acqua, appoggiandoli su un sasso lì vicino, strizzando le dita come un ragazzino. Zexion gli si accoccolò vicino, facendolo sussultare, esattamente come aveva fatto pochi giorni prima con Lexaeus, disegnando ghirigori allo stesso modo sulla casacca scura, tenendo il viso poggiato sul suo avambraccio. Sapeva cosa voleva dire esser soli, anche se non come Demyx, ed anche se il contatto fisico così ravvicinato lo intimidiva con chiunque, lasciò che l’altro poggiasse il mento fra i suoi capelli, e gli permise di stringerlo a sé mentre sussultava per qualche singhiozzo liberatorio; più vicino a lui di quanto non fosse mai stato.
 
 

 

[Within there's every little memory resting calm with me
Resting in a dream
Smiling back at me
The faces of the past keep calling me to come back home
Rest calm and remember me]

 
 
Rimasero distesi per lungo tempo, forse un’ora, forse due.
Demyx smise di singhiozzare quasi subito, pensando che fosse inutile piangere coloro che aveva amato e poi lasciato andare, quando la persona a cui tenesse di più nel presente era stesa accanto a lui, così abbandonata fra le sue braccia.
Pensò che avrebbe dovuto ringraziarli, invece, Axel, Roxas e Ariel; avrebbe dovuto ringraziarli per aver avvicinato Zexion, per avergli permesso di mostrare che non era solo uno stupido guardiano con ali e sorriso sempre in faccia, e che la sua non era solo un’infatuazione momentanea.
Aveva paura, Demyx, paura che Zexion partisse e tornasse al suo mondo, che si stancasse delle sue risate e del suo essere così diverso, che ne avesse abbastanza delle differenze che c’erano fra loro.
Zexion era la cosa più strana e scostante che avesse mai avuto fra le mani. Era un pensiero che aveva spesso, quello del “questo è di certo la cosa più strana/buffa/bella che io abbia mai…”, ma in quel caso sentiva che era giusto usare quella frase per lui, che si era arrabbiato, gli aveva sorriso, e che ora sonnecchiava poggiato alla sua spalla.
Sentiva il cuore tambureggiare da ore, il petto caldo e così pieno di qualcosa da sentirsi schiacciato al suolo. C’era il respiro di Zexion, però, calmo e regolare sulla stoffa della sua maglia, e ad ogni soffio alleviava un poco quel dolce tormento.
Demyx sapeva che se l’altro avesse potuto leggere i suoi pensieri l’avrebbe allontanato, con la faccia offesa e tinta di rosso, imbarazzato da tutte quelle cose assurdamente melense. Ma non poteva smettere di pensarle, sentendosi così assurdamente innamorato da poter mettere in discussione anche la vita e la morte, in nome di quell’amore.
Arrossì, ridacchiando da solo per tutte le cose imbarazzanti che gli frullavano in testa. Zexion mugolò, alzando il viso e guardandolo un po’ male, perché ridendo lo aveva fatto sobbalzare svegliandolo dal suo riposino, ma nonostante l’interruzione sembrava ancora di buon umore. Lo vide passarsi una mano sul volto, rinfrescarsi con l’acqua e berne un poco.
Seguì ognuno di quei movimenti fatti con calma sonnolenta, e quando l’altro fu finalmente sveglio e lucido gli porse la felpa azzurrina che aveva usato come coperta.
Aveva dormito con la guancia schiacciata contro di lui, ed ora aveva un alone rosso adorabile sotto l’occhio destro, e non la finiva più di massaggiarsi e tastarsi quella parte del volto. Demyx lo vide rimuginare, ricambiare i suoi sguardi, torturarsi i piedi e tormentare il bordo della maglietta come per gioco – era così bello da guardare, così rilassato.
«Ci ho pensato un po’ su, mentre mi riposavo, Dem, su tutto quello che mi hai detto».
A Demyx venne un mezzo infarto per quel “Dem” di cui Zexion non si era neanche accorto, ma rimase zitto e muto per non fermarlo. «Cosa sai delle sirene, Demyx?».
La domanda lo colse di sorpresa. Ci pensò un po’ su, prima di rispondere, quasi pauroso di dire qualcosa di stupido. «So solo quello che mi ha raccontato Ariel. So che sono molto belle, che hanno la coda da pesce, che possono respirare fuori e dentro l’acqua senza problemi e che sanno cantare molto bene – ma non l’ho mai sentita, quindi potrebbe essere una bugia».
«Non lo è, anche se in tema sirene sei sicuramente più esperto tu, che ne hai conosciuta una. Quindi non sai nulla del loro canto (o di quello che dice la mitologia a proposito)?» disse, finendo di chiudere la zip della felpa e tirandone giù il bordo con entrambe le mani.
«Uhm, no, mi dispiace».
«Fa nulla. Le leggende più comuni dicono che avessero la coda come i pesci, ma nella letteratura classica vengono descritte come metà uccello; ma visto come tu hai descritto Ariel non so cosa pensare, dato che non avevo mai minimamente pensato che potessero esistere davvero». Demyx scrollò le spalle, sbattacchiando le ali per enfatizzare il fatto che le creature magiche esistessero. «Cosa possiamo dedurre, quindi? Magari le sirene si sono evolute nel corso dei secoli?». «La prossima volta che ne incontro una lo chiedo, se vuoi».
«Non penso sarebbe tanto contenta di risponderti. Stavo dicendo, sì, che il loro canto era molto particolare, in quanto meraviglioso e in grado di ammaliare qualsiasi uomo (in alcune storie i marinai si lanciavano in mare o sugli scogli anche se andavano in contro a morte certa, pur di raggiungerle). Per questo mi sono incuriosito, quando hai parlato di Ariel, dopotutto hai detto che si è innamorata di un capitano».
«Uhm, non so che dirti sinceramente, non l’ho mai sentita cantare».
«Non importa. Era solo una curiosità».
Demyx si alzò, stiracchiando membra ed ali dopo il lungo tempo passato steso e a parlare, ancora scosso e stupito del comportamento di Zexion. Fece qualche passo all’interno della caverna, per sciogliere i muscoli, poi si rimise seduto accanto a lui, sistemandosi i capelli e la casacca. Si sentiva lo sguardo dell’altro addosso, ed era un po’ indeciso su cosa fare, ma alla fine prese un respiro e si voltò a guardarlo sorridente.
«Grazie per avermi ascoltato, Zexion. Mi ha fatto bene, penso» sussurrò, sfiorandogli un palmo aperto con la punta delle dita. Sentì la pelle calda e ne seguì i contorni, con gentilezza. «E… sono felice di aver passato un po’ di tempo con te. Dopo la storia, intendo». Gli occhi azzurri di Demyx avevano la stessa sfumatura fredda del vestito della Dorothy nella copertina del suo libro, pensò Zexion. Ma erano così immensamente espressivi da lasciarlo senza fiato. Gli accarezzò una guancia, che divenne più calda e rosata sotto il suo tocco. Demyx gli fece scivolare le braccia attorno alla vita, portandoselo addosso. Siamo così vicini, si disse, sempre più in imbarazzo e felice.
«Bene bene, guarda cosa abbiamo qui, cara Naminé». Sobbalzarono entrambi, allontanandosi e voltandosi immediatamente verso l’ingresso.
Marluxia. Marluxia con il solito sorriso gentile, il tono calmo ed elegante, ma con gli occhi freddi e la mano sulla mano di Naminé, stretta tanto da arrossarle la pelle.
«Hai visto, Naminé? Lasciamo Demyx da solo e lui ci disobbedisce così, quell’ingrato. E pensare che sei stata così gentile con lui, modificando la sua memoria».
Demyx sussultò, portandosi le braccia al petto e guardandoli con gli occhi sbarrati. Più che spaventato, come era Zexion, ma bensì profondamente sorpreso e a disagio.
Marluxia sospirò, facendo qualche passo ina avanti. «In cosa ci ha disubbidito, piccola Naminé?». Zexion si chiede se li avrebbe uccisi e gettati nel lago, oppure trasformati in rocce. Afferrò strettamente la mano più vicina di Demyx, senza capire nulla di quanto stesse accadendo.
«Vietato toccare la Divine Rose» sussurrò Naminé, con la sua voce gentile.
«Esatto! Demyx, quante volte te l’ho detto, non devi toccare quella rosa! Non importa se hai finalmente trovato il vero amore e presto diverrai umano, il mio tesoro non si tocca!».
Marluxia sbuffò, improvvisamente divertito e svolazzante. Svolazzante.
Un uomo in giacca e cravatta (e capelli rosa) che svolazza a mezz’aria seduto come un indiano. Zexion ebbe il desiderio irrefrenabile di prendere il cellulare e chiamare Riku, lo psicologo a cui si rivolgeva ogni tanto che aveva probabilmente più problemi di lui (oh, ma adesso lo avrebbe stracciato, la stupidità del suo fidanzato non poteva competere con un ragazzo volante che ti fa avances spietate).
«Maru, mi hai spaventato!» sbottò Demyx, con tutta la semplicità del mondo. «Sai che ho una paura matta di voi ed i vostri cambi di memoria, mh. E poi come fai a sapere della rosa, eh?».
«La rosa mi parla, lo sai!».
«Fermi tutti, fermi tutti. Qui non ci sto capendo nulla e la cosa non mi piace. Partiamo con le basi: chi è Marluxia? Chi è Naminé? Che modifiche alla memoria? Ma soprattutto» e si voltò a guardare l’uomo dalla chioma rosa, protagonista della maggior parte delle domande. «Cosa vorrebbe dire che la rosa ti parla?».
Marluxia emise un sospiro estremamente scenografico, battendo un colpetto sulla spalla della ragazzina, che tirò fuori dal nulla un blocco da disegno e scarabocchiò velocemente qualcosa. Un lungo fasciò di luce inondò Marluxia, mentre uno più piccolo illuminava teatralmente la rosa, poco distante. A Zexion balzò in mente Pillola, il suo povero gatto spelacchiato e fedele, al suo fianco da otto anni, e le dormite che si sarebbero fatti insieme sul divano se fosse stato a casa e non in quel covo di matti.
Marluxia si schiarì la voce, assumendo in volo una posa melodrammatica, così concentrato nel suo ruolo da non accorgersi delle risate di Demyx, che ancora una volta rideva in preda all’ilarità più totale.
«Devi sapere, giovane Zexion, che non sono sempre stato il meraviglioso e giovane uomo che hai ora dinnanzi, ma anzi ero la peggior bestia che possa calcare le strade senza scadere nel fuori stagione. Ero un contabile» esalò, rabbrividendo in maniera esagerata. Naminé gli porse un fazzoletto per tamponarsi le lacrime, ma stava palesemente sorridendo anche lei, nascosta nel suo angolino in ombra. «Ero così serio, scialbo, triste. Indossavo solo completi grigi e sformati, portavo addirittura gli occhiali!». (Che disgrazia!, pensò Zexion, che li doveva portare per guardare la televisione e a cui piacevano anche.) «Penso che non mi fossi mai neanche fatto una messa in piega! Poi, poi a risollevarmi dalla mia situazione così disgraziata e infame, è giunta una fata, la persona più meravigliosa che abbia mai passeggiato accanto a me». Demyx soffiò una marea d’aria dal naso, trattenendo le risate e ottenendo solo di fare ancora più rumore, in lacrime per le risate. Zexion non aveva parole.
«Naminé» venne declamato, con struggente convinzione.
«Naminé mi ha aperto gli occhi, mi ha permesso di vedere il mondo attraverso le lenti della magia! Lei, una fata che vuol essere chiamata strega ed io, che ho gettato la mia vita di contabile per diventare l’imprenditore che ora sono!».
«In verità sono una strega e basta, Marluxia» sottolineò Naminé, con il tono di chi lo ha detto miliardi di volte.
«Dicevo, io e Naminé siamo fuggiti dalla vita mondana e triste delle città, ritirandoci in questo luogo magico!».
«E avete incontrato me!» concluse Demyx, che aveva finalmente ripreso a respirare e smesso di ridere.
«Esatto. E sai, Zexion, era così triste e solo quando lo abbiamo incontrato che non abbiamo potuto fare a meno che volergli dare l’opportunità di diventare umano e di trovare il vero amore, come lui desidera». Le luci tornarono normali allo schioccare dei tacchetti delle scarpe di Marluxia, che lui fece sbattere fra loro con il pathos del vero drammaturgo. O almeno nella sua mente doveva essersi svolta così, la cosa.
«Non hai ancora spiegato la cosa della rosa».
«Oh, sai, trovammo quella rosa nei primi giri dell’isola, e Naminé mi disse che era così simile a me, bella e rara, e allora incantò la rosa e me, che ancora ero avvolto dall’aria muffita del mio ufficio, legandoci indissolubilmente!».
«In realtà ne hai parlato tu per mesi, di quella rosa, e quindi ho pensato ti avrebbe fatto piacere» lo corresse di nuovo la strega.
«È uguale».
«Non lo è».
Marluxia si scosse i capelli, visibilmente irritato. A quanto pare il suo dolce fiorellino non era tanto docile e silenzioso come lo idealizzava. Lasciò vagare per un po’ lo sguardo, lisciandosi il maglioncino pervinca e battacchiando un piede.
All’improvviso parve ricordarsi di loro, e si voltò a guardarli, di nuovo allegro e spensierato. «Ma sono così felice per voi! Oh, sì, certo, è una disdetta che il resort non avrà più un vero motivo di esistere, dato che Demyx ha già trovato l’amore, ma non posso certo essere triste quando è successa una cosa così gioiosa!».
«No, aspetta, quindi ci licenzierai tutti solo perché Demyx ha trovato cosa?» sbottò Zexion, a cui la piega che aveva preso la discussione non piaceva per niente. Aveva un gatto da mantenere, lui.
«Licenziare? Oh, certo che no! Il Three Wishes Resort verrà costruito lo stesso, solo che perderà un poco del suo fascino, ma nulla di che dopotutto».
«Ehm, scusatemi, ma adesso sarei io a non capire nulla della discussione» s’insinuò Demyx, che aveva continuato a passare dall’uno all’altro con gli occhi peggio che ad una partita di tennis.
Marluxia esalò il bilionesimo sospiro di quella scarsa mezzora, dispiaciuto di dover rivelare i suoi piani. «Che peccato, non è vero Naminé? La nostra sorpresa non potrà essere ad effetto come speravamo!».
Naminé gli disegnò una poltrona per sostenere il suo sconforto, premurandosi di disegnarla con la stampa a fiori più carina che le riuscisse con una mano sola, dato che l’altra era ferocemente stretta fra quelle del suo… spasimante?
«Devi sapere, Demyx, che la mia streghetta ha preso molto a cuore la tua situazione. Sentendo la tua storia, ci siamo entrambi profondamente commossi, e abbiamo deciso di iniziare la nostra nuova magica vita con una buona azione». Demyx seguiva il discorso annuendo forsennatamente ad ogni pausa ad effetto dell’uomo, incitandolo ad andare avanti. «Per questo, abbiamo pensato che costruire un resort – un albergo, Demyx, una zona vacanze – ti avrebbe permesso di conoscere più persone, e quindi aumentato le probabilità di trovare l’amore~».
«Un albergo? Qui?» domandò Demyx, con una strana espressione in viso.
«Non sarebbe stato fantastico? Così tante persone, non saresti più solo e-». Uno schizzo d’acqua lo colpì in viso, seguito subito da un altro.
Demyx fece per colpirlo ancora, muovendo rapidamente dita e polso, ma Zexion lo fermò, parandoglisi davanti ed afferrandolo il più forte possibile.
«I-io non voglio che altra gente venga qui! Non così tanta! Sai- tu sai cosa è successo l’ultima volta, Marluxia, ed io non voglio che succeda di nuovo!» urlò Demyx, e Zexion gli si avvicinò ancora, cercando di calmarlo e di confortarlo, senza effetto.
«Vuoi rimanere solo per sempre, Demyx? Vuoi stare ancora su quest’isola, mangiando quel che capita, volando qua e là, proteggendo qualcosa a cui non serve un protettore? Ci vuoi restare ancora per molto?» gli chiese Marluxia, i capelli fradici ed arruffati. «Secondo te perché hai incontrato Zexion? Perché hai dei vestiti puliti, da mangiare, perché hai l’occasione di andartene e lasciarti questo posto alle spalle? L’ho chiamato io, insieme al resto della sua squadra, per lavorare per te».
Demyx smise di agitarsi. Aveva gli occhi spalancati, nessun colore in volto, la  bocca tremante. Alzò appena il mento per poter guardare Zexion negli occhi.
«Il tuo lavoro… Zexion?».
Lo scienziato lasciò la presa, lentamente. Non avrebbe mai pensato che potesse accadere, ma aveva davvero paura di come Demyx avrebbe potuto reagire.
«Marluxia mi ha assunto per ispezionare la zona, per vedere se la costruzione del resort è possibile o se la zona non è adatta» sussurrò, scandendo con calma le parole.
Demyx lo guardò in silenzio, per qualche secondo. Poi si voltò e corse fino alla polla, pochi passi più indietro. Come i suoi piedi toccarono l’acqua, il suo corpo esplose, dissolvendosi in migliaia di goccioline. Zexion urlò, cadendo all’indietro e finendo per bagnarsi del tutto, completamente senza fiato.
Naminé gli si avvicinò, posandogli le manine sulle spalle ed aiutandolo a rialzarsi.
«Zexion» disse, e lui si lasciò accompagnare fino alla poltrona di Marluxia, che gli aveva lasciato il posto. «È tutto a posto, Zexion. Demyx non si farà vedere per qualche giorno, penso, ma io e Marluxia proveremo a parlargli, e ti chiediamo di parlargli anche tu, quando lo rivedrai». Zexion annuì leggermente, ancora sotto shock. Non aveva mai nemmeno immaginato che Demyx potesse fare una cosa simile.
«Perché ha reagito così?» chiese, e quando vide lo sguardo preoccupato di Marluxia e Naminé seppe di aver fatto la domanda giusta, anche se la più dolorosa.
«Sono una strega, quindi ho diversi poteri, Zexion» iniziò la ragazza, accarezzando gli anelli di platica che tenevano insieme il suo blocco da disegno. «Demyx è qui da diversi anni, ho scoperto, e non è sempre stato come tu lo conosci ora».
«Come lo sai?».
«Ho letto la sua memoria, con il suo consenso. C’erano molte cose non chiare, dimenticate o sepolte, e io ho annebbiato ancora di più le cose più dolorose per permettergli di superarle. Ricorda poco e niente di quando è diventato il protettore della Mermaid Lagoon, ed è meglio così, penso». Zexion le afferrò una spallina del vestito candido, scuotendola un poco. Gli occhi nebulosi della ragazza, di un azzurro placido, si adombrarono lievemente ma Naminé mantenne il sorriso.
«Voglio delle risposte più chiare, Naminé. Demyx è andato in crisi, prima, e voglio sapere il perché». Marluxia rimase in silenzio, giocherellando con la foggia della poltrona malandata. Lui e Naminé sembrarono mettersi d’accordo con quei semplici gesti, e allora lei prese fiato, riprendendo a raccontare.
«Ho dovuto interpretare molto, ed alcuni punti non mi sono ancora chiari, come penso non lo siano per Demyx, che a livello conscio non ricorda quasi nulla. Ho guardato i suoi ricordi, e ho scoperto che è il figlio della coppia che una cinquantina d’anni fa tentò di aprire un albergo su quest’isola, fallendo misteriosamente ancora prima dell’inaugurazione». Zexion deglutì, ricordando che nel dossier compilato da Saïx c’era scritto che il figlio della coppia aveva diciotto anni, e che questo rendeva Demyx un allegro sessantenne con il corpo da giovanotto. Scacciò il pensiero molesto dalla testa, tornando attento. «Era loro figlio, e da quel che ho capito amava gironzolare per la zona, passando i pomeriggi fuori casa mentre i genitori sovrintendevano i lavori. Incontrò lo spirito che allora proteggeva il lago, raccontandogli della sua famiglia e di cosa stessero costruendo, facendo arrabbiare il guardiano, molto più di quanto se la sia presa lui. Devi capire, Zexion, che anche se vorrebbe andarsene e non gli importa veramente del resort, il suo legame con il lago è comunque vivo, impedendogli di allontanarsi e di permettere che qualcosa minacci la Mermaid Lagoon. Poi non so cosa sia successo, ma penso che il protettore distrusse il cantiere e la sua casa, travolgendo anche la sua famiglia ed i lavoratori, di cui non so nulla, e che Demyx fu maledetto e costretto a prendere il posto del protettore, anche se non sono certa del perché».
«Demyx mi ha detto che occorre molta forza per controllare l’acqua, se davvero il protettore è riuscito a muoverne tanta da distruggere un cantiere ed un casa doveva essere imbattibile» fece notare Zexion, ormai completamente ripresosi dallo spavento.
 «Lo abbiamo pensato anche noi» disse Marluxia, dopo il lungo tempo passato in silenzio. «Avevamo anche ipotizzato che fosse morto per lo sforzo, ma poi non si spiegava perché Demyx sia diventato il nuovo guardiano, quindi abbiamo rinunciato a capire qualcosa di più, dato che non volevamo forzare la memoria di Demyx».
Il cellulare di Zexion vibrò nella tasca dei jeans. Lui lo prese e trovò due chiamate perse e un messaggio di Lexaeus: “Dove sei? È tardi”. Guardò fuori dall’entrata, il sole che scompariva dietro  gli alberi.
«Torniamo alla villa» disse, e Naminé disegnò una scala perché potessero scendere più agevolmente. Mermaid Lagoon. Trovò la forza di sorridere, pensando che nessun nome sarebbe stato più giusto per quel lago.
 

 
[The mermaid's grace, the forever call
Beauty in spygladd on an old man's porch
The mermaids you turn loose brought back your tears]

 

 
Zexion si concentrò più che poté sul suo lavoro.
Vexen si era storto una caviglia mentre cercava di prendere una campione di roccia, quindi era diventato ancora più esigente ed insofferente alle carenze.
Passò quasi una settimana ad illustrargli ogni sera tutti i risultati ottenuti, annotandosi tutte le sue critiche e i suoi ordini, per poi passare di stanza in stanza facendo da messaggero per tutti. Quando finalmente la caviglia si sgonfiò abbastanza da permettergli di camminare (lamentandosi e inveendo contro di loro senza motivo), di settimane ne erano passate due, ancora senza tracce di Demyx.
Marluxia gli inviava ogni tanto un messaggio, ma in genere si limitavano ad uno “Deve solo riflettere un po’”, “Gli ho parlato e sta bene”, “Ha parlato di te”, e altre frasi che non significavano nulla, se ripetute quasi in ordine per due settimane.
Lexaeus aveva capito che c’era qualcosa che non andava, e gli rimaneva accanto a modo suo, aspettando che fosse lui ad aprirsi, se avesse voluto farlo.
Zexion aspettava, sentendosi ogni giorno più stupido ed ansioso, ripetendosi che non aveva senso soffrire così per una simile sciocchezza, che i problemi di quel ragazzo non lo riguardavano. Ma era una bugia, ed il fatto che si illudesse da solo lo frastornava ancora di più. Finì il suo libro; ne iniziò un altro, di tipo scientifico, e lo lasciò dopo venti pagine per rileggere il Mago di Oz. Era una sensazione ancora più sciocca dei suoi pensieri, ma quella storia di fantasia era quanto di più vicino a Demyx avesse, e leggere lo confortava.
Si diresse verso il lago, a meno di due settimane dalla partenza, per recuperare una borsa impermeabile con una torcia e qualche felpa, costringendosi a guardare la strada impervia e non il bosco, per evitarsi una caduta come quella di Vexen.
Sollevò lo sguardo, sperando di trovare Demyx seduto sul solito sasso, intento a dondolare i piedi sulla superficie dell’acqua e a lanciar sassi; alzò lo sguardo come faceva da giorni, e Demyx lo trovò, non sopra ma accanto alla roccia, avvolto in una delle sue felpe, con la sua torcia in mano. Le maniche non gli arrivavano che a cinque centimetri dal polso, e le spalle sembravano in procinto d’esplodere,  ma Zexion fu felice che l’avesse indossata anche senza il suo permesso.
Poggiò la borsa sotto l’albero degli AerialChamps, adesso vivi e cinguettanti, e gli si avvicinò con discrezione.
«Ciao!» lo salutò Demyx, sorridendo mestamente, con lo sguardo di chi è davvero felice di vederti, ma non sa come comportarsi. Lo salutò sussurrando e gli si sedette affianco, ricevendo una felpa con cui coprirsi ed il resto della sua borsa, che appoggiò a lato senza troppe premure.
Demyx accostò i piedi ai suoi, confrontandone la lunghezza e ridacchiando per le sue stesse scarpe, così allungate e appuntite. Zexion aveva sempre avuto i piedi piccoli e sempre si era dovuto arrangiare prendendo scarpe un po’ più grandi e imbottendole di cotone, perché di scarpe eleganti che superino il controllo di Vexen non ce n’erano molte sotto il 41, e di soldi da spendere in scarpe su misura non ne aveva – Pillola era un gatto grasso e viziato -, quindi finiva sempre con delle scarpe enormi, totalmente sproporzionate, che calciava sotto al divano appena tornato a casa.
Se le slacciò velocemente, togliendosele e tirandole distanti, perché non aveva sudato tanto ma non voleva brutte sorprese.
«Hai i piedi piccoli» commentò Demyx, con il suo solito tatto confortante.
Cadde ancora il silenzio. Sono due settimane che aspetto, perché non ho pensato a nulla da dire?, si disse, arricciando l’alluce e le altre dita.
«Naminé mi ha spiegato perché hai reagito così» esordì, neanche tanto convinto.
«Lo so, me lo hanno detto». Demyx si infilò le mani in tasca, il naso puntato verso il cielo. «Mi dispiace per come mi sono comportato. Mi hanno detto che ti sei spaventato quando sono sparito in quel modo».
«Non mi aspettavo una cosa simile, sinceramente».
«Io ho… paura che la gente venga qui e si comporti come facevano gli operai: loro gettavano i mozziconi nel fiume, penso, e non gliene fregava molto; penso sia stato quello a far impazzire il guardiano, è stato il suo legame a farlo comportare così, per quel che ricordo. Mi hanno detto che sono passati tanti anni, è quasi ovvio che mi sia scordato il volto dei miei genitori» gli si incrinò la voce e Demyx si zittì, il viso ora basso ed in ombra. Zexion gli afferrò la mano, portandosela in grembo.
«Io non li ho mai conosciuti. Mi ha cresciuto lo scrittore di cui si occupava mio padre, che era un editore, perché non avevo nessun altro parente e nel mio paese non c’erano orfanotrofi. Questa parte la posso capire anche io, vedi?».
«Davvero? Mai conosciuti?».
«Mai. Di loro ho un libro di fiabe per bambini che leggo al mio gatto quando vuole che io gli parli e un portachiavi a forma di cabina telefonica che mia mamma teneva dentro alla borsa. Ho buttato via tutto il resto».
«Il tuo gatto ti chiede che tu gli parli?» domandò Demyx, voltandosi di scatto.
«Non è che me lo chieda, è che ogni tanto si mette a miagolarmi contro, e se gli dico qualcosa mi risponde, quindi prendo quel libro e glielo leggo, con lui che miagola appena finisco una frase». Demyx scoppiò a ridere di cuore e seppur con le orecchie rosse Zexion fu felice di avergli sollevato il morale.
«Non pensavo che tu facessi cose simili, Zexion» disse, ancora ridacchiante.«È una cosa così carina».
«Quindi leggi libri di fiabe?» chiese Demyx, dopo una breve pausa.
«Li leggevo quando ero più piccolo, ma il mio tutore non è mai stato molto felice di questa cosa. Mi ripeteva continuamente di sbrigarmi a crescere e di smettere d’illudermi con quelle fandonie». Frugò in tasca, estraendo il cellulare e cercando qualcosa fra la miriade di appunti che si era segnato in quei giorni. «Penso che odiasse essere l’editore di mio padre. Leggi questo, è la foto di un foglietto scritto a mano che teneva nel suo medaglione».
“La fantasia è la mia sirena dal canto melodioso, dalle migliaia di sfumature, gradazioni, sentimenti; la mia sirena che canta per me quando scrivo, leggo, studio, viaggio.
La mia sirena canterà negli occhi di mio figlio quando questi verrà al mondo.”
«Lo scrisse che non era neanche laureato, quando il figlio ancora se lo sognava e mia mamma neanche lo conosceva, da quanto mi hanno raccontato, ma da piccolo la sapevo a memoria, e non ho la forza di cancellarla».
Demyx fece scivolare la mano dalla sue, passandogli il braccio attorno alla vita, facendo forza perché Zexion si spostasse e gli si sedesse sulle gambe.
Era arrossito, come tutte le volte che si trovavano così vicini, ma aveva anche gli occhi lucidi. «Scusa, non avrei dovuto parlare dei miei-».
Demyx lo abbracciò con forza, stringendoselo al petto e togliendogli il respiro, strusciandogli il naso nei capelli. Zexion gli passò le braccia dietro la schiena, tirandosi in dietro ed avvicinando il volto al suo.
Lo vide sussultare ed arrossire ancora di più, e ridacchiò vedendolo così nervoso.
«Zexion… so che mi picchierai per questo ma… puoi aspettare un secondo?».
«Ti sto per baciare dopo tanto tempo che me lo chiedi, e mi chiedi anche di aspettare? Avrei tutte le ragioni di picchiarti, se devo essere sincero» sbuffò, allontanandosi un po’.
«Ti andrebbe di fare una cosa? Dopo non lo potremo fare più, quindi…».
«Parla chiaro, Demyx».
«Ti andrebbe di fare un giro sopra al lago?» azzardò, guardandolo con l’aria più rassicurante che riusciva ad avere.«In volo?».
A Zexion arrivò rapido alla mente il ricordo della loro ultima esperienza, e di come si fosse aggrappato all’altro peggio di un koala, in preda ad una crisi di panico.
«Devo ammettere che non è un’idea molto allettante, ma se ci tieni tanto…».
«Yay!» urlò Demyx, balzando in piedi e trascinando Zexion con lui.
Lo voltò di schiena, spiaccicandosi la sua schiena addosso, e gli afferrò le mani fino a posizionarsi come in uno stravagante tango al contrario. «Metti i piedi sopra i miei!» esclamò, al culmine dell’entusiasmo.
L’altro eseguì, a malincuore, gettando un ultimo sguardo d’addio alla rassicurante terraferma. Demyx si sollevò piano, sbattacchiando le ali gentilmente, per farlo abituare.
Raggiunta la riva del lago, Zexion avrebbe voluto voltarsi e aggrapparglisi, ma fu preceduto da un “Tutto ok, Zexy?” che gli fece ricordare del suo orgoglio, quindi si costrinse a deglutire e a rispondere: «Sì, come no».
Demyx si alzò di altri venti o trenta centimetri, iniziando a scivolare lentamente sulla superficie. Muovendo un po’ le dita attorno ai suoi polsi (e facendolo innervosire per la paura che perdesse la presa, lasciando lui e la sua incapacità cronica di nuotare in una gran bella situazione), Demyx creava dei mulinelli e fontanelle, che bagnavano loro le gambe e scrosciavano allegramente insieme alla cascata. Passarono in mezzo ad un gruppo di canne, da cui si sollevarono un gruppo di lucciole, che reagendo ad un fischio di Demyx si misero a seguirli, come la scia di una stella cometa.
A mano a mano che i minuti passavano, Zexion iniziò a sentirsi sempre meno nervoso, fino a ridacchiare ogni volta che Demyx agitava i piedi, scalciando l’acqua.
Si rilassò, adagiandosi contro il suo petto e strusciando il naso contro la sua guancia. Demyx gli baciò la fronte e lasciò la presa, riafferrandolo attorno ai fianchi prima ancora che potesse allarmarsi.
Continuarono a volteggiare sempre più lentamente, fino a che Demyx non si sedette sul sasso, continuando a stringerlo. «Non è stato così male, dai. Ammettilo che un po’ ti è piaciuto».
Zexion si scosse i capelli dal viso, tappandosi il naso per non starnutire. «Lo ammetto, ci avrei anche potuto fare l’abitudine». Gli si voltò sulle ginocchia, sistemandosi com’era prima che a Demyx venisse quell’idea balzana.
Avvicinò il naso al suo, sfregandolo contro la punta, e poi gli poggiò le labbra sulla bocca, con gentilezza. «Ma che carini!».
Zexion sobbalzò, cadendo all’indietro con un orrido senso di déjà-vu. Cadde sulla borsa per volontà divina, ma la stessa fortuna non ebbe Marluxia, che si beccò la torcia in pieno inguine, ululando di dolore.
«Ma ti sembra il caso di comparire così?!» urlò, ignorando la sua agonia.
Demyx scoppiò a ridere, e Zexion stava per fulminare anche lui quando si accorse che qualcosa decisamente non andava. Ali. Ali. Stramaledettissime ali sulla sua schiena. E nessuna traccia su quella di Demyx, invece, che se la tastava curiosamente.
«Marluxia, che cosa diavolo hai combinato!?» gridò, in preda all’ennesima crisi isterica del mese. Avrebbe avuto davvero bisogno di fare visita a Riku, altroché.
«Cosa ho combinato io?! Tu mi hai castrato, nano imbecille!».
«Come mi hai chiamato? Dimmi subito come tornare normale, ORA!».
Marluxia raccattò le forze, sollevandosi e trascinandosi verso l’albero, che venne usato come sostegno. Uggiolando di dolore, si asciugò le lacrime agli occhi e sibilò le ultime ingiurie, prima di tentare di ricomporsi. «Come faccio a saperlo? Forse vi ho interrotti prima che l’incantesimo del lago». Zexion lo incenerì con lo sguardo, sibilando che quello non era certo un film Disney. «Si spezzasse».
«Sparisci, allora!». Marluxia si allontanò zoppicando, invocando sottovoce ed invano l’aiuto di Naminé, a letto con la febbre.
«Demyx!» abbaiò Zexion, voltandosi di scatto.«Ora tu mi dai un bel bacio e io torno normale, sì?».
«Ma sei tanto carino vestito così, Zexy!» scherzò Demyx, prima di ammutolire davanti al tic al sopracciglio del suo quasi-fidanzato.
Se lo riprese sulle ginocchia, stringendolo e baciandolo sulle guance fino a che non si fu un po’ calmato, per poi schioccargli un bacetto sul sopracciglio incriminato, ora perfettamente normale. Fece aderire le labbra con le sue, e Zexion lo sentì sospirare quando gli leccò quello superiore. Demyx aprì la bocca, e lui iniziò a baciarlo con gentilezza, lasciandosi trasportare e seguendo le sue mosse, le guance bollenti ed il cuore a mille.
Zexion sentì il suo corpo fremere, scosso da mille brividi ed improvvisamente molto più caldo. Staccò una mano dalle spalle dell’altro per controllarsi la schiena, trovandola disadorna di ali e stramberie varie. Demyx iniziò ad essere più a suo agio, e Zexion lo baciò con più passione, sentendolo mugolare e sospirare più forte.
«Se vi unite carnalmente al primo bacio ottenete punti bonus!» sentirono urlare Marluxia, ancora fin troppo vicino per i loro gusti. Zexion gli fece vedere un cortese dito medio, e l’uomo se ne andò sbuffando.
Si separarono, entrambi umani ed entrambi imbarazzati, e quando Zexion dovette far ritorno alla villa Demyx gli sorrise, più luminoso e felice di quanto lo avesse mai visto.
 
 
Erano di nuovo in quel pulmino, come all’inizio di tutto.
C’era Xemnas alla guida, con più fermagli in testa che bottoni sulla camicia; c’era Saïx che vigilava su di loro, ringhiando contro Larxene, seduta ad uno dei sedili centrali.
Vexen aveva già tirato fuori i suoi cruciverba, inveendo contro coloro che li creavano per i troppi enigmi letterari e per la scarsità di quelli scientifici. Lexaeus, penultimo sedile, rigorosamente con il borsone a fianco, silenzioso e pacato come era sempre stato.
Era in ultima fila che le cose cambiavano, come sempre succede alla fine di ogni viaggio.
C’era Zexion, cuffie nelle orecchie e guance rosse, che distoglieva lo sguardo da tutti e tutto, schivando gli sguardi indagatori come meglio poteva.
Sulle sue gambe c’è la testa di un ragazzo biondo, con una maglia che gli sta tre volte ed i pantaloni che sembrano più una calzamaglia, ma non c’è da esserne sicuri dato che sembra indossare un vestito. Il ragazzo dorme come faceva Zexion all’andata, un braccio sugli occhi e l’altro su un libro, che ha la sovra copertina da libro culturale, ma che sotto in realtà è disegnato e decorato come un libro per bambini.
Perché le persone crescono, i lettini di svuotano, le candeline non servono più; ma non è mai detto che un giorno non si voglia tornare ad illudersi un poco, che sia per un giorno o per tutta la vita.
 

 

[I am the voice of Never-Never-Land
The innocence, the dreams of every man
I am the empty crib of Peter Pan

 
I am the voice of Never-Never-Land
The innocence, the dreams of every man
Searching heavens for another Earth]



 

Note dell'autrice:
N
on avevo ancora pubblicato nulla, ed esordire con una "shottina" da poco meno di trenta pagine è più che folle dal mio punto di vista LOL
Auguri per lo Zemyx Day, in onore del mio OTP, sempre al mio fianco da ormai tre anni.
Citazioni varie da canzoni dei Nightwish, tutte provenienti da Imaginaerum, di cui naturalmente non posseggo nulla - e lo stesso vale per la citazione da "Il Meraviglioso Mago di Oz". Spero piaccia, che non sia troppo tontofluff e che riusciate a trovarvi un senso, perché io non sono ancora sicura di quale sia xD
Grazie per aver letto, ma ancora più grazie ad Ella, che si è sorbita me che le scleravo in chat durante la scrittura, e ha anche avuto il coraggio di betare.
Alla prossima!
 




Kingdom Hearts © Square Enix & Disney. Questa Fan Fiction è stata scritta per puro diletto, senza alcuno scopo di lucro. Nessuna violazione di © è dunque intesa.


   
 
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