PARTE
I
Capitolo
1
Volteggiò
sulla sua poltrona di pelle nera e si picchiettò
delicatamente la matita sulle
labbra rosate.
Del
tutto all’improvviso si alzò e chiuse le veneziane
tirando la cordicella con
uno scatto brusco. Nell’oscurità del suo ufficio
abbassò lo schermo del suo laptop,
che infilò nella sua borsa a tracolla, e poi uscì
sbattendosi la porta alle
spalle. La chiuse con una mandata di chiave e rimase per un secondo di
troppo
ad osservare ciò che c’era scritto sul vetro
zigrinato incastonato nel legno: Mitch
Schneider Investigations.
Fu
solo un attimo, ma abbastanza per farle ricordare suo padre,
ciò che era
diventata per lui e il motivo per cui faceva il suo lavoro. Ovviamente,
come
ormai accadeva da due mesi a quella parte, un nodo le strinse la gola
pensando
all’ultimo “caso” che aveva accettato.
Scacciò
quei pensieri dalla mente e trotterellò giù dalle
scale dell’edificio,
tenendosi saldamente al corrimano di legno con una mano.
Salutò il portinaio
con un cenno del capo, senza sbottonare nemmeno un sorriso, quindi
saltò sul
suo fuoristrada grigio gettando la tracolla sul sedile del passeggero.
Stare
alla guida la rilassò, tanto che le venne anche un certo
languorino. Si fermò al
solito Starbucks e prese due
caffè,
il suo con un pizzico di vaniglia, e un paio di brioches.
Tornò in auto e guidò
ancora per una decina di minuti, poi parcheggiò nei pressi
degli studi di
registrazione della Cherry Tree Records.
Si
tolse la cintura di sicurezza e tirò un po’
indietro il sedile per poter posare
i piedi ai lati del volante, poi prese il suo caffè ancora
caldo e ne bevve un
sorso, sentendosi immediatamente più rilassata. Il
caffè per lei era come una
droga e non era l’unica ad avere quella strana patologia, a
quanto aveva
scoperto.
Accese
il suo laptop, intercettò il segnale delle microspie audio e
video che aveva
piazzato nell’edificio qualche mese prima e sullo schermo
apparvero quattro
riquadri che le mostrarono in simultanea tutto ciò che stava
avvenendo nello
studio di registrazione, nella sala mixer, nella sala riunioni e per
concludere
nelle vicinanze della macchinetta del caffè, il posto
più ingegnoso in cui si
potesse mettere una cimice. Luogo perfetto per fare due chiacchiere e
lasciarsi
andare, no? Grazie a questo piccolo espediente aveva raccolto molte
informazioni interessanti.
Mentre
guardava ed ascoltava tramite un auricolare, sperando che dicessero
qualcosa di
succulento, mangiò la sua brioche immergendola ogni tanto
nel caffè. Una volta
finita, non resistette e sbocconcellò anche un angolo
dell’altra.
Non
era il suo giorno fortunato: quella era proprio una di quelle mattinate
piatte
in cui quei quattro non facevano altro che dondolarsi sulle sedie e
sbadigliare,
a corto di ispirazione; per cui si concesse di distrarsi e si perse
ancora una
volta nei suoi pensieri: perché aveva accettato quel caso?
Un caso che in fondo
non poteva essere definito tale, perché lei non era pagata
per indagare, o
meglio… sì, però non era appagante
come lo era per esempio confutare od
accertare un tradimento. Lei era pagata per seguire ed osservare
un’unica persona,
tutto il santo giorno, e per riferire ogni cosa che vedeva e sentiva
alla sua
cliente – persino quante volte l’aveva visto fumare
le sue amate sigarette. Che
poi… facesse qualcosa di davvero interessante, quel
benedetto Tom Kaulitz!
Ridacchiò
mentre si puliva la bocca con un tovagliolo di carta. Stava proprio
iniziando a
credere che avesse dei superpoteri: ogni volta che pensava il suo nome
lui
aveva la straordinaria capacità di percepirlo.
Lo
vide alzarsi dalla sua sedia di pelle nera, stiracchiarsi e dire al
fratello
gemello e ai suoi due amici: «Vado a fare due
passi», per poi uscire dalla stanza.
Spostò
lo sguardo sul riquadro che mostrava i dintorni della macchinetta del
caffè e
lo vide passare per il corridoio, con le mani in tasca. Dopo qualche
minuto
alzò lo sguardo dal laptop e lo vide uscire
dall’edificio spingendo in avanti
la porta a spinta, lasciarsela alle spalle e, adocchiando il suo
fuoristrada, andarle
incontro.
La
ragazza non riuscì a ricacciare indietro un’altra
risatina, perché notò che aveva
ancora la stupida fissa di guardarsi le spalle per essere certo che
nessuno lo
seguisse, quella che gli aveva inculcato lei quando aveva fatto lo
stupido
errore di farsi scoprire proprio da lui, colui che non avrebbe dovuto
nemmeno
accorgersi della sua presenza.
Ricordava
ancora perfettamente la prima volta in cui si erano parlati.
Si
era appisolata un momento, uno soltanto, e proprio allora Tom e
compagni erano
usciti in giardino per una pausa sigaretta. Aveva la bruttissima
abitudine di
dormire spesso e volentieri a bocca aperta e anche quella volta non era
stata
da meno, tanto che i Tokio Hotel – così si
chiamava la loro band – si erano
chiesti se stesse semplicemente dormendo o se fosse morta.
Tom
successivamente le aveva raccontato che avevano fatto la conta per
decidere a
chi toccasse scoprirlo e lo sfigato di turno era stato lui.
Così si era
avvicinato al fuoristrada e con un po’ di reticenza le aveva
bussato al
finestrino, facendola svegliare di colpo.
Appena
lei lo aveva visto così da vicino aveva pensato che era
davvero carino, poi si
era ricordata del fatto che sarebbe dovuta rimanere un fantasma nella
sua vita
e allora tutti i suoi progetti erano andati in fumo, poiché
la sua copertura
era saltata: se l’avessero vista un’altra volta nei
paraggi si sarebbero
insospettiti e addio caso, anche se dopotutto non le sarebbe
dispiaciuto così
tanto, se solo non fosse stato per i soldi che quella ragazzina
milionaria le
dava ogni settimana per abitare nel suo fuoristrada, praticamente.
I
soldi… era per quello che aveva accettato
quell’incarico; se suo padre l’avesse
vista sarebbe stato profondamente deluso, ma suo padre non aveva mai
capito che
i soldi, almeno un pochino, facevano la felicità.
Comunque,
non era andata come aveva previsto, perché alla ragazzina
non importava che
l’avesse scoperta. Anzi, ancora meglio se aveva un contatto
diretto con lui! Voleva
assolutamente sapere in tempo reale che cosa facesse il suo idolo, il
suo amore
platonico.
Così
era tornata ancora a spiarlo, anche se scettica, e si era messa apposta
in una
posizione in cui l’avrebbe facilmente notata, per
accontentare quella ragazzina
viziata.
Il
chitarrista, come previsto, era andato da lei a chiederle che cosa
volesse e
perché continuasse ad appostarsi lì fuori. Alla
domanda: «Sei una stalker?», lei
aveva detto di sì, troppo legata alla segretezza
professionale.
Tom
aveva fatto solo finta di crederci: insomma, non somigliava affatto ad
una stalker!
Ma non le aveva più fatto domande, non sembrava nemmeno che
gli importasse,
fino a quando, appunto, non gli aveva sbattuto in faccia che se quel
giorno non
si fosse addormentata lui non si sarebbe accorto di lei e
chissà per quanto
tempo avrebbe vissuto nella beata ignoranza.
Da
quel giorno Tom aveva iniziato a guardarsi le spalle, quasi in maniera
ossessiva, tanto che non se ne rendeva nemmeno più conto, e
nonostante fossero
passate settimane, non si era ancora liberato da quella fissa.
Chiuse
il laptop e lo mise di nuovo nella sua borsa a tracolla, che
sistemò sui sedili
posteriori; impostò su REC il suo piccolissimo registratore
professionale, poi
lo cacciò con nonchalance sotto il sedile del passeggero,
come sempre. Per
finire si portò sulle gambe la confezione di cartone in cui
era infilato
l’altro bicchiere di caffè.
Tom
aprì la portiera e salì sul fuoristrada, si mise
seduto comodo sul sedile
accanto a quello della ragazza e le fregò subito il
bicchiere di caffè dalle
mani.
«Buongiorno
anche a te», lo salutò lei aggrottando le
sopracciglia: odiava i maleducati.
«Ciao
Brooklyn», Tom ricambiò distrattamente il saluto
ed aprì il sacchetto con la
sua brioche, la tirò fuori e corrugò la fronte
notando un angolo sbocconcellato.
«Hai i ratti in questa carretta?».
«Primo,
questo Mr. Fuoristrada non è una carretta. Secondo, non ci
sono ratti; sono
stata io».
Tom
la osservò e scrollò le spalle prima di addentare
la sua brioche.
«Vi
tengono a digiuno là dentro?», gli
domandò dopo qualche minuto di silenzio, nel
quale l’aveva ascoltato masticare e bere.
«Hai
smesso di farci le foto?».
La
ragazza roteò gli occhi al cielo: lo odiava anche quando
cambiava in quel modo
argomento.
«Siete
monotoni, dopo un po’. Quando cambierete pettinatura, allora
può darsi che
tornerò a farvi le foto. Ora dimmi se state lavorando a
qualcosa di nuovo, rintanati
là dentro».
«Mi
ricordi perché sto dietro ad una come te?».
Si
trattenne nello scaraventargli la fronte contro il portaoggetti.
«Perché ti
porto il caffè e la brioche tutte le sante mattine e
perché ti do’ il permesso
di chiamarmi Brooklyn –
sai quanto
odio questo soprannome».
Tom
scrollò di nuovo le spalle e finì di bere il suo
caffè. «Il tuo cognome è
simile», disse.
Bröker. Per lui era Helen Bröker, non Grace
Schneider.
Quindi
si voltò verso di lei con un sorriso raggiante.
«Ora devo tornare al lavoro se
non ti dispiace».
«Oh
sì che mi dispiace», lo trattenne per un braccio e
si portò un ciuffo di
capelli neri dietro l’orecchio con fare sensuale, si
avvicinò a lui e soffiò: «Avrai
pure qualcosa che non so da svelarmi…».
Tom
si leccò le labbra, guardando quelle di Grace, poi
posò gli occhi nei suoi
verdi. «Che cosa sai tu di me?».
«Non
puoi nemmeno immaginare…», gli fece camminare due
dita sul petto, «non puoi
nemmeno immaginare quante cose io sappia di te».
Tom
aprì la bocca per parlare, ma all’ultimo la
richiuse e sogghignò. «Non mi
conosci affatto».
Aprì
la portiera ed uscì dal veicolo, lasciandola con un palmo di
naso.
Grace
lo guardò allontanarsi e quando si fu ripresa del tutto
scese anche lei dal
fuoristrada e gridò nella sua direzione: «E dai,
Tom!».
Lui
si voltò e la guardò con lo stesso sorriso
beffardo. «Vedi, sei anche come
quelle gomme da masticare: appiccicosa».
«Eppure
continui a starmi dietro», lo rimbeccò con una
punta di arroganza nella voce.
Tom
tornò da lei e le sistemò dietro
l’orecchio lo stesso ciuffo di capelli che era
sfuggito alla coda scomposta che aveva sulla nuca, si piegò
e con la bocca
vicina al suo orecchio sussurrò: «Detto fra noi,
Brooklyn… devi fare molto di
più per conquistare uno come me. Da quanto tempo non fai
sesso?».
Grace
lo spintonò con forza e tornò a passo di marcia
al suo fuoristrada, coi pugni
stretti lungo i fianchi e ogni muscolo facciale contratto in
un’espressione
furiosa.
«Ehi,
non te la prendere!», gridò Tom, con una leggera
risata nella voce. Poi tornò
serio: «È davvero da così tanto tempo
che non scopi?».
Grace
sbatté la portiera con forza e premette
sull’acceleratore senza curarsi di Tom
che era ancora in mezzo alla strada deserta. Frenò appena in
tempo, a pochi centimetri
da lui, e lo guardò truce, mentre lui aveva come minimo
perso dieci anni di
vita. Non doveva scherzare con lei, perché aveva
già ucciso prima e non avrebbe
esitato se gliene fosse capitata l’occasione.
Lui
si spostò spaventato e lei sgommò via senza
curarsi di quello che considerava
un idiota ogni giorno di più.
***
Era
certo che Helen non fosse né una stalker né
tantomeno una groupie. La seconda
ipotesi era assolutamente da escludere, non sapeva nemmeno
perché l’avesse
presa in considerazione!
Forse
era così tanto attratto da lei proprio perché non
sapeva chi era e cosa voleva
da loro. Anche fisicamente non era male e il suo viso spruzzato di
efelidi
sembrava così delicato che anche la carezza di una piuma
avrebbe potuto creparlo,
per non parlare dei suoi occhi verdi che erano in grado di graffiare se
la si
faceva arrabbiare. Ma la sua identità e il motivo che la
portava a trovarsi
sempre dove c’erano loro erano qualcosa che
l’attiravano ancora di più. Voleva
scoprire tutto, ma… come?
Ormai
aveva capito abbastanza bene che non era una ragazza facile, che se
faceva una
cosa era perché le faceva da tornaconto, che era
più furba di quello che
credeva. Helen era ancora una sconosciuta per lui, nonostante si
vedessero
quasi tutti i giorni da quasi due mesi. Non gli aveva mai parlato di
sé e non
sembrava nemmeno intenzionata a farlo. Chi era quella ragazza? Che cosa
voleva
da lui?
«Tom?
Uh-uh? Ci sei?». Bill gli sventolò una mano di
fronte al viso e si dimenticò
per un istante tutte quelle domande che gli vorticavano in testa.
«Sì,
scusami, mi sono distratto. Stavamo dicendo?».
Sulle
labbra di suo fratello si disegnò un sorrisetto furbo.
«Stavi
pensando ad Helen?», gli domandò, più
interessato a quello piuttosto che al
loro lavoro.
Tom
si portò le mani sulla testa, puntando i gomiti sul tavolo,
e sbuffò. «Che cosa
vuole da me, Bill? Perché le sto dietro, invece di andare da
un giudice ad
accusarla di stalking? Perché alla fine è quello
che sta facendo…».
«Nah»,
schioccò la lingua contro il palato. «Lei non
è una stalker. Casualmente
ovunque andiamo noi c’è anche lei, però
non si comporta come una stalker: fino
ad adesso non ci ha mai dato fastidio più di
tanto».
«A
me dà fastidio!», sbottò, arrossendo
sul collo. «Mi dà fastidio che se ne stia
tutto il giorno in auto ad aspettarci, mi dà fastidio che mi
porti la colazione
alla mattina, che cerchi di strapparmi di bocca qualche anteprima sul
nostro
nuovo album… Mi dà fastidio non trovare una
motivazione per ciò che fa!».
Il
frontman dei Tokio Hotel scrollò le spalle ed
allungò le braccia sul tavolo
lucido della sala riunioni, in cui si erano isolati per parlare un
po’. Si
guardò le unghie corte e scrollò di nuovo le
spalle sospirando.
«Sta
diventando un’ossessione, Tom».
«Sì,
lo so», mugugnò ed abbassò lo sguardo.
«E la cosa che mi dà più fastidio sai
qual è?».
«Che
lei sa moltissime cose su di noi, mentre noi non conosciamo
praticamente nulla
di lei», rispose come se fosse una filastrocca imparata a
memoria, continuando
ad ammirarsi le unghie.
«Esatto».
Si appoggiò allo schienale e stirò le gambe sotto
al tavolo, portandosi le mani
sulla nuca.
«Forse
dovrei fare come fa lei: seguirla e vedere dove abita, cosa
fa…».
L’aveva
buttata lì come un’idea sciocca, ma appena
realizzò che poteva non essere del
tutto una cavolata si tirò su con gli occhi spalancati e
guardò il gemello, il
quale aveva già capito tutto e aveva lo stesso sguardo
incredulo.
«Vuoi
farlo davvero?», gli chiese.
Tom
sogghignò. «Perché no?».
***
Non
si era laureata in giurisprudenza né aveva ottenuto la
licenza di investigatrice
privata per stare dietro ad uno come Tom Kaulitz. Proprio no.
Dopo
quello che aveva osato dire quella mattina – la
verità, perché era davvero una
vita che non faceva del sano sesso – si era rifiutata di
stare ancora lì, non
le importava di quella ragazzina che avrebbe sicuramente fatto i
capricci.
L’aveva persino chiamata quel pomeriggio, seduta sotto
l’ombra degli alberi del
parchetto in cui suo padre la portava sempre a giocare.
«Non
ne posso più di quel tizio», le aveva detto
subito, senza nemmeno salutarla.
La
ragazzina aveva riso di gusto, come se avesse detto la barzelletta
più
divertente del mondo.
«Non
sto scherzando», aveva precisato allora, scocciata.
«Hai
registrato tutto quello che vi siete detti?».
«Sì,
in un modo o nell’altro sì», si era
sfiorata la spilla d’argento che aveva
attaccata alla maglietta: c’era una piccolissima microspia
video e audio anche
in quella; era il regalo che suo padre le aveva fatto quando aveva
compiuto
diciassette anni. L’ultimo regalo che le aveva fatto.
«Bene!
Non vedo l’ora di vedere tutto!».
«Molly,
davvero, io non voglio più continuare. Non mi sento
appagata, io… non è per
questo che sono diventata un’investigatrice
privata».
La
ragazzina finalmente sembrava aver compreso le sue ragioni e aveva
sospirato.
«Okay,
senti… mio padre oggi mi ha sequestrato la carta di credito
perché ho speso
troppo l’ultima volta che sono andata a fare shopping. Riesco
a pagarti questa
settimana di lavoro, ma non la prossima. Facciamo che te ne vai in
vacanza,
okay? Vedrai che ne sentirai la mancanza».
«Ne
dubito. Ne dubito davvero».
Comunque,
da brava ed onesta lavoratrice qual’era, poco dopo era
tornata a seguire gli
spostamenti dei quattro. Non che ne avessero fatti, di spostamenti: per
carità,
stavano tutto il giorno chiusi in quello studio di registrazione!
Aveva
cambiato postazione, aveva nascosto il fuoristrada dietro i cassonetti
dell’immondizia
sul retro dell’edificio: l’odore non era ottimo, ma
aveva una visuale perfetta
della sala riunioni, la quale aveva delle ampie vetrate sulla facciata
che dava
sul giardino.
Aveva
ascoltato un pezzo della conversazione intrattenuta dal management dei
Tokio
Hotel, Benjamin Ebel, col loro produttore più famoso, David
Jost, e la loro
promotion manager, Dunja Pechner.
Era
stato interessante e a tratti divertente, soprattutto sentire i
commenti e le
battutine su quei quattro ragazzi che non avrebbero mai immaginato di
essere
soggetti così buffi, tanto da far scompisciare dal ridere.
Adesso Grace avrebbe
potuto prendere per il culo a vita quel simpaticone di Tom, ma
facendolo
avrebbe commesso un altro errore.
Peccato, aveva pensato
schioccando la lingua
contro il palato.
Aveva
atteso pazientemente che i Tokio Hotel finissero di
“lavorare” e quando erano
usciti dall’edificio aveva tratto un respiro di sollievo:
quella sera non
dovevano andare da nessuna parte, a meno che i ragazzi non decidessero
di fare
qualcosa all’ultimo momento. Era quasi escluso,
poiché il giorno seguente
Gustav e Georg avrebbero dovuto prendere un aereo che li avrebbe
riportati in
Germania dalle loro fidanzate, come avevano concordato con i gemelli.
Appena
vide Tom fiutò che aveva qualcosa in mente,
perché non cercò il suo fuoristrada
con lo sguardo, né fece salire suo fratello gemello sulla
sua Audi. Che cosa
aveva intenzione di fare?
Aspettò
che si allontanasse, per ultimo dietro le auto dei suoi amici, poi
Grace mise
in moto a sua volta e lo seguì.
Tom
fece la solita strada verso casa, ma del tutto all’improvviso
svoltò a destra e
Grace non riuscì ad essere tanto rapida; o meglio, avrebbe
anche potuto, ma
avrebbe sicuramente dato troppo nell’occhio. Così
tamburellò le dita sul
volante e si disse che l’avrebbe sicuramente recuperato se
avesse svoltato alla
prossima e poi fosse sbucata nella stessa via.
Si
attenne al piano, ma quando si immise nella via che aveva preso il
chitarrista
non lo vide davanti a sé, bensì dietro. Lui
l’aveva aspettata, sapeva che si
sarebbe comportata così ed ora la guardava con un sorriso
beffardo sulle
labbra: ora era lui a seguire lei.
A
che gioco stai giocando,
Kaulitz?
Incrociò
ancora il suo sguardo e sorrise nello stesso modo, forse anche un
pelino più
arrogantemente. In fondo le erano sempre piaciuti i giochi e quello che
Tom le
stava proponendo non era tanto male; peccato che lui fosse un poppante
in quel
campo, che stesse soltanto giocando a fare il piccolo investigatore, e
sarebbe
stato fin troppo facile vincere.
Non
voleva umiliarlo, non amava mostrare troppo la propria bravura, e allo
stesso
tempo non voleva dargli troppa corda, anche se sarebbe stato divertente
farlo
uscire di testa girando sempre intorno allo stesso isolato.
Così decise che la
cosa migliore da fare era chiamare un amico che sicuramente
l’avrebbe aiutata a
levarsi dai piedi quel rompiscatole.
«Guarda,
guarda! Che onore!».
«Ciao
Dylan», ridacchiò. «Come te la
passi?».
«Tutto
nella norma. Tu? Non hai fatto altri danni, vero?».
«No,
stai tranquillo. Sei in servizio ora, vero?».
«Certo.
Stesso posto, come sempre».
«Giornata
tranquilla?», gli domandò per precauzione: voleva
far conoscere a Tom alcuni
aspetti della sua vita – ovviamente senza farglielo sapere,
– non
traumatizzarlo.
«Nella
norma. Vuoi venire a fare un giretto nell’Inferno della
Città degli Angeli?»,
ridacchiò divertito.
«In
realtà dovresti farmi un favore», sorrise.
«Qualsiasi
cosa, tesoro».
Tom
si guardò intorno e capì di essere
nell’Eastside di Los Angeles. Non era un
posto esattamente consigliato, perché Helen si era spinta
fino a lì?
Si
guardò intorno con un certo sospetto, notando gli occhi
luminosi e allo stesso
tempo affamati di alcuni ragazzini ispanici sulle loro biciclette
sgangherate,
i quali non perdevano nemmeno un dettaglio della carrozzeria e dei
cerchioni
scintillanti della sua Audi.
Perché
si era messo in testa di seguirla?
Appena
superò una vettura della polizia parcheggiata sul ciglio
della strada, questa
diede gas e lo seguì accendendo anche le luci blu e rosse
sopra il tettuccio.
Si spaventò immediatamente, credendo di aver fatto qualcosa
di male, ma quando
notò il sorrisetto più che divertito che
aleggiava sulle labbra di Helen capì
che lei c’entrava qualcosa. Le rivolse un’occhiata
fulminante e la vide alzare
una mano in segno di saluto, mentre si fermava ad un semaforo rosso,
proprio
come se volesse farlo soffrire di più. Si
affacciò pure dal finestrino per
godersi la scena, quella sfrontata!
Parcheggiò
sul ciglio della strada ed aspettò che l’agente,
sceso dal suo vecchio modello
di Ford Crown Victoria, lo raggiungesse. Il poliziotto si
chinò verso di lui
per vedere gli interni dell’auto e gli rivolse un sorriso
solare. Anche lui
aveva origini ispaniche, doveva proprio essere messicano, considerato
anche il
suo particolare accento.
«Bell’auto!
L’ha comprata qui o se l’è fatta
arrivare dalla Germania? Perché le Audi sono
tedesche, vero? Del ramo Volkswagen, no?».
«Sì»,
rispose Tom, attonito.
«Sì
che cosa?», domandò l’agente,
arricciando il naso e cercando di nascondere un
sorriso divertito, mentre lanciava un’occhiatina a Grace,
ferma ancora al
semaforo.
Tom
non si accorse di nulla e rispose: «… Le Audi sono
tedesche e sono della
Volkswagen».
«Oh!
Oh, sì, lo sapevo. E se l’è fatta
arrivare da là o l’ha comprata qui?».
«Beh…
Ma questo cosa c’entra? Non mi avrà fatto fermare
solo per chiedermi questo!».
Dylan
parve pensarci su, passandosi le dita sul pizzetto nero. «E
anche se fosse?».
«Mi
scusi, ma io ho davvero molto da fare e se non c’è
nulla che non va…», gettò
una rapida occhiata verso il fuoristrada di Helen, «io
andrei».
L’agente
rimase a fissare la mora dagli occhi verdi mentre rientrava del tutto
nell’abitacolo ed alzava un po’ il volume della
radio. Riusciva a sentire la
musica persino da lì.
«Oh,
ho capito», mormorò.
«Grazie»,
sospirò Tom. «Posso andare?».
«Ho
capito! Lei sta inseguendo quella ragazza!», lo
accusò puntandogli un dito
contro, facendolo sbiancare. «Lo sa che lo stalking
è un reato?».
Tom
sbarrò gli occhi. «Certo che lo so! E se vuole la
verità è lei che…».
Il
poliziotto lo interruppe e con tono serio disse: «Patente e
libretto».
«Che
cosa?», squittì Tom, sempre più
sconvolto.
«Ho
detto patente e libretto»,
rimarcò il
concetto, sollevando le sopracciglia. «Non vorrà
mica essere accusato di
resistenza a Pubblico Ufficiale, vero?».
«No»,
mugugnò.
Tirò
fuori il libretto e la patente e li porse all’agente, poi si
girò a guardare se
quel maledetto semaforo fosse ancora rosso e anche Dylan lo fece,
sorridendo di
sfuggita alla ragazza alla guida.
Quando
finalmente scattò il verde, Grace svoltò a
sinistra e salutò con un cenno del
capo il chitarrista, il quale digrignò i denti e si rivolse
all’agente con tono
brusco: «Ha finito?».
«Sì»,
esclamò il poliziotto. «È tutto in
regola, nemmeno una virgola fuori posto. Ma
senta, per caso lei è tedesco? Perché sa, si dice
che i tedeschi sono sempre
precisi in tutto… E lei ha anche l’accento da
straniero!».
Tom
si trattenne dallo sbuffargli in faccia, infastidito, e mise a posto i
documenti. Tanto ormai Helen l’aveva persa!
«Posso
andare?», domandò con tono lamentoso.
«Certo!
Anzi, è meglio che se ne torni a casa – scommetto
che abita dalle parti di
Hollywood, oppure di Beverly Hills – sta iniziando a fare
buio e non è
consigliato andarsene in giro di notte da queste parti».
Tom
si limitò a ringraziare con stizza, certo che
quell’agente l’avesse preso per
il culo per tutto quel tempo.
Stava
per fare manovra per uscire dal suo parcheggio di fortuna, quando
l’agente lo
richiamò: «Alla
fine non mi ha detto se
si è fatto arrivare l’auto dalla
Germania!».
Il
chitarrista roteò gli occhi al cielo, salutò il
poliziotto con un gesto distratto
della mano e sgommò via.
Dylan
lo guardò allontanarsi e una volta perso di vista non
riuscì a trattenere una
grassa risata. Si portò il cellulare all’orecchio,
ancora con le lacrime agli
occhi, e quando Grace gli rispose, disse: «Tesoro, non mi
sono mai divertito
tanto!».
«Mi
fa piacere, davvero».
«Però
un giro me lo offri comunque uno di questi giorni, eh».
Non so quale cavolata abbia fatto, ma avevo cancellato questo capitolo per sbaglio. Lo riposto così com'è, poi quando avrò tempo lo sistemerò a dovere.
Abbiate pazienza e scusatemi.
I Tokio Hotel non mi appartengono e questa storia non è scritta a scopo di lucro.