L’ULTIMA
SETTIMANA DI ALICE MAAS
La prima cosa
che Alice Maas faceva
ogni mattina, dopo essersi alzata e aver spalmato il gel idratante
sulle guance
e sulla fronte, era pensare ad un nuovo modo per uccidere suo padre.
Questo,
naturalmente, prima che accadesse tutto quello. Ci pensava
nell’arco di tempo
fra le otto e il mezzogiorno – il periodo in cui restava a
casa assieme a lui –
affinando mano a mano la tecnica e aggiungendo dettagli su dettagli;
dopo
qualche settimana di rodaggio aveva già ideato ben sei modi
differenti per
commettere il delitto, uno per ogni giorno della settimana –
eccezion fatta per
la domenica, ma su questo c’era ancora da lavorare.
La cosa
più straordinaria stava nel
fatto che era del tutto consapevole. Le domande non la spaventavano, a
stento
la irretivano; anzi, quasi non vedeva l’ora di confidarsi con
qualcuno.
«Come
ti chiami?»
«Sono
Alice Maas.»
«Dove
abiti?»
«A
casa mia, certo. Spesso sto in
cucina.»
«Che
cosa hai fatto?»
«Ho
ucciso mio padre.»
«Sul
serio? E quando?»
«Oh,
uno di questi giorni.»
«Ma
perché?»
Si
scoprì che questa era la domanda che
Alice Maas detestava più di tutte; ogni volta che si
cominciava ad indagare
riguardo le motivazioni tentennava, ammutoliva, si mordeva le labbra.
«Non
ti interessa mica il come?»
«Il
perché, Alice, il perché. Perché
l’hai ucciso?»
«Non
lo so.»
«Stai
dicendo una bugia.»
«No,
sul serio.»
Date le
reticenze e le continue domande
dell’interlocutore, Alice giunse ad un compromesso.
«Va
bene, ti racconto com’è andata. Che
giorno è oggi?»
«Sabato.»
«Ah,
è uno dei miei preferiti! Be’, sta’
a sentire. Il sabato sera, di solito, esco con le mie amiche. Devi
sapere che
ho una minigonna che mi piace tantissimo e che metto quasi sempre,
quando devo
uscire; be’, ho anche delle belle scarpe, devo dire. Mi piace
molto la mia mise
della sera.»
Avendo intuito
il calo dell’attenzione si
affrettò a riportare il discorso sui binari giusti.
«Prima
di uscire passo a dare la
buonanotte a mamma e indirettamente anche a lui. Mamma mi dice di
aspettare un
attimo, va a prendere un po’ d’acqua benedetta;
è un po’ fanatica per queste
cose. Restiamo soli. Io non dico una parola e lui fa altrettanto. Siamo
in
camera da letto e non parliamo, aspettiamo mamma. Passa il tempo e non
sono
tranquilla: sento qualcosa addosso, qualcosa di strano. Do
un’occhiata veloce e
lo colgo proprio mentre mi sta guardando le gambe, da sopra a sotto, da
sotto a
sopra. Una volta, va bene. Distolgo lo sguardo, reprimo il disgusto, ma
sento
che mi fissa ancora. Una volta, due volte, tre volte; comincio ad
incazzarmi,
ma non dico nulla.»
Sembrò
che l’aver provocato un diffuso
disagio sul viso del suo ascoltatore la rendesse compiaciuta,
orgogliosa.
«Mi
guarda le gambe, sì, proprio come
un vecchio maiale. Fino ad allora niente, torna mamma, mi fa il segno
della
croce e via.»
«Non
hai fatto nient’altro?»
«Quando
sono tornata a casa dormivano
tutti e due. Nella camera da letto mia madre dorme rivolta
all’armadio, lui
verso la porta, così la lampada del corridoio gli illumina
la faccia. Io mi
avvicino, lo guardo: dorme su un fianco, le braccia conserte, rigido
come un
tronco; fa pure un po’ ridere e quasi me ne tornerei a letto.
Ah, ho
dimenticato: quando sono entrata in casa mi sono tolta le scarpe, per
non fare
rumore, e le tengo in mano, così.»
Mimò
il gesto, fingendo di avere
qualcosa appeso alle dita. Le capitava spesso di
muovere le mani, non si preoccupava di
apparire agitata.
«Devi
sapere che quando mio padre si
arrabbia e urla c’è una vena del collo che gli si
gonfia in modo schifoso; ha
un collo bello grosso mio padre, sembra un toro, e quando
s’arrabbia diventa
tutto rosso e questa vena pulsa in modo incredibile. Fa senso, non la
si può
guardare. Io non la posso guardare, almeno. Fatto sta che me ne ricordo
e gli
tasto la guancia; sento l’osso della mandibola e vado
più giù, sul collo. Lui
continua a russare. Le dita affondano nella pelle, la carne
è morbida. Un collo
non è una parte molto resistente, un collo è
cedevole, sensibile, molle. Un
collo è tenero, si apre subito. Sai cosa si dice, che i
medici sono tutti dei
macellai?»
A quelle uscite
l’uomo aggrottò le sopracciglia,
fissandola con perplessità. Non aveva ancora capito se fosse
il caso di
spaventarsi o trattarla ancora con diffidenza, dunque
preferì lasciarla
continuare.
«Sì,
lo so.»
«Secondo
me è una cosa vera. Forse i
primi medici sono stati dei macellai; hanno imparato prima ad aprire
gli
animali e poi gli uomini. Quando si deve prendere la carne del maiale
lo si
porta lontano e lo si sgozza. Capisci? Gli aprono il collo. Il collo,
la parte
più tenera, così quello muore per il troppo
sangue che viene fuori. Da un collo
viene fuori veramente tanto sangue, sì.»
«Hai
aperto il collo di tuo padre?»
«Ci
sto arrivando. Ho in mano le
scarpe, i tacchi. Nemmeno troppo alti, a dirla tutta, non mi piacciono
le cose
esagerate.»
«Non
ti piacciono le cose esagerate»
ripeté l’altro. Sembrava un dettaglio importante.
Sapeva che
stava per arrivare il
momento di maggior pathos, così si zittì e
fissò per bene Alice, tentando di
cogliere qualche particolare sfumatura espressiva nel volto. Ma giunta
a quel
punto la ragazza non proseguì; sembrò che avesse
perso il filo del discorso.
Lui aspettò pazientemente che continuasse il racconto, ma si
accorse che la
ragazza si era d’improvviso rannuvolata. Scelse di venirle
incontro.
«Allora,
cos’è successo poi?»
Alice
alzò la testa verso di lui,
riavendosi dal momento di stasi; negò col capo
più volte e mosse convulsamente
le mani.
«Che
giorno è oggi?»
«Ma
te l’ho detto prima.»
«Che
giorno è oggi?»
Quello era il
punto del colloquio in
cui l’uomo seduto di fronte a lei si spaventava, notando che
nel suo sguardo
c’era qualcosa che non andava. Doveva essere accaduto
qualcosa d’importante in
quei minuti di silenzio.
«Oggi
ho ucciso mio padre» pronunciando
quelle parole, Alice sembrava riprendere la padronanza di sé.
«Dove?»
«In
cucina.»
«Come?»
Il momento di
tensione passò e il volto
della ragazza si distese; era più tranquilla e riprese a
raccontare.
«Mi
piace molto cucinare» esordì, «lo
faccio molto volentieri e mi diverte, mi rilassa.»
«A
mio padre piace leggere i giornali»
aggiunse, come se stesse prendendo il tè con le amiche.
«Leggere i giornali e
stare seduto sulla poltrona. Noi in cucina abbiamo una poltrona,
è vecchia, la
tappezzeria si scuce in qualche punto, però
resiste.»
Alice fece un
respiro, prima di
ricominciare a parlare con sicurezza e decisione.
«Mi
piace cucinare, ma di solito il
martedì mio padre ha la mattina libera, così sta
a casa a dormire fino a tardi,
poi si sveglia, esce e si siede sulla poltrona, in cucina, a leggere i
giornali. Ne legge almeno tre al giorno. Io sono lì che
cucino, gli do le
spalle, mi faccio i fatti miei. Devi sapere che mio padre è
un goloso: non
riesce a resistere quando si tratta di mangiare. Allora comincia con le
domande: è pronto? Che pasta metti? Cosa mangiamo per
secondo? Io rispondo
brevemente, sono seccata, non mi piace che si impicci delle mie cose.
Non
sopporto che si intrometta.»
«Tuo
padre soffre di qualche malattia?»
Alice lo
guardò rabbuiata. Non doveva
esserle piaciuta quell’interruzione.
«No.
Ad ogni modo, sono lì che cucino e
ad un tratto lo sento alzarsi, va verso i tiretti e tira fuori il pane;
se ne
taglia una fetta e, oltre a intralciarmi, ci spalma sopra il formaggio,
poi
torna a sedersi e mangia. Deve sapere che mio padre mangia utilizzando
tutti i
muscoli della mandibola, masticando in modo vistoso e riempendosi la
bocca
quasi ad ingozzarsi. Odio quel rumore, non lo sopporto, lo vedo
mangiare e mi
verrebbe voglia di…»
«Di?»
Alice si
fermò un momento, poi riprese
a raccontare senza dar peso alla sua domanda.
«Preparo
la tavola e noto che ha finito
di leggere; mi rimane da scolare la pasta, condirla e servirla nei
piatti. Lui
non dice nulla, ma sento che mi guarda.»
«Di
nuovo?»
«Sì.
Sento quei piccoli occhi azzurri
sulla schiena, sento che si sta chiedendo perché ci stia
mettendo così tanto,
quanto mi ci vuole a servire il primo, posso pure immaginare quanta
voglia
abbia di affondare la faccia nel piatto e mangiare, mangiare, mangiare.
A un
tratto si alza. Mi chiede: hai bisogno di aiuto? Io gli rispondo di no,
ho le
labbra talmente strette che non so come abbia fatto a parlare. Sento le
mani
che mi tremano mentre prendo la pentola e la porto verso il lavandino,
mi
tremano di rabbia: lui se ne sta lì, dietro di me, lo vedo
afferrare la pentola
col sugo e darci un’occhiata e io penso a quelle mani grandi,
scure…»
S’interruppe
di colpo, proprio quando
ci si aspetterebbe una sinistra conclusione.
«Sai
quanto è sottile una palpebra?»
«Molto,
direi.»
«Moltissimo.
Basta un niente per
ferirla, anche un colpo di vento. Una volta mi sono scottata, sai? Non
era
molto grave, ma mi è comunque rimasto un bel segno scuro. La
pelle si è
raggrinzita, ci è voluto un po’ perché
tornasse normale, e mi ero scottata solo
di striscio.»
«Lui
mi domanda se ho messo il sale
nella pasta, se ho controllato il grado di cottura» aggiunse,
«mentre io ho fra
le mani la pentola e sto per rovesciare tutto nello scolapasta. La
tengo
sospesa, aspetto. Lui domanda: che cosa stai facendo? Mi sta dietro, lo
sento sovrastarmi.
Stringo le maniglie della pentola, sono caldissime. Mi giro.»
A quel punto
era d’obbligo una pausa;
non riusciva più a continuare il racconto in maniera
ordinata.
«Com’è
che ti chiami?» domandò all’uomo
che le stava davanti, pendente dalle sue labbra.
«Mattia»
rispose lui.
«Mattia.
Sai, non è che ci sia bisogno
per forza di un coltello per ammazzare qualcuno.»
«Lo
so, lo so.»
Mattia
riconobbe il silenzio piombato
nella stanza come simile a quello precedente; la ragazza non sarebbe
andata oltre
da sola, c’era bisogno di darle una spintarella.
«Allora?»
Alice non
raccoglieva mai quegli inviti
a proseguire la conversazione. Schioccò le labbra come se
morisse dalla voglia
di andare avanti, di continuare, ma ci fosse qualcosa ad impedirle di
proseguire;
qualcosa come un ostacolo, probabilmente. Mattia si accorgeva subito
che
qualche cosa non andava quando la vedeva mutare comportamento: nelle
sequenze
narrative più lunghe se ne stava composta sullo sgabello, le
mani ad afferrare
i bordi, la voce calma e tranquilla; era padrona di sé,
controllava
perfettamente il racconto e l’effetto che produceva
sull’ascoltatore. Arrivava
però un certo punto oltre il quale non riusciva ad andare;
allora liberava le
mani e cominciava ad muoverle in maniera nervosa.
«Hai
lanciato l’acqua bollente in
faccia a tuo padre?»
«No,
no, mi sono sbagliata! Oggi è
giovedì, ecco, mi sono sbagliata. Scusami, ho
sbagliato…»
Mattia non la
contraddisse, ma osservò
la ragazza riprendere il controllo della conversazione,
l’aria delusa. Lei domandò
spiegazioni per quello sguardo.
«Mi
stai dicendo delle bugie» disse lui.
«No,
non è vero!»
«Sì,
stai mentendo fin dall’inizio.»
Avrebbe voluto
continuare ancora per
mostrarle tutte le incongruenze in cui era incappata fin dal momento in
cui
aveva iniziato a parlare, ma a quel punto Alice scattò in
piedi e lo fissò con
rabbia. Il gesto improvviso lo spaventò, tanto che
indietreggiò e per poco non
cadde dallo sgabello.
«Non
è vero che sono una bugiarda!»
gridò Alice, le braccia rigide lungo i fianchi.
«Se non credi a quello che ti
ho raccontato puoi anche andare a controllare! Io l’ho
ammazzato, io ho ucciso
mio padre e l’ho fatto tutto da sola, e sai
com’è successo?»
Alice fece una
pausa e prese un
respiro, curandosi di non diminuire per questo la portata del suo sfogo.
«Sai
cos’è successo? Era venerdì sera,
io e lui ci stavamo preparando per andare a dormire; mi sono infilata
il
pigiama e sono andata verso il bagno per lavarmi e lui era
già lì, con in mano
lo spazzolino, che ci passava sopra il dentifricio. Detesto dividere il
bagno
con lui!»
Mattia
abbassò gli occhi e notò come, a
furia di andare avanti, Alice stringesse sempre più i pugni
e tenesse le
braccia in una posizione talmente rigida da farle tremare; sembravano
due
stanghette di legno in procinto di spezzarsi.
«L’ho
visto che cominciava a lavarsi i
denti, che guardava lo specchio… non aveva una presa forte,
teneva la mano quasi
abbandonata, e allora sai che ho fatto? Sono andata lì
vicino, gli ho stretto
forte il pugno con la mia mano e gli ho ficcato lo spazzolino tutto in
gola,
premendo a più non posso.»
Alice
s’innervosì ancora di più notando
che il suo interlocutore non dava segni di meraviglia o terrore.
«Non
ha avuto nemmeno il tempo di
gridare, di spingermi via, l’avevo colto in un momento di
debolezza, non aveva
la forza di allontanarmi… si è stretto una mano
sulla gola e con l’altra faceva
pressione contro la mia, ma non ce la faceva più. Non ce
l’ha fatta. A un
tratto ha perso i sensi, mi è caduto fra le mani e per poco
non si fracassava
contro il rubinetto. L’ho spinto per terra. L’ho
soffocato.»
Alice si
risedette, mettendo su un
sorriso trionfante e allo stesso tempo plastico, statico, quasi una
smorfia
beffarda per celare il precedente scatto di rabbia. Attese una
risposta, un commento
qualsiasi. Mattia aspettò qualche secondo, poi
affermò:
«Questo
non può essere vero.»
Vide gli occhi
della ragazza sgranarsi
e la smorfia divenire un’espressione sorpresa.
«Perché
no? Cosa ne sai?»
«Non
può essere vero, non può.»
«Ma
perché?»
Mattia
tentennò un po’, poi riprese a
parlare.
«Allora
dov’era tua madre?»
«Cosa?»
«Sì,
tua madre. Dov’era mentre tu
l’ammazzavi? Non si è accorta di nulla?»
«Mia
madre?»
Alice strinse
le palpebre, perplessa.
«Mia
madre se n’è andata un po’ di
tempo fa. Cosa stai dicendo?»
Mattia a quel
punto non poté proprio
trattenersi.
«Ma
allora che cosa dicevi prima,
all’inizio? Prima l’hai menzionata.»
Sulle prime
Alice si limitò ad
ammutolire, schiacciata dall’evidenza di quella prova.
Spostò gli occhi dal
ragazzo al pavimento e cominciò a stringere le labbra
finché non si ridussero
ad una fessura. Mattia notò che le sue mani avevano ripreso
a tremare e stavano
stringendo i bordi dello sgabello.
«Lo
sai perché non può essere vero?»
domandò Alice, alzando lo sguardo su di lui.
«Perché ci sei tu. Perché sto
parlando con te. Ecco perché non può essere
vero.»
Sembrava
furiosa e Mattia provò un
brivido di paura; era quasi pronto ad alzare le mani per difendersi da
un’eventuale sfuriata e la stessa Alice era sul punto di
saltargli addosso,
quando entrambi furono distratti dal suono lento di una campana,
ripetuto per
due volte, prima a distanza ravvicinata e poi con un’ampiezza
maggiore.
Entrambi
tacquero per ascoltare i
rintocchi e non dissero più nulla finché anche
l’ultimo di questi non si spense
nell’aria. Alice fu la prima a parlare.
«Li
senti? Dev’essere morto qualcuno.»
«Inquietanti,
vero? A me danno un po’ i
brividi» aggiunse.
Mattia la
guardava fissamente, tanto
che dopo un po’ lei gli domandò il motivo; lui non
rispose.
«Che
hai ora? Perché non parli più?»
Lo spavento che
si prese la ragazza fu
proporzionale alla forza con cui la porta della sua stanza si
aprì. Entrò un
uomo dalla camicia sbottonata e le ciabatte consumate, l’aria
preoccupata.
«Con
chi stavi parlando?»
«Io?
Con nessuno.»
Suo padre non
le domandò per quale
motivo stesse seduta su uno sgabello al centro della stanza e non
insistette riguardo
la provenienza della voce che aveva udito fino a poco prima.
«Perché
hai spalancato la porta? Non
c’era bisogno di entrare con tanta violenza» disse
lei.
«Non
ho spalancato la porta, Alice»
obiettò lui, l’aria ancora più
preoccupata.
«Sì
che l’hai spalancata. Mi hai fatto
prendere un colpo.»
«No,
non l’ho fatto. L’ho semplicemente
aperta.»
Alice Maas
spostò lo sguardo dal volto
del padre alla mano che questi teneva ancora ferma sulla maniglia; la
porta era
aperta solo per metà e la ragazza non trovò nulla
da ribattere. Quando suo
padre fece per uscire si accorse che Mattia era svanito nel nulla.
«Che
giorno è oggi?» domandò al padre.
«È
domenica, tesoro.»
La parte
più difficile, alla fine di
tutto, fu stabilire quale fosse stato l’attimo di maggior
lucidità, ovvero in
che momento ed in quale misura Alice Maas fosse stata cosciente di quel
che
stava facendo. Nemmeno la ricostruzione dei fatti fu semplice, data la
scarsità
di testimoni e lo stato esagitato in cui si trovava il padre della
ragazza. Ad
ogni modo, le versioni raccolte iniziavano più o meno nello
stesso modo.
La domenica il
padre di Alice Maas non
lavorava e solitamente restava seduto sul divano, nel primo pomeriggio,
a
guardare la giornata di campionato in ciabatte e vestaglia. Tutti erano
concordi nell’affermare che fra le dieci della mattina
– quando l’uomo aveva
sbirciato nella stanza della figlia, da cui assicurava provenissero
delle voci
– e le nove e un quarto di sera Alice e suo padre non
avessero avuto alcun
contatto; fin qui non c’era niente di strano, la ragazza
preferiva passare la
maggior parte del tempo in camera sua. A quanto pareva, tutto era
iniziato
quando Alice aveva sentito il bisogno di scendere in salotto e
accendere la
televisione, pensando che a quell’ora suo padre fosse uscito
per andare al
circolo a bere birra con i suoi amici.
«Suo
padre beveva spesso?» le avevano
domandato.
«No.
Non so, non saprei dirle.»
Poiché
alle domande che le furono poste
in seguito Alice fornì risposte contraddittorie, la sua
testimonianza non ebbe
molto credito; si pensò che avesse avuto una crisi di nervi
e non ricordasse
molto bene quello che era accaduto. Quando suo padre si fu calmato e fu
in
grado di ripercorrere gli eventi della serata, raccontò di
aver effettivamente
afferrato il soprabito e di aver avuto l’intenzione di uscire
di casa, ma di
essere stato trattenuto all’ultimo momento da una certa morsa
all’altezza del
petto, per cui era tornato a sedersi al tavolo della cucina.
«Come
mai aveva tutto quell’alcool in
casa?»
Louis, il
padre, provò a ridimensionare
la cosa, parlò di certe feste che organizzava con i suoi
amici e sostenne che
le bottiglie che erano state trovate facessero parte della scorta; non
aveva
certo intenzione di scolarsele tutte in una volta. La sua testimonianza
fu
trattata con parecchia diffidenza e si sospettò che ci fosse
dell’altro sotto
tutta quella faccenda, ma poiché era l’unico
testimone oculare della prima
parte dei fatti le sue parole furono prese per buone.
«Come
mai non è più uscito di casa? Non
si sentiva bene?»
«In
un certo senso… non è che avessi
molta voglia di starmene a casa tutto solo, sapevo di dovermi distrarre
e ho
preso il primo bicchiere.»
«Avevate
già cenato?»
«Sì.»
«Allora
aveva rivisto sua figlia, prima
delle nove e trenta?»
«No.
Ceniamo separatamente. Lei fa
presto, io avevo appena terminato e non sapevo decidermi fra
l’uscire e il
rimanere a casa.»
«Allora
perché è rimasto?»
Louis
spiegò che tutto era dipeso dal
fatto che quella sera si era lasciato prendere dalla debolezza;
debolezza di
cuore, asseriva. Raccontò di aver sentito, ad un certo
punto, dei passi
provenienti dal corridoio e di essersi trovato davanti la figlia.
«Si
ricorda qualcosa di particolare?»
«No,
nulla. Niente di niente. Sembrava
normalissima.»
Louis ci
pensò un momento, poi
aggiunse:
«Non
è che l’abbia guardata per bene.
Cercavo piuttosto di nascondermi.»
«Nascondersi?
Perché?»
Alice Maas
affermava di essere scesa in
cucina, attirata da alcuni lamenti, e di aver trovato il padre che, la
testa
raccolta fra le mani, singhiozzava. Ricordava anche una bottiglia ed un
bicchiere posati sul tavolo, ma non era in grado di riferire se fossero
stati pieni
o vuoti.
«Papà,
stai piangendo?» aveva
domandato, avvicinandosi.
Louis
spiegò che nel sentire la voce
della figlia si era premuto ancor di più le mani sul volto e
aveva compiuto un
gesto brusco per intimarle di allontanarsi.
«Sua
figlia si è avvicinata?»
«No.»
«Se
n’è andata via?»
«No.
È rimasta lì, sulla soglia.»
Di questo Louis
era sicuro. Aveva
intravisto Alice restare lì a fissarlo senza dire una parola
e lui, forse
umiliato dalla sua presenza, aveva avuto un nuovo attacco di
singhiozzi, più
violenti di quelli di prima. Quando Alice si era avvicinata al tavolo
stava
ormai piangendo a dirotto. Gli aveva domandato perché fosse
in quello stato e
lui, una volta compreso di non poter più negare
l’evidenza, aveva risposto:
«Non
è niente, è il vino. È il
vino.»
Nel frattempo
continuava a piangere e
lei, non convinta dalla spiegazione, aveva insistito; gli aveva
domandato se
avesse qualcosa a che fare con la mamma. Alice disse di aver capito
subito che
suo padre stava piangendo per via della mamma; non era un mistero, non
era
passato troppo tempo dalla sua morte ed in fondo mancava un
po’ anche a lei, sebbene
non così tanto da scoppiare in lacrime di punto in bianco.
Insistette con
dovizia di particolari sul fatto che il padre le fosse apparso molto
scosso.
«Non
l’avevo mai visto piangere così,
sembrava inarrestabile e tremava tutto. Parlava a scatti e non lo si
capiva
bene, parlava della mamma e al contempo mischiava i suoi ricordi con
quelli
vissuti con Magda.»
«Chi
è Magda?»
«Una
con cui si vedeva. Sì, ma non era
una cosa seria. Lui non voleva vedere più nessuno; anzi,
credo che stesse
ancora più male per quello. Continuava a parlare e piangeva
sempre più e io ho
pensato che fosse una cosa davvero patetica. Davvero, davvero
patetica.»
«Perché
patetica?»
«Come
perché?» Alice Maas aveva
concesso, a quel punto dell’interrogatorio, il primo sorriso.
«Ha mai visto un
uomo piangere? Dico, piangere sul serio?»
«Non
c’era nulla di male, però.»
«Mi
sono quasi vergognata.»
«Non
sei andata a consolarlo?»
«No.
L’ho guardato e ho aspettato che
la smettesse.»
Il racconto di
Louis si fece sempre
meno nitido, da quel momento in poi; si confondeva, cambiava idea e
sembrava
restio a dilungarsi sui dettagli. Disse di essere improvvisamente
rinsavito e
di essersi calmato, parlò di come Alice gli avesse offerto
un pezzo di carta
con cui asciugarsi la faccia.
«Ha
cominciato a dire cose strane» rivelò
la ragazza, «che la sua vita faceva schifo e non era riuscito
a combinare un
bel niente… che non avrebbe mai dovuto tradire sua moglie,
cose così.»
«Sua
figlia le ha detto qualcosa?»
Louis ad un
certo punto alzò le mani e
guardò il tipo che gli stava ponendo tutte quelle domande
con occhi sgranati.
«Voi
non dovete pensare… voi non dovete
pensare chissà che, lei mi ha visto in quello stato
–quanto me ne vergogno! –
lei mi ha visto piangere, ero sconvolto, è stato un momento
di debolezza…
quanto rimpiango l’essere rimasto a casa! Lei voleva fare il
mio bene, lei non
poteva sopportare che piangessi! Capisce cosa significa?»
Fu molto
difficile per lui proseguire. S’interrompeva,
tirava dei sospiri e si prendeva la testa fra le mani; era evidente che
il
grosso della questione stava tutto lì e che cercava
disperatamente di non
rivelarlo.
«Ero
ubriaco, forse, e non ricordo bene
cosa è successo… che cosa mi abbia
detto.»
«Che
cosa le ha detto, che cosa?»
«Perché
non ti ammazzi?» gli aveva
domandato Alice, l’aria serissima.
Louis si era
passato una mano sulla
guancia.
«E
come?»
Ci aveva
pensato su, per poi
aggiungere:
«Non
ci riuscirei mai, non ne ho il
coraggio.»
«Potresti
bere un po’ di questo.»
Fu la stessa
Alice Maas a rivelare di
aver offerto al padre la confezione di insetticida e, di fronte alla
sua
perplessità, averne versato due dita in un bicchiere.
«Penso
che potrebbe funzionare» aveva
detto, «questo lo puoi fare. Fa’ finta che sia
della birra.»
Louis aveva
preso in mano il bicchiere,
fatto roteare il liquido all’interno, e annusandolo gli era
sfuggita una
smorfia di disgusto. Raccontò di aver considerato seriamente
quell’idea per
pochi istanti, in realtà, ma non aveva voluto deludere
subito sua figlia; aveva
pensato che il momento di debolezza che si era concesso
l’avesse fatto apparire
ai suoi occhi come un perfetto idiota.
«Be’,
posso provare. Ma se non
funziona?»
«Funzionerà.»
Le domandarono
per quale motivo fosse
stata così sicura, ma Alice non rispose a quella domanda.
Louis si era portato
il bicchiere alle labbra e il cuore della ragazza aveva cominciato a
battere
più forte; era stata in segreta fibrillazione fin da quando
l’aveva visto chino
sul tavolo e la sua mente era stata attraversata dal pensiero che
sì, quella
sera ce l’avrebbe fatta, quella sera sarebbe riuscita ad
andare oltre.
«Sei
sicura di voler restare qui?» le
aveva chiesto Louis, cominciando a preoccuparsi. «Potrebbe
volerci del tempo.
Avrò le convulsioni, mi metterò a sputare e
vomitare… non sarà un bello
spettacolo.»
«Io
resto qui.»
Alice non gli
avrebbe mai permesso di
farla finita senza assistere personalmente, dall’inizio alla
fine, alla sua
dipartita. Così, quando suo padre aveva posato il bicchiere
sul tavolo e aveva
preso a guardarla con occhi straniti, si era irrigidita come le era
capitato di
fare nella sua cameretta.
«Lo
devi bere. Te lo faccio bere io.
Non devi avere paura.»
«Ma
non voglio berlo.»
«Vuoi
continuare ancora? Vuoi
continuare a vivere? Sei sicuro che è questo che
vuoi?»
Louis oppose le
sue migliori resistenze
fisiche e mentali per non rivelare anche quell’ultima parte;
eppure la sua
testimonianza diventava a quel punto fondamentale, poiché
sua figlia, ogni
volta che si giungeva a quel punto, diventava riottosa e alzava la voce
contro
l’inquisitore.
Aveva dunque
risposto che no, non era
certo quello che intendeva, non voleva continuare a vivere
così, ma non capiva
quale fosse il senso del togliersi la vita, che cosa avrebbe risolto; e
soprattutto, perché sua figlia ne stesse parlando in quel
modo.
«Deve
capire che è importante stabilire
che cosa è successo. È veramente sicuro che sua
figlia le abbia detto così e
così?»
«Così
e così.»
Louis era di
nuovo in lacrime, ma gli
strapparono la confessione a piccole parti.
«Ha
perso il controllo, completamente.
Ha detto che non mi decidevo, che non mi decidevo a morire e che lei le
aveva
provate tutte, che non capiva per quale maledetto motivo io fossi
ancora vivo,
che avrei dovuto essere sepolto sottoterra da più di due
settimane e che aveva
anche deciso il punto preciso del giardino in cui scavare la fossa, ma
che ogni
volta che andava a controllare io non c’ero, non
c’ero, la terra era al suo
posto!»
«A
quel punto ha cominciato a gridare?»
«Sì.
È stato terribile. Non ci ho
capito davvero più niente.»
«Non
si era mai accorto di queste…
stranezze?»
«No,
mai. Ma forse è colpa mia, forse è
stata tutta colpa mia… devo essermi lasciato sfuggire
qualcosa.»
«Quand’è
che ha capito che ormai non
c’era più nulla da fare?»
«Quando
mi ha detto dell’auto. Mi ha
guardato in faccia con certi occhi, tremava tutta di rabbia, mi ha
urlato
addosso dicendo che non era possibile che fossi ancora lì,
che avessi
ricomprato la macchina. Diceva che non capiva com’era
possibile, dopo
l’incidente.»
«Quale
incidente? A noi non ha parlato
di nessun incidente.»
Louis guardava
il suo interlocutore con
due occhi gonfi e l’aria di chi chiede soltanto di essere
lasciato in pace.
Cercò di riportare soltanto l’essenziale:
ricordare la sensazione che aveva
provato nel sentire quelle parole bastava per provocargli le vertigini.
«Ha
detto di non capire come mai fossi
ancora vivo, dopo che lei aveva dirottato l’auto
sull’altra corsia; diceva che
eravamo in macchina insieme e lei aveva spostato il volante verso
sinistra e ci
eravamo schiantati contro un’altra macchina; che io ero morto
sul colpo, che
lei era stata in ospedale e che ora avevamo una macchina
nuova.»
«A
quel punto cosa ha fatto?»
«Mi
sono alzato e ho indietreggiato
verso il telefono. Non so nemmeno che cosa volessi fare, chi volessi
chiamare.
Non ho fatto in tempo a premere nessun tasto, deve aver avuto
paura.»
Louis tacque
per qualche secondo, poi
asserì cupamente che doveva per forza essere stata colpa
sua; non riusciva a
spiegarselo altrimenti.
Da quel punto
in poi non ci fu più
bisogno di lui: il resto era possibile ricavarlo dal racconto della
loro vicina
di casa che, attirata da urla improvvise, aveva pensato di controllare
che cosa
stesse accadendo ai suoi dirimpettai. La donna raccontò di
essersi fatta aprire
la porta ed aver trovato il padre in uno stato di sovreccitazione tale
da non
consentirgli nemmeno di articolare una frase; seguendo la scia di
alcuni rumori
poco incoraggianti, si era inoltrata nell’appartamento e
aveva trovato la
figlia del suo vicino piegata sul pavimento, una mano attorno alla gola
e
l’altra affondata in una poltiglia giallognola. Alice Maas
aveva inghiottito il
bicchiere d’insetticida tutto d’un fiato non appena
suo padre aveva preso in
mano il cordless.
Naturalmente,
nonostante tutta la buona
volontà, il suo corpo aveva reagito immediatamente e la
ragazza aveva sputato quasi
subito la maggior parte di ciò che aveva ingerito; il
bruciore era stato tale
da costringerla a vomitare, ma non riportò danni gravissimi.
Il veleno non
aveva avuto il tempo di giungere allo stomaco in una
quantità tale da risultare
mortale e in seguito alla lavanda gastrica la ragazza si
ritrovò un po’ scossa
e deboluccia, ma fuori pericolo.
Quella scenata
nella cucina fu l’ultima
occasione che Louis ebbe di vedere sua figlia. Sapeva per certo che
doveva
essere stata portata in ospedale, ma non volle raggiungerla; qualche
tempo dopo
tutti quegli avvenimenti provò ad ingerire anche lui un
bicchiere di veleno,
forse della candeggina o del detersivo per piatti. La sua agonia fu
molto più
lunga di quella di sua figlia, trovò i dolori insopportabili
e non ebbe la
pronta assistenza di alcuna vicina, dato che la donna, dopo aver
esposto la sua
versione dei fatti ed essere venuta a conoscenza di tutta quanta la
storia stabilì
di non voler avere più niente a che fare con loro.
Per quanto
riguardava Alice Maas, lo
scoprire di essere sopravvissuta a tutte quegli eventi, a partire
dall’incidente in auto per finire con la fuga di gas che
aveva invaso
l’appartamento e reso privi di coscienza sia lei che suo
padre, la convinse ad
ammettere finalmente di essere già bell’e morta.
Non capiva molto bene quello
che succedeva intorno a lei e non sapeva riconoscere il luogo in cui si
trovava, ma indicava come ora del decesso le ventuno e quarantasei di
una
domenica autunnale. L’anno non lo ricordava mai, era passato
troppo tempo, ma
ne era sicura: aveva sentito anche suonare le campane che annunciavano
la
cerimonia funebre.