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Autore: Nisi    05/04/2007    17 recensioni
Mi ricordo della prima volta che ho incontrato Hachi, su quel treno diretto a Tokyo; lei e tutte le fisime che aveva per la testa. Avresti mai pensato, Yasu, che il suo demone celeste sarebbe arrivato per portar via anche me?
Questa fanfiction si è classificata al primo posto nella sfida "anime e manga" del sito "Out Of Time".
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Junko Saotome, Nana Osaki, Yasushi Takagi
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Mi ricordo della prima volta che ho incontrato Hachi, su quel treno diretto a Tokyo; lei e tutte le fisime che aveva per la testa. Avresti mai pensato, Yasu, che il suo demone celeste sarebbe arrivato per portar via anche me?

* * *

Chiusa, serrata la porta del piccolo ufficio della casa discografica. Lui solo dentro la stanza e tutto il mondo fuori.

Yasu si guardò attorno; più che di un ufficio, si trattava di poco più di un ripostiglio, ma non gliene importava nulla: una scrivania coperta di polvere, inutilizzata da non si sapeva quanto, un PC che aveva visto tempi migliori ed una sedia alla quale mancava una rotella. Non c’era nemmeno una finestra e la luce proveniva da una lampada al neon che emetteva un chiarore opaco ad intermittenza ed uno strano ronzio. Probabilmente, era ora di farla cambiare dall’elettricista.

Spense l’interruttore ed il ronzio si interruppe bruscamente, poi si accomodò in precario equilibrio sulla sedia, le gambe coperte dai calzoni di marca dalla piega impeccabile, appoggiate con noncuranza alla scrivania, e frugò nella tasca interna della giacca che faceva pendant con i pantaloni. Una sigaretta, un accendino, ed il puntino rosso divenne l’unica fonte di luce.

Poco male, non ne aveva bisogno, non in quel momento.

Si tolse gli occhiali da sole che portava sempre e, mentre fumava, accese il cellulare. Richiamò dalla memoria il messaggio che era arrivato proprio quella mattina e lo lesse, pensieroso, per la centesima volta.

La classifica che gli avevano inviato recitava implacabile: primo posto Trapnest con “Feels Like Freedom”, al secondo le Princess Princess con “Julian” al terzo Gao con “Jupiter Gala”. I Blast erano al diciassettesimo posto con il loro singolo “Run”. Dura da digerire, ma soprattutto, dura precipitare dalle stelle alle stalle e tornare ad essere dei mediocri.

“Run” era una grande canzone, ma Tsubaki Tosei non era in grado di interpretarla con la forza e la passione che ci avrebbe messo Nana. Non che non fosse brava: era una splendida ragazza dalla voce forte e potente. Il problema era che lei non era Nana e non aveva un decimo del suo carisma.

Da quando la loro frontwoman era sparita ed avevano dovuto sostituirla, i Blast non avevano avuto più contatti per nuovi concerti e le apparizioni televisive si erano ridotte a dei cammei di pochissimi minuti, quasi sempre dei riempitivi di tempi morti. Il gruppo stava ormai andando allo sfascio.

E a proposito di sfascio, anche il suo rapporto con Miu era allo sbando e quella foto sulla scrivania del suo ufficio che li ritraeva entrambi sorridenti e convinti di essere innamorati, sembrava risalire ad un’epoca lontana anni luce; essere la compagna del componente di una band in auge non era facile, lo sapeva bene: dopo l’eccitazione dei primi tempi e l’euforia che davano i soldi, le ragazze sperimentavano cenette romantiche che si raffreddavano e la cera delle candele che si scioglieva piano mentre loro aspettavano sedute al tavolo da pranzo con la testa appoggiata alla mano per non cadere addormentate. Quando, finalmente, il partner rientrava stravolto dalla stanchezza, era troppo esausto ed aveva troppa poca voglia di darsi.

Anche per lui e Miu era stato così, e difatti le cose tra loro avevano cominciato a degenerare poco dopo la registrazione del matrimonio in comune. Ora lei era andata nel Kansai a trovare sua madre e non sapeva se e quando sarebbe tornata.

La sua mente smise di vagare per un attimo e ritornò in quell’angusto ufficio un po’ imboscato; si era chiuso lì dentro per respirare, solo per un po’. Da sempre tutti si appoggiavano a lui: era quello che “risolveva problemi”, che aveva sempre la soluzione a portata di mano; recentemente, però, il suo personale generatore di energia pareva fosse andato in corto circuito. In quel momento aveva bisogno di stare solo e di dimenticare, anche solo per poco, tutte le questioni di vita o di morte dei Blast e della casa discografica.

Il suo corto circuito era cominciato quando Nana era sparita. La sua scomparsa l’aveva messo in crisi più di quanto fosse lecito pensare e ciò lo faceva sentire in colpa nei confronti di sua moglie. Finì la sigaretta spegnendola scrupolosamente nel portacenere di plastica arancio. Meglio andare a casa: tanto, quel giorno non avrebbe più potuto combinare niente.

Uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle e ristette alla finestra del corridoio ad ammirare la Tokyo Tower tutta illuminata.

Si buttò il cappotto sulle spalle, inforcò ancora una volta gli occhiali ed uscì dall’edificio, la notte che calava lentamente sulla città.

Niente taxi, né metropolitana: non era eccessiva la distanza che lo separava dal suo appartamento che aveva comprato a Roppongi qualche mese prima e l’aria insolitamente fresca gli passava piacevolmente sul viso e sulla testa completamente glabra.

I colori chiassosi della città sfilavano lentamente sotto i suoi occhi: locali di karaoke, ristoranti di ramen, negozi di griffes internazionali.

Camminò a passo spedito, il buio che stava prendendo il sopravvento sulla luce.

Arrivò a casa e si buttò sul divano, sciogliendo nel frattempo il nodo della cravatta grigio ferro che portava al collo.

Sul tavolo in cristallo, il pacchetto della corrispondenza che era arrivata quel giorno. Yasu la scorse velocemente nella speranza di trovare notizie di Miu: estratto conto delle carte di credito, fatture, lettere di fans, demo di nuovi cantanti o pseudo tali; le solite cose, ma da sua moglie nessun cenno di vita. Una lettera con il timbro di Okinawa attrasse però la sua attenzione e la calligrafia nitida, che gli era in qualche modo familiare, lo indusse a girare la busta per scoprire chi fosse il mittente.

Junko Saotome.

Junko, l’amica di Hachi che si era trasferita da parecchi mesi ad Okinawa.

Sia lei che il suo uomo, Kyosuke, erano dei grafici apprezzati. Aveva saputo (da Nana? Da Hachi? Da Nobu? Non se lo ricordava) che i due si erano trasferiti perché lui aveva avuto dei problemi di salute ed aveva bisogno di aria pulita per ristabilirsi. Avevano mantenuto il loro lavoro, a quanto sembrava: con le moderne tecnologie, era virtualmente possibile consegnare un documento dall’altra parte del mondo in una manciata di secondi.

Yasu strappò cautamente la parte superiore della busta e ne estrasse il contenuto: una lettera, un biglietto da visita in caratteri giapponesi ed europei e qualche cartolina che riproduceva il mare cristallino e la sabbia bianca di Okinawa.

Caro Yasu,

ti sorprenderà ricevere questa mia lettera, ma una volta Hachi mi ha detto che ami il mare ed ho pensato di scriverti: io e Kyosuke ci siamo trasferiti qui ad Okinawa lo scorso anno ed abbiamo aperto il nostro locale di musica dal vivo. Ci piacerebbe avere un tuo parere sul repertorio che abbiamo scelto, per cui, se un giorno ti capitasse di venire da queste parti con tua moglie, vienici a trovare: saremmo onorati di ospitarti e ti vedremmo molto volentieri. Non in estate: qui ci sono tifoni ogni due o tre giorni e per voi non sarebbe bello.

Stiamo cercando di tenere i contatti con i nostri vecchi amici di Tokyo, ma non è molto facile, dal momento che il nostro lavoro durante il giorno ed il locale la sera ci prendono molte energie. Ci stiamo impegnando molto e facciamo del nostro meglio.

Spero che la mia lettera non ti abbia disturbato. In caso contrario, ti prego di perdonarmi.

Junko.

Junko. Da quanto tempo che non la vedeva! Non che fossero stati mai dei grandi amici: lei era più che altro la confidente di Hachi o, meglio, la ragazza dalla quale lei dipendeva prima di trovare Nana e di diventare il cagnolino che era.

Si rigirò le cartoline tra le mani fissando lo sguardo su quelle spiagge assolate.

Okinawa. Già, perché no? Era una vita che non si prendeva qualche giorno di vacanza ed aveva bisogno di staccare. Dallo stato pietoso in cui versava il suo matrimonio, dai Blast, dalla confusione e dalla sua recente sensazione di perenne stanchezza.

Prese il telefonino e compose il numero della casa discografica: Misato sarebbe stata ancora là. Quella ragazza lavorava troppo.

“Misato? Sono Yasu. Volevo avvertirti che mi prendo qualche giorno di ferie. No, tutto a posto. Ho solo bisogno di staccare un po’. Certo, mi faccio sentire. Saluta tutti. Ci sentiamo”.

Telefonò alla Japan Airlines per prenotare un volo che sarebbe partito da Narita due giorni dopo, poi cercò il numero del call center della solita catena di alberghi che ospitava i Blast mentre erano in tournée. Sicuramente avevano un hotel anche ad Okinawa.

L’ultima telefonata: “Junko? Ciao, sono Yasu.”

* * *

Non aveva detto a Junko con che volo sarebbe arrivato per non obbligarla a piantare il lavoro per andarlo a prendere. Dopotutto, non era più un bambino e se la sarebbe cavata benissimo anche senza di lei, infatti aveva prenotato una macchina a noleggio dotata di navigatore satellitare. Dopo aver sbrigato le formalità e consegnato i documenti ad una signora di mezza età che lo aveva scambiato per uno yakuza in vacanza, salì a bordo ed imboccò il viale di uscita e successivamente la strada che portava a Naha, dove Junko abitava con il suo compagno.

Non c’era una grande distanza tra l’aeroporto e la città, per cui percorse il breve tratto di litoranea con il finestrino abbassato per inalare l’odore salmastro del mare e dopo pochi minuti arrivò all’albergo per prendere possesso della stanza. Siccome non era stanco e non aveva fame, si limitò a depositare i bagagli nella camera. Dal momento che non aveva più voglia di guidare, prese un taxi e diede al conducente l’indirizzo del locale di Junko.

* * *

Il locale di Junko e di Kyosuke si chiamava Junko’s Room e si trovava nella zona più moderna della città. Yasu spinse la porta di ingresso ed entrò.

Posto carino, decise subito: pareti bianche immacolate ed arredi neri. Raffinato e minimalista, una commistione di stile a metà tra il moderno europeo ed il tradizionale giapponese. Da due grafici non si sarebbe aspettato niente di meno.

Un esteso bancone di legno era sistemato al centro della sala e, appoggiata contro il muro, una enorme libreria costruita con lo stesso materiale che però ospitava bottiglie dei più svariati liquori. Davanti, morbidi sgabelli a trespolo riservati agli avventori.

Fu Junko a vederlo per prima e ad andargli incontro. Forse perché la sua zucca pelata si vedeva chiaramente anche in mezzo alla folla, si disse ironicamente.

“Yasu! Avresti potuto avvisarmi; sarei venuta a prenderti.” Lo accolse con un sorriso sulla bocca scarlatta.

“Non era il caso ti disturbassi; ti trovo bene, Junko”, la salutò lui. “Kyosuke?”

“Oh, è uscito a fare delle commissioni” sorrise. “Ti piace il nostro locale?”

“Mi sembra molto trendy ed ha una bella atmosfera. Si sarà fatto un nome da queste parti.”

Il sorriso di Junko si inclinò impercettibilmente e Yasu avvertì una certa esitazione nella voce. “Sì, certo, certo che è così. In un certo senso…” Cambiando discorso, la ragazza gli domandò: “Hai progetti per questa sera? Abbiamo una nuova cantante di blues che mi piacerebbe farti ascoltare.”

“Blues?” Yasu inarcò un sopracciglio, perplesso.

“Già, blues.” ansia nella voce di Junko. “Ne vale la pena, fidati. Dovrebbe arrivare fra poco. Siediti, intanto ti porto da bere. Saké caldo, mi ricordo bene?”

“Già, ti ricordi bene.” annuì serio Yasu mentre la ringraziava mentalmente di non avergli rivolto domande indiscrete sull’assenza di sua moglie.

Il locale si riempì velocemente. Yasu si era seduto ad un tavolo appartato che però aveva una buona visuale sulla pedana che fungeva da palco, e sorseggiava il suo saké mentre il suo sguardo si posava sulla clientela eterogenea, pensando che Junko fosse diventata un po’ troppo ansiosa.

Le luci si abbassarono ed una donna salì sulla su quella ribalta un po’ spartana. Era di profilo, per cui Yasu non riuscì a vedere il suo viso.

Imbracciò una chitarra acustica, provò l’accordatura e la collegò all’amplificatore per mezzo di un cavo. Poi, le luci si abbassarono ulteriormente e la cantante iniziò la sua esibizione.

Un brano di Janis Joplin ed una voce roca di donna, un po’ simile alla carta vetrata, un po’ dolce e carezzevole. Strano che una giapponese cantasse quel tipo di canzone.

Yasu si raddrizzò improvvisamente sulla sedia, tolse gli occhiali da sole e fissò la cantante.

I capelli più lunghi, il fisico più pieno, il look più semplice, ma era lei. Quella voce l’avrebbe riconosciuta tra mille altre.

Nana.

Si alzò di scatto e corse al bancone dove stava Junko facendosi largo a fatica tra la calca.

La proprietaria del Junko’s Room teneva in mano un bicchiere e lo stava asciugando con un canovaccio.

“Junko!”

La ragazza alzò gli occhi, lo sguardo indecifrabile. “L’hai riconosciuta.”

“Non potevo non riconoscerla. Da quanto si trova qui?” esclamò cercando inutilmente di controllare il tremito che gli alterava la voce.

Junko scosse il capo: “Ti spiegherà tutto lei. Ti aspetta all’uscita posteriore dopo l’esibizione.”

“Va bene, allora io vado.” riprese l’abituale compostezza nel giro di un secondo.

Junko fissò Yasu che si allontanava e sospirò stancamente.

L’esibizione di Nana non durò molto. L’ex cantante dei Black Stones si avvicinò a Junko ed accese una sigaretta. “Mi dai un Jack Daniel’s?”

La donna le porse il bicchiere con un’espressione corrucciata. Nana lo vuotò tutto di un fiato e poi si infilò ancora una volta la sigaretta tra le labbra, in precario equilibrio all’angolo della bocca, come faceva sempre.

“Ed il thermos di tè corretto che ti ho chiesto.”

Junko le porse quanto chiedeva senza dire una parola.

Nana fece un cenno di ringraziamento, poi infilò le mani nello zainetto e buttò sul banco un pacchetto avvolto in un sacchetto di plastica. “Ecco il pagamento per il servizio che mi hai fatto.” biascicò.

Junko guardò il denaro ed allungò una mano tremante per prenderlo, salvo cambiare idea e farla ricadere al fianco. “N… non vuoi proprio ripensarci, Nana?”

“Ti ho proposto un accordo: tu mi hai fatto il favore che ti ho chiesto ed io ti do i soldi per salvare il tuo locale. Il resto non è affar tuo. E comunque, non ha scopo rifiutare, io ormai ho deciso. Vado da Yasu, salutami tanto Kyosuke. E digli che lo preferivo con i dread.” Nana uscì dal locale con quel passo rigido tanto tipico di lei. Junko nascose il viso tra le mani: “Che cosa ho fatto…”, mormorò con il mascara che le colava nero sulle guance mescolato alle lacrime.

L’unica cosa che la faceva sentire meglio era il fatto di non avere coinvolto Kyosuke in quella brutta storia.

* * *

Nana si mosse incontro all’uomo che la stava aspettando.

“Yasu! Wowwww!” Yasu fece appena in tempo a voltarsi che Nana gli volò in braccio e gli schioccò un bacio sulla guancia. “Ho del tè caldo! Andiamo a festeggiare sulla spiaggia.” Nana cominciò a correre trascinando Yasu per un braccio fino a che arrivarono al mare.

“Tè caldo? Da quando hai abbandonato gli alcolici?”

“Problemi di fegato, ma non ho voglia di parlarne adesso.” Lo afferrò per un braccio e lo trascinò dietro di sé.

Era una notte chiara, il castello di Shuri si vedeva in lontananza, illuminato a giorno, la risacca del mare era in sottofondo ed una lieve brezza soffiava piacevole e fresca.

“Ecco! Qui va bene!” si lasciò cadere sulla sabbia bianca ed invitò Yasu a fare lo stesso. Era talmente frastornato dalla sorpresa che non era riuscito ad articolare una singola parola. Nana gli sembrava stranamente euforica, come quando si ubriacava, ma era evidente che non avesse bevuto affatto.

Si sentiva disorientato dalla comparsa improvvisa di lei e dalla sua vicinanza; si era tutt’ad un tratto ricordato perché non la toccava mai: quella sensazione strana alla bocca dello stomaco lo lasciava sempre sconvolto e non aveva il coraggio di scoprire perché.

“Tieni! Bevi finché è caldo.” Nana gli cacciò in mano la tazzina di plastica senza troppi complimenti e Yasu ne prese un sorso.

“Ci hai fatto stare in pensiero.” confessò in tono incolore.

“Ah sì, sì. Credo di sì.”

“Perché sei scappata?” domandò in tono casuale.

“Scappata? Pensi che sia scappata? Non hai capito niente, allora!” ringhiò Nana, la rabbia che le faceva tremare le mani.

Yasu le tolse il thermos dalle mani e lo poggiò sulla sabbia: “Attenta, rischi di rovesciartelo addosso. Sei sparita senza dire niente a nessuno, non ti sei neanche portata dietro la tua chitarra, né i tuoi dischi dei Sex Pistols. A casa mia questo si chiama scappare.” constatò.

“No, non sono scappata, ti dico.” Raccolse le ginocchia al petto e vi appoggiò sopra la fronte. “La mia vita era diventata un tale casino…”

“Hai sempre vissuto in un tale casino…” constatò Yasu sorseggiando il tè verde.

“Già. Non riesco mai ad averla vinta con te, mi conosci troppo bene.” Accese una sigaretta, più che altro per darsi un contegno.

“Mmmmm.”

“E non ti sbilanci mai…”

“Mmmm.”

“Non avevo più voglia di cantare. Non importava più quello che cantavo, ma quello che facevo, come mi vestivo, cosa facevo con Ren… Non riesco a capire cosa freghi alla gente della mia vita. Io non lo sopporto, non sopporto che la gente metta il naso nelle mie cose private. Fa troppo male. Io volevo solo cantare.”

“Dovevi aspettartelo, Nana.” fu la risposta laconica mentre Yasu si accendeva una sigaretta per farle compagnia. “E’ il successo, fa parte del gioco.”

Nana sogghignò: “Non ti facevo così cinico, Yasu. Hai frequentato Takumi, recentemente?”

Lui le rispose con un’altra domanda: “Perché mi hai fatto venire qui?”

“Mi andava. Ora festeggiamo!”

“Mi devi sp…”

Non riuscì a finire la frase che sentì la bocca di Nana sulla sua, nel suo classico gesto di affetto un po’ ambiguo che non lo lasciò per niente indifferente, ma anzi piuttosto scombussolato. “Ecco la spiegazione, Yasu. E congratulazioni per il tuo matrimonio, sono sicura sarete molto felici. A quanto pare, sono l’unica che non ha messo la testa a posto…” una risata amara.

“Non la metterei così, Nana.” Osservò lui, mentre cercava di ricordarsi quando avesse baciato Miu per l’ultima volta. I due vecchi amici bevevano in silenzio tra i due mari: quello quasi nero dinnanzi a loro e quello delle cose che avrebbero voluto dire. Tacquero, la testa di lei sulla spalla di lui, solida e confortevole. Rimasero in quella posizione a lungo, fino a che il buon senso di Yasu lo fece staccare da lei, prima che quello che sentiva per davvero avesse il sopravvento. Avrebbe voluto domandarle di raccontargli qualcosa di quei mesi, ma con Nana era come camminare sul filo del rasoio.

“E’ tardi, ti accompagno a casa?”

“No. Ho voglia di stare qui, ho bisogno di pensare.”

Yasu la guardò per un lungo momento. Poi il suo innato rispetto lo indusse ad annuire: “Vuoi che rimanga con te? Non ti fa bene stare sola.” propose dopo essersi alzato in piedi ad averla aiutata a fare altrettanto.

“No, no…”

“Beh, allora… ci… ci vediamo.” Non aveva mai balbettato, mai fino a quel momento.

“Già, ci vediamo.”

Si avvicinarono l’una all’altro, goffi ed impacciati, come se non sapessero bene cosa fare o dove mettere le mani, ma in quel momento Yasu si lasciò cadere sulla sabbia: “Cosa mi sta succedendo? Mi gira la testa, ho sonno, che hai messo in quel tè?” Mormorò portando una mano alla fronte ed un minuto dopo era saporitamente addormentato.

“Ciao ciao, pelatone, sogni d’oro.” Lo coprì con la giacca che lui si era portato dietro e con il plaid sul quale si erano seduti.

“Ciao” ripeté Nana a voce bassa nonostante lui non potesse più sentirla, anche perché aveva preso a russare sommessamente.

Non faceva freddo, quella notte in spiaggia. Nana aprì lo zainetto e prese una forbice. Ciocca dopo ciocca, si tagliò i capelli fino a riprodurre alla bell’e meglio quel carré sfilato che aveva reso famoso.

Indossò una minigonna nera ed il top dello stesso colore. Si diede il mascara ed il rossetto scarlatto. I suoi abiti di scena.

“Buonasera, siamo i Blast! Benvenuti al nostro concerto!” urlò al mare, alla luna, alla spiaggia.

Il fiore di ren era stato cancellato dal suo braccio tanto tempo prima e non era più parte di lei; al suo posto, una brutta cicatrice, uguale a quella che si portava dentro.

Non si curò di indossare gli stivali con la zeppa perché dove stava andando non ne avrebbe avuto bisogno.

Cominciò ad avanzare verso il mare, cantando i versi della prima hit dei Black Stones, ripetendoli all’infinito, incurante dell’acqua gelida che attutiva il dolore che sentiva da tanto tempo: il sentimento che provava per Ren si era dissolto in fretta trasformandosi in un vago senso di imbarazzo. Hachi ormai aveva la sua vita, sua figlia ed era lontana da lei anni luce. Yasu si era sposato ed era felice e lei era rimasta sola e sentiva di essere rimasta al palo. Lo era stata per tutta la vita e ne aveva avuto abbastanza. Voleva solo un po’ d’amore e la consapevolezza che non lo avrebbe avuto le aveva fatto decidere che era giunta l’ora dell’ultimo concerto, non prima, però, di aver salutato la persona che, a conti fatti, per lei aveva rappresentato di più. “Questo concerto non avrà un bis, sapete, amici?” sussurrò con voce rotta, erompendo poi in una risata stridula che si spense in un singhiozzo.

Continuò a cantare sottovoce mentre sentiva i piedi bagnarsi e diventare gelidi, i versi della canzone svanivano nella notte mentre avanzava tra le onde che le lambivano i fianchi.

Le note si sentivano ancora quando il mare le arrivò al petto scarno.

“Non lo sai che i pazzi muoiono da soli, Yasu?” mormorò un attimo prima che l’acqua le bagnasse i capelli.

Poi fu il silenzio.

* * * Yasu si svegliò tutto intirizzito nonostante la coperta lo avesse protetto un poco dall’umidità della notte.

Si massaggiò la testa dopo essersi alzato a sedere. “Nana, questa me la paghi!” biascicò. Si alzò in piedi e fece vagare lo sguardo in cerca di lei: era ancora notte, non aveva dormito più di tanto, valutò. “Nana!” chiamò più volte.

Su quella spiaggia ormai deserta, nessuno rispose. Guardandosi attorno, notò lo zainetto di lei: appoggiati alla stoffa, c’erano il suo anello di Vivienne Westwood, una busta con il suo nome ed un CD, anche quello indirizzato a lui.

Fu in quel preciso momento che Yasu si rese conto che Nana non gli avrebbe mai più risposto e che il concerto che Nana aveva portato a termine era stato l’ultimo. Un concerto che però si era chiuso senza il bis.

* * *

Era tornato a Tokyo dopo aver sbrigato le formalità del caso; non aveva voluto sapere cosa ne fosse stato del corpo di Nana ed aveva fatto l’impossibile perché non si sapesse che si era trattato di un suicidio. Aveva diffuso la voce che Nana era morta in seguito ad una malattia respiratoria.

D’altronde non era nemmeno del tutto falso in quanto si era saputo dal suo medico di fiducia che Nana aveva preso a soffrire di violenti attacchi di asma.

Non si spiegava il perché del suo gesto estremo, anche se tutte le notti stava sveglio a fissare il soffitto bianco di camera sua a fare ipotesi, l’una più improbabile dell’altra. In cuffia, il CD che lei gli aveva lasciato, pieno di canzoni che Nana aveva scritto, di una bellezza struggente ed inquietante che continuavano a parlargli di lei. Dal punk sanguigno era passata al dolente blues.

Non si era neanche dovuto sforzare più di tanto per diffondere la notizia: se lo era fatto sfuggire, quasi per caso, quando un giornalista di gossip gli era passato accanto; poi era rimasto ad attendere gli effetti di quella rivelazione.

Tempo dopo, si ritrovò nel suo ufficio, cercando disperatamente di concentrarsi sui font della copertina del nuovo CD dei Blast, quando il capo della casa discografica entrò senza bussare.

“Dovremmo organizzare un concerto di tributo a Nana. Sono certo che ci verrebbe un sacco di gente: da quando è morta, i dischi dei Blast sono andati a ruba.”

Yasu rimase a fissare il foglio che teneva in mano senza dire niente e si limitò ad annuire distrattamente, lo sguardo puntato ostinatamente verso il basso.

“E’ un vero peccato che Nana non abbia lasciato un’ultima canzone, una specie di testamento musicale. Avrebbe fatto furore.”

Yasu annuì ancora, lentamente, serio: “Già. Un vero peccato.”

* * * Forse avevi ragione tu, Nana, quando mi hai scritto che il demone celeste sarebbe arrivato anche per te. Ma in una cosa ti sei sbagliata: non è venuto da te sola e la nostra felicità che invidiavi tanto è durata poco, meno dello spazio di una canzone.

Yasu affidò la lettera al mare di Okinawa. Forse, Nana un giorno l’avrebbe letta.

Fine

* * *

Questa storia è stata recensita da JeanGenie e potrete trovare il suo commento a questo indirizzo: http://courmiracles.altervista.org/recmese/recmese.htm

Si ringrazia sentitamente JeanGenie per il beta reading, così come tutti coloro che hanno fatto sì che questa storia si classificasse al primo posto. Ve ne sono infinitamente grata.

   
 
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