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Autore: _Lakshmi_    21/09/2012    3 recensioni
[...] ero una cosa che non avrebbe dovuto nascere: il frutto dell’unione fra uno Shinigami e un Demone
L'avventura di Pandora inizia in una grigia Londra di fine XIX secolo. Lei si trovava lì per lavoro, per scoprire qualcosa di più sulla morte di un barone. E sarà proprio qui dove incontrerà dei personaggi un po' speciali, che l'aiuteranno nei momenti più difficili (forse) e che le renderanno la vita un Inferno...
Genere: Avventura, Azione, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Undertaker, William T. Spears
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Blue Rose

L'anima del mezzo demone

Primo Capitolo:

Shinigami

 

Guardai il cielo grigio screziato di azzurro.
Era una di quelle calde giornate di fine primavera dove le rose ormai sbocciate profumavano l’aria con un aroma delicato, purtroppo coperto dallo smog delle fabbriche.
Dai bambini (pochi) che giocavano per le strade ai mercanti che incitavano gli acquirenti a comprare le merci esposte sulle bancarelle, potevo dedurre che la vita era nel pieno delle sue forze.
Al contrario della sottoscritta perché non avevo dormito molto, per non dire niente.
Brancolavo per le vie di una città a me estranea, in cerca di un negozio di un becchino. Già, perché era stato portato lì un cadavere piuttosto importante (per me almeno) e volevo scoprire più dettagli possibili sulla sua morte. Magari avrei scoperto l’assassino e gli avrei fatto passare le peggiori torture dell’Inferno, perché nessuno si doveva intromettere con il mio lavoro.
No, non preoccupatevi, non sono una criminale o una poco di buono, sono soltanto una Shinigami.
Essendo una delle poche donne a svolgere un incarico così importante (forse anche l’unica), spesso venivo giudicata più severamente dei miei colleghi e per questo non volevo tornare con un fallimento sulle spalle.
Dovevo dimostrare di non essere debole, di essere all’altezza dei miei infami compiti.
Non ero mai stata fortunata, in particolar modo con questa professione, perché finivo sempre a creare disastri, oppure a dovermi scontrare con delle creature chiamate Soul Reaper. Non conoscevo alla perfezione i loro poteri, perché morivano prima per mano della mia Falce. Sapevo soltanto che, per qualche arcano motivo, questi esseri squartavano le vittime nei modi più brutali per poi rubarne l’anima e svanire nell’ombra.
Non le divoravano come facevano i demoni, le tenevano unicamente con sé, forse per consegnarle poi ad una sorta di capo.
Battei il pugno destro contro il palmo sinistro. Non ero una persona che si arrendeva facilmente, per la prima volta un Soul Reaper mi era sfuggito -avendomi battuta in velocità- ma gli avrei dato prova che il fuoco -se istigato- può causare un incendio.
<< Scusi signorina>> chiese timidamente una bambina << vorrebbe comprare una rosa?>>
Mi fermai ad osservare i colori stupendi di quei fiori che variavano dal rosso cremisi fino al giallo più brillante. A catturare la mia attenzione però fu una rosa dai petali blu: era bellissima, perfetta e senza spine.
Cominciai a rovistare nelle tasche, accorgendomi soltanto in quell’istante che mi restavano soltanto pochi spiccioli, con i quali sarei riuscita a pagarmi a malapena un pranzo (e neanche dei migliori). Fu allora che quella bimba di sette anni mi guardò con uno sguardo dolce, con gli occhi azzurri colmi di lacrime e con la mano tesa per ricevere i soldi.

Demonio, pensai, porgendole le monete adatte per comprare quel fiore dannato.
Lei sorrise, poi corse da un altro ignaro passante stringendo a sé il bouquet, mentre io rigiravo fra le dita quell’unica rosa blu.
Non riuscivo dire di no a chi mi guardava in quel modo. Era una mia debolezza.

 
Camminai non so per quanto tempo. Londra era una città tanto sporca quanto grande, infatti mi persi una o due volte, finché non vidi la fatidica insegna su cui c’era scritto: UNDERTAKER.
In quel momento mi sembrò di essere giunta nella terra promessa, perché non ne potevo più dei cittadini londinesi che mi squadravano dall’alto in basso, come se fossi una demone, soltanto perché non indossavo la moda femminile di quel tempo (bensì una divisa maschile da Shinigami con tanto di cravatta). Ciò evidentemente aveva fatto scandalo soprattutto fra le donne.
Se fosse stato per me, sarei andata in missione direttamente con la mia camicia da notte nera rammendata con toppe a forma di conigli bianchi, ma secondo i miei superiori non mi donava un’aria molto seria.
Tuttavia in quell’uniforme stavo letteralmente evaporando, tanto che, per sopportare di più il caldo cittadino, fui costretta a slacciare la maglia bianca per i primi due bottoni e utilizzare i fogli su cui c’erano scritti i nomi della gente che dovevo mietere come ventaglio. Normalmente seguivo rigidamente le regole, ma la volontà era diventata quasi nulla a causa del sonno arretrato e dell’afa insopportabile.
Entrai, osservando il caos di quel luogo: era la casa dei ragni e l’impero dello sporco, più o meno come il mio appartamento. Anzi, forse la mia casa era ancora più disordinata a causa della moltitudine di animali che accudivo, tutti con un folto pelo, il quale d’estate cadeva come le foglie in autunno, trasformando il parquet in una moquette multicolore.
Non c’era ombra del proprietario, quindi decisi di aspettare qualche minuto prima di andarmene.
Squadrai il negozio, notando diverse bare di ottima fattura disposte come se fossero dei divanetti, una moltitudine di contenitori posati su diversi scaffali e mensole. Scorsi persino la ricostruzione uno scheletro con tanto di muscoli e organi.
Non c’era molta luce, però riuscii a muovermi agilmente per curiosare un po’. Raggiunsi addirittura un vaso nero contenente dei biscotti a forma di ossa.
Il mio stomaco appena li vide fece un rombo sordo. Era da un giorno che non mangiavo nulla e quei dolcetti mi parvero alquanto invitanti.
Dovetti usare tutto il mio buon senso per resistere alla tentazione e allontanarmi successivamente dalla biscottiera, fermandomi davanti ad una cassa da morto leggermente socchiusa posta verticalmente contro una parete. Mi parve di vedere un luccichio dorato al suo interno, ma la mia attenzione fu richiamata da un coperchio che, cadendo sul pavimento, causò un rumore sinistro, il quale mi fece sobbalzare. Dopotutto c’era il più assoluto silenzio e un suono così cupo era stato come un filmine a ciel sereno. 
Mi avvicinai per sistemare la bara, ma proprio quando sfiorai il coperchio in legno, una mano mi si appoggiò sulla spalla. Il mio viso passò dalle tonalità fredde del blu per la paura fino ai colori caldi come il rosso per il nervoso.
Non ci pensai due volte: afferrai il mal intenzionato per un braccio e lo scaraventai contro la parete; poi, prendendo i due pugnali che tenevo ben nascosti nella giacca, glieli puntai alla gola.
<< Che intenzioni hai?>> ringhiai.
<< Ehehehe... sei tu che sei entrata nel mio negozio>>
Ed infine diventai di una tinta bordeaux per la vergogna. Avevo agito con troppa superficialità, seguendo il mio impulso e rischiando così di ferire colui che mi avrebbe dato una mano.
Riposi i coltelli in una tasca interna della giacca, poi aiutai l’uomo ad alzarsi. La sua reazione però fu piuttosto bizzarra: invece di innervosirsi (il minimo), continuava a sghignazzare.
Alzai lo sguardo per vederlo in volto, notando che tra il mio viso e il suo c’erano sì e no tre centimetri. Il cuore ebbe un sussulto, per un attimo non mi ressero nemmeno le gambe, perché non ero abituata a trovarmi così vicino ad una persona estranea.
Indietreggiai di qualche passo, poi lo studiai: aveva i capelli grigiastri, lunghissimi e lisci, tranne per una sottile treccia, mentre gli occhi erano coperti da una folta frangia premuta da un bizzarro cappello nero con un’infinita coda, della medesima tonalità della tunica. L’uomo portava anche una fascia color cenere sulla spalla destra, la quale era annodata in vita e degli stivali neri che facevano appena capolino da sotto la bislunga veste.
La mia attenzione fu attirata da un’evidente cicatrice sul volto e da un’altra sulla gola, anche se quest’ultima era seminascosta dal colletto dell’indumento. Mi domandai come avesse fatto a procurarsele, ma i miei pensieri s’interruppero quando sentii quella voce sinistra.
<< Come ti chiami?>> mi domandò facendo un ampio –ed inquietante- sorriso.
<< Mi può chiamare Pandora. Senza fare troppi giri di parole, sono arrivata qui per chiederle un favore: so che il cadavere di un barone anziano è stato portato qui...>>
<< Quindi vorresti delle informazioni, dico bene? >> si avvicinò di nuovo a me ed io indietreggiai ancora un po’ per mantenere le distanze << Ihihihi... devi sapere che tutto ha un prezzo>>
<< Dovrei ancora avere un po’ di soldi>> dissi, frugando nella tasche per recuperare tutte le monete che possedevo.
<< Ma io non voglio i soldi della regina...>>
Smisi immediatamente di cercare. I miei occhi verdi-giallastri si fermarono su quella figura longilinea, tentando di capire il senso della frase. Come non voleva i soldi della regina? E con cosa altro potevo pagarlo?
Prima di fidarmi di una persona, doveva passare molto, molto tempo e non facevo eccezioni per nessuno, in particolar modo per quell’essere;  e prima di pensar bene, avevo la maledetta abitudine di pensare male e quella frase, lasciata in sospeso, di certo non mi aiutava a considerare una qualsiasi via positiva.
Lo afferrai per la tunica e lo tirai verso di me, guardandolo con odio. I miei occhi erano diventati improvvisamente di una tinta rossastra appena ebbi l’intuizione dell’altro modo per saldare il favore.
<< Se lo può scortare! Io non vado a letto con il primo che capita, perve...>>
<< Fammi beare di una risata e ti dirò ciò che vuoi>> concluse facendo il suo fatidico sorriso.
Una risata?
All’inizio pensavo anzi, speravo che mi stesse schernendo, perché non avevo molto senso dell’umorismo, ma alla fine capii che, se volevo le informazioni, dovevo fare un piccolo sforzo e accontentarlo.
Mi sedetti su una cassa da morto e cominciai a pensare a una battuta, una qualsiasi, ma erano tutte fin troppo deprimenti.
Non riuscivo più a ridere da quando mio padre mi aveva abbandonata. O perlomeno, sì, ridevo, ma non riuscivo mai a farlo con... sincerità e ciò intaccava la mia comicità.
Mia madre era morta poco dopo avermi partorito, quindi mi ero affezionata molto a lui. Si era sempre comportato con gentilezza nei miei confronti: mi aveva aiutato nei momenti più difficili, mi aveva insegnato ciò che conosceva e mi aveva raccontato diverse storie della buonanotte per farmi addormentare quando le ombre della notte non me lo permettevano. La mia preferita narrava di una bellissima principessa dai capelli candidi (mia madre), la quale, in un giorno di fine primavera, incontrò il suo principe, uno Shinigami.
Avevano vissuto parecchie avventure insieme, finché la morte non si portò via la nobile ragazza. Soltanto poi scoprii che di nobile quella donna non aveva niente e che, mettendomi al mondo, mi aveva dipinto un destino ricco di ostacoli, forse fin troppi.
Il primo di essi fu l’abbandono da parte di mio padre: durante la festa chiamata Natale (che da quell’anno in poi avevo iniziato ad odiare) lui svanì, lasciandomi nelle sgrinfie degli Shinigami, i quali, essendo una mezzosangue, non mi guardavano con grande rispetto.
Quando mi sentivo sola, rigiravo fra le dita una rosa blu realizzata con pietre preziose, regalatami per il mio quinto compleanno, sperando che con quel semplice gesto egli sarebbe tornato indietro.
Perché una rosa blu?

Il blu, bambina mia, è il colore che più ti dona, diceva ogni volta quando concludeva un racconto ed io ero quasi completamente assopita.
<< Perché quell’espressione triste?>> mi domandò il proprietario del negozio con una voce cantilenante.
Lo guardai negli occhi, poi balzai in piedi.
<< Nulla che ti possa interessare>> sospirai << comunque... ho trovato un modo per donarti una risata>>
I miei occhi brillarono di luce propria per un attimo, un luccichio talmente inquietante che per qualche secondo riuscii a togliere il sorriso persino al becchino, donandogli invece un’aria preoccupata.

 
Forse sarà passato un quarto d’ora, forse mezzora, non sapevo bene quanto di preciso perché non avevo portato con me l’orologio. Tuttavia sapevo di per certo che l’uomo era stato messo K.O. dalla sottoscritta.
Era afflosciato sulla bara, con un rivolo di bava su entrambi i lati della bocca e ogni tanto biascicava anche qualche parola scollegata l’una dall’altra.
D’altronde, a mali estremi, estremi rimedi.
<< Allora? Mi darete le informazioni che mi servono?>> domandai mentre mi sistemavo la giacca.
Lui improvvisamente si rianimò, restando qualche attimo a fissarmi con il suo solito sorriso, poi si avvicinò e mi sfiorò il volto con uno dei suoi lunghi artigli neri.
<< Aveva un espressione così sofferta in volto... dev’essere stato ucciso da un animale con degl’artigli molto lunghi, circa cinque o sei centimetri, perché è riuscito a penetrare nella carne, proprio qui>>
Senza che nemmeno me ne accorgessi, il becchino ora si trovava alle mie spalle e, poggiandomi le unghie all’altezza del cuore, continuò a parlare.
<< Non si può sapere se era stato ucciso da una creatura oppure da più?>> domandai, allontanandomi leggermente.
<< Mhm... non si può dire con certezza. Mi è capitato un altro cliente ridotto nelle stesse condizioni, si chiamava...>>
La porta d’entrata si spalancò, facendomi sobbalzare.
Mi girai per vedere chi era entrato, scorgendo la stessa bambina che qualche minuto prima mi aveva venduto la rosa blu. I suoi capelli castani, lunghi fino alle spalle, erano sporchi di sangue, come il volto dai lineamenti dolci e l’abito semplice, lungo fino alle ginocchia.
Correndole incontro, riuscii a prenderla in braccio prima che cadesse a terra.
<< Mamma...>> mormorò prima di perdere i sensi.
Chi poteva aver fatto questo ad una bambina? Doveva essere una persona spregevole. Oppure non era affatto una persona, perché mentre la porta si chiudeva vidi degl’occhi completamente rossi che mi osservavano.
Era stato come un invito a combattere ed io non mi sarei tirata indietro per nulla al mondo.

 

Fine primo capitolo!

  
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