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Autore: Jawn Dorian    04/10/2012    3 recensioni
"Shinpachi soffriva di leggeri mal di testa. Glie li facevano venire quei due totali sconsiderati dei suoi compagni di lavoro. Quella volta però il suo fastidio decise di andarsene da solo, senza bisogno dell’aspirina.
Lo sentì rimbombare ancora un po’ nella testa, gli fece venire un pizzicore al naso, e infine scese caldo e salato sulle sue guance e gli invase la faccia.
Ne aveva gli occhi colmi, e più fingeva che non ci fosse, più quello si ripresentava e scendeva copioso lungo gli zigomi fino al mento.
Di lì a poco prese a singhiozzare.
“No, Shinpachi, smettila” si disse da solo.
“Non va bene. Non va bene…”
Una sola frase gli rimbombava ancora in testa, e l’arrancò con le poche energie che le lacrime gli avevano lasciato:
“Io sono figlio di un samurai.”
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Premetto: credo di essere l'unica che vede nella storia di Shin un qualcosa di serio. E dato che non ho mai letto niente di serio su questo personaggio, ho pensato da brava idiota "Mondo boia, allora lo scrivo io!".
E' uscita fuori questa cosa dettata dall'amore per la serie e per il pg.
Siamo uguali, non ci posso fare niente.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gintoki Sakata, Shinpachi Shimura
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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And what do you think you'd understand?
I'm a boy, no, I'm a man
You can't take me and throw me away
And how can you learn what's never shown?
Yeah, you stand here on your own
They don't know me
Cause I'm not here

And you see the things they never see
All you wanted I could be
Now you know me and I'm not afraid
And I want to tell you who I am
Can you help me be a man?
They can't break me
As long as I know who I am

And I want a moment to be real
Wanna touch things I don't feel
Wanna hold on and feel I belong
And how can the world want me to change?
They're the ones that stay the same
They can't see me
But I'm still here
 
{Goo Goo Dolls – I’m Still Here

 
 
 
 
 

 

 Io sono figlio di un samurai. 

  
 
 
“Ah ah!”
Un boato di risate uguali, ripetitive, canzonanti.
Un branco di pecore, che ridevano tutte allo stesso modo.
Un coro di insulti, prese in giro, sempre quelle: “Quattr’occhi! Sfigato! Ti credi un samurai, non è così?! Sfigato, tu non sarai mai nessuno!”
Scavavano nel suo petto, raggiungevano il cuore e lo trafiggevano.  E non era una di quelle ferite da cui lo metteva in guardia suo padre, una ferita di guerra. Non usciva sangue, e benché sentisse dolore quella ferita non si vedeva, non poteva essere disinfettata o incerottata tanto facilmente. Glie l’avevano fatta le parole. Le ignorava quanto più poteva. Ma facevano male.
Era un dolore silenzioso, che non confidava a nessuno. Di quelli che torni a casa che è già buio, da solo. E cammini con foga, più veloce possibile, contando i passi, arrabbiandoti col terreno, anche se non è colpa sua. Ma non ti interessa, con qualcuno devi pur prendertela  per non esplodere a piangere da un momento all’altro. Perché fa male.
Più dei calci e dei pugni, che non era capace di schivare, parare. Non sapeva reagire, era debole. Questa era la verità.
Gli arrivava un pugno sullo stomaco.
“Sfigato!”
Ed ecco un calcio sul fianco.
“Femminuccia!”
Un altro sulla schiena.
 “Ti viene da piangere, eh, femminuccia?! Eh, sfigato?!”
Almeno per quella provocazione aveva sempre la risposta pronta: “No, non ho intenzione di piangere! Io sono figlio di un samurai!”
Forse era vero, sì, che era uno sfigato, un buono a nulla, un debole e una femminuccia.
Ma di sicuro non era un piagnucolone, no, questo mai. Perché i samurai non piangono.
Shinpachi Shimura, il figlio di un samurai.
Un giorno sarebbe stato il più abile di tutti, sarebbe stato un eroe, un vero guerriero, un samurai senza alcuna paura, un maestro della spada.
Sarebbe diventato forte.
 




 
 
“Tu non sarai mai nessuno!”






 
 
 
 
Shin si svegliò.
La fronte imperlata di sudore.
Scattò a sedere, ancora intorpidito dal sonno.
Un odore di salsa di soia, curry e latte alla fragola gli investì le narici. Un odore piuttosto strano, a cui però si era abituato. Lo fece sentire un po’ meglio.
Sapeva di trovarsi all’Agenzia tutto fare, ma oltre all’odore non riuscì a captare nient’altro. Aveva la vista offuscata. Forse quando si era addormentato gli erano caduti gli occhiali.
Toccandosi la faccia, però, avvertì il solito vetro che gli velava gli occhi.
“Oh…”
Shinpachi soffriva di leggeri mal di testa. Glie li facevano venire quei due totali sconsiderati dei suoi compagni di lavoro. Quella volta però il suo fastidio decise di andarsene da solo, senza bisogno dell’aspirina.
Lo sentì rimbombare ancora un po’ nella testa, gli fece venire un pizzicore al naso, e infine scese caldo e salato sulle sue guance e gli invase la faccia.
Ne aveva gli occhi colmi, e più fingeva che non ci fosse, più quello si ripresentava e scendeva copioso giù per gli zigomi fino al mento.
Di lì a poco prese a singhiozzare.
“No, Shinpachi, smettila” si disse da solo.
“Cavolo. Non va bene. Non va bene…”
Se lo ripetè più volte ma il pianto gli spezzava le parole in gola, gli toglieva il fiato.
Una sola frase gli rimbombava ancora in testa, e l’arrancò con le poche energie che le lacrime gli avevano lasciato:
“Io sono figlio di un samurai.”
Posò la testa sulle ginocchia e si dedicò nient’altro che alla pratica di un pianto disperato. Si disprezzava. Al diavolo lui, la sua inutilità, al diavolo tutto.

Dei passi felpati, leggeri, lenti, di chi sa quello che fa ma si prende i suoi tempi lo scossero da quei pensieri turbolenti.
Shin alzò il viso paonazzo  con occhi rossi e gonfi di lacrime e guardò completamente sbigottito l’uomo che lo stava fissando con una certa apatia.
“Gintoki…” riuscì a mormorare appena il ragazzino, stringendosi le ginocchia al petto.
Gin non disse una parola. Si stravaccò sul divano proprio accanto a lui e si mise a leggere il numero di Jump appena acquistato.
Shinpachi, dal canto suo, si morse il labbro, incapace di smettere di piangere dopo quella che pareva una reazione di puro menefreghismo.
“Piantala di frignare.”
Ebbe un tumulto.
“Che cosa ti ho insegnato? Un samurai dopo un solo pianto combatte contro il nemico o contro sé stesso senza una sola lacrima.”
“Ma Gin” protestò innervosito il quattr’occhi “Questa frase è la prima volta che la sento! Tu non mi hai insegnato proprio un bel niente da quando sono qui! ”
“Ah sì?” ribattè l’altro levandosi una caccola dal naso senza alcun ritegno “Allora comincio adesso.”
Shin lo guardò fra il furibondo e l’esterrefatto. Se solo ne avesse avuto la forza l’avrebbe riempito di ceffoni.
Si asciugò le lacrime con impeto e prese a sbraitare: “Ma insomma, che modi sono?! Vedi un tuo dipendente che piange e invece di consolarlo te ne esci con queste cose senza senso?! Sei assurdo, Gin!”
Vide l’argenteo sorridergli lievemente, guardandolo finalmente negli occhi.
“Bravissimo, vedi? Hai smesso di piangere. Sei proprio il figlio di un samurai.
Silenzio.
Shin non fece niente se non sbuffare rumorosamente, passandosi una mano sulla faccia e mormorando: “Scemo…”
Sotto quella mano, Gintoki fu veramente felice di scorgere un  sorriso, dei più sinceri e spontanei mai fatti dal suo allievo.







ANGOLO DI DICCHAN 

Tutti ignorano Shinpachi. Non è abbastanza figo, non ha una storia abbastanza triste e ha un ruolo che può sembrare inutile.
Ma che vi devo dire? Lo amo, e dedicargli questa cosa ci stava, cribbio.
Porca miseria, non dico che dovete recensirla per forza, ma se se anche voi apprezzate Shinpachi abbiate il buon cuore di venirmi a dire che non sono la sola...
Ah, poi, la canzone all'inizio è la colonna sonora del Pianeta del tesoro. La traduzione è...bhe, perfetta per questa storia. <3 Non ho altro da dire. SHIN IS THE WAY.
Alla prossima.
 
 
 
  
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