Questa
storia non è stata scritta da me, ma dalle sapienti mani di un’autrice a parer
mio bravissima, infinitefirefly,
che mi ha dato il permesso di tradurla in italiano.
Qualunque commento postiate, lo girerò all’autrice,che
sarà immensamente grata di ricevere qualsiasi elogio o critica.
I personaggi principali sono due, di cui
uno Zetsu, perciò la storia non poteva non piacermi a
prescindere. Ho messo un rating alto per via delle tematiche
abbastanza forti di morte e cannibalismo. So che è piuttosto lunga, ma spezzarla in
più capitoli ne avrebbe rovinato l'essenza
Spero vi piaccia e che mi facciate sapere cosa ne pensate.
Buona lettura!
Sundried Palaver
Una
tiepida brezza scompigliava l’erba asciugata dal sole, persuadendo i denti di
leoni tutt’intorno a rilasciare il loro polline e i sottili filamenti a
disperdersi nell’aria.
Un
aroma di terreno scavato da poco si mescolava con la fosca essenza di legno in
fiamme, circondando la piccola recinzione riparata dal sole dove stava il ninja
dell’Erba. Una grande quercia lo nascondeva agli occhi
degli uomini come a quelli degli animali, le sua grandi foglie proiettavano
ombre screziate sulla sua figura immobile.
Ondeggiando,
l’erba solleticava le sue nocche.
Ogni
respiro gli infondeva un vago senso di pace, di abbandono,
nato dalla naturale fragranza del legno in decomposizione tinto da un debole
profumo di iris e foglie di menta.
Laddove
chiazze luminose di luce solare si facevano strada
attraverso il fogliame e si riversavano sul suo viso, una specie di piacevole e
allo stesso tempo doloroso calore si diffondeva sulla sua pelle, come tangibili
baci soffiati dal sole.
Una
cicala friniva rumorosamente in lontananza e le foglie sopra di lui
ondeggiavano, cullate dalla brezza. Questo morbido agitarsi delle foglie
fruscianti somigliava ad un sospiro di sollievo emesso
dalla natura.
Il
limitato estendersi delle ombre delle sue ciglia tremolava sulle sue guance e le palpebre si alzarono lentamente appena il
bacio del sole scomparve dietro una nuvola candida. Un umido senso di frescura
discese su di lui e sulle sue labbra di disegnò un
accennato sorriso quando l’umidità della rugiada tardiva dell’alba incontrava
la punta delle sue dita, raccolta in minuscole pozze al centro della corolla
dei trifogli.
Era
lontano mille miglia dalla sede dell’Akatsuki e da
qualsiasi persona che lo conoscesse.
Il
nome del posto in cui si trovava gli sfuggiva, benché ogni settimana sapesse
ritrovarlo. Zetsu sapeva quali alberi oltrepassare e il corso di quali fiumi
seguire per arrivare in quel luogo, uno dei pochi posti che lo facevano sentire a suo
agio, naturale.
Non
c’era nulla di spettacolare nel punto dove aveva deciso di trascorrere le sue
domeniche.
Era
una piccola recinzione vicino al cortile di una famiglia piuttosto povera,
giusto appena dietro la giungla di erbacce incolte che
avevano inondato la proprietà.
C’era
un misero orticello vicino alla casa, che offriva pomodori acerbi e cetrioli
deformi, ora marciti sotto il sole, che regalavano il loro succoso interno alle
formiche affamate.
Dove
lui era seduto, comunque, la natura rimaneva
incontaminata.
L’erba
non era stata falciata o innaffiata, le foglie non erano state rastrellate e il
terreno non era stato disturbato. In tutto la sua disordinata
e incontrollata crescita, questa zona della madre terra era intatta e
accogliente come una casa.
Zetsu
non mangiava, di domenica.
Questa,
aveva deciso, era l’unica ragione per cui la bambina
che usciva a giocare in cortile ogni domenica era ancora viva.
Probabilmente
aveva quattro o cinque anni. Avrebbe anche potuto essere più grande, ma la sua
palese denutrizione non lasciava molto spazio alla
crescita. In quel preciso istante, mentre lui era seduto dietro la piccola
staccionata ad osservare lei si tuffava nell’erba
incolta, tirando calci a una palla quasi completamente sgonfia mentre teneva i
lembi del vestitino di cotone sporco con le piccole manine.
Non
sembrava molto divertente, ciò che stava facendo.
Ma
continuava nel suo gioco con una sorprendente intensità, i grandi occhi fissi
sulla palla e sui suoi prevedibili itinerari nell’erba folta.
Zetsu
notò che aveva i piedi scalzi. E chiuse gli occhi
ancora una volta, appena il sole riemerse da dietro le nubi.
Zetsu
era stato lì in totale sette volte e nonostante non
avesse mai tentato di nascondersi, la piccola non l’aveva ancora notato.
E
lui ne era sollevato, dato che prediligeva quel posto
per nient’altro che la pace che sapeva offrirgli.
Una
donna gridò da dentro la casa e l’istante successivo si udì il vagito di un
neonato. Si udì un frastuono di pentolame caduto.
La
cicala continuava a frinire e gli alberi sospiravano. La bambina calciò il suo
pallone con più forza.
Gli
occhi di Zetsu si aprirono improvvisamente quando
l’erba asciutta vicino al suo ginocchio destro si piegò con un debole crepitio,
disturbata dalla presenza di un intruso di gomma che luccicava opacamente alla
luce del sole, il colore sbiadito bagnato dall’acqua fangosa delle pozzanghere.
Lo
fissò, momentaneamente stordito dalla vista di qualcosa di sintetico ed
innaturale imporsi nel suo santuario, prima che un’ombra oscurasse nuovamente
il sole, immergendolo di nuovo nella frescura.
La
ragazzina non gridò, quando lui alzò la testa ed incontrò il suo sguardo, e per
un momento lui non disse assolutamente nulla, guardandola con lo stesso pacato silenzio che aveva adottato le settimane scorse.
Continuò ad aspettare che i lineamenti del suo viso si contorcessero in
un’espressione di orrore e disgusto, e che lei gridasse
per lo spavento.
Quando
ciò non accadde, arrivò alla conclusione che dovesse
essere muta.
Questa
constatazione fu immediatamente smentita.
-
Ciao.- Gli disse.
La
donna all’interno del casolare gridò ancora, e la bambina per un istante si
voltò verso la casa. E di nuovo stava fissando lui, lo
sguardo immobile e indagatore.
Quando
realizzò che la ragazzina non avrebbe urlato, Zetsu
inclinò leggermente la testa.
-
Ciao.- rispose.
Il
suo vestitino di cotone era normalissimo, con una stampa blu sbiadita sul
davanti. Era alta poco più di (tre piedi) e i suoi capelli biondi erano legati
in due trecce sottili e brillanti adagiate sulle sue
fragili spalle ed incorniciavano un viso a cuore scavato dalla denutrizione.
Il
suo labbro inferiore era gonfio e leggermente insanguinato.
E
i suoi occhi erano grandi, così grandi che minacciavano
di prendersi l’intero viso, innocente e timido come quello di un cerbiatto.
La
bimba parlò di nuovo.
- Perché ti nascondi nella giungla?-
Zetsu
la considerò in silenzio, in qualche modo divertito dal suo tono solenne e
dalla sua totale mancanza di timore. Non trovando
nessun motivo per non risponderle, si rivolse a lei con parole sussurrate
morbidamente.
-È
piacevole qui.-
Come
se dubitasse della sua risposta, lei si sollevò in punta di piedi ad alzò la testa fino a riuscire a dare un’ampia occhiata alla
quercia che torreggiava sopra di lui, e poi si guardò intorno per vedere cosa
potesse essere minimamente “piacevole” in quel posticino così piccolo.
-
Là ci sono insetti, signore.- disse lei aggrottando le sopracciglia.- Formiche
e scarabei.-
-
Non mi danno alcun fastidio.-
-
Sei un clown, signore?-
-
No.-
-
Sembri un clown.- disse annuendo col capo, gli occhi che viaggiavano sulle due
metà diversamente colorate del viso dell’altro.- E i tuoi capelli sono verdi. E…-
Si
fermò, tracciando
il contorno delle appendici simili a una pianta carnivora ai lati della testa
di Zetsu.
Lui
rimase in silenzio.
La
sua metà bianca, distaccata e contemplativa, continuava a darle retta, mentre la
metà nera ribolliva di rabbia per la violazione del suo santuario da parte di
questa piccola ranocchietta.
-
Vuoi…- la piccola si fermò, sembrando in qualche modo esitante
quando lui alzò gli occhi per guardarla.- Vuoi prendere il tè insieme a
me?-
Zetsu sbattè le ciglia in un moto di stupore, sorpreso
dalla proposta.
Dubitare
della sua sanità mentale sembrava essere l’unica cosa logica da fare. Questa
bambina aveva appena trovato una cosa estremamente
bizzarra che assomigliava vagamente ad un uomo-pianta (era molto severo quando
parlava di sé stesso) seduta nei cespugli vicino al suo cortile e lei voleva
prendere il tè con lui.
Invece
di rispondere alla sua domanda, replicò con un’altra domanda,
e stavolta fu la sua metà nera a parlare.
“Perché non ti
sei mai accorta prima della mia presenza?”
La
bambina lo guardò dritto negli occhi e si accorse che era strabica; dopodichè
si strofinò l’occhio in questione e lui notò una sottilissima pellicola bianca
sulle sue iridi traslucide che ricordavano la cataratta.
-
Non ci vedo molto bene.- gli rispose, scusandosi.- Aspetta,
torno subito.-
Zetsu
la guardò correre via verso la casa, e le grida smorzate della madre irruppero
nell’aria con una dura chiarezza quando la porta si
aprì, soffocando il frinire della cicala.
La
bimba tornò da lui un istante più tardi, con due tazze di carta e una brocca
d’acqua.
Si
avvicinò a lui quasi timidamente e sistemò la brocca prima di sedersi nell’erba
di fronte a lui. A quel punto gli porse una tazzina. Zetsu la prese, non
sapendo cosa fare, non sapendo se andarsene o restare,
dato che la sua routine era stata interrotta.
La
bimba si alzò per versargli il “tè”, stringendo la brocca con le mani sottili,
apparentemente con ogni singola briciola della forza che possedeva.
Una
volta che la sua tazza fu colma, si sedette e ne versò un po’ nella propria.
Zetsu guardò nella sua tazza. Era piena di acqua di
fiume.
Con
riverenza, lei alzò la tazzina e sorseggiò elegantemente un po’ d’acqua,
pigiando sul labbro gonfio e sobbalzando quando il flusso d’acqua accarezzò la
carne insanguinata. Il bambino nella casa strillò di nuovo, il suono dei suoi
potenti ed irritanti vagiti arrivava fino a dove loro
erano seduti.
-
Chi è?- chiese Zetsu, guardandola cogliere dei fili d’erba.
-
Il mio fratellino.- mormorò.- La mamma non gli darà il latte.-
Zetsu
non replicò, si limitò a strizzare debolmente gli occhi
quando una soffice brezza gli accarezzò il volto. La risposta
di lei non l’aveva affatto sorpreso, considerando che si trovava nella
zona più povera del paese dell’Acqua.
Ma la sua
solennità, aveva notato con vago interesse, era peculiare, anche per
un’amareggiata bambina fin troppo consapevole della sua povertà.
Forse
era stato il modo in cui le nuvole rosse sul suo mantello brillavano come seta
sotto l’effetto della luce ciò che l’aveva trattenuta dal chiedergli come mai
non aveva nemmeno toccato il suo tè. Forse pensava che qualcuno come lui, per
quanto somigliasse così tanto a un clown, avesse
potuto sentirsi offeso da quella ridicola domanda.
Qualunque
cosa fosse, la trattenne dallo spingerlo a bere la
sporca acqua del fiume.
Era
un momento strano, pacifico e quasi clandestino, sotto l’ombra del fogliame.
Dopo alcuni minuti di silenzio, Zetsu constatò che la presenza
di lei non contaminava la ricchezza della brezza estiva, e nemmeno
oscurava i suoi sensi nei confronti della natura. Lei sembrava anzi apprezzarla
tanto quanto lui.
In
qualche modo compiaciuto dal suo essere una creatura isolata, in quanto gli
ricordava molto sé stesso, Zetsu riprese il discorso.
-
È stata tua madre a farti questo?-
La
bimba lo guardò, si toccò il labbro con la punta del minuscolo indice mentre lui fissava il sangue raggrumato.
-
La mia mamma mi picchia, a volte.- ammise, senza la minima traccia di rancore.
La
sua metà nera sorrise torva, e fece come per rispondere aspramente.
-
Sei triste, per questo?- chiese invece la parte bianca.
Lei
esitò, come se stesse seriamente contemplando la domanda, e quando rispose,
scosse la testa ed usò un tono deciso.
-
No.- silenzio.- Alla mamma non piace quando piango. Mi
picchia di più.-
Zetsu
la guardò in silenzio, prima di chiudere gli occhi per
un istante, riaprendoli di nuovo per guardare da qualche parte in lontananza.
- Quando
sei triste e solo…- iniziò con la sua metà bianca, fermandosi in modo che
quella nera potesse concludere.“…tutto ciò su cui puoi fare affidamento è te stesso.”
La
bambina non disse nulla, esattamente come lui si aspettava.
Non
si aspettava nemmeno che capisse davvero cosa le stesse dicendo, tenendo conto
di quanto fosse piccola, ma quella era l’unica verità di cui si era reso conto
di non poter imputare
la colpa a nessuno nella vita.
L’umanità
l’aveva disprezzato nonostante lui ne facesse parte, perché tutti erano
intimoriti dal suo aspetto e da ciò che era in grado di fare.
La
sua metà bianca l’aveva accettato; quella nera ne era
ancora amareggiata.
Contento
del silenzio di lei, lui proseguì nel suo.
Alcuni
minuti più tardi, quando lei finalmente parlò, la sua voce era abbastanza
leggera da perdersi tra lo stormire delle foglie.
-
Sei triste, signore?-
L’accecante
luce solare fece brillare i suoi occhi gialli, e sbattendo le
palpebre per difendersi dall’attacco dei raggi, abbassò lo sguardo sulla
testolina chinata di lei. Non si azzardava a sollevare lo sguardo e continuava
a strappare i fili d’erba, intrecciando le strisce strappate in piccoli nodi.
Le sue unghie erano sporche di terra.
Zetsu
inspirò, annusando nuovamente l’aroma di deperimento naturale mischiato
all’odore di legno bruciato.
Pensò
a dov’era, a come si sentiva, e a chi lo aspettava al quartier
generale.
Il
pensiero di Tobi che lo accoglieva con un fin troppo
esuberante “Zetsu-san!!!”
formò un debole sorriso sul suo volto, e la sua metà nera rimase tranquilla,
immersa nella profonda pace che aveva trovato nella natura circostante.
-
Sono contento.- mormorò infine.
Dubitava
che lei avesse anche solo lontanamente capito cosa
intendesse dire, ma il tono con cui si era lasciato sfuggire quelle parole era
più che sufficiente. Lei alzò con decisione i suoi occhi e lo fissò con le
labbra leggermente dischiuse, quello inferiore leggermente penzolante sotto il
peso del sangue raggrumato.
Con
tutta probabilità, lei era la creatura più tiste che avesse mai visto.
-
Tornerai?- gli chiese.
-
No.- rispose lui pacatamente, senza esitare. E poi:-
Tu invece lo vorresti?-
Lei
sorrise, e lui notò che le mancava un dente.
-
Mi piaci, signore.- ammise, ed immediatamente abbassò lo sguardo come
vergognandosi del suo disperato bisogno di una parola gentile e di uno sguardo
rassicurante.
Zetsu
non ne sapeva molto, riguardo la gentilezza. Ma lui
era un epitomo di tolleranza, ostentando costantemente
l’unica qualità che non era riuscito a trovare nella gente che aveva incontrato
nel corso cella sua vita. Lui tollerava chiunque, camminando, gli venisse
incontro nella vita, e non vedeva perché non dovesse tollerare questa piccola ranocchietta
quando apparentemente nessun altro ne aveva intenzione.
-
Potrei…- disse lei improvvisamente, interrompendo il flusso dei suoi pensieri
con la sua vocina esitante.- Potrei raccontarti una storia che mi ha detto una
volta il mio papà…la prossima volta che vieni qui.-
Questo
era forse il suo modo di offrirgli un incentivo che lo sollecitasse
a tornare? Zetsu non vide nessun motivo per non accontentarla, considerando che
sarebbe comunque tornato da quelle parti, la domenica
successiva.
-
D’accordo.- disse infine, ed osservò con distaccato divertimento come il
piccolo viso di lei si sollevò improvvisamente come se fosse stato illuminato e
le striscioline d’erba cadevano, ormai dimenticate, al suolo.
*************************
La
tristezza era sintomo di necessità, un segnale per familiari e amici, una
debole luce che segnalava un bisogno d’aiuto.
Questi
segnali erano costituiti da lacrime e suoni di dolore, campanelli d’allarme dal
tono malinconico. Che queste chiamate d’aiuto, questi
segnali di SOS trovassero risposta o meno, dipendeva dagli altri.
Accettazione,
conforto, amore: tutte queste cose venivano dispensate
dagli altri.
Senza
di loro, nessun aiuto arrivava in risposta alla
chiamata, e nessun conforto a sedare la tristezza.
Le
lacrime, gli occhi socchiusi nel buio: tutto sarebbe sparito da sè.
E
i campanelli di allarme, rimasti inascoltati, si
sarebbero infine acquietati. E tu e la tua tristezza sareste
stati abbandonati a galleggiare in nessuna direzione, ingoiati dalla nebbia ed
infine consumati da acque putride.
Non
bisognava dipendere dagli altri, perché a volte gli altri potevano rifiutarsi
di arrivare.
Zetsu
non riusciva a ricordare l’ultima volta che avesse pianto.
Dopo l’abbandono e l’indifferenza, aveva risposto da solo alle sue chiamate e
si era asciugato le sue lacrime, e da allora era sempre stato così.
Lui
era il suo unico amico, la sua unica famiglia.
Non
aveva nessun altro appiglio.
***********************************************
La
domenica seguente portava con sé lo stesso tempo mite e soleggiato di quella
precedente, con un tiepido venticello ed una luce del sole così intensa da far
quasi male.
Zetsu emerse silenziosamente dal terreno, scoprendo
che la sua nicchia era rimasta come l’aveva lasciata, trovando anche la stessa
palla semisgonfia spezzare gli stessi fili d’erba asciutta. Si sedette al suo solito posto e si prese il tempo
di assorbire tutto ciò che lo circondava.
L’odore
delle foglie, della linfa e degli iris, miscelato con l’aroma del pasto
cucinato dalla madre e nessun rumore proveniva dalla piccola casa, salvo il
debole suono metallico di pentole e padelle.
Zetsu
rimase seduto ad assorbire gli odori, i suoni e i sentimenti della natura per
circa mezz’ora, lasciandosi cullare dalla miscela di sensazioni in uno stato di
dormiveglia.
Quando
arrivò la ragazzina, la sentì esitare nei pressi dell’erba asciutta, la percepì
insicura alla vista dei suoi occhi chiusi. Quando li aprì, lentamente,
lasciando che si abituassero gradualmente alla brillante luce del sole, la trovò che lo stava fissando con una traccia di
preoccupazione sul suo visino.
-
Stavi dormendo, signore?-
Indossava
lo stesso vestitino dell’altra volta. Il suo labbro inferiore era tornato più o meno alle dimensioni normali.
-
Stavo pensando.- rispose lui.
Lei
annuì comprensiva, insolitamente seria non appena posò a terra la sua brocca
d’acqua e le tazze di carta, spingendone una verso di lui.
-
A volte penso anch’io.-
Zetsu
sorrise debolmente, divertito dalla sua precocità.
-
Che cos’avrà mai da pensare una piccola ragazzina come te?-
Lei
piegò leggermente la testa su di un lato, osservando pensierosamente le foglie
della grande quercia.
-
Penso alle faccende domestiche…a che ora devo fare le cose…penso al cibo.-
rispose, contando sulle dita.- Penso a cosa voglio fare
quando diventerò grande.-
Zetsu
non disse nulla, lasciando che il suo silenzio la spronasse a continuare.
- Quando sarò grande voglio essere una maestra.- dichiarò,
prima di arrossire ed abbassare la testa.
La
metà nera di Zetsu ghignò impercettibilmente.
- La paga è bassa.-
-
I soldi, dici?- chiese, sembrando stupita.- Ma i
maestri vivono in case tanto grandi!-
Beh,
pensò Zetsu guardando la rovinosa baracca dietro di lei, qualunque casa
potrebbe essere considerata grande, comparata a quel rudere.
- Dove vivi, signore?-
-
Molto lontano.- replicò brevemente.
- In
una tenda?-
-…No.-
-
Mi piacerebbe vivere in una tenda.- mormorò.
Zetsu
non aveva nessuna voglia di provare a capire cosa si nascondesse di razionale
nel desiderio di una bambina di vivere in una casa
fatta di tessuto, così rimase in silenzio.
-
Hai amici, signore?-
Zetsu
pensò immediatamente a Tobi.
-
Sì.-
-
Hai…- si fermò, come se stesse cercando le parole adatte.- Hai un lavoro?-
-
Sì.-
-
Il mio papà è un contadino. Sei un contadino?-
-
No.-
-
Ti diverti insieme ai tuoi amici, signore?-
-
Divertirmi?- le fece eco Zetsu, inespressivo.
-
Sì. Non avete giochi da grandi?- domandò curiosa.- Non mi sembra che i grandi
si divertano molto.-
- Il divertimento è per i bambini.-
Lei
sembrò quasi delusa dalla risposta, e diresse lo sguardo sui suoi piedini nudi.
-
Allora non voglio diventare grande.-
Zetsu
non poteva che essere divertito.
-
Pensavo volessi diventare una maestra.-
Lei
mise il broncio, e finalmente in quel modo sembrava dimostrare l’età che aveva.
In qualche modo, era una scoperta rassicurante.
-
Non voglio diventarlo, se non è divertente.-
Seguì
un breve momento di silenzio, rotto solamente dall’acuto strillo del neonato e
dalle conseguenti grida della madre. Zetsu notò
l’ombra che per qualche istante offuscò il viso della bambina, ed era quasi con
amarezza che abbassò i suoi occhi a guardare l’erba.
-
Mamma non si diverte.- mormorò dopo un minuto.- Per questo si
arrabbia. Si diverte soltanto quando mi
picchia.-
Il
labbro insanguinato apparve nella mente di Zetsu, il colore maturo e brillante
come l’interno di una prugna, e la consistenza tenera come quest’ultima.
-
Guarda.- disse
quasi compiacente, indicando il suo polpaccio destro.- Questo è il livido delle
botte che ho preso ieri.-
Un
lungo livido nero tracciava il contorno della sua gamba ossuta, insieme ad una crosta e una ferita. Mosse la gamba e guardò l’altra
finché non trovò una scottatura sulla coscia. Le sue gambe erano magre quasi quanto i suoi polsi.
-
Questa è grossa!- esclamò, quasi orgogliosa di aver affrontato l’ira della
madre e di esservi in qualche modo sopravvissuta.
Zetsu
si sentì quasi obbligato a mostrarle la cicatrice che si era guadagnato una volta quando era stato impalato su una lancia ma rinunciò, lasciandola
mostrargli le varie prove della sua guerra. Per ogni cicatrice che gli esibiva,
c’era una piccola storia che vi si accompagnava.
Dentro
quella testolina c’era una grande immaginazione: gli raccontava le sue
storielle farcendole di dettagli fantasiosi come lucertole giganti, gatti
volanti e simili.
Finalmente,
la bimba arrivò alla storia che aveva intenzione di raccontargli dall’ultima
volta che lui le aveva fatto visita, e per dieci
minuti lui rimase seduto ad ascoltarla parlare in un tono di voce appena
sussurrato dello stregone che esorcizzava i demoni nel suo villaggio.
Il
suo distaccato senso di divertimento cambiò bruscamente una volta che, esaurito
il suo repertorio di favole, la bambina dichiarò improvvisamente, con una
sicurezza disarmante:
-
Mamma dice che morirò.-
Zetsu
si limitò a fissarla, in qualche modo consapevole che non stava fingendo o
raccontando altre storie, consapevole che, confidandogli questo suo grande segreto, l’aveva accettato come amico.
Quando
lui non disse nulla, lei proseguì.
-
Mamma dice che sono malata e che mangio tutto il loro
cibo. Dice che morirò…- si fermò, guardando
l’orizzonte con uno sguardo pensieroso.
-
Penso che mamma voglia uccidermi, quando mi picchia.-
Prima
di quell’istante, Zetsu non aveva preso in considerazione la possibilità che
parole così profonde potessero uscire dalle labbra di
una semplice bambina. Ma il modo solenne in cui le
aveva pronunciate lo fece ricredere.
-
Ho paura.- mormorò, guardando nuovamente i suoi piedi.- Ho paura
quando mamma mi colpisce. Ho paura di morire.-
- Perché non scappi via?- domandò Zetsu fissandola,
improvvisamente affascinato.
- Puoi contare solo su te stessa.-
Lei
scosse la testa, la vocina ridotta a un mormorio quasi
impercettibile.
-
Non ho nessuno che si prenderebbe cura di me.-
- Non
aspettare che qualcuno risponda alle tue chiamate o che asciughi le tue lacrime. Ci
annegherai dentro.-
-
Tuo padre.- disse Zetsu dopo un momento, guardandola intensamente.- È gentile
con te?-
Il modo in cui lei lo guardò, facendosi indietro
improvvisamente e quasi vergognandosi, stringendo convulsamente i bordi del suo
vestitino di cotone ed evitando di rispondere, convinse Zetsu a lasciar cadere
l’argomento. La paura sul suo viso
era quasi tangibile.
-
Papà mi vuole bene.- disse dolcemente, dopo qualche istante.-
Lo dice sempre.-
Zetsu
interruppe lì la conversazione.
Lei
non lo invitò a tornare. Non direttamente, almeno. La speranza nei suoi occhi
grandi parlava per lei.
*******************
Zetsu
aveva capito che c’era una certa giustizia poetica, nel cibarsi delle sue
vittime.
La
gente prendeva il necessario dalla terra, saccheggiava le sue risorse ed
inquinava le sue acque. Costantemente abbatteva i suoi
alberi e ne uccideva gli abitanti.
Il
loro passatempo giornaliero era un continuo stupro della madre terra.
Quando
sentì il primo pezzo di carne ancora calda scivolare giù per la sua gola,
sorrise con la consapevolezza che coloro che rubavano
alla terra tornavano da lei, alla fine.
Tornavano
nella polvere, dalla loro madre, nel terreno dal quale erano germogliati. Si
sarebbero decomposti come piante e animali, i loro corpi avrebbero arricchito
il suolo, restituendogli tutto ciò che avevano rubato.
E il sole
avrebbe illuminato i loro cadaveri, lasciando baci caldi come quelli di un padre
sulle ferite aperte, attirando le mosche e sviluppando i batteri, accelerando
il collasso di carne ed ossa.
Sono una di queste
creature, pensò Zetsu serenamente,
sbattendo le palpebre pigramente nella luce del sole, mentre il sangue scorreva
sul suo mento. Sono una di quelle creature che beneficiano del
vostro cedimento. Io cresco grazie alla vostra rovina. C’è nuova vista nel
vostro collasso.
Gettò
uno sguardo al cadavere ai suoi piedi, il suo sorriso
sereno si allargò appena le mosche iniziarono ad accumularsi intorno.
Collasso e rinascita.
********************************************************
Lei
non avrebbe restituito molto alla terra quando sarebbe
morta, questo era sicuro. Non aveva preso quasi nulla fin dal principio.
Osservò
i suoi arti ossuti e le guance scavate mentre lei gli versata
acqua di fiume dalla brocca, osservando il modo in cui le manine
tremavano nello sforzo di tenere sollevato l’oggetto.
Lui
iniziò a sorseggiare il “tè”.
Lei
sembrava incapace di alzare di nuovo la brocca.
Gli
raccontò altre storie. Per la maggior parte del tempo, lui rimaneva seduto ad
ascoltare, divertito dalla sua serietà e contento della soddisfazione sul viso
della piccola dopo avergli narrato le sue avventure.
Non
aveva mai menzionato lo strano aspetto di lui, sembrava convinta che nulla
potesse essere paragonato alla pura depravazione dei suoi racconti.
Nuove
ferite apparivano ad ogni visita, un accessorio che lo distraeva dallo stesso
vestito che lei indossava ogni volta.
-
Mamma mi ha picchiata ieri.- gli confidò, indicando
una guancia.- Ha fatto cadere un dente che traballava. È stato divertente, dopo
che ho smesso di piangere.-
Aprì
la sua bocca e si chinò in avanti per dargli prova di
ciò che aveva appena raccontato, mostrandogli orgogliosa lo spazio vuoto tra
gli incisivi. Le sue tonsille erano di un rosa acceso, le uniche parti in
salute nell’insieme del suo viso devastato. La rimozione del dente da latte
aveva lasciato una brillante chiazza rossa tra i denti, che emanava
un leggero odore di rame.
Zetsu
inspirò.
La
bambina odorava di ammoniaca e borotalco.
-
Posso vedere i tuoi denti?- gli chiese.
Zetsu
la guardò con cautela per un attimo, prima di spalancare la sua bocca,
lasciandola scrutare i canini affilati che dominavano la parte superiore d inferiore
delle sue mascelle.
- Hai così tanti denti aguzzi.- disse lei, sembrando ammirata.- Io ne
ho solo quattro!-
La
sua metà nera trovò tutto questo molto divertente, ed allungò le sue labbra in
un ghigno ferino, mostrando tutti i canini.
- Mangio molta carne.-
I
suoi occhi si allargarono leggermene a quelle parole, le labbra si schiusero al
suono della parole “carne.”
- È deliziosa.-
-
Mi piace la carne.- affermò lei, con un tocco di malinconia.-
L’ho mangiata solo una volta.-
- Non sai cosa ti perdi.-
-Lo
so.-
**************************************
Zetsu
tollerava molte cose. Tollerava
ignoranza, pregiudizi, e stronzate pretenziose.
Tollerava i compagni di squadra disobbedienti e il casino che facevano. Tollerava le
urla che sentiva quotidianamente alla base.
Ma non
tollerava lo spreco del cibo.
Lo
trattava con riverenza, senza mai mancare di apprezzare la consistenza come di
seta delle carni una volta private del pelo ruvido e della pelle dura.
C’era
una donna ai suoi piedi, gli occhi chiusi e la bocca aperta. Sembrava
addormentata nel suo kimono, coi suoi capelli sciolti
e disordinati sul pavimento intriso di sangue.
Con
gentilezza, afferrò il manico del coltello che usciva dal suo fianco e premette
una mano contro le sue costole per tirarlo fuori, facendo
attenzione a non mutilare ulteriormente il corpo.
I
banditi che l’avevano uccisa erano scappati da tempo, lasciandola morta sul
pavimento della sua camera da letto.
Il
familiare odore di rame aveva catturato la sua attenzione
mentre era di passaggio, e l’aveva seguito fino a trovarla.
Non
conosceva la donna. Nemmeno conosceva il motivo di
quel brutale attacco.
Tutto
ciò che sapeva era che non voleva che andasse sprecata.
Appoggiando
il coltello insanguinato sul pavimento accanto a lei, estrasse il suo kunai e
si piegò in avanti, infilando la punta affilata sotto la stoffa del kimono,
strattonando verso il basso. Il tessuto si tagliò come carta, e prima che la
carne ancora calda sotto di esso fosse esposta,
allungò il braccio verso la lampada sul comodino.
Un
debole click spense la debole luce gialla nella stanza, lasciandole nella
completa oscurità e nascondendo la nudità della donna quando l’abito venne rimosso e la carne scoperta.
Consumarla
come pasto era parte del ciclo della natura.
Ma
guardarla nuda sarebbe stata una violazione della sua ultima dignità.
Zetsu
poteva anche essere un divoratore di carogne.
Ma
era comunque un gentiluomo.
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-
Posso mostrarti alla mamma?-
-
No.-
Non
gli chiese altro, e abbassò lo sguardo a terra. Il tempo si era
fatto più caldo ad ogni sua visita, e gocce di sudore imperlavano la
fronte pallida della bambina. Zetsu assorbì la luce del sole sul suo viso e si
sentì rinascere, il morbido calore disegnava macchie arancio sulle sue palpebre
chiuse.
Lunghi
e duraturi silenzi costituivano gran parte delle loro conversazioni, e i loro piccoli discorsi consistevano in domande poste da lei e
brevi risposte di lui.
-
Come ti chiami?-
- Perché vuoi sapere il mio nome?-
Lei
non disse nulla per un po’, e quando finalmente parò sembrava quasi intimidita.
-
Non lo dirò a nessuno.-
Zetsu
non disse nulla.
-
Come ti chiamano i tuoi amici?-
Zetsu
mantenne il suo silenzio.
-
Sono tua amica?-
Le
sue palpebre si sollevarono leggermente, le ciglia gettavano
piccole ombre sottili come zampe di ragno sulle sue guance. L’angolo del suo
labbro ebbe un sussulto, e la sua metà nera parlò un secondo dopo.
- Non ho bisogno di amici.-
-
Non ti senti solo?-
- Ho me stesso…e questo è ciò che conta.-
-
Non ti piacciono le persone?-
-
Io non piaccio alle persone.-
-…….a
me piaci.-
Zetsu
aprì gli occhi.
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L’egoismo
era ciò che governava il bisogno umano di amicizia.
Le
persone avevano bisogno di gente come loro. Avevano bisogno di un viso
familiare che le confortasse nel dolore, che le
facesse i complimenti in caso di successo, che fosse d’accordo con loro nei
dibattiti. L’amicizia era soltanto un abbellimento per la sicurezza di sé stessi attraverso un’altra entità.
Era
una forma di dare e avere --- io accarezzo la tua
schiena e tu accarezzi la mia.
Questa
era la sua opinione, certo. Non si sentiva obbligato ad assicurare sé stesso di alcunché tramite un amico che fosse d’accordo
con lui. Lui era d’accordo con sé stesso, ed era ciò
che contava.
Tobi era
diventato suo amico perché Tobi ne aveva
bisogno. Aveva bisogno di incoraggiamento e di lode e
aveva bisogno di compagnia per non impazzire.
Zetsu
era un amico particolare, perché non aveva mai chiesto in cambio nessuna di
queste cose.
Trovava
conforto in sé stesso, trovava amore nel bui con le
sue due metà che si scambiavano suppliche per essere toccate e per parlare. La
sola sensazione delle sue dita che si toccavano le palpebre o la bocca era confortevole,
e il suono della sua voce era cullante e curativo.
Segreti
e ammissioni di colpa erano facili da confessare a sé
stesso, facili da condividere perché sarebbero stati tenuti in stretta
confidenza.
-
Ho ucciso un uomo oggi.- sussurrò.
- Ti ha attaccato lui per primo.-
-
Mi sono distratto dalla mia missione.-
- Nessuno è perfetto.-
-
Ho dubitato di me stesso. Me ne vergogno.-
- Ti amo lo stesso.-
Sollevò le sue mani, seppellì gentilmente il suo viso nei suoi palmi e sorrise,
colmo di gratitudine, contro la carne morbida delle sue dita.
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Zetsu
era rimasto sorpreso quando lei gli aveva rivelato che
aveva quasi otto anni.
-
Domani è il mio compleanno.-
Sbatté pigramente le ciglia alla luce del sole estivo,
gli occhi d’ambra brillavano nella
chiara luce splendente.
-
Papà mi da un dolce al mio compleanno.- aggiunse, e il suo sorriso si allargò
leggermente.- Tornerà domani dal villaggio dell’Erba.-
Il
più tenue tremolio di riconoscimento illuminò i suoi occhi
nell’udire il nome del suo villaggio, la sua mente evocò vividi ricordi
di vaste pianure verdi e di freschi e fragranti terreni.
-
Puoi dirmi “buon compleanno”?-
Lui
si girò ad incrociare lo sguardo della bambina, per nulla sorpreso dalla
solennità nei suoi occhi traslucidi.
- Perché vuoi che lo faccia?-
Lei
scrollò le spalle, ma i suoi occhi non sembrarono meno imploranti di prima.
Egoismo.
Bisogno. Disperata rassicurazione. La condizione umana.
-
È perché sei come tutti gli altri, se stai morendo di fame.- disse dolcemente.
Sembrava
che non l’avesse nemmeno sentito, le orecchie imploranti aperte per le due
parole che bramava udire, e per nient’altro.
Zetsu
si addolcì, pietoso nei confronti di questa triste creatura che, come tutti gli
altri, era incapace di garantirsi da sola amore e
rassicurazione.
-
Buon compleanno.-
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Era
incredibilmente raro trovare una persona così patetica e privata di amore e qualsiasi tipo di affetto da ricorrere a qualcuno
come lui per un po’ di conforto.
Quando
le cose che costituivano la felicità e la realizzazione venivano
a mancare, tutti i pregiudizi, le pretese e i metri di giudizio superficiali
sparivano. Rivolgersi a lui, e guardare oltre il suo aspetto, il suo comportamento e il suo stato di doppia personalità, era
la palese dimostrazione del bisogno di base dell’umanità.
L’amore,
realizzò Zetsu, e il desiderio egoistico dell’umanità di averlo, gli aveva conferito un senso di normalità.
Lui
era normale agli occhi di coloro che ne erano privati.
Forse ai loro occhi era anche bello.
E
nonostante fosse egoista da parte della gente avere bisogno di lui per
soddisfare i loro desideri fondamentali, non poteva evitare di sentirsi compiaciuto.
Era
contento di amare se stesso, ma l’idea che qualcuno
avesse bisogno di lui alimentava un’euforia che aveva sperimentato solo una
volta, da qualche altra parte.
Ormai
non andava più in quel luogo solo per il santuario di pace che gli offriva, ci andava
per crogiolarsi nell’euforia che arrivava con la consapevolezza che qualcuno
aveva bisogno di lui, che qualcuno lo voleva
lì.
Stava
diventando come loro? Stava contando su un’altra persona per dargli una piena realizzazione?
-
È soltanto temporaneo.- disse a sé stesso in un
sussurro.- E comunque lei morirà presto.-
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Il
cielo era nuvoloso quando si incontrarono la volta
successiva, e una piacevole frescura era scesa sull’erba bruciata dal sole, trattenendo
l’evaporazione della rugiada della notte precedente.
La
bambina faceva correre le sue mani sull’oceano di quadrifogli che aveva
intorno, scrutando l’umidità dei suoi palmi luccicanti.
Zetsu
guardò l’orizzonte, attraverso occhi semichiusi osservò
attentamente la coperta di nuvole che nascondeva il sole. Si sentiva
intorpidito dal sonno.
-
Qual è il tuo colore preferito, signore?-
Lui
pensò alla risposta, gli occhi vagavano sulla miriade di colori che li circondava.
- Non
saprei.- rispose sinceramente, dopo un po’.
Lei
lo guardò in silenzio per un istante, prima che i bordi delle sue labbra si
sollevassero timidamente guardasse nuovamente il
terreno.
-
A me piace il verde.- sollevò lo sguardo su di lui e sorrise
timida.- Mi ricorda te.-
Zetsu
si limitò a fissarla.
Ho ucciso tre persone ieri, voleva dirle, e
le ho mangiate. Ti piacerei ancora, dopo aver sentito questo?
Non
è necessario che lo sappia.
Sono un
criminale ricercato e il mio nome è su tutti gli albi.
Non
è necessario che lo sappia.
Ti sto tollerando soltanto perché
ottengo un egoistico senso di soddisfazione nel sapere che qualcuno ha bisogno
di me, anche se è una patetica, piccola ranocchietta
come te.
Non
è necessario che lo sappia.
- Anche a me piace il verde.- rispose.
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La
gentilezza è relativa.
L’amicizia
è una forma di dare e avere.
Tutti
gli uomini sono egoisti.
Gli
uomini hanno bisogni di qualcuno, e hanno bisogno che qualcuno abbia bisogno di loro.
Sono
così patetici.
Ed è una
bella sensazione sentirsi come uno di loro.
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Alla
fine venne un tempo, dopo la fine dell’estate, in cui
Zetsu non poteva più tornare laggiù. L’organizzazione era in
procinto di muoversi, e nel trambusto di trovare un nuovo covo e di non essere
scoperti, il relax era qualcosa da lasciare in secondo piano.
Stava
arrivando l’autunno, e il sola aveva iniziato ad
affondare più velocemente, l’aria fredda e le nuvole solleticavano il cielo. La
luce del sole divenne più debole e i colori più grigi. L’erba si piegava e le
foglie iniziavano a cadere, e la rugiada non era più piacevole a contatto con
la pelle. Lo faceva rabbrividire.
Quando
le disse che non sarebbe più tornato, all’inizio di
settembre, quando le prima foglie iniziarono a cadere, la reazione della
bambina fu inaspettata.
Lanciò
lontano la sua tazza di cartone piena d’acqua e balzò in piedi, gli occhi
sgranati e il petto pesante.
Lui
sbattè le palpebre in sorpresa allo sguardo sul suo visino, all’espressione di
paura che le attraversò gli occhi quando un alito di vento freddo soffio sui
soffici e lunghi capelli dietro di lei.
-
Te ne vai per sempre?-
Anche in
quel momento, non riuscì a fare a meno di essere divertito dalla sua drammaticità.
-
Non so per quanto tempo starò via.-
La
sua ambiguità lasciava molto a desiderare, e lei rimase a fissarlo implorante
per diversi minuti, una magra e scarna figura che
supplicava con fervore attraverso quello sguardo traslucido.
-
Non tornerai?- domandò, la voce fragile e tremolante per la prima volta.
-
No.- disse onestamente, il suo tono di voce dolce come al
solito.- non tornerò.-
Era
un momento teso, e Zetsu era lievemente irritato dal senso di disagio che aveva
invaso la sua piccola nicchia. L’erba asciutta divenne tagliente e il freddo
più intenso. Voleva andarsene.
-
Io…- disse lei, improvvisamente sull’orlo del pianto.- Io ti piaccio ancora?-
Lui
la guardò in silenzio, senza mutare espressione quando
le lacrime che aveva trattenuto per settimane strariparono dai loro argini,
scorrendo lungo le sue pallide guance scavate.
Egoista. Bisognosa. Umana.
-
Non andare!- implorò, la voce rotta e le mani che stringevano i bordi del
vestitino.- Ti prego…ti lascerò…potrai…-
Lui
la fissò, improvvisamente senza parole quando lei
sollevò con mani tremanti la gonna del vestito, rivelando le gambe fragili, le
cosce magre quasi quanto i polsi e un paio di mutandine bianche.
-
Se lo lascio…- continuò, piangendo apertamente ora.- Se lascio che papà…lui non
se ne va. Non parte più.
Puoi…se vuoi. Non andare via.-
Zetsu
la fissò ancora, e quando finalmente respirò, annusò ammoniaca e borotalco.
L’odore era inebriante.
Lei
rimaneva lì, piangendo, tenendo sollevati i lembi del suo sporco vestito di
cotone e sembrando gli occhi di Zetsu come la creatura più triste e sottomessa
che avesse mai incontrato.
Una
fredda goccia d’acqua atterrò sulla sua guancia.
Alzò
gli occhi, strizzando le palpebre quando un’altra
goccia atterrò sulla sua fronte, frantumandosi in minuscole goccioline ed
effondendo una fragrante esplosione di ozono.
Gli
uomini sono creature patetiche.
Tuo padre…è gentile con te?
È
una bella sensazione sentirsi come uno di loro.
Papà mi vuole bene…lo
dice sempre.
Non
stavolta.
La
pioggia penzolava dalle punte dei suoi capelli, correndo sulle sue labbra, fredda e dolce contro la furtiva comparsa della
sua lingua. Penzolava dalle sue ciglia e le costringeva ad abbassarsi, ed abbassò lo sguardo sulla bambina che stava in piedi davanti
a lui, ignorando la gelida pioggerella.
La
pioggia sembrava un applauso disperso sul fogliame lì intorno, e le foglie
della quercia si rompevano sotto il peso dell’acqua, coprendo il terreno della
sua nicchia di un tappeto di foglie morte e marroncine. Le caviglie della bambina si trovarono sommerse
dal fango, bianco pallido contro marrone putrido.
In
qualche modo, Zetsu riusciva a distinguere la pioggia dalle lacrime sul suo
viso, gli occhi gialli fissi su quelle fattezze logore e devastate.
Perché
lei si aspettava che lui accettasse la sua offerta, andava oltre la sua
comprensione. Forse credeva che i giochi degli adulti consistevano
in questo, che se lei avesse preso parte dei loro nefasti passatempi non
l’avrebbero abbandonata. Faceva male, ed era vergognoso, ma in quel modo qualcuno
aveva bisogno di lei. E quindi andava bene.
Zetsu
si sentì inspiegabilmente triste, sbattendo la palpebre
per mandare via la pioggia dagli occhi mentre si avvicinava.
Non
era sicuro del perché fosse triste. Forse aveva finito di provare pietà per la
patetica creatura davanti a lui, ma ne dubitava fortemente.
La
tristezza veniva dalla vergogna di sapere che, anche se per
poco, aveva ottenuto gratificazione dall’essere accettato e desiderato
al fianco di un altro essere umano.
La
tristezza veniva dalla consapevolezza che aveva ragione. Non c’era orgoglio nel
dipendere dagli altri, nell’avere bisogno degli altri. Specialmente quando le
persone erano così prive di affetto come loro.
Tutto
ciò di cui aveva bisogno era lui stesso. E avrebbe
dovuto essere così fin dall’inizio.
Lei lasciò gradualmente
la presa sul vestito bagnato, la testa si abbassò leggermente sotto il peso
della mano di Zetsu.
Aveva
rinunciato a provare ad ottenere amore e conforto dagli altri molti anni prima.
Ma non
aveva mai davvero smesso di cercare di darne.
Non
aveva molta familiarità con la tenerezza. Tollerava ed empatizzava.
Zetsu era un amico particolare.
-
Quando sei sola,- le disse, la voce che si mescolava
al suono della pioggia battente.- nessuno
può farti del male.-
Rimosse
la sua mano dalla testa della bimba.
E
quando lei alzò lo sguardo, lui era sparito.
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-
Sembri triste, Zetsu-san. È successo qualcosa?-
-………non
è niente, Tobi.-
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Il
cielo era ancora nuvoloso, quando tornò, e le foglie pendevano senza vita dai
rami piegati della grande quercia. La palla
semisgonfia giaceva dimenticata nel trascurato santuario di pace pieno di
piante morte.
Aveva
seguito l’odore di rame per miglia, e l’aveva condotto qui.
Stette
la lungo sotto l’ombra della quercia, sapendo che la
madre della bambina aveva fatto esattamente ciò che la figlia aveva predetto.
Senza
parlare, entrò nel cortile e camminò fino alla porta della rovinosa baracca.
Nessun neonato piangeva all’interno. Continuò a seguire l’odore del rame,
finché questo non lo portò al fiume, a circa un miglio di distanza dalla casa.
Una
donna mezza morta di fame era in ginocchio sulla riva vicino all’acqua, stava
riempiendo di rocce un grande sacco. Accanto a lei
giaceva il corpo della figlia.
Osservò
in silenzio la donna per un po’, senza guardare la bimba che ancora
indossava il suo vestito di cotone e giaceva senza vita sull’erba avvizzita. Le
rocce di cui era stato riempito il sacco erano molto
pesanti, e quando la donna si girò per afferrare sua figlia si accorse di
Zetsu.
Occhi
vitrei e selvaggi guardarono verso di lui, la bocca si muoveva silenziosa mentre lui rimaneva impassibile. La donna
sembrava completamente pazza.
Dopo
pochi secondi, scappò in direzione della casa abbandonando il sacco pieno di
rocce e il corpo di sua figlia.
Zetsu
la guardò scomparire all’orizzonte, e allora mosse il suo sguardo sulla bambina
riversa sulla riva del fiume. Si avvicinò, inclinando di lato la testa,
esaminando il suo viso e i suoi occhi chiusi. A
giudicare dall’aspetto, era morta da circa un’ora. Il sangue ancora colava da
dietro la testa, dove sua madre doveva aver diretto il colpo fatale.
Spostò
l’ingombrante sacco di pietre e si inginocchiò,
prendendo tra le braccia il corpo apparentemente senza peso della bambina.
Lanciano
un ultimo sguardo al circondario desolato e privo di colore,
chiuse gli occhi e sprofondò attraverso l’erba avvizzita.
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La
portò in un luogo dove gli iris erano in piena fioritura e le api ronzavano da
un fiore all’altro. L’erba incontaminata si aggrovigliava in cespugli contro i
lembi del suo mantello quando emerse in quella terra
fertile. L’odore di linfa e di acqua fresca riempiva
l’aria.
Zetsu
non mangiava, di domenica.
Ma
questo non significava che lei dovesse andare
sprecata.
La
portò in una piccola nicchia erbosa, appoggiandola a terra accanto a una macchia di trifogli. Ed
iniziò a scavare. La luce del sole gli scaldava la schiena e proiettava
l’illusione di un colore sul pallido viso di lei, aggiungendo splendore ai suoi
capelli chiari e asciugando il sangue.
Le
sue dita sanguinavano sotto le unghie quando finì di
scavare, ma non gli importava. Una cicala friniva pacatamente in sottofondo mentre la appoggiava all’interno della fossa, e
le farfalle volavano serenamente sopra
la tomba mentre lui la riempiva di terreno fertile.
Un
vago sentore di conclusione scese su di lui quando
pianeggiò la terra sulla superficie della tomba, facendo correre le sue dita
sul suolo profumato. Non c’era né dolore o lutto per la perdita della bambina
che gli aveva offerto un te all’acqua di fiume per gli ultimi tre mesi, solo
sollievo.
Era
così giovane e insignificante, che non aveva rubato praticamente
nulla dalla terra che la seppelliva. Ma nella morte
avrebbe servito all’alta causa di arricchirla. Il suo corpo sarebbe tornato
alla natura e sarebbe diventato parte di un intero indissolubile. Non sarebbe più stata sola, non avrebbe più sofferto. La sua
essenza si sarebbe mescolata e avrebbe abbellito la terra che avrebbe dato vita ai fiori, soffiando profumi deliziosi tra i loro
petali.
Zetsu
fissò lo sguardo ambrato sugli elastici per capelli che aveva in mano,
chiudendo le dita su di essi.
Non
era riuscito ad essere suo amico, alla fine. Non era nemmeno stato in grado di
cambiare la sua visione dell’umanità come una razza depravata di creature
egoiste che imploravano per comprensione e amore.
Ma
l’aveva portata in un luogo miglior e le aveva fornito uno scopo più elevato.
Sarebbe diventata parte della natura che lui tanto amava, e in quell’aspetto
soltanto avrebbe trovato affinità con lei.
Zetsu
respirò profondamente. Chiudendo gli occhio, appoggiò
la mano sul suolo soffice.
La
possibilità di una nuova vita spinse, evanescente, con un calore confortevole
contro il suo palmo bianco.
Sorrise.
Collasso e rinascita.
Owari