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Autore: _ForeverYoung    15/10/2012    4 recensioni
E poi farei con te, come con le fragole..
-Sai cosa credo? Credo siamo sbagliati, intendo io e te..- teneva lo sguardo basso, Harry. Le iridi verdi accese dal riverbero pallido della luna, affacciata sulle acque salmastre del lago.
Il vento ghiacciato di Dicembre sferzava il pelo dell’acqua, imprigionando nella sua scia, gocce d’acqua dolce e foglie fradicie; Harry si strinse nel cappotto, in attesa di una risposta, forse di una rassicurazione.
Grace abbozzò un sorriso leggero, increspando appena le labbra. Tra le dita stringeva convulsamente quel braccialetto rosa caramella, trovato nell’Happy-Meal, mentre le pupille scure rimbalzavano sulle pieghe del costoso vestito che indossava.
-È buffo..- Quandò finalmente trovò la forza di parlare, si accorse che la voce le tremava. Lei sempre così fiera, altera.. Harry invece la disarmava ogni volta, era l’unico in grado di riuscirci. -Tu invece riesci a farmi sentire giusta Harry, giusta per te, non per il mondo-.
Harry tacque, ma allungò una mano a coprire quella della ragazza seduta accando a lui sorridendo piano. Grace era fatta così, sapeva sempre tutto, prima di lui, ed in un assurdo, e contorto modo, gli stava insegnando il modo giusto di vivere.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1
-Sette Minuti in Paradiso-

 

 
Era solo una ragazzina, che si aspettava il mondo
e sognava il Paradiso, ogni volta che chiudeva gli occhi.
Paradise-Coldplay
 
 
Apri gli occhi Testolina Buffa.
Sei in ritardo, di nuovo.
 
Grace richiuse stizzita le tende pallide della finestra, con uno scatto nervoso, rischiando di lacerarle, e imprecando sotto voce nella penombra grigia della sua stanza, prese a cercare in mezzo alla catrasta di vestiti freschi di asciugatrice, i vari pezzi che sarebbero andati a comporra la sua divisa scolastica. Uniforme che la Saint Sebasthian, plurititolata accademia superiore del Cheshire, obbligava ogni suo studente ad indossare da tempi immemori; c’era chi sosteneva che fosse stata addirittura la Regina Vittoria a scegliere quel pittoresto tessuto scozzese bordeaux, accostato ad un cupo grigio antracite, per le loro gonnelline a pieghe.
E Grace detestava quella divisa, proprio come il lunedì mattina, le ricordava ogni giorno di appartenere ad un mondo totalmente estraneo da quello griffato e snob della Saint Sebasthian.
Le rammentava di poter indossare quell’orribile completo soltanto grazie alla sua media scolastica, e a quella borsa di studio completa, conquistata a fatica durante il secondo anno, e che temevano costantemente di perdere, se non si fosse dimostrata all’altezza degli standard richiesti dalla scuola.
Infilò rapidamente le calze pesanti, pregando che non si strappassero, e recuperò dalla cesta della biancheria la gonnellina scozzese, il blazer grigio scuro e la camicetta bianca, con lo stemma dell’istituto ben impresso sul petto. Il tutto rigorosamente stropicciato, ma in fondo l’ultima volta che aveva visto sua madre prendere tra le mani un ferro da stiro risaliva a.. probabilmente pure quello, ai tempi della Regina Vittoria.
Ignorò volutamente lo specchio, i capelli erano un disastro, la divisa le cadeva male, ed il blazer le stava troppo largo, lo sapeva bene. Quelle divise facevano pena, e proprio per questo, solitamente, gli altri studenti sceglievano di avvalersi di un sarto personale, e se le facevano confezionare su misura.
Grace aveva a mala pena recuperato le sterline necessarie a procurarsi tutti i testi, e trascorreva ogni singolo weekend a servire quei boriosi figli di papà nell’unica caffetteria decente di Holmes Chapel, per riuscire a mantenersi agli studi. L’alta sartoria, firmata Ralph Lauren, tizio che quella cerchia di babbei sembrava venerare al pari di Gesù, era l’ultimo dei suoi pensieri.
Era in ritardo, di nuovo. Al momento era questo il pensiero più nitido, tra i tanti fantasmi che le infestavano la mente.
Aveva un quarto d’ora scarso per dare una parvenza decente a quei capelli troppo lunghi e scompigliati, che si ostinava a non tagliare, e lasciare il fratellino Jamie da Mrs Payne, la vicina di casa, sua baby sitter di fiducia, nonchè madre di un figlio degenere, Liam, che da almeno dodici anni, Grace definiva il proprio migliore amico, assieme ad idiota, ovviamente.
Afferrò la vecchia tracolla eastpack rossa, farcita di libri di seconda mano, e si avviò in direzione della porta, ma si bloccò con la mano ancora stretta attorno alla maniglia, ricordandosi di quell’assurdo rito mattutino non ancora assolto.
Raggiunse la finestra oscurata pochi minuti prima, recuperò carta ed indelebile nero, e poggiò contro il vetro schizzato di pioggia novembrina, il personale buongiorno per Liam.
 
Buongiorno, idiota.
 
Grace sorrise, mordendosi le labbra, Liam era un vero e proprio idiota, ma assieme a suo fratello Jamie, rappresentava la sola parvenza di famiglia che conoscesse, ed in più di dieci anni, mai una volta il vetro della sua finestra era apparso privo di una risposta.
Era un gioco strano quello di Grace e Liam, un buffo modo di comunicare inventato quando erano ancora dei bambini sdentati, attraverso le finestra delle loro stanze, che ovviamente si affacciavano sullo stesso cortile. Dividevano lo spazio di un cortile, ed un amicizia lunga dodici anni.
Sì, era un gioco strano, un rituale involabile quanto la Magna Carta, che nonostante il compimento dei fatidici diciotto anni, non avevano mai abbandonato. Certo li aveva portati a compromettere seriamente le riserve di carta di mezza Inghilterra, e avevano contribuito a sterminare una quantità non ben precisata di alberi, ma neanche l’avvento dell’era telematica, l’invenzione di laptop e iphone o di twitter, erano riusciti a scoraggiare quella tradizione.
A Grace e Liam bastava un cartoncino bianco ed un indelebile nero ben impugnato tra le dita, per raccontarsi tutto quanto; poche parole scritte in uno stampatello rotondo, dal carattere esagerato, che rimbalzavano dal vetro di una finestra, all’altra, mettendoli in relazione come probabilmente un’anonima chat di facebook non sarebbe mai riuscita a fare. Funzionava un po’ come per i Power Rangers, solo non necessitavano degli anelli magici per entrare in modalità Power Up; no, a loro bastavano poche righe, una grafia stentata ed un sorriso maldestro rivolto da dietro un vetro appannato, per sentirsi speciali.
 
Ti voglio bene anche io, Gracie.
Buona giornata.
 
E anche lei gliene voleva. Liam coi suoi stupidi cartoncini, coi suoi irritanti soprannomi, con i suoi miliardi di contraddizioni.. Era tutto il suo mondo.
L’unico che riuscisse a farla sentire normale, in mezzo ad una vita che la voleva a tutti i costi sbagliata.
 
-Jamie? Jamie sbrigati, siamo in ritardo e Patricia ti aspetta.. Ed io perderò l’autobus se non ti dai una mossa!- Grace era in ritardo, un ritardo osceno, aveva dieci minuti scarsi prima che l’autobus la lasciasse a piedi, suo fratello non sembrava affatto interessato a sostenere la sua tabella di marcia, e lei.. Era ancora alla prima tazza di caffè, e nelle sue vene non scorreva ancora abbastanza caffeina da permetterle di capire cosa stesse realmente accadendo attorno a lei.
Solitamente, doveva mandare giù almeno due tazze, prima di riuscire a ricordare il proprio nome per intero.
Viveva di caffè, e di cioccolata a volte, quando si sentiva particolarmente triste oppure troppo della sua misera esistenza; la sua era una vera e propria assuefazione, e nonostante Liam ci scherzasse sempre sopra, era davvero convinta che un giorno o l’altro si sarebbe trovata a parlare in piedi, in mezzo ad un cerchio di sconosciuti della propria dipendenza.
Chissà se i Caffeinomani Anonimi, si riunivano anche in quell’angolo di mondo che era Holmes Chapel.
-James William Dawson, mi hai sentita?- Urlò nuovamente; tra le dita la seconda tazza di oro nero, le labbra impegnate a soffiare sul caffè bollente, per evitare di scottarsi la lingua.
-Un istante, prendo i miei libri e scendo!-
-Ok, basta che non ti porti dietro l’intera libreria..- Come al solito, aggiunse mentalmente Grace.
Jamie era suo fratello minore, ed era probabilmente la reincarnazione di Eistain sotto forma di marmocchio. Amava i libri, tanto quanto Grace impazziva per il caffè, e trascorreva intere giornate prigioniero della sua cameretta azzurra, a leggere complicati tomi enciclopedici narranti di astronomia, stelle ed universo, che avrebbero fatto impallidire pure Nostradamus in persona.
Era un bambino speciale, suo fratello Jamie; James William, nome che Grace aveva scelto il giorno della sua nascita, osservandolo per la prima volta nella nursery dell’ospedale, mentre stringeva la mano di Liam. Lui c’era sempre stato nei più importanti momenti della sua vita, ed era proprio in onore del suo migliore amico, che aveva tanto insistito per aggiungere quel secondo nome, al fratellino appena venuto al mondo.
James aveva da poco compiuto otto anni, ma era gracile, piuttosto magro, e ne dimostrava cinque, sei al massimo. Il suo cervello pesava probabilmente più del resto del corpo e.. ed era nato con un raro difetto congenito cardiaco, alle pareti aortiche, che gli impediva un sufficiente afflusso di sangue al cuore, e lo costringeva a letto, in assoluto riposo, per lunghi periodi di convalescenza.
James lottava contro il suo fragile cuore da anni, ma al momento non esisteva una cura definitiva, oltre agli stent cardiovascolari che gli avevano impiantato da piccolo, ed ad un accurato piano terapeutico che Grace seguiva come la bibbia. La speranza di vita media auspicata si aggirava attorno ai vent’anni, e Grace si ritrovava spesso a pensare quanto fosse ingiusto che Jamie, a soli otto anni, si ritrovasse ad aver già vissuto inconsciamente quasi metà della sua esistenza. E ciò che odiava di più, era sentirsi dannatamente impotente dinnanzi a quell’assurda ingiustizia.
Jamie meritava di vivere, era sveglio, terribilmente intelligente e Grace era sicura che avrebbe potuto cambiare il mondo, se solo la vita gli avesse concesso un po’ di tempo in più.
Grace scosse la testa, sconfiggendo lacrime e pensieri assillanti, ammazzandoli con un lungo sorso di caffè bollente; buttò giù l’intera tazza senza accorgersene tanto era nervosa, rischiando di ustionarsi le papille gustative. -Jamie, allora?-
Dalle scale comparve una grossa pila di tomi ingialliti, ed uno zaino troppo grande persino per un mezzo-gigante come Hagrid, e soltanto un occhio allenato come quello di Grace riuscì a scorgere il familiare ciuffetto di ricci biondi del fratellino, emergere da quel cumulo di carta e inchiostro. Grace sospirò, senza rimproverare la mania ossessivo compulsiva del bambino, aveva visto decisamente di peggio, come la volta che le aveva riempito un intero trolley da viaggio di enciclopedie, e si precipitò ad aiutarlo nell’impresa titanica. Non voleva che si affaticasse troppo, e quei libri avevano un’aria decisamente pesante.
-Dimmi che adesso possiamo andare..- Lo pregò, issando tra le braccia almeno dieci di quei volumi. Il tempo stringeva e lei doveva assolutamente salire su quell’autobus, aveva atteso quei sette minuti di tragitto per tutto il week-end, probabilmente come Mosè aveva aspettato che Dio gli dettasse i dieci comandamenti, e niente al mondo avrebbe potuto ostacolare la sua perfetta tabella di marcia.
Il bambino chinò il volto riversando i suoi grandi occhi azzurri contro il pavimento per qualche istante, racimolando le parole giuste da dire alla sorella, e sperare di non farle incendiare i nervi. -Grace, Grace ecco io.. Non trovo Lancillotto! Non possiamo andarcene senza di lui..-.
Ecco, niente ad accezione di quella stupida palla di pelo bianco.
Un sacco di pulci che avrebbe dovuto trovarsi a sonnecchiare su quella specie di amaca appesa dentro alla sua gabbia. Perchè si, Lancillotto era un furetto, dormiva in un’amaca ed aveva il torace lungo quanto un tappa-spifferi, oltre ad avere un nome assurdo, s’intende.
Grace sgranò gli occhi, entrambe le palpebre le tremavano vittime di un tic che aveva tutta l’aria di esserle appena sorto, e neanche diventare improvvisamente proprietaria della fabbrica cioccolatiera di Willie Wonka l’avrebbe tranquillizzata in quell’istante. Quello stupido.. Topo, le aveva appena rovinato le aspettative di un intero fine settimana.
-Quante volte ti ho ripetuto che quel topo è uno squilibrato e non devi assolutamente toglierlo dalla gabbia?-.
Jamie chinò la testolina bionda, contrito, -Tante, ma comunque Lancillotto è un furetto, e non appartiene alla classe dei roditori..-.
-Taci sapientino, e vedi di trovare quell’essere deforme!- Uggiolò Grace, odiava quel ratt.. furetto, o come diavolo si chiamava.
-Lancillotto? Vieni piccolo.. Vieni..- Non riusciva davvero a capire cosa ci trovasse Jamie in quella salsiccia con le gambe, e con quale coraggio potesse attribuirgli un vezzeggiativo così dolce. Cristo santo, era un furetto! Certo, riportava il nome di uno dei protagonisti delle Leggende Arturiane preferito da Grace, ma restava comunque un insaccato con le zampe.
Grace osservò Jamie piegarsi verso il pavimento, e poi armeggiare con le braccia sotto alla credenza del soggiorno, era uno dei luoghi preferiti da Lancillotto per nascondersi dalle grinfie del fratello. Pochi istanti dopo riemerse assieme ad una piccola palla di pelo, impegnata a conficcare le unghie nel parquet lucidato, per cercare inutilmente di riconquistare la libertà appena sottrattagli.
-Ancora non riesco a capire come mai tu non abbia scelto un cane, come tutti i bambini normali!- Un cane, Grace li amava, i cani. Magari un adorabile Jack Russell, con quelle buffe orecchie pezzate, ed i baffetti pronunciati..
Jamie alzò le spalle con noncuranza, tra le dita stringeva nuovamente i libri scelti quella mattina, mentre Lancillotto, ormai rassegnato alla prigionia gli si era aggrappato addosso, le zampette pelose avvolte attorno al suo collo, come un koala abbarbicato ad un Eucalipto.
Grace scosse la testa, esasperata; la sua vita le appariva fin troppo surreale a volte, una via di mezzo tra Beautiful ed un teen drama adolescenziale dalla trama scontata e prevedibile.
Furono la voce innocente di Jamie, ed un non ben precisato uggiolio di Lancillotto a riscuoterla dai propri trip mentali, -Grace, ma dov’è mamma?- Chiese indirizzando le iridi cerulee verso la ragazza.
Grace si morse la labbra, detestava riempirgli la testa di bugie, ed il di aspettative. -E’ uscita presto per andare a lavoro..-.
Tina, la loro madre degenere, non era rincasata quella notte, aveva avvertito la figlia lasciandole un telegrafico messaggio in segreteria, che non aveva affatto sorpreso la ragazza. Era ormai abituata alle mancanze di quella donna, che probabilmente a quell’ora doveva trovarsi addormentata e magari ancora sbronza, nel letto dell’ultimo fidanzato di turno. Forse il tizio con la barba nera ed i baffi, quello che somigliava a Mangia Fuoco, il burattinaio di Pinocchio, che Grace aveva intravisto poche settimane prima nel negozio di cianfrusaglie di Tina.
Una specie di negozio new-age, che stonava visibilmente in mezzo ai tradizionali negozietti artigianali di Holmes Chapel, e che proponeva articoli, o meglio, chincaglierie di dubbio gusto, che nessuno con un po’ di sale in zucca si sarebbe degnato di pagare neanche mezzo penny, come in realtà avveniva.
-Ma sono soltanto le sette e mezza del mattino!- Ribattè il bambino, avere un piccolo genio per fratello comportava senza dubbio più svantaggi, che benefici alle volte.
-E allora? Doveva sistemare delle.. cose! Forza scricciolo, filiamo da Pat! Sono veramente in un ritardo assurdo..- Inventò sul momento, spingendo fratellino e furetto verso l’ingresso; mentire non era decisamente il suo forte, le inizia a tremare sempre la palpebra sinistra e tendeva a torturarsi il labbro inferiore coi denti. Era stato Liam a farglielo notare, lui era bravissimo a stanargli ogni sua più infida bugia.
Tutte tranne una.
 
L’aria di Novembre era ghiacciata, il cielo sopra di lei terso di stralci di nuvole lattiginose  che non preannunciavano nulla di benaugurante, probabilmente avrebbe piovuto di lì a breve, strano.
Grace si strinse nella sciarpa di lana grigia, affondandovi il volto, erano davanti al portone di Patricia. -Le hai prese le medicine?- l’apprensione di Grace, le uscì dalle labbra assieme a piccole nuvolette d’aria condensata. Parole che il gelo ghiacciava ancor prima che venissero espresse.
James annuì, stringendo a sè Lancillotto, odiava che la sorella lo trattasse come un.. paziente malato, aveva soltanto otto anni, ma se ne sentiva già il doppio sulle spalle.
-Il guinzaglio per Lancillotto? Sai che Pat si arrabbia se lo trova a girare per casa..-.
-Stai tranquilla Grace-.
-Allora.. vado- aggiunse ancora la ragazza, si fidava di Pat, era una seconda madre per lei, o forse addirittura la prima, data l’incoscenza di Tina, ma si sentiva terribilmente responsabile per Jamie.
-Vaaaa bene- strascicò James, giocava tanto a fingersi grande, nascondendosi dietro a quei libri da cervellone, ma ogni volta l’ingenua voce fanciullesca interveniva a tradirlo.
Grace si morse la labbra, ancora incerta, e s’incamminò a ritroso lungo il vialetto d’ingresso; gli stivali neri intenti a schivare pozzanghere e fanghiglia trascinata sul ciottolato dalla pioggia notturna. Era ormai sul marciapiede di fronte alla villetta di Liam, quando si voltò per rivolgergli l’ultimo saluto.
-Ah Jamie?-
Il bambino alzò il volto, assieme a lui drizzò le orecchie l’immancabile salsiccia domestica.
-Ti voglio bene fratellino- Gli ricordò, un istante prima di scomparire in una corsa a perdifiato lunga più di tre isolati, in direzione della fermata del 27.
Grace Penelope Dawson.
Stava ancora correndo, il cuore incastrato tra la trachea e la gola, e le gambe sull’orlo di cedere alla gravità terrestre, quando le tornò alla mente quel particolare.
Il suo nome per intero. Ok almeno la memoria a lungo termine sembrava essere tornata, la caffeina stava iniziando a funzionare.
 
Grace aveva un segreto, ed ogni mattina, da due mesi a quella parte, saliva sul numero 27 delle sette e quarantacinque, assieme a lei.
Segreto che si protraeva dal suo secondo anno, del quale nessuno era a conoscenza, neanche Liam, che di Grace sapeva tutto, persino in quale ordine preferisse mangiare le m&m’s.
Non sapeva di preciso quando tutto avesse avuto inizio.
Settimane, mesi che poi erano diventati anni, tre anni, forse qualcosa di più.
Pensandoci bene era iniziato tutto con il suo trasferimento all’inizio del suo secondo anno alla Saint Sebasthian, dalla scuola pubblica di Holmes Chapel, dopo aver vinto una borsa di studio completa, grazie alla sua ottima media. Lasciare Liam, abituarsi ad una nuova scuola trasudante sterlino e snobbismo, l’avevano distrutta, ma sapeva che stringere i denti e riuscire a diplomarsi in quell’istituto sarebbe servito per aspirare ad un futuro migliore lontano dall’indifferenza della madre. Migliore per lei, e per Jamie.
Era stato proprio durante il primo, infernale ed infausto giorno alla Saint Sebasthian, che aveva incrociato per la prima volta quello sguardo, mentre sperduta e fragile, in mezzo a quei corridoi intrisi di storia e trasudanti ricchezza, si sforzava di ricordarsi almeno uno di quei validi motivi che l’avevano condotta lì.
In quel corridoio gremito di volti sconosciuti e fieri, con in mano una pila di libri usati e malridotti che era riuscita dopo molti sforzi, a recuperare nei mercatini, e la vecchia tracolla rossa della Eastpack. Quella comprata assieme a Liam alle medie, ricoperta da scarabocchi e fermagli, ormai rovinata e usurata dal tempo, ma che non avrebbe scambiato cone tutte le Vuitton della Terra.
 
Li aveva incrociati lì, quegli occhi e poi non se li era più tolti dalla testa. Lì, in piedi in quel corridoio secolare, coi capelli scompigliati e gocciolanti di pioggia, dato che nel parcheggio un’audi l’aveva inzuppata da testa a piedi, sfrecciandole accanto, e una divisa troppo larga, di almeno un paio di taglie.
Grace aveva da poco compiuto quindici anni, ed era dimagrita molto nell’ultimo periodo, suo fratello era appena uscito da una lunga degenza in ospedale, e la ragazza, assillata dai soliti fantasmi, aveva dimenticato di mangiare, di nuovo. E Liam che non aveva perso tempo ad accorgersene l’aveva sgridata, e costretta a mangiare, di nuovo.
Non li aveva visti subito, quegli occhi verdi, aveva avuto bisogno di un piccolo aiuto per individuarli, tra le centinaia di iridi anonime brulicanti l’istituto. Era servito uno scontro, un brusco spintone che due studenti, antropologicamente più vicini alle scimmie, che alla razza umana, le avevano rifilato, urtandola violentemente correndo a passo di troll lungo i corridoi. Grace era finita a gambe a terra, assieme ai suoi libri già provati dell’usura, ed un’ilarità generale si era innalzata attorno a lei, costringendola a ricacciare lacrime e vergogna dentro alle palpebre, impedendole di uscire.
Detestava ritrovarsi al centro dell’attenzione, proprio lei che si era sempre considerata fuori posto, e non chiedeva altro che passare inosservata, confondersi in mezzo alla folla, senza etichette, ne distinzioni. Era tanto sbagliato, chiedere di poter essere.. normale?
Tentò di rialzarsi, sperando di poter rimuovere l’incidente dalla sua testa per sempre, ma cadendo a terra si era sbucciata il palmo della mano destra, e si sentiva addosso troppi paia di occhi..
-Scusali, il circo deve averli smarriti da piccoli..- E poi tra i tanti sguardi derisori degli studenti, uno soltanto si palesò davanti alle sue iridi scure. Apparteneva ad un ragazzo, un ragazzo con gli occhi verdi, ed un sorriso un po’ stonato che gli mangiava le labbra.
Grace distolse il contatto tra le loro pupille, sarebbe voluta sprofondare in quell’istante. Lei sempre così stoica e.. misurata, sentiva le gambe vacillare, ed il cuore rimbalzarle da una parete all’altra della cassa toracica. Quel ragazzo aveva gli occhi verdi, aveva gli occhi più verdi che avesse mai visto.
Gli unici che da quell’istante avrebbe mai desiderato vedere.
Il ragazzo abbozzò un sorriso, e le porse educatamente una mano. Aveva le fossette, se ne era accorta subito, sempre attenta a notare i particolari più imperfetti, e gli incorniciavano quel sorriso leggero, contagiandogli l’intera faccia. Sembrava una di quelle persone abituate a ridere tanto, ridere di pancia, come a Grace non avevano mai insegnato a fare.
La mano di Grace tremò, al comando delle sue dita. Combattuta tra l’istinto di fidarsi di quegli occhi verdi, e quello invece assurdo di restare a terra, sul pavimento sporco, a pregare che una voragine la inghiottisse.
-Tranquilla, non ho la loro.. delicatezza. Non ti faccio cadere- La rassicurò il ragazzo, porgendole ancora una volta la mano. Si piegò appena verso di lei, riversa a terra, scuotendo appena i ricci scuri. Aveva gli occhi verdi, le fossette ed i ricci, ricci scompigliati, che evidentemente dovevano aver lottato contro il cuscino quella mattina.
E Grace decise di fidarsi, se non di quello sconosciuto, di quegli occhi, che le trasmettevano una placida serenità mai sperimentata prima, afferrando quella mano, inglobando il suo piccolo palmo sbucciato a quello del ragazzo, fregandosene del bruciore.
Era calda la sua mano, scottava come i suoi occhi verdi, distese immense d’erba accarezzate dal sole.
Si ritrovò in piedi, senza neanche rendersene conto, coi libri tra le mani, che il ragazzo aveva raccolto al posto suo.
-Segui lettere con la Watson anche tu?- domandò curioso, porgendole l’ultimo libro ritrovato a terra, una vecchia copia di Cime tempestose, sul quale avrebbe dovuto presentare un saggio.
Grace annuì, strappandogli di mano la copia, improvvisamente nervosa. Fare conversazione non era decisamente il suo forte, non concentrandosi su quegli occhi verdi, non con un principio di tachicardia in corso e la voglia di scavarsi una buca profonda dieci metri e poi auto-seppellircisi. Non gli aveva ancora rivolto mezza parola, aveva il vocabolario azzerato e le labbra secche, asciutte.
Il giovane sorrise, sistemandosi i risvolti alle maniche della camicia grigia, la variante maschile prevedeva anche una giacca bordeaux molto scuro, e pantaloni grigio fumo. -E hai anche un nome?- Chiese dishiudendo le labbra in un sorriso divertito. Non derisorio, soltanto.. curioso. –Io sono Harry-.
Dalle labbra di Grace fuoriuscì un rantolo, tanto che fu costretta a schiarirsi la voce. Bella prova, Grace.
-Hazza! Hazza, ti vuoi muovere?- Hazza? Ma che razza di soprannome era?
Harry si voltò, incontrando le braccia alzate di un ragazzo castano, con gli occhi celesti ed un singolare modo d’indossare la divisa. Colletto abbottonato sino al collo, cravatta del tutto opzionale e pantaloni col risvolto rovesciato. Affianco a lui un tipo dall’aria perennemente scocciata, se ne stava poggiato a braccia conserte contro gli armadietti. La cravatta allentata e stropiacciata, ed un paio di occhi neri come la pece. Misterioso, un po’ semplicistico, ma a Grace non veniva in mente altro aggettivo per descrivere quello strano ragazzo.
-Arrivo.. Arrivo..- Harry, così si chiamava. Harry. Harry. Harry.. Si grattò la nuca imbarazzato, scompigliando ancor di più i suoi capelli, -Allora.. Ci si vede in giro, immagino- Balbettò, per la prima volta forse incerto, verso una Grace visibilmente imbarazzata.
Attese ancora un’ultima volta che Grace gli rivolgesse parola, ma questo non avvenne, -Beh, è stato un piacere, ragazza senza nome..- e si voltò, definitivamente, avviandosi con la tracolla di pelle marrone, verso quei due malassortiti ragazzi, che lo attendevano in fondo al corridioio.
Se n’era ormai andato, inghiottito dai volti senza nome del resto degli studenti, quando la ragazzo riuscì ad esalare.. –Grace. Mi chiamo Grace..-.
Non si erano più parlati dopo quella mattina, nonostante per più di tre anni, i loro occhi si fossero incontrati nuovamente proprio tra quei corridoi che avevano visto nascere tutto quanto. Qualcosa che però trovava spazio soltanto nella testa di Grace.
Grace aveva continuato a cercare quel sorriso bianco, ogni giorno, per quelli che si erano rivelate settimane, poi mesi ed infine anni. Anni intrisi di silenzi, indifferenza ed ignoranza.
Era bastato conoscere la verità sul conto di Grace, spargere la vce che avessero aperto le porte della scuola anche alle categorie meno abbienti, ai borsisti, come lei, per farla diventare un’appestata sociale. Come se la miseria fosse stata contagiosa, o si fosse potuta propagare come un gas nervino. Nessuno le aveva più rivolto la parola, soprattutto una volta saputa la storia della sua famiglia, e quella di sua nonna, morta anni prima e tacciata dalle malelingue della cittadina di stregoneria, in base a tesi assurde ed immaginifiche. Nessuno, neanche Harry.
Lui, che era proprio come tutti gli altri.
 
Harold Edward Styles.
Conosceva tutto di Harry, sapeva il suo nome, il secondo ed il suo cognome.
Conosceva ogni sfumatura di verde presente nelle sue iridi, che compariva ogni volta che dischiudeva le palpebre, ricordava le sue canzoni preferite, spiate nel display dell’Ipod, e l’orario delle sue lezioni, che già dall’anno precedente non combaciavano più con le sue.
E poco importava che Harry probabilmente la disprezzasse, considerandola alla stregua di un rifiuto sociale, lei non riusciva a smettere d’imparare ogni suo più infinitesimale dettaglio. Era un’assuefazione ben peggiore di quella provocatale dalla caffeina, e se fosse dipeso da Grace, il ragazzo si sarebbe presto ritrovato ad andare in giro con un cartello attaccato alla schiena, proprio come per le sigarette.
Attenzione, può causare dipendenza.
Si, lei sapeva un sacco di cose, su di lui. Ad esempio che detestava le spinaci, a mensa le scansava sempre dal piatto neanche fossero radiattive, mentre andava pazzo per le haribo, che teneva in quantità e scorte industriali dentro all’armadietto, e per i Twix, il cui incarto dorato, spuntava sempre dalla tasca della divisa, ovunque si trovasse.
E poi doveva piacergli davvero tanto la pizza, quella strafarcita, con doppia mozzarella; spesso Grace l’aveva visto litigarsela con quegli scimmioni dei suoi amici, quelli che tre anni prima le avevano compromesso l’osso sacro, che Harry si portava sempre appresso, in una versione meno..rowlinghiana di Tiger e Goyle, che seguivano il proprio maestro come un’ombra. Grace era pronta a scommettere che si sarebbero persino lasciati tatuare Hazza è il nostro Re, sulla fronte, se soltanto lui glielo avesse chiesto.
Erano belli i suoi dettagli, era divertente impararne ogni giorno di nuovi, come scoprire che anche Harry preferiva i muffin ai mirtilli a mensa, che anche lui utilizzava il coltello con la mano sinistra, e si sparava i Coldplay nelle orecchie, il gruppo preferito di Grace.
Era assurdo, e Grace lo sapeva benissimo.Totalmente e completamente assurdo, ritrovarsi irrazionalmente innamorata di un qualcosa di totalmente sconveniente e.. inesistente. Qualcosa che non esisteva, che non c’era, troppo utopistico persino per una favola Disneyana. Troppo assurdo pure per una telenovelas.
Eppure Harry, inconsapevolmente riusciva a colorarle il mondo come nessun altro, in un modo diverso da quello apprensivo di Liam, o pragmatico di Jamie, pur non facendo assolutamente niente.
Forse era il modo in cui sorrideva, arricciando le fossette simmetricamente alle labbra, a farla stare bene, oppure quello in cui socchiudeva gli occhi concentrandosi su qualche concetto importante, o quello in cui mordeva il cappuccio della penna, rigorosamente Stabilo Boss blu, cercando di ricordarsi qualcosa durante una lezione.
Forse era il colore dei suoi occhi, verde. A spingerla verso di lui, forse era la vita che ci leggeva dentro.
Forse perchè anche lui aspettava di essere salvato, proprio come Grace.
Harry era la sua ancora di salvezza, dentro a quella prigione di lusso che era la St Sebasthian, e lo era anche una volta tornata a casa, tra le pareti lilla di camera sua, mentre fissando le stelle fluorescenti che Jamie le aveva attaccato al soffitto, non riusciva a vederci altro che il verde oceano dei suoi occhi. Gli Oasis l’avrebbero definito il proprio Wonderwall, il miracolo a cui aggrapparsi prima di cadere giù. E a Grace piaceva pensare che lui sarebbe stato in grado di prenderla, acciuffarla e tirarla fuori da qualsiasi baratro in cui sis sarebbe ritrovata a precipitare, per poi farla ricadere, assieme a lui, e quella volta verso l’alto.
Era perfettamente conscia di quanto tutto quell’..amore, fosse assurdo. Lei non sapeva neanche cosa fosse, l’amore. Eppure a volte aveva la sensazione che fosse la gravità stessa a spingerla verso Harry, una forza magnetica, sconosciuta ed inarrestabile che l’attirava nell’orbita del riccio, ovunque lui si ritrovasse. Che la portava persino a nascondersi come una ladra, dietro al vecchio salice vicino al campo di calcio, in cui Harry si allenava tre volte alla settimana.
Grace era il suo satellite complementare, gliel’aveva spiegato una volta Jamie, e non gli era più andato via dalla testa. La sua vita aveva preso a gravitare attorno a quella di Harry, compiva la propria orbita ellittica attorno al pianeta verde che erano i suoi occhi, e avrebbe continuato a girare, e girare, e poi girare ancora, senza sosta, senza tregua, compiendo un moto di rivoluzione dopo l’altro. Pianeta lui, satellite complementare lei.
Per questo passava interi pomeriggi ad osservarlo, protetta dalle fronde fitte e spesse di quell’albero millenario, a disegnare i tratti perfetti del suo volto, sopra pagine bianche come la neve. Mischiare ombre, combinazioni di neri e scale di grigi, con un vecchio carboncino usurato, che finiva sempre per macchiarle le dita, le maniche della camicetta bianca e persino le guance che non riusciva a fare a meno di sfregarsi.
Era bello Harry, una bellezza che usciva fuori da schemi precostituiti, poster di attori holliwoodiani e modelli da catalogo intimo uomo Armani. Harry era bello e basta, coi suoi sorrisi ingenui, le fossette ad accarezzargli le labbra, e quel piccolo neo rotondo poco vicino alla bocca, che svettava sulla sua carnagione nivea. Era bello con quei suoi ricci perennemente in disordine, quegli occhi verdi a volte assonnati, altre gonfi di vita e speranze, e la cravatta della divisa sempre allentata.
Era bello nelle sue imperfezioni, nel modo in cui al mattino l’accoglieva sul bus 27, coi piedi a penzolone da un sedile all’altro, le cuffiette dell’ipod infilate nelle orecchie e l’aria perennemente scocciata.
Era bello, il suo Harry.
Ed era ancor più bello sentirlo vivere accanto a lei.
Anche per lo spazio di pochi attimi sottratti al tempo.
Anche a metri e metri di distanza, nascosta all’ombra di un vecchio tronco scavato. Costretta a spiarlo di soppiatto, ed abbozzare i suoi tratti su quel vecchio blocco rilegato in pelle, dal quale non si sarebbe mai separata.
Era solo un’illusa, certo. Eppure non riusciva a farne a meno, di quei pochi istanti, di quei disegni dal tratto fragile, tratteggiato, a volte incerto, che lo ritraevano vivere a pochi passi da lei. Il modo in cui correva in mezzo all’erba verde del campetto, le piccole gocce di sudore che gli solcavano la pelle, e lo costringevano a riavviarsi i ricci bagnati, sempre più arruffati.. Non c’era niente che gli apparteneva che non valesse la pena esser ritratto, afferrato, ..rubato.
Eppure aveva rinunciato a lui, lo aveva fatto ben tre anni fa, e le andava bene in quel modo, in fondo. E poi aveva sempre i suoi sette minuti in autobus.
Harry aveva iniziato a prenderlo regolarmente, ogni mattino, da almeno un paio di mesi. Non ne aveva ben capito il motivo, alcune voci messe in giro dal trio delle Malefiche, le pettegole più ben informate della scuola, sostenevano che si trattasse di una specie di punizione del padre, per avergli sfasciato l’auto l’estate appena trascorsa.
A Grace non importava granchè, comunque. Le pareti malmesse di quel vecchio autobus recalcitrante le apparivano come una.. zona neutrale, dove la divisa veniva celata da sciarpe e cappotti senza araldi, e le distanze tra i loro mondi sembravano meno incoliabili, ma appiattite, levigate, ..imbiancate dalla neve leggera che aveva iniziato a colorare i tetti di Holmes Chapel.
Sette minuti, sette minuti in Paradiso; condivisi alle sette e quarantacinque del mattino.
Sette minuti privi di differenze, senza pianeti, ne satelliti complementari.
Sette minuti riempiti soltanto da un ragazzo che credeva di avere tutto, ed una ragaza che invece non aveva niente, e si aspettava il mondo, credendo ingenuamente che se fosse riuscita ad allungare un po’ le braccia, avrebbe potuto stringerlo.
Quello che non sapeva, che non aveva ancora capito, era di non essere la sola, a sognare il Paradiso, una volta chiusi gli occhi.
 
Grace raggiunse l’autobus con il cuore in gola.
Le gambe stavano per cedere, i polmoni bruciavano per l’aria consumata.
Si morse le labbra, stringendosi nella sciarpa. e varcò le porte scorrevoli del 27.
Harry era lì, seduto tra due sedili, impegnato ad osservare due gocce di pioggia rincorrersi sulla superficie del finestrino.
Grace sorrise, aveva sette minuti.
Sette minuti in Paradiso.





My Sandpit:
Saaaaalve, prima storia che pubblico qui, che pubblico in questa sezione.
Avevo in mente questo capitolo, questa storia e questa trama da più di un mese, e alla fine combattuta tra l'indecisone e la voglia di condividere l'ultima delle mie follie con qualcuno.. L'ho scritto e pubblicato.
E' una storia nuova, appena nata, e non mi aspetto niente, anche se spero, che qualcuno trovi il coraggio di recensirla, o perlomeno di farmi sapere cosa ne pensa.
Beh, grazie dell'attenzione** 

  
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