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Autore: Helter Skelter    16/10/2012    5 recensioni
Liverpool, 1959. Diciannove anni, tanti sogni e una chitarra in spalla.
Un giovane John Lennon si prepara ad affrontare la vita, fra amicizie, amori e rock n' roll. Insieme a lui c'è Abbey, l'amica di sempre, che resterà al suo fianco fino alla fine. Una storia d'altri tempi, narrata in prima persona da colei che ha condiviso tutta una vita con l'uomo dietro alla leggenda.
{ Trattenni il fiato involontariamente, le labbra serrate, strette, immobili. Seguivo la scena con occhi che non sembravano i miei, come osservassi il tutto da una differente prospettiva. John mi sorrise rassicurante nella timida penombra della camera. Era arrivato ormai a pochissimi millimetri da me. Riuscivo a sentirne l’odore, mentre le sue dita mi sfioravano impercettibilmente il labbro superiore. Tabacco, soprattutto, misto a quello della caramella al limone. Stavo scoppiando; schiusi la bocca per prendere una grossa boccata d’ossigeno, ma il respiro si bloccò.
Arrivò prima il gusto agrodolce della gelatina, il lento sfrigolio dello zucchero sulla lingua, e poi il brivido lungo la schiena. Una lieve scossa mi fece contrarre il petto. Mi ci volle qualche istante per metabolizzare. John mi aveva appena imboccata }
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: George Harrison, John Lennon , Paul McCartney , Ringo Starr , Stuart Sutcliffe
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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9. Hold me tight
 

“Don't know, what it means to hold you tight, 
being here alone tonight, with you, 
it feels so right now.”



 
Liverpool – Marzo 1959.

Diedi un colpo secco all’interruttore e la luce giallastra rischiarò la stanza. Vidi John strizzare gli occhi, infastidito dall’improvviso bagliore. Indossava la stessa camicia della mattina, ma era molto più spiegazzata. Le maniche gli ricadevano disordinate, a diverse altezze, sulle braccia. I capelli erano un disastro ma incorniciavano, comunque, il suo viso in maniera tremendamente bella.  Aveva un’espressione stropicciata, l’aria stanca e… arrabbiata.

Arrabbiato, lui.

Ci fissammo in silenzio per qualche istante con sguardi furenti. Non potevo credere che fosse in camera mia, di notte, ancora! Ero immobile, la fronte corrucciata, in attesa che fosse lui ad iniziare. Provavo uno strano senso di agitazione, lo stomaco di contorceva, il respiro era irregolare ed affannato.
John aprì la bocca un paio di volte, per poi richiuderla quasi immediatamente. Si passò una mano sulla nuca, sospirando.

«Ce l’hai una sigaretta?» mi chiese con tutta la naturalezza di cui fosse capace.

Affilai lo sguardo, per capire se dicesse sul serio oppure fosse di nuovo ubriaco. Lentamente mi avvicinai, circospetta, scrutandolo con attenzione. No, sembrava lucido. Qual’era il suo problema, allora? Infastidito, John fece un cenno con la testa verso di me e poi sbuffò, allargando le braccia. Quel ragazzo era così snervante!

«Non ti do nessuna maledettissima sigaretta, John!» Il mio tono tradì una punta d’isteria.

«Va bene» fece lui pratico, scrollando le spalle.

Alzai gli occhi al cielo, spazientita. Mi sedetti sul bordo del letto e sfilai le scarpe, spingendole poi sotto il materasso con il piede. Le lenzuola erano stropicciate, gli angoli della coperta alzati. Per caso John stava dormendo prima che arrivassi?

La stanza era carica di tensione, piena di parole non dette.

Portai le braccia al petto, incrociandole. Venni invasa da una bella sensazione di calore; non mi ero accorta di avere freddo. Lo fissavo, gli occhi ridotti a due fessure. Avrei voluto tanto prenderlo a pugni, e lui se ne stava lì. Zitto.

«Mi vuoi dire che c’è?»

«Dove sei stata?» chiese come chi, in realtà, sa più di quel che dice.  

La lampadina ronzava, si doveva ancora scaldare del tutto, ma anche con la stanza immersa per metà nella penombra riuscivo a vedere i suoi lineamenti duri, seri. Il suo naso dritto, lucido, la curva della bocca e la linea salda delle labbra.
Per un momento chiusi gli occhi, stabilizzai il respiro. Quando li riaprii, John si era avvicinato e lessi nel suo sguardo che reclamava una risposta. Da dietro le tendine svolazzanti della finestra si alzò una folata di vento gelido, facendomi rabbrividire. Avrei provato ad essere conciliante; di certo attaccarlo non avrebbe giocato a mio favore.

«Sono stata esattamente dove mi hai lasciata tu».

«Con Stuart». Si rabbuiò immediatamente, contraendo la mascella.

Non capivo.Quella era una reazione che non mi sarei mai aspettata, mi spiazzò. Sbattei le palpebre un paio di volte, incredula.

«Si tratta di questo?»

«Quando pensavi di dirmelo?» Sbraitò con voce fin troppo alta.

«Ma dirti cosa? Sapevi benissimo che stavo da lui!»

A quelle parole scattò verso di me. Mi prese per i polsi e, in un modo non troppo delicato, mi strattonò, alzandomi da letto.
Adesso ero confusa, veramente.

«Te la fai con lui».

Credeva davvero che…

Non ebbi neanche il tempo di ragionare su ciò che aveva appena detto; la presa divenne più forte. Le sue nocche erano diventate bianche, sentivo le sue unghie affondare nel mio braccio. Odiavo quando si comportava così, lo odiavo. Di fronte a lui ero incredibilmente impotente, indifesa e debole. Proprio lui, lui che era la mia ancora, doveva farmi questo?
Gli occhi gli brillavano, le grandi sopracciglia corrucciate e le narici dilatate per la rabbia.
Prima che le lacrime avessero la possibilità di farsi sentire, mi liberai a fatica dalla sua stretta, massaggiandomi dove, fino a qualche secondo prima, le sue mani mi avevano trattenuta prepotenti.

«John, per favore, smettila» riuscii a mormorare, cercando di ricacciare indietro i singhiozzi. Non dovevo piangere, non dovevo. Il cuore martellava nel petto, nelle orecchie, nelle tempie. Il sangue scorreva veloce e mi riscaldava le guance.

John si passò una mano sulla bocca, prendendosi il labbro inferiore fra pollice ed indice. Rividi davanti a me il ragazzo con lo zigomo gonfio, insanguinato, e ne fui terribilmente spaventata. Quel ragazzo fuori controllo, capace di qualsiasi cosa, il ragazzo con la furia negli occhi.

Sul suo volto si aprì un’espressione confusa, delusa, dispiaciuta. Improvvisamente non riuscii più a sopportare l’intensità del suo sguardo. Mi resi conto solo in quel momento di star massacrando le mie povere unghie, rompendole una con l’altra, come mi capitava quando ero nervosa.

«Non siete mai usciti. Vi siete rinchiusi in quel maledetto studio. Lo so, Abbey».

Scandì le parole dell’ultima frase con severità, sibilandole quasi fra i denti. La sua voce suonava roca ed impastata.
Non lo avevo mai visto comportarsi in un modo simile prima. Che gli importava se avevo passato la giornata insieme a Stuart? Cosa c’era di male? Era stranito, irritato e… Mi mancò il respiro.

Geloso, John era geloso.

Soppesai velocemente quella possibilità, cercando di capire se fosse solamente la mia paranoia a parlare. No, non avrei mai avuto il coraggio di chiederglielo.
John si allontanò bruscamente, dandomi le spalle. In quel momento mi sentii stranamente in dovere di dargli una spiegazione, di rassicurarlo. Azzardai un passo verso di lui, ma il buon senso mi bloccò quasi all’istante. Riflettei bene prima di parlare; cosa avrebbe voluto sentirsi dire?

«Non è così».

Ero in attesa di una sua qualche reazione, qualsiasi. Continuavo a fissarlo, fissavo le sue spalle che si alzavano ed abbassavano regolarmente con il ritmo del suo respiro. Inconsciamente mi sincronizzai a lui… stava rallentando.
Quando finalmente si girò, l’espressione era più serena, quasi ironica. Come a mascherare tutte quelle sensazioni che provava, come a negarle. Le sue labbra si incresparono appena, tentando di nascondere un mezzo sorriso compiaciuto.

Era veramente impossibile; un secondo prima sarebbe stato capace di staccarti la testa a morsi, e quello dopo se la rideva come se niente fosse. Cambiava dal giorno alla notte in pochissimi istanti.  

Ah, Lennon. 

Si poggiò alla scrivania alle sue spalle, i palmi premuti dietro di lui contro il legno e le gambe lunghe in avanti, in una posa disinvolta.

«Quindi, niente toccatine?» Era divertito ora, non c’erano dubbi. I suoi occhi però rimasero cupi, velati da una strana patina di dubbio. Prima o poi i suoi cambiamenti d’umore mi avrebbero fatta uscire di testa.

Presi una gran boccata d’ossigeno e il grosso nodo allo stomaco si sciolse. Il senso di sollievo, però, durò ben poco. Digrignai i denti senza accorgermene, irritata. In un secondo tutta la mia rabbia riapparve. Adesso che il peggio era passato mi sentivo in grado di tenergli testa, di affrontarlo. Quello che era successo la mattina, la tristezza, il disorientamento, la paura di perderlo, non erano più nulla. Mi doveva una spiegazione. Oh, se me la doveva!
Trattenni il respiro e gli fui addosso. Con tutta la forza di cui fui capace gli diedi una spinta sulla spalla. Traballò leggermente, con mia grande soddisfazione, scivolando di pochi centimetri indietro con la mano. Mi guardava indignato, non facendo altro che aumentare il mio risentimento. 

Ma era il mio turno, adesso.

«TU! Sei un pazzo! Insopportabile!» Un altro spintone, più forte. «Mi hai scocciato, Lennon! Hai capito? Scocciato!»

Sgranò gli occhi mentre, con calma, si sistemava nuovamente contro la scrivania. Ripresi fiato. L’avevo fatto; l’avevo fatto e mi sentivo meglio. Molto meglio.
John si spostò lentamente, sporgendosi verso di me. Senza fatica mi trattenne salda per le spalle. Le sue mani forti sulle mie braccia, un sorriso furbo stampato sulle labbra. Eravamo vicini, riuscivo a sentire il suo odore, quel buon odore di sigarette e schiuma da barba. 

Sbatté le palpebre un paio di volte, spingendomi nuovamente seduta sul letto. Cedetti, lasciandomi guidare. Il mio cuore batteva all’impazzata, senza dare alcun segno di resa.
John sorrise conciliante, a metà fra il dispiaciuto ed il divertito. Sapevo che quello era semplicemente il suo modo di dirmi “sono fatto così, che ci vuoi fare?”.  Se in quel momento avesse portato gli occhiali, probabilmente li avrebbe fatti scivolare fino alla punta del naso e mi avrebbe guardata da sopra la spessa montatura.

«I tuoi occhioni dolci non servono, John. Ti avverto.»

Mi abbandonai svogliatamente e le molle del materasso cigolarono pigre sotto il mio peso mentre John, con un sospiro, prendeva posto accanto a me. Per qualche minuto non ci fu nient’altro che silenzio. I soli rumori erano quelli dei nostri respiri, che si fondevano con il fruscio delle foglie scosse dal vento in strada. Avevo un dannato bisogno di fumare, subito.
«Hai messo il broncio?» chiese John sottovoce, dopo un tempo che sembrò infinito, allungandomi una leggera gomitata nel fianco. Dalla mia bocca uscì uno sbuffo sonoro. Alzai gli occhi al cielo e lo vidi di sfuggita passarsi le dita fra i capelli, sistemandosi il ricciolo che gli ricadeva sulla fronte.

Senza degnarlo di una risposta, mi spostai di poco verso il cuscino alla mia destra. Lo alzai, prendendo la scatoletta rossa delle Marlboro che tenevo sempre lì sotto. La sigaretta scivolò fuori dal pacchetto, lasciando cadere qualche piccola fogliolina di tabacco sul mio candido vestito. Una volta a contatto con le mie labbra, la tensione si sciolse dalle mie spalle, liberandomi. Forse stavo sviluppando una dipendenza ma, fintanto che l’effetto fosse stato quello, non me ne sarei preoccupata. Ero calma, adesso.
Dalla scrivania di fronte a noi proveniva un luccichio argenteo; la flebile luce della lampadina rifletteva sull’accendino, facendolo splendere di tante piccole scintille. La stanchezza accumulata durante la giornata si fece sentire tutta assieme. Le gambe non accennavano a muoversi, le sentivo indolenzite, pesanti e formicolavano.
Mi sporsi verso John. Tenevo gli occhi chiusi e la Marlboro spenta stretta in bocca. Sapevo che stava sorridendo, e sono sicura che scosse anche la testa; aveva capito cosa volevo. Il letto traballò poco. Qualche secondo più tardi, la fiammella aveva raggiunto la punta della sigaretta ed il fumo inondato la mia gola. Buttai fuori dal naso; era amaro e pizzicava.

«Sono così incazzata con te».

Non lasciai trapelare nulla dal mio tono, era calmo e piatto.

«Allora non c’è proprio nessuna possibilità che tu me ne dia una?»

Lo fulminai con lo sguardo ma, vedendo come fissava il pacchetto delle Marlboro, non riuscii a trattenere una risata. Sperai non se ne fosse accorto.
Il fumo caldo scese fino ai polmoni un’altra volta, l’ultima boccata e poi passai la sigaretta per metà consumata a John. La testa girava, avevo un leggero senso di nausea.
Facendo appello alle poche forze che mi erano rimaste, riuscii ad arrivare all’interruttore della luce senza allontanarmi troppo dal letto. La lampadina smise di ronzare e la stanza piombò di nuovo nell’ombra. La brace della Marlboro continuava a bruciare; una piccola fiammella che si muoveva nell’oscurità.

Un flebile raggio di luna ci illuminava, lì seduti vicini sul letto, nell’aria troppe parole lasciate in sospeso. Volevo bene a John, ma non capivo cosa ci stesse succedendo. Tutto questo avrebbe determinato la fine della nostra amicizia?

Avvertii un’improvvisa fitta alle tempie e, senza preoccuparmi di infilare il pigiama, mi sdraiai, portandomi dietro di lui. Gustai la piacevole sensazione delle lenzuola fresche a contatto con la mia pelle. Ero contenta di aver lasciato la finestra aperta.

«Sono davvero stanca» mormorai con un filo di voce. John sbuffò fuori il fumo che mi pizzicò le narici.

Le molle del materasso scricchiolarono e, dopo essersi tolto le scarpe e spento la sigaretta nel posacenere sotto il letto, John mi raggiunse, finendo accanto a me. Fissavamo entrambi il soffitto, incapaci di guardare altrove. La mia camera sembrò immediatamente troppo piccola per tutti e due. Le nostre braccia si sfioravano appena; emanava un bel calore rassicurante. Percepivo una punta di imbarazzo, non osavo muovermi.

John fece scivolare le sue lunghe dita fra le coperte e mi afferrò un mignolo, accarezzandomi dolcemente. Il ritmo del mio cuore si fece irregolare, le guance ardevano. Chiusi gli occhi, sospirando e sperai che si fermasse lì. Il ricordo di quella, non proprio lontanissima, notte si fece più vivido che mai, ripresentandosi arrogantemente in un momento simile.
Avrei dovuto scansarmi? Cosa dovevo dire? Trattenni semplicemente in respiro.

«Mi sono comportato da idiota».

Girai la testa verso di lui, scrutai la sua faccia di profilo mentre si mordicchiava ansiosamente un labbro e mi rilassai. Come potevo trattarlo male, come avrei potuto?
Gli tirai un calcetto, ma non dissi nulla. Si liberò dalle mie dita e portò un braccio dietro la testa, sistemandosi poi su un fianco. Feci altrettanto e ci ritrovammo a fissarci negli occhi. Mi tuffai nella sua malinconia, nella sua irrequietezza e genialità.

«Sono solo io, lo sai questo. Vero, Abbey?»

La voce spezzata, due corpi nell’ombra, in una camera gelata. Perché dovevo provare quel senso di completezza quando ero con lui?
Dovetti riflettere per un attimo; era veramente solo lui? Annuii debolmente e la sua bocca si  increspò in un mezzo sorriso. Era così bello John senza la sua maschera, senza quella strafottente e ironica facciata.
Piano, si avvicinò, premendo le labbra sulla mia fronte. Un bacio leggero, carico d’affetto e mute promesse. Il suo profumo fresco mi circondava, mi stordiva e cullava.

Quasi sperai…

Lo abbracciai forte, cogliendolo di sorpresa. Rimase rigido per qualche secondo prima di lasciarsi andare. Ce ne restammo così, l’uno tra le braccia dell’altra, chissà per quanto tempo. Le lacrime premevano per uscire, ma sembrava così stupido piangere. Le sue mani mi stringevano, affondando nei miei capelli. Io tenevo il viso sul suo collo, ne sentivo il sapore sulle labbra. Le dischiusi appena, inspirando profondamente. Le nostre gambe intrecciate ci legavano stretti, come fossimo un tutt’uno. Cavolo, avevo bisogno di quel ragazzo. 

«No…» farfugliai quando capii che si stava allontanando.

No, no, no. 

Lo sentii ridere contro il mio orecchio per poi allacciarsi nuovamente a me.

«Resto con te».

Fu una delle cose più sincere e meravigliose che mi avrebbe mai detto in tutta la sua vita.  

«Mi hai spaventata stasera».

«Davvero? Scusa». Sistemò uno dei miei boccoli scuri da un lato ed io rabbrividii. Starsene insieme a lui, da soli, abbracciati, era una sensazione eccezionale. Nonostante tutto, riusciva ancora a trasmettermi una marea di emozioni diverse; serenità, protezione, tranquillità. Con lui ero a casa, ma non lo avrei mai ammesso ad alta voce.

«Scusa? Sei uno stronzo». Mi staccai da lui, dandogli le spalle. «Ma ti voglio bene. Non pensare che ti abbia perdonato, però» dissi, ma venni assalita dalla stanchezza e non sentii la sua risposta. L’ultima cosa che ricordo di quella notte è la mia pelle che prendeva fuoco sotto il tocco delicato delle sue dita.

 
 
Il caldo era asfissiante, quasi insopportabile. Ci misi un po’ a capire che John mi aveva sovrastata, schiacciandomi fra lui ed il muro. Russava sommessamente, con la bocca aperta. Una delle sue braccia mi cingeva un fianco, intrappolandomi. Quand’è che si era tolto la camicia? Arrossii al ricordo di quel che era successo, e cercai di liberarmi velocemente. Mi mossi senza preoccuparmi troppo; lo scansai, facendolo rotolare sull’altro fianco, e lo scavalcai. Il pavimento era freddo sotto i miei piedi, la testa pesante e la gola grattava.
La sveglia ticchettava fastidiosamente, avvertendomi che erano le nove e venti. Lo stomacò brontolò, lamentandosi. Mi allungai per chiudere la finestra e scesi subito in cucina. Avrei cucinato qualcosa.

Arrivata alla fine delle scale, qualcuno bussò alla porta con poca decisione. Chi poteva essere?
Girai la chiave nella toppa, e venni investita inaspettatamente dall’ intenso sguardo verde di Paul. Aveva un bel sorriso solare stampato in faccia ed io, prima di chiedermi cosa ci facesse lì, non potei fare a meno di pensare di avere gli occhi gonfi, le guance arrossate dal sonno e i capelli scompigliati. Cercai di rimediare, sistemandoli sommariamente con le dita, strecciando i nodi.

«Ehm, ciao».

«Ti ho svegliata?»

Forse arrossii. Feci finta di nulla, evitando di guardarlo direttamente negli occhi.

«Hai fatto colazione? Perché non entri?»

Mi scansai da davanti a lui per lasciarlo passare. Paul si grattò la testa e poi infilò le mani nelle tasche del giaccone scuro. Portava la custodia della chitarra in spalla.

«Ero passato giusto per un saluto, abbiamo le prove e vado un po’ di fretta».

«Ah. Sì, certo. Va bene».

Da quanto tempo era che io e Paul non ci facevamo una bella chiacchierata? Che fine aveva fatto il ragazzo che mi aveva permesso di andare avanti mentre ero a Manchester? Lo capii solo in quel momento; mi mancava, eppure era sempre con me.
Serviva un po’ di normalità nella mia vita. Niente affascinanti pittori, niente puntate notturne in camera mia. Solo… Paul, solo Paul.

«La prossima volta».

Un rumore alle mie spalle ci interruppe, le scale cigolarono malamente sotto alcuni passi pesanti e scalmanati. Un ragazzo biondiccio, con i riccioli spettinati, tentava di infilarsi una camicia a quadri il più in fretta possibile, inciampando poi in modo maldestro nei suoi stessi piedi. John soffocò uno sbadiglio, assumendo un’espressione fra lo stordito e l’assonnato, sperando di non far cadere la sigaretta che teneva stretta fra le labbra.

«Non sapevo fossi qui» asserì Paul, evidentemente confuso, guardando oltre me.  

«McCartney, che fai qua? Vola, siamo in ritardo!»

Si fece scivolare la Marlboro fra le dita facendomi un mezzo sorrisetto. Me ne doveva una, e me ne sarei ricordata.
John corse verso di me, mi imprigionò in fianchi schioccandomi un tenero bacio sulla guancia. La sua barba pizzicava appena, grattandomi. Era piacevole, però.

«Ripasso dopo».

Non fece neanche in tempo a salutarmi, che Paul venne trascinato fuori per il colletto del giubbotto. La porta sbatté e la casa piombò di nuovo nel totale silenzio. Rimasi lì per qualche secondo, ad ascoltare le loro voci sommesse che si allontanavano sul vialetto.

Sei stato con lei stanotte?

Oh, non fare così, Paulie. Lo sai che per me sei l’unico!

Fece John con una buffissima voce in falsetto. Sorrisi, scuotendo la testa. Perché non poteva sempre essere così?

Hai presente Allan Williams, John?

Riuscii a cogliere fra una risata ed un'altra, il tono diventava mano a mano sempre più leggero, ed ormai erano troppo distanti per poter capire bene di cosa stessero parlando.



Il tè bolliva in cucina, l'odore agro del limone mi teneva sveglia ed io non riuscivo a smettere di pensare. Tutto era tornato come prima, tutto era normale, ora, ed io non ero più tanto sicura che mi stesse bene così. 


 



Oh, ce l'hai fatta ad aggiornare, eh ?! 

Grazie, grazie, grazie a tutti quelli che continuano a seguirmi! :)

Ringraziamenti fulminei. 
Care Jane across the universe, weasleywalrus93, I_me_mine, MaryApple, MagicalMysteryJane e Jude_, I'm sending all my loving to you 


Devo scappare a ributtarmi fra le pagine di storia e filosofia, ora. 
Se avete qualche secondo di tempo, spendete due paroline per questa povera e indaffarata ragazza :3 

Alla prossima, speriamo il più presto possibile ! 
Un bacio, Giulia 
  
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