Ella
Fissò
per l'ennesima
volta il foglio bianco, incapace di scrivere qualsiasi cosa. Era
sempre stato così: era impossibile sapere cosa passasse per
la testa
di Ella, perché lei semplicemente non lasciava trasparire
nulla. Non
diceva nulla che lasciasse intuire qualsiasi particolare, qualsiasi
dettaglio di sé, e non perché fosse riservata.
Solo che neanche lei
riusciva mai a capire come esprimere quell'intreccio ingarbugliato
che era la sua mente. Nessuna parola avrebbe potuto descriverla,
neanche i suoi genitori avrebbero trovato un solo aggettivo per
definirla. Ella era così: indefinita. Un giorno era la
persona più
dolce del mondo, vestita come una figlia dei fiori e con i segni
della pace disegnati sulle scarpe. E il giorno dopo si trasformava in
una persona completamente diversa, una punk con tendenze femministe,
o un'aspirante scrittrice proiettata con la mente agli anni trenta.
Era impossibile capire che tipo fosse, perché non era un
tipo. Lei
era semplicemente così, Ella. Ella non trovava mai le parole
giuste
da dire. Non era capace di guardare negli occhi una persona e dire
quello che pensava, non era in grado di rivelarsi neanche alla sua
migliore amica per paura di essere sbagliata. O forse perché
sapeva
che nell'arco di cinque minuti avrebbe già cambiato idea.
Ella,
imprevedibile Ella. E adesso che i suoi occhi azzurro cielo erano
piantati sulla lettera priva di parole, cercava di trovarle, le
parole giuste. Le avrebbe inventate, se avrebbe saputo come fare; le
avrebbe trovate, se non fosse stata così maledettamente
chiusa e
timida. Sospirò rumorosamente, stringendo le labbra sul
tappo della
penna mordicchiato. Questa volta non sarebbe potuta scappare; avrebbe
dovuto davvero aprirsi con l'unica persona che avesse davvero cercato
di capirla. Il motivo? Un motivo non c'era. Ma forse, dopo un po' ci
si stanca ad essere sempre un mistero.
Mi
chiamo Ella.
Quando
lesse quelle parole, le venne da ridere. “Brava, ti chiami
Ella”
pensò, divertita. “Non ci era arrivato
nessuno”. Tuttavia,
continuò.
Ho diciassette anni e
vivo a Bradford da circa sette mesi. I sette mesi più belli
della
mia vita. Ho i capelli corti fino alle spalle e neri. Come la notte.
Come il mio carattere, a volte. E i miei sono occhi strani,
enigmatici. Adesso sono verdi, ma quando sono particolarmente felice
diventano di un azzurro chiaro. Cambiano, come me. Si adattano alle
circostanze. Ho una sorella più grande, Taylor, e i miei
genitori
sono Jade e Marc Stuart. Ecco chi sono, Ella Stuart.
Okay,
probabilmente adesso starai pensando che io stia diventando cogliona.
Scusa, pazza. È una lettera 'seria', devo cercare di essere
un po'
più delicata, per quanto mi sia possibile. Comunque, tu
tutte queste
cose le sai già. Lo sai che mi chiamo Ella, che ho
diciassette anni
e che vivo a Bradford. Tu sai chi sono. Eppure me l'hai chiesto tante
volte, 'Chi sei?'. Me l'hai chiesto la prima volta che ci siamo
visti, la prima volta che mi hai baciato, l'ultima volta che ci siamo
visti e un altro centinaio di volte. Ti ho sempre risposto ' Sono
io'. Non mi sembra che questo ti basti. Oggi, voglio risponderti per
bene. Chi sono? Chi è davvero Ella Stuart? Per dirti chi
sono devo
prima di tutto raccontarti la mia storia. E la mia storia è,
innanzitutto, la storia della mia famiglia. Non sono mai stata brava
con le parole, ma oggi cercherò di dire tutto quello che
c'è da
dire, forse anche cose di cui mi pentirò subito dopo.
Partiamo dal
principio.
I miei mi hanno sempre raccontato di essere stati buoni
amici, di essere cresciuti insieme e di aver avuto una bella amicizia
che, crescendo, si è trasformata in amore. Ovviamente, non
ci ho mai
creduto a questa str..scusa, cretinata. Così sono andata a
chiedere
a mia nonna e ho scoperto la vera storia di Jade e Marc. Jade era la
classica ragazza altezzosa, o almeno così sembrava; lunghi
capelli
biondi, occhi di un azzurro chiarissimo, gambe così lunghe
da non
sembrare vere. Non era di molte parole e, in realtà, non
sembrava
neanche che avesse molto da dire. Invece, quando iniziava a parlare,
lasciava tutti a bocca aperta per la sua enorme intelligenza e per la
sua stronzaggine. Già, perché mia madre era una
stronza. E così la
chiamava anche mio padre, quando la prendeva in giro dal campetto
della scuola con i suoi amici. Marc era il più popolare
della
scuola, ed anche il più bello. Sicuramente io non ho ripreso
da
loro. Comunque, inutile dire che le loro litigate le conosceva
l'intero quartiere. Ah se si odiavano, Marc e Jade. Passavano le ore
ad insultarsi, a guardarsi in cagnesco dalla finestra, a farsi
dispetti reciprochi. Per esempio, se Jade passando rubava le mutande
dallo stendi panni della signora Stuart, Marc ricambiava mostrando i
reggiseni della ragazza durante l'ora di fisica. Era un continuo
litigare, sotto gli occhi disapprovanti dei genitori. Fino a quando
non arrivò il ballo di Primavera. Mio padre aveva invitato
una
ragazza molto bella e davvero molto stupida, Lindsay Cock. I miei
nonni stavano appunto scattando le foto a loro due sotto il porticato
della scuola, quando mia madre si distrasse ed una macchina sportiva
la prese in pieno. Sotto lo sguardo stupito dell'intero istituto, mio
padre corse da lei ed iniziò...a piangere. Per lei, che in
teoria
odiava. Le tenne la mano per tutto il tragitto fino all'ospedale. E
non gliel'ha mai più lasciata. Devo dire che quando lo
seppi, mi
emozionai. Tre mesi dopo il diploma si sposarono, e un anno dopo
nacque mia sorella, Taylor. Taylor è... diciamo che Taylor
è
completamente il mio opposto. Taylor è sempre sorridente,
disponibile, come un libro aperto per tutti. Se Taylor ci rimane male
per qualcosa, lo si percepisce proprio nell'atmosfera. Quando Taylor
è triste, si rattristano tutte le persone vicino a lei,
perché
vedere Taylor triste è come vedere fuori dalla finestra in
un giorno
di pioggia, come vedere un bambino piangere con il gioco appena
comprato rotto tra le mani, come sapere che il ragazzo di cui ti sei
innamorata sta con un'altra. Vedere Taylor triste è una cosa
impossibile da spiegare a parole. So solo che quando la vedo triste,
sento il mio cuore spezzarsi dentro di me. Taylor è la
persona più
buona di questo mondo. Nessuno dovrebbe mai farle del male. Eppure
gliel'hanno fatto tante volte. Mi ricordo ancora quando tornava a
casa dopo che a scuola la prendevano in giro, la isolavano. Una
volta, tornò a casa con un occhio gonfio e le labbra
spaccate.
Ricordo che mia madre non disse una parola, ma prese il disinfettante
dallo scaffale con una scatola di garze e la fece sdraiare sul
divano. E fu allora che vidi per la prima volta i tagli.
Chissà da
quanto lo sapeva mia madre. Taylor, la mia sorellona, in
realtà era
un'autolesionista sottopeso con le braccia martoriate dalla lametta.
Per una bambina di sette anni, comunque, fu orribile vedere quelle
cose. Ho ancora la scena davanti agli occhi. Il giorno dopo, mia
madre trasferì mia sorella in un'altra scuola. Adesso quella
quindicenne indifesa ha venticinque anni, un marito e uno splendido
bambino di appena due mesi. Taylor adesso è felice.
Cominciò
a scrivere traballante, e si accorse di avere un leggero tremore alle
mani. Lasciò la penna sulla scrivania e fece un profondo
respiro,
cercando di reprimere dalla sua mente le immagini di quel pomeriggio.
Le cicatrici rosse ancora evidenti, il disgusto sul viso della
sorella alla vista delle sue braccia, l'occhiata di preoccupazione
della madre mentre disinfettava le ferite. Si morse un labbro, e
riniziò.
E poi ci sono io. La
figlia sbagliata, quella che
è sempre fuori posto. La sfigata che per molti è
senza amici,
mentre io preferisco dire “pochi ma buoni”.
Comunque, non è di
questo che voglio parlare. Io...credo che per farti capire come sono,
debba raccontarti alcune cose che già conosci, ma dal mio
punto di
vista.
Quando i miei mi dissero che saremmo dovuti venire a
vivere a Bradford, mi inc...arrabbiai tantissimo. Avrei dovuto
lasciare quelle poche amiche che avevo, per andare a vivere in una
città che, francamente, odiavo. Non li parlai per due
settimane. Il
motivo del trasferimento? Lavoro. Mia madre fa il medico, non decide
lei dove lavorare. Appena arrivati a Bradford, ero ancora
nervosissima. Entrai in casa senza neanche guardarla bene e mi
fiondai subito in quella che, teoricamente, avrebbe dovuto essere la
mia camera. Mi ficcai tra gli scatoloni impolverati e le scatole di
imballaggio e rimasi lì per almeno due ore. Forse mi
addormentai,
non ricordo. Il pomeriggio arrivò qualcuno a farci visita.
Io ero
stravaccata sul divano, con la mia ciotola di patatine e la mia
maratona di grey's anatomy alla tv. Il campanello suonò un
paio di
volte, ed ovviamente io non mi alzai ad aprire. Mamma mi
guardò come
tutte le volte che facevo qualcosa di sbagliato, con il sopracciglio
inarcato e le mani suoi fianchi. Sbuffai, ed andai ad aprire. Ricordo
che pensai “Se lo avessi saputo, mi sarei vestita
meglio”. Eri
stupendo. Indossavi una giacca di pelle e una maglietta aderente che
ti stava benissimo. Mi sono saltati subito agli occhi i tatuaggi, e
lì mi sei diventato un po' antipatico. Te l'ho mai detto che
odio i
tatuaggi? Li trovo così stupidi. Se hai bisogno di segnarti
qualcosa
di importante, te la tatui sul cuore, non sulla pelle. Comunque, sono
scelte tue. Ma la cosa che ti ha fatto davvero odiare è
stato quando
mi hai guardato dall'alto in basso, senza importanza, come se facessi
parte dell'arredamento. Ti ricordi? Mi dissi: “Ciao. Sono
Zayn, il
vicino. Volevo solo avvisarvi che stasera siete invitati a cena a
casa nostra, per conoscervi” e ti accendesti una sigaretta.
Altra
regola: io odio il fumo. Che soddisfazione, quando la buttai per
terra e tu mi fissasti stupito. “Scusami?” chiesi,
con aria di
superiorità. “Se vuoi fumare porti il tuo bel culo
fuori da qui e
ti accendi tutte le sigarette che ti pare” risposi
semplicemente,
buttandoti fuori dalla porta. Mi avrai mandato a quel paese in quel
momento, eh? “Montato” pensai solo, prima di
chiudere la porta
con uno scatto rumoroso. Quella sera, venimmo a casa tua. Ero ancora
molto nervosa, soprattutto nei tuoi confronti. Per fare un dispetto a
mia madre, mi infilai i jeans strappati che lei odiava e le etnies
più grandi di almeno due numeri. Entrai in casa tua con una
certa
diffidenza e mio padre, per precauzione, mi appoggiò una
mano sulla
spalla come per avvisarmi. Perché mi conosceva abbastanza
bene da
sapere che c'era qualcosa che non andava. La serata non fu una di
quelle indimenticabili, però non andò neanche
malaccio. Doniya e
Waliyha erano davvero molto simpatiche, a differenza tua. Ti odiavo
già, mi ero accorta delle tue occhiate poco carine nella mia
direzione e del tuo modo strafottente di picchiettare con la
forchetta sul tavolo. Devo ammetterlo, eri davvero bellissimo. Credo
che la prima cosa che mi abbia colpito di te siano stati gli occhi.
Sono così profondi, sembra che ci sia un universo dentro.
Chissà se
in quell'universo c'è un po' di spazio per me. Con Doniya ci
scambiammo i numeri di cellulare, già la consideravo una
specie di
amica. Iniziammo a parlare per telefono ogni giorno e, quando c'era
la possibilità, lei veniva sempre a casa mia,
perché di stare a
casa sua con te nei paraggi non era proprio il massimo. Parlammo
della nostra vita, delle sue delusioni d'amore, mentre io mi limitai
a dire di non essere interessata a nessun ragazzo. Non ero mai stata
con nessuno, quindi non avevo molto da dire. Mi raccontò
anche di
te, della tua fama, del tuo gruppo. Non credevo di avere a che fare
con una celebrità, e rimasi un po' scioccata. Ero curiosa di
ascoltare la tua voce, così andai su youtube e cliccai sulla
tua
audizione ad x factor. Eri bravo. Solo a sentirti mi erano venuti i
brividi, ed il cuore batteva un po' più forte del normale.
Pensavo
che da un momento all'altro mi sarebbe uscito dal petto, avrei potuto
giurare che sarebbe esploso come l'amore che provavo
inconsapevolmente per te. Dopo un paio di giorni, mi arrivò
una
lettera. Lo trovai da subito strano; insomma, lettere quando ormai
tutti inviavano email. E poi non c'era neanche scritto l'indirizzo,
quindi probabilmente l'avevano infilata nella cassetta della posta
senza spedirla. La aprii, sorpresa. C'era scritta solo una frase, al
centro del foglio. “Non ho mai avuto le parole da dire, ma
adesso
ti chiedo di stare per un piccolo istante nelle mie braccia”.
Anonimo. Pensai subito ad uno scherzo, ma in fondo ci speravo che ci
fosse qualcuno così “innamorato” da
dedicarmi queste frasi
d'amore. Neanche sapevo che era in una delle tue canzoni. Ogni
giorno, c'era una di queste lettere, ed ogni volta sorridevo leggendo
quelle poche righe. Ormai andavo a dormire con una di quelle frasi
in testa e mi risvegliavo con la mente già proiettata alla
cassetta
della posta. A scuola ero più tranquilla e sempre di buon
umore;
iniziai a fare amicizia con quasi tutte le ragazze della mia classe,
scoprendole davvero simpatiche. Non rispondevo male a nessuno,
parlavo di più con mia madre e aiutavo perfino in casa. Ti
iniziai a
considerare perfino simpatico, forse perché passavo a casa
tua la
maggior parte del tempo. Comunque, non eri malaccio. Non volevo
ammettere a me stessa di essere già presa tantissimo da te.
Un
pomeriggio di due settimane dopo la prima lettera, ero a casa tua.
Dovevo andare al cinema con Doniya, ma non era ancora pronta;
così,
mi disse di aspettare in camera sua. Ti avvistai dalla soglia della
porta, con un sorriso sornione sulle labbra. “Ciao,
Ella” feci un
cenno con la mano in risposta, ma tu al posto di andartene ti
avvicinasti. “Come va?” sentivo il tuo fiato
solleticarmi le
labbra, mentre la tua mano giocherellava con un filo che fuoriusciva
dal bordo della mia maglietta. Deglutii a fatica, cercando di
mostrarmi a mio agio. Non credo di esserci riuscita. Continuavi a
fissarmi e a mandarmi in paranoia con il tuo sguardo divertito
puntato nel mio, così preferii far finta di dover andare in
bagno.
“Vai in quello davanti alla mia camera, l'altro è
occupato” mi
avvisasti, allontanandoti per le scale. Ringraziai mentalmente il
cielo e mi affrettai a raggiungere il bagno. Stavo per aprire la
porta, quando notai il tuo nome inciso sulla porta di legno di
fronte. La tentazione fu troppo forte, così entrai in camera
tua con
fare furtivo. Cercavo di convincermi di non essere interessata
effettivamente a te, ma di non avere nient'altro di meglio da fare
che gironzolare fra la tua roba. Sentii un rumore, e per sbaglio feci
cascare una pila di libri dalla scrivania in disordine. Mi affrettai
a rimettere tutto a posto, quando mi ritrovai un foglietto di carta
perfettamente curato in mano. Mi bastò uno sguardo alla
calligrafia
e all'impostazione della frase che già avevo capito tutto.
Le
lacrime scesero automaticamente, senza importarsene nulla della mia
volontà. È questo il problema delle lacrime; a
loro non importa
nulla di quello che pensi, non ti chiedono il permesso di scendere e
di farti apparire debole. Semplicemente, corrono prepotenti sul tuo
viso, mostrando a tutti chi sei realmente, mostrando a tutti i tuoi
sentimenti. Forse questa fu la prima volta in cui tu mi vidi
esattamente per quello che ero. Debole. Dopo pochi secondi, eri
già
in camera tua con un'espressione sconvolta e i capelli in disordine
per la fretta. “Che ci fai qui?” dicesti solamente,
facendomi
piangere ancora di più. “ E' tutto quello che sai
dire? 'Che ci
fai qui'?” e senza neanche aspettare una tua risposta, me ne
andai,
con il petto pervaso dai singhiozzi. Stetti male per giorni, ma tu
questo lo sai. La cosa che non sai è che io ci rimasi male
non
perché era tutto finto, ma perché tu mi avevi
preso in giro. Tu.
L'ultima persona che avrei voluto che mi prendesse per il culo,
fammelo dire, lo aveva fatto in pieno. Mi sentivo come una bambina di
sei anni quando, per non dirle che la tartaruga era morta, le
raccontavano che era andata a fare una passeggiata e che non era
più
tornata. Ecco, il mio cuore era andato a fare una passeggiata e io lo
stavo ancora aspettando. Per una settimana, ti evitai completamente.
Con tua sorella ci parlavo solo per telefono, ed appena sentivo la
tua voce chiudevo la chiamata con un gesto secco. Non ti volevo
sentire. Non ti volevo vedere. Volevo semplicemente far finta di aver
dimenticato tutte le lettere e le parole dolci, quando in
realtà
passavo le sere a rileggerle con i pacchetti di fazzoletti di fianco.
Passavano i giorni e praticamente non ti vedevo più. Pensavo
che te
ne fossi tornato a Londra, e dentro stavo morendo, perché
non ti
avevo neanche potuto salutare. Anche se non avrei voluto salutarti.
Stavo guardando per la milionesima volta Letters to Juliet in camera
mia, quando sentii un colpo alla finestra. Poi un altro. Aprii la
finestra, e per poco un sasso non mi colpì sulla fronte in
pieno.
Credevo di avere a che fare con uno di quei ragazzini stupidi
così,
senza pensarci due volte, afferrai il mio libro di chimica e lo
buttai giù con tutta la forza che avevo. Solo quando sentii
un
rumore che non prometteva niente di buono, scesi di corsa per le
scale; non perché fossi preoccupata, ma perché
non avrei voluto
pagare una multa per aver picchiato un bimbetto viziato. Per
previdenza, uscii fuori con un sacchetto di ghiaccio in mano e
cercando di inventare una scusa credibile. “Mi dispiace
tanto,
credevo che fosse uno dei tanti stupratori seriali che si vedono in
tv” dissi, reprimendo una risata. Ma quando vidi il
“bimbetto
viziato” non mi venne per niente da ridere. “Credo
che questo sia
tuo” mi dicesti, e mi porgesti il libro massiccio.
“Grazie”
mormorai, senza il coraggio di guardarti negli occhi. “Tieni,
dovrebbe farti passare il dolore” lasciai il sacchetto
ghiacciato
nella tua mano e feci per scostarmi, ma tu mi prendesti la mano e me
la baciasti leggermente. Ti ricordi? Il mio cuore se lo ricorda. Era
appena tornato. “Non l'ho fatto per prenderti in
giro” iniziasti,
guardandomi serio. “L'ho fatto perché mi piaci,
l'ho fatto perché
sei la ragazza più carina e stronza che io abbia mai
incontrato,
l'ho fatto perché ti odio e perché volevo
farlo” non ebbi il
tempo materiale di formulare un qualsiasi pensiero che le tue labbra
erano sulle mie. Il mio primo bacio. Non mi ero mai sentita
così
leggera e così pesante allo stesso tempo. Credevo che se tu
mi
avessi lasciato le mani, sarei volata via dalla felicità.
Sentivo il
tuo calore sulla mia pelle, nella mia mente non c'era altro se non il
tuo viso stupendo, il tuo respiro caldo sulle mie labbra e le tue
mani che stringevano strette le mie. Quelle mani che ho stretto forte
fino ad una settimana fa, quando te ne sei andato. Mi manchi. Non mi
sembra possibile di dover aspettare ancora tre mesi per vederti; non
mi sembra giusto che uno stupido tour mi debba impedire di vedere il
mio ragazzo per tantissimo tempo. Ci pensi ogni tanto a me? Spero di
sì. Ho ancora nella mente la tua promessa, quella di non far
passare
neanche un'ora senza sentirci. Che sia una chiamata, un messaggio o
un'email, non importa. Fino ad adesso l'hai mantenuta. Per tornare
alla domanda iniziale, chi è Ella Stuart? È una
ragazza dolce,
sincera (anche troppo), masochista, testarda, strana, timida ed altri
mille aggettivi. Ma soprattutto sono Ella, la ragazza che ama Zayn.
Dopo sette mesi, te l'ho detto alla fine. Ti amo. Mi dispiace solo
che invece di guardare i tuoi occhi, io stia guardando uno stupido
pezzo di carta. E adesso sono spaventata a morte, spaventata di
avertelo scritto per la prima volta e non detto, spaventata dal fatto
che tu possa anche non ricambiare. Ma nella vita bisogna buttarsi a
volte. Adesso chiuderò questa lettera in una busta, la
spedirò, e
mi pentirò mille volte di tutte queste stupidaggini che ti
ho
scritto. Forse riderai, per la mia idea stupida di farti capire chi
sono con una lettera. Però dovevo farlo.
Ti amo,
Ella.
-
Zayn, è arrivata una lettera per te! - urlò Liam,
guardando
velocemente la posta. - Zayn, hai capito?
-
Sì, ho capito. -
sbuffò, sbadigliando. - Da parte di chi è? Se
è la bolletta della
luce, lascia perdere.
- No, credo
che sia da parte di Ella.
Il
moro praticamente corse, con un sorriso stampato sulle labbra. Liam
gli porse la busta e il ragazzo strappò con un gesto secco
la
sottile carta spiegazzata. Iniziò a leggere, dapprima
stupito, poi
concentrato, e alla fine le mani tremavano talmente tanto da rendere
impossibile la lettura. Un solo pensiero attraversava la sua mente.
“Lei mi ama”.
- Zayn, ti
senti bene? - domandò l'amico,
leggermente preoccupato.
- Ella mi ama.
- riuscì a balbettare
soltanto. “No, tu non sei Ella, colei che ama Zayn”
pensò,
sorridendo “Sei Ella, la ragazza amata più di
qualsiasi altra cosa
al mondo da Zayn”.