Capitolo II ~
Alla luce carminia del palco, Dauphine inarcò
languida la schiena.
I riccioli neri calarono dalle guance fin sotto
l’orecchio, lasciandosi dietro lo splendore di una lacrima bianca lungo lo
zigomo; il cadere delle ciocche scoprì il taglio obliquo degli occhi, la linea
allungata delle palpebre e le ciglia punteggiate di polvere bianca. La curva dei
seni si mosse a ritmo del respiro, le labbra, arcuandosi, crearono due fossette
tanto graziose che Francis si ritrovò a sorridere.
Dauphine era bella, considerò nel sorseggiare lo
champagne, sembrava Dita(1). Aveva tutto di lei…tranne il neo.
Il flute tintinnò, il Clicquot gettò barbagli dorati
nell’ombra del locale; Francia sfiorò a punta di dita il collo del bicchiere e
gli occhi tornarono a seguire il profilo di Dauphine, il bel ventre piatto e le
gambe modellate dall’artista più fine.
Il Crazy Horse era il luogo perfetto in cui
dimenticare gli affanni: ogni preoccupazione spariva al calare delle luci, ogni
rimorso cancellato dagli occhi profondi delle ballerine, ogni dubbio reso
incolore dall’oro dello champagne. Bastava così poco per scordare così tanto!
Marianne raccontava della sua bella Borgogna se ti vedeva addolorato, Louisette
sorrideva per te e per il mondo intero, un’espressione di genuina serenità che
le sollevava le labbra rosse, e Cyprienne, dall’alto dei suoi trentacinque anni,
si comportava come una madre benevola, atteggiandosi allo stesso modo con
Francis e permettendogli di poggiarle la testa in grembo, quando loro erano
soli ed il locale vuoto .
A quante, quante di loro aveva confidato segreti e
sussurri, dato un bacio e una carezza, di quante aveva lodato le innegabili
grazie e sottolineato con cortese fermezza le altrettante mancanze!
Il Crazy Horse era il ricovero perfetto per chiunque
avesse il cuore spezzato e l’animo sempre a sospirare. Non era il Val d’Amour(2),
naturalmente. Lì nessuno annegava nel vino dopo essere rinato dalla morte
d’amore, Francis aveva dato istruzioni insieme ai proprietari circa questo
possibile ed alquanto opinabile comportamento da parte dei clienti.
Eppure, quella sera Francis si accorse che nemmeno
il Crazy Horse riusciva a restituirgli il più vago accenno di tranquillità:
doveva concentrarsi per seguire
l’esibizione di Dauphine, ricordarsi
di guardare come i palmi delle sue mani si appoggiassero al palo e stringessero
con forza, mentre il corpo si curvava all’indietro e il collo si inarcava, le
labbra si schiudevano e le spalle si stringevano contro il torace splendente di
nero e brillanti.
-Mon Dieu-
si arrese, stringendosi la radice del naso tra le dita.
Una cameriera vestita di turchese si chinò a
chiedere se volesse dell’altro champagne e Francia rifiutò con un gesto secco
della mano; non sollevò nemmeno gli occhi, non le prestò la benché minima
attenzione.
Ecco, ecco cosa gli mancava quella sera. L’attenzione. Qualcosa lo distoglieva non
solo da Dauphine e dal Crazy Horse, ma da Parigi e dalla Nazione intera.
Una sensazione scomoda all’altezza dello stomaco, un
ribollire inquietante lungo la spina dorsale, un qualcosa di estraneo, che gli bloccava
il respiro e gli torceva la gola per il panico. Non sapeva dare un nome a quel
terrore improvviso, era come una voce ovattata che dall’angolo più remoto della
mente gli urlava di fare attenzione, che qualcosa stava precipitando, che si
doveva affrettare prima della tragedia.
Quale fosse la tragedia in questione, non avrebbe
saputo dirlo.
Al contrario, sapeva benissimo chi fosse l’attore
protagonista, perché non c’era stato istante, da quando si era chiuso la porta
di casa sua alle spalle, in cui quel nome non fosse affiorato alle labbra o al
cuore. Un Meeting, un articolo su Le
Figaro o anche solo un commento, ecco…era lì. Sempre lì. Costantemente lì. Non
lo lasciava andare, si aggrappava con forza alla memoria per non essere
dimenticato.
E sì che, fra i due, ad essere sempre considerato il
più molesto era proprio Francis!
-Mon
Angleterre- sussurrò -Cosa stai facendo?-
***
Arthur regolò l’ultimo specchio affinché la
superfiche riflettesse il libro aperto al centro della stanza, così come aveva
fatto con gli altri sei, posti in circolo attorno al vecchio volume. Si passò
il dorso della mano sulla fronte e prese un sospiro, fissando soddisfatto il
proprio lavoro.
Il pentacolo tracciato col gesso sulle assi del
pavimento aveva già cominciato a risplendere: sfarfallii di luce verde e bianca
si sollevavano piano piano, sostavano a mezz’aria, tremolavano, schioccavano
l’uno contro l’altro ed infine esplodevano in un tenue scintillare di
pulviscolo dorato. Tutta la stanza vibrava per i flussi e le correnti incantate
che colavano dagli angoli del soffitto e dal sottosuolo, i crocchiolanti
sussurri di fate e spiriti soffiavano tra la polvere grigia, colori e suoni si
scioglievano, torcevano, amalgamavano lentamente sugli specchi, venivano
risucchiati un istante e quello dopo già sbocciavano in nuove formi e profumi inconsueti.
-Let’s begin-
Inghilterra sorrise a se stesso.
A grandi falcate arrivò fino alla porta, controllò
che nessuno si fosse nel mentre intrufolato in casa sua, chiuse, serrò a chiave
e indossò il mantello di lana pesante; calò il cappuccio fino a tenere scoperta
solo la bocca. Gli occhi, tenuti nascosti dal tessuto, si dovettero abbassare
per leggere l’incantesimo: una forma di umiltà nei confronti delle Arti, una
timorosa devozione verso la Magia che le altre Nazioni e finanche gli esseri
umani avevano finito per dimenticare.
-Per ingannare
il mondo, prendi l’aspetto del mondo- mormorò e non poté fare a meno di
chiedersi cosa avrebbe pensato il vecchio William nel sapere quale potere fosse
nascosto in una delle sue opere più celebri -Porta il benvenuto negli occhi-
Un lampo e colonne di luce si innalzarono dai lati
della stella a cinque punte: una muraglia scintillante di sguardi e bocche e
voci svettò fino al soffitto, il buio ingoiò ogni urlo ed ogni grido che ne
incrinava le pareti, bulbi bianchi e globosi si spinsero fuori dalla
superficie. Lacrime molli e pastose si cementificarono sotto di essi,
palpitarono e scoppiarono, lasciando al loro posto nuovi occhi ed altre bocche.
-Nella mano-
Arthur dovette stringere i denti per non urlare. Il
fiotto caldo dell’incantesimo eruppe e straripò nelle arterie, si sostituì al
sangue e cominciò a premere, a premere, a premere ancora contro la carne, la
pelle, gli arti, fino a gonfiarsi dentro la vena dell’avambraccio e
fuoriuscire, colare fino al polso e da lì gocciolare, plic plic plic, sul pavimento e sul pentacolo.
Dalle pareti le bocche storte presero ad intonare
lamenti e canti di gioia, gli occhi risero e piansero insieme.
I polmoni di Inghilterra si torsero nel petto, il
respiro si sgretolò contro le labbra serrate; avvertì le lacrime trapassare le
cornea come spilli bollenti, raggrumarsi e solidificarsi agli angoli della
palpebra.
-Nella lingua-
Preghiere senza voce gli esplosero nella testa,
piagnucolii, guaiti, invocazioni a divinità dimenticate fecero tremare le
fondamenta dell’abitazione. Una crepa scricchiolante si disegnò sulle pareti
bianco-verdi, seguendo un taglio obliquo; ramificazioni lucenti partirono da
essa e si congiunsero l’una con l’altra senza darsi pena di trafiggere le
bocche e gli occhi imploranti. Stille di muco pallido eruppero dalle
incrinature, i sette specchi ebbero un sussulto.
-Prendi
l’aspetto dell’innocente fiore- ansimò Arthur, le spalle, la schiena, le
braccia, le gambe, il torace trafitti da dolori allucinanti. Doveva resistere.
Ancora poco e avrebbe raggiunto lo scopo che si era prefissato.
Quell’idiota di Francia si lamentava di lui ed
esigeva che cambiasse? Bene, il Tanuki aveva ragione, aveva ragione su tutto.
-Ma sii il
serpente sotto(3)-
Le mura del pentacolo esplosero, lampeggiarono, si
spezzarono, frammenti di cristallo saettarono, fischiarono, accoltellarono gli
specchi nel loro centro esatto.
Un sorriso sollevò le labbra dell’inglese.
..Ora Francis avrebbe avuto esattamente quello che voleva.
***
-Monsieur Bonnefoy,
non vi è piaciuta la mia esibizione?-
E quando Dauphine sporgeva le labbra a quella
maniera, sarebbe stato impossibile per chiunque dire di no. Anche l’animo più
rozzo si sarebbe piegato di fronte ai suoi occhi scuri, ancora lucidi per
l’emozione; nessuno mai avrebbe potuto negare la felicità a quella bocca tanto
splendida che il solo lasciarla inviolata sarebbe stato da considerarsi come il
peggiore tra i peccati.
Tuttavia, Francis si trattenne e si limitò ad
ordinare due bicchieri del miglior champagne. Dauphine sorrise come una
bambina, leccando appena il labbro inferiore con la punta della lingua; a quel
gesto, le fossette che Francia trovava deliziose tornarono a disegnarsi sulle
guance, donando a quel suo viso da fanciulla una nota di infantile, sensuale
malizia.
Francis le carezzò con dolcezza il volto.
-Ma certo che mi è piaciuta, mon trésor- la rassicurò, tirandosi appena indietro perché la
cameriera potesse posare con calma i flute sul tavolino -Sei stata splendida,
dunque perché dici così, hm?-
-Bhè..- Dauphine scosse le spalle, piegò un poco la
testa e lo osservò da sottinsù, la bocca stretta in una graziosa aria di
rimprovero –Non mi avete guardata un solo momento, dacché sono salita sul
palco- gnaulò, sbattendo piano le ciglia.
Ah, ma petite
Dauphine, ma come potrei mai resisterti se mi guardi così?
-Perdonate questo povero sciocco- Francia si portò
una mano al cuore e le rivolse un inchino di scuse –Troppi pensieri occupavano
la mente di questo povero vecchio, perchè potessi godere appieno della tua
bellezza rasserenatrice-
La ballerina lo fissò di nuovo, questa volta con
espressione che ne denotava tutta la maturità –e lasciava scoperto ogni
desiderio od intenzione.
-Lasciate che mi esibisca solo per voi, allora.
Permettete che conceda solo a voi la bellezza rasserenatrice che tanto
acclamate-
Sorrise e Francis si ritrovò a non saper rispondere.
Ancora quella sensazione di pericolo non l’aveva
abbandonato, anzi, non aveva fatto che acuirsi: il pensiero di Arthur non era
mai stato così forte come in quel momento, l’idea che gli stesse capitando
qualcosa, qualunque cosa, non riusciva ad abbandonarlo.
Ma gli occhi di Dauphine lo osservavano e le labbra
rosse modellavano soavemente il nome Francis.
***
Il bambino lo fissò e Arthur fece lo stesso.
Dentro lo specchio il piccolo-se stesso si tolse il
cappuccio, rivelando una zazzera di capelli lunghi, folti e stopposi. Il tocco di Francia non sarebbe stato di
troppo.
Inghilterra osservò il bambino.
-Sei me che tu vuoi?- gli chiese il piccolo.
Era lui che voleva?
Niente più che un fanciullo, figlio delle foreste e
dei fiumi, che tirava frecce smussate e lanciava pietre contro i nemici. Una
Nazione con le ginocchia sbucciate e gli occhi grandi, che intrecciava corone
di fiori con un bambinetto col vizio di vestirsi da donna.
Era quello che voleva?
Tornare all’infanzia, ai cielo azzurri e ai boschi,
ai templi sacri coperti di fronde e impreziositi da intarsi di stelle. Tornare
ad un momento in cui considerare quella rana bionda un qualcosa di sì, no,
forse, vagamente simile se non ad un amico, quantomeno ad un conoscente.
Tornare alla debolezza. Tornare ad essere
maltrattato, ancora troppo piccolo per imporsi, ma già troppo grande e
orgoglioso per ammettere la sottomissione. Tornare a non avere armi abbastanza
affilate per difendersi.
Era quello che voleva?
-No- rispose Arthur.
E il piccolo-se stesso venne dilaniato dal primo
sbuffo di fumo.
Lo specchio tornò opaco.
***
La bocca di Dauphine era calda e sapeva di champagne
e tabacco.
I denti erano affilati, la lingua aveva una piccola
escrescenza cicatriziale sulla punta, forse un vecchio piercing prima che
entrasse nel Crazy Horse? Poteva essere, ma certo Francis non si sarebbe
fermato in per chiederlo.
Dauphine torse il collo e Francia arrivò a lambire
con baci e morsi la clavicola, strinse la pelle tra le labbra dove sentiva il
cuore palpitare con forza contro la pelle; la ragazza emise un gemito
soddisfatto e si strinse a lui, le
unghie affondate nelle spalle.
Anche Arthur era solito aggrapparglisi alle spalle,
considerò Francis nel sostenere la nuca di Dauphine con una mano, prima di
rendersi conto che pensare ad Inghilterra mentre aveva le gambe di una
ballerina del Crazy Horse attorno al bacino, petto contro petto con la suddetta
e la schiena di lei contro la parete del camerino…bhè, forse non era proprio
quello che si diceva una cosa molto onorevole.
Né per Dauphine, né per Arthur.
Soprattutto per Arthur.
Forse non avrebbe dovuto accettare l’invito di
Dauphine, constatò, le labbra della ragazza sulle proprie, il seno che premeva contro
il torace.
Era un atto sleale.
Oh, quando era stato il momento preciso in cui le
mani di Dauphine erano scese alla cintura? Non importa, non importa, cosa stava
dicendo? Ah, sì. La slealtà.
Per quanto non stesse ufficialmente con Arthur e per
quanto dopo il litigio non si fossero più rivolti neanche un insulto, ma solo
fredda cortesia, Francis trovava che passare la serata con’altra potesse
benissimo essere considerato un atto fedifrago.
Le dita di Dauphine all’inguine gli diedero un
ottimo motivo per sussultare e raddrizzare il viso. La ragazza corrugò la
fronte, fissandolo con palese confusione.
-…Monsieur?-
chiese, il sopracciglio ben inarcato sopra l’occhio destro.
-Dauphine, io-
Devo correre da
Arthur.
Un pensiero tanto improvviso da risultare
destabilizzante.
Devo correre da
Arthur.
Subito.
***
L’usbergo pareva d’oro alla luce obliqua proveniente
dall’angolo della cornice. Le manopole dei guanti scricchiolarono, gli anelli
della maglia di ferro emisero un fioco tintinnio.
Dentro lo specchio, il Cavaliere-Arthur spostò il
peso sul ginocchio sinistro e le piastre dei gambali lanciarono un barbaglio
metallico.
Inghilterra osservò il riflesso in armatura.
-Sei me che tu vuoi?-
Era lui che voleva?
Il Cavaliere. L’uomo d’armi. La spada santa e sacra
del Re e del Regno, colui che cavalcava lungo l’orizzonte tinto di fiamme,
sangue e fuoco.
Era quello che voleva?
Tornare ai giorni di gloria, allo squillo delle
trombe e ai vessilli, alle campagne senza fine dove non c’era spazio per
riposo, né modo di pentirsi. Tornare ad un momento in cui era lecito considerare
quella rana bionda al tempo stesso nemico giurato ed un fido alleato.
Tornare all’incertezza delle guerre dinastiche.
Tornare ad essere scisso, bianco figlio di una rosa, dal sangue rosso come i
petali del fiore che tanto amava. Tornare ad essere il perdente dei territori
continentali. Tornare a stringere tra le mani non solo la spada, ma anche un
pugno di cenere.
Era quello che voleva?
-No- rispose Arthur.
E il Cavaliere scomparve tra il clangore delle armi.
Il secondo specchio tornò opaco.
***
-Allô. Cléophée Gassion à l’appareil, j’écoute-
-Cléophée, sei molto carina anche quando ti
svegliano d’improvviso a notte fonda, te l’ho mai detto?-
Dal cellulare arrivò lo sbuffo divertito della
segretaria e lo schermo, impostato per la video chiamata, restituì l’immagine
di una donna sui venticinque, ventisei anni, con gli occhiali rettangolari di
traverso sul naso e scarmigliati capelli neri.
Francis, che per evitare problemi con la polizia e
non perdere tempo col telefono tra l’orecchieo e la spalla aveva messo il
cellulare sul cruscotto, le fece un sorriso ed un saluto. Le guance di Cléophée
si arrossarono appena mentre cercava di recuperare un minimo di professionalità
anche alle due di notte.
-Posso esserle utile in qualche modo, monsieur Bonnefoy?-
-Oui, ma
petite. Vorrei che mi prenotassi il primo volo disponibile per Londra.
Dovrei essere al De Gaulle in meno di dieci minuti-
-Un vol…monsieur, sono le due di notte! E’ sicuro
che non ne vorrebbe uno per domani mattina?-
-Non-
replicò Francis, ferreo.
Si fermò con disappunto al semaforo rosso e si chinò
in avanti, in modo da essere completamente nella visuale del cellulare di
Cléophée.
-Se non è disponibile un volo pubblico, prenotami un
aereo privato. La mia partenza deve essere immediata-
-Mais, mais
monsieur…!- la segretaria scosse il capo, gli occhi sgranati –Un volo
privato? Monsieur Hollande è stato
informato? State andando a Londra per ragioni..-
-Personali-
Il semaforo tornò verde e Francia non si diede cura
di superare il limite imposto. Più il tempo passava più il freddo che gli
attanagliava la gola si faceva più intenso.
-Monsieur
Hollande non deve essere informato per alcuna ragione. In caso dovessi rimanere
a Londra per più giorni provvederò io stesso ad informarlo. Preleva pure i
soldi per il biglietto o per il volo privato dal mio conto. E, oh…!- si
interruppe, immettendosi nel parcheggio de De Gaulle -Un’ultima cosa-
-D-Dica, monsieur-
Francis non la biasimò per lo sguardo allibito –probabilmente
se si fosse guardato allo specchio si sarebbe concesso la stessa espressione.
-Mandate un mazzo di rose al Crazy Horse, per la
signorina Dauphine. A mio nome-
-E’ la sua preferita?- si interessò Cléophée, preda
di quell’atavico istinto da pettegola che Francia trovava adorabile.
-Non dire sciocchezze, ma petite! Lo sai che quella sei tu~
E chiuse la comunicazione.
Sto arrivando, mon
Arthur.
***
C’era odore di mare, salino incrostato nei viticci
della cornice; un reflusso continuo di onde disegnava immagini sgangherate
sulla superficie chiazzata di vino e altra robaccia che Arthur, sinceramente,
non voleva sapere cosa fosse.
Dentro lo specchio, il Corsaro-Arthur si levò il
cappello a tesa larga e fece un inchino, sollevando poi il capo con un ghigno
ben visibile sulle labbra livide.
-Sei me che tu vuoi?-
Era lui che voleva?
Il Corsaro. Il padrone dei Sette Mari e degli
Oceani, che sapeva il canto del mare e chiamava le sirene per nome. Lui, che ne
poteva ascoltare la voce senza temerne l’incanto, senza temere neppure la
morte.
Era quello che voleva?
Tornare ai giorni in cui l’unico limite era quello
delle stelle sempre distanti, al mare che mai taceva, al rollio delle navi,
alle scorribande, alla libertà del vento e delle terre vergini, alle collane di
perle e all’oro maledetto. Tornare ad un momento in cui gli era possibile considerare
quella rana bionda un mero trastullo sull’isola di Tortuga, dove non esistevano
alleati o nemici.
Tornare alla lettera di corsa stretta nel pugno.
Tornare ad inginocchiarsi ad un amore che mai sarebbe stato ricambiato, alla
costrizione di baciare la mano della Vergine, ma mai le sue labbra. Tornare ad
essere l’ultimo pirata ed il primo corsaro. Tornare a rimpiangere la Jolly
Roger e i suoi ossi incrociati, il sorriso sghembo e le orbite vuote.
Era quello che voleva?
-No- rispose Arthur.
Il Corsaro-Arthur allargò le braccia e fece un unico
passo indietro, prima di venire inghiottito dalle onde.
Il terzo specchio tornò opaco.
***
Se sua madre Gallia fosse stata
ancora in vita, certo avrebbe dato a quella sensazione di panico un significato
ben diverso da quello che gli stava attribuendo lui.
Lei lo avrebbe visto come la voce
silenziosa degli Dei che lo invitavano a prestare attenzione alle correnti
avverse del mondo e del destino. Lo avrebbe considerato un richiamo dell’anima
divina che tutti loro, loro che erano graziati della lunga vita, possedevano e
condividevano con la forma propria degli esseri umani.
Ma Gallia era scomparsa troppi
secoli addietro perché Francis potesse ancora dare peso a quelle parole.
Un presentimento? Forse. Non c’era
giorno in cui quel maldestro inglese non si cacciasse in qualche rocambolesco
guaio o dentro qualche pub dalla fama più che dubbia, dunque l’andare a
recuperarlo più che un segnale divino era ormai un’abitudine. Che dovesse
toglierlo da sotto le mani di qualche tifoso piuttosto alticcio o fosse
costretto a portarlo a casa sulle spalle per qualche bicchiere di troppo, il
risultato era sempre lo stesso.
Arthur combinava qualche pasticcio
e Francis arrivava da lui per aiutarlo a risolverlo.
C’erano stati persino dei momenti in
cui gli era venuto il dubbio che Inghilterra lo facesse di proposito a
comportarsi così, solo per vederlo arrivare senza bisogno di chiamarlo
personalmente.
Perché, alla fin fine, erano tutte
bazzecole. Scuse. Pretesti.
Arthur era troppo orgoglioso per
ammettere di volerlo vicino ed anche a questo Francis ci aveva fatto
l’abitudine. Sebbene non avrebbe disdegnato di sentirsi rivolgere qualche
parola gentile o un invito cortese, ogni tanto.
Ma Inghilterra era sempre
Inghilterra. Che poteva pretendere?
Francia sospirò e si sistemò contro
lo schienale.
Cléophée era riuscita a procurargli
un volo privato, anche se non aveva voluto rivelargli a quanto ammontasse la
spesa. Probabilmente una cifra tale da far mettere le mani nei capelli al povero
monsieur Hollande.
Un accenno di risata sulle labbra,
subito spento dalle luci di Londra che cominciavano a tempestare il vuoto sotto
l’aereo.
Che fosse presentimento o richiamo
divino, in quel momento non era importante
Doveva correre da Arthur.
Il panico, quando mise piede fuori
dal velivolo, non si attenuò. Anzi, gli diede una fitta tanto forte che il mondo
parve dissolversi per qualche istante.
***
Il fango. La divisa lacera. Il moschetto tra le
mani.
Gli occhi erano cupi, le spalle piegate dalla
stanchezza e dalla disillusione.
Dietro di lui, Inghilterra vedeva unicamente una vastità
morta e solitaria, campi grigi di pioggia, antiche risate distrutte da gocce
affilate come coltelli. Ricordi distrutti da lacrime e sangue.
-Sei me che tu vuoi?-
-No- rispose Arthur.
Il Fratello Sconfitto annuì e gli diede le spalle.
Il quarto specchio tornò opaco.
***
Francis sventolò una mano, a richiamare l’attenzione di uno
dei tassisti che gravitavano attorno all’aeroporto.
Si strinse nelle spalle, il respiro che si condensava in
nuvolette pallidicce appena osava anche solo espirare l’aria rancida che
sentiva marcire nei polmoni.
No. Qualcosa davvero non andava.
Alzò gli occhi al cielo e rabbrividì nel vederlo ridotto ad
un ammasso di grumi violacei, un impasto bulboso di pioggia acida che
fagocitava indifferentemente stelle e lampi; le nuvole enfi si attorcigliavano
l’una all’altra in una catena rigonfia e grottesca, uno scontrarsi continuo di
escrescenze livide macchiate dal bianco improvviso dei fulmini.
-E’ solo la tua immaginazione, Francis- si disse,
boccheggiando per quel freddo innaturale che gli fiaccava i muscoli e gli
mordeva le ossa –E’ solo la tua immaginazione-
Solo suggestione, ecco tutto.
Solo suggestione, si ripetè mentre entrava nella macchina.
Non stava succedendo nulla. Non sarebbe successo nulla.
Il rombo ringhiante del tuono si abbatté su Londra e Francis
serrò le palpebre, piegandosi sul sedile del taxi e chiamando in silenzio il
nome di Arthur.
***
-Sei me che tu vuoi?-
Non gli aveva neanche dato il tempo di osservarlo,
di osservarsi, come era stato appena
una settantina di anni prima. Sorrise al riflesso della Seconda Guerra Mondiale
e si toccò istintivamente la testa alla ricerca della berretta in dotazione con
l’uniforme.
Il se stesso allo specchio inarcò le sopracciglia e
incrociò le braccia al petto, come chi non avesse tempo da perdere con
giochetti o altre idiozie di sorta.
Lui e Francia erano alleati, all’epoca. Quando
quella stupida rana si era fatta prendere da quello stupido del suo superiore
filo-nazista, Arthur avrebbe volentieri spaccato il mondo a metà pur di
riaverlo accanto a sé e strozzarlo per la sua evidente imbecillaggine.
Ma mai, mai avrebbe chiesto di nuovo al proprio popolo
di affrontare gli anni della Guerra.
-No- rispose Arthur, scuotendo il capo.
Il Soldato unì i talloni con uno schiocco secco,
chinò il capo e se ne andò.
Il quinto specchio tornò opaco.
***
-Cosa intende dire con “il signor
Jones non è disponibile?”-
Francis perdeva raramente la
pazienza a quel modo, ma sembrava che il segretario di Amerique si fosse preso come croce personale proprio lo scopo di
fargli saltare i nervi.
-E’ come le ho detto, mister Bonnefoy- tentò la voce d’uomo,
conciliante –Il signor Jones al momento non è qui a Washington, ma non posso
rivelarle il motivo che lo trattiene fuori dal suolo americano-
-E perché mai?-
-Il signor Jones lo ha definito segreto di Stato-
Francia riattaccò con tale violenza
e con tale scarico di improperi, che il tassista incassò la testa nelle spalle
e gli rivolse un sorriso sghembo, riflesso sullo specchietto.
-Problemi, sir?-
-Avrei dovuto dare a mio figlio più
schiaffi sur les fesses quando era il
momento- rimbrottò Francis, accavallando le gambe.
Ottimo. Alfred, ossia l’unico che
forse poteva dirgli qualcosa su Arthur, sembrava sparito dalla faccia della Terra.
Non che pensasse davvero che i due si fossero ritrovati a bere qualcosa in un
pub, ma quantomeno il figliol prodigo avrebbe saputo spiegargli il motivo per cui non erano andati a bere
qualcosa in un pub.
Francis sospirò e si prese la testa
fra le mani.
Doveva calmarsi.
Arrivare sbraitando e strillando come una
scimmietta male addestrata non era il modo preferito con cui soleva presentarsi.
Ad Inghilterra in particolar modo.
-Un po’ di radio, sir?-
-Oui, oui, una buona idea- gli concesse il francese.
Raddrizzò la schiena e si umettò le
labbra, mentre il tassista armeggiava con manopoline e tastini.
Non c’era nulla di che
preoccuparsi. Erano solo suggestioni. Panico da stress o altre reazioni del
genere dovute…dovute a tutte quelle cose per cui ad una Nazione poteva venire
del panico da stress. Era plausibile, in fondo. Non era successo nulla di…
Vi
riportiamo ora le ultime notizie da Buckingham Palace, circa le condizioni di
salute di Sua Maestà la Regina, ricoverata d’urgenza in seguito al malore
avvenuto pochi minuti fa..
La vista di Francis ondeggiò
bruscamente.
***
Quando si piazzò dinanzi al sesto
specchio, Arthur si stupì nel ritrovarsi davanti la propria immagine riflessa.
E con propria intendeva il se stesso
che si stava guardando nella superficie lucida, il se stesso con mantello di
lana pesante e occhiaie.
Inghilterra corrugò la fronte e
lanciò un’occhiata agli specchi circostanti, contandoli velocemente. No. Nessun
errore. Sette specchi e lui era al sesto.
Ma se il sesto gli presentava il se
stesso odierno…allora voleva dire che era nel settimo il punto di svolta. Non
riusciva quasi a crederci, una strana eccitazione gli percorse la spina dorsale
e si propagò nel petto come tante scariche elettriche: la soluzione a tutti i
problemi era ad un solo passo da lui.
Si sfregò le mani intirizzite e
lasciò dietro di sé l’immagine di se stesso; questi lo seguì per qualche
istante con lo sguardo, scosse il capo e poi svanì, quasi non fosse mai
esistito. Anche il sesto specchio tornò
opaco.
Dinanzi al settimo Arthur si bloccò,
perplesso.
Fino a quel momento si era
ritrovato a dover scegliere tra le personalità del proprio passato, volti in
progressiva crescita di una medesima persona, ma Inghilterra non aveva la
benché minima idea di chi fosse l’individuo che lo stava fissando con genuina
curiosità.
Aveva folti capelli castano chiaro,
tenuti con il disordine tipico di chi non è ancora stato informato
dell’esistenza del phon; grandi, immensi, occhi azzurri sgranati come quelli di
un bambino davanti all’affascinante spettacolo di una lucertola che si dibatte,
lo osservavano da sopra guance rosee, cosparse di efelidi ed atteggiate in un
sorriso troppo pieno e troppo dolce per essere vero.
Indossava una camicia bianca, un papillon
blu ed un gilet rosa pastello che Inghilterra sperava fosse presto bandito dal
commercio; su una mano un piatto con sopra il dolce più bello ed invitante che
si fosse mai visto, decorato con fiori di zucchero, glassa e riccioli di panna;
nell’altra teneva un coltellaccio dall’impugnatura nera e col filo cosparso di
grumi rossastri -quelli che Arthur presuppose essere residui di glassa alla
fragola preparata per un dolce precedente.
-Sei me che tu vuoi?- gli chiese il riflesso, con
voce terribilmente candida.
Inghilterra lo fissò come se non avesse mai visto
nulla di più..puro, in tutta la vita. Sembrava la dolcezza fatta a persona ed
il rossore che gli colorò le guance nel sentirsi osservato non fece che
aumentare quell’impressione.
Arthur chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, aveva preso una decisione.
-Yes-
Posò la mano destra sullo specchio, le dita ben
allargate sulla superficie gelida; il riflesso posò la torta dietro un angolo
della cornice e fece aderire le dita a quelle di Inghilterra. Nello stesso
istante in cui le labbra del riflesso si modellavano a formare un ghigno
ferino, i polpastrelli di Arthur cominciarono a bruciare.
I sei specchi si incrinarono con un unico urlo, le
personalità al loro interno presero a battere i pugni contro la superficie, a
chiamarlo, a dirgli di tornare indietro; tentarono di rompere la gabbia entro
cui erano rinchiusi, ma il lampo roboante del pentacolo li distrusse insieme
alle cornici. La pelle di Arthur quasi si sciolse per il calore, le braccia si
ridussero ad un tripudio di dolore e schegge bollenti, gli occhi si rivoltarono
nelle orbite in un bruciare convulso di retina e sclera, la bocca si aprì a
gridare, ma la voce si gonfiò ed esplose, parole e rimasugli confusi di
preghiere e confessioni si sparsero ovunque, molli e putrescenti. I polmoni
raggrinzirono, il petto si piegò su se stesso, le ginocchia si fusero, il volto
si disfece in lacrime di carne e sangue.
La stanza girò una, due, tre volte, il soffitto
tremò, il pavimento si aprì sopra una voragine di correnti e reflussi
bianco-verdi. Poi, tutto si dissolse nel silenzio.
Solo una voce cinguettante si fece udire, nel buio
che ritornava padrone della polvere, mentre la porta di casa si apriva di
scatto e Francis faceva finalmente la propria entrata in scena.
Thank you, Arthur~
.: Tu vorresti essere grande, non sei senza ambizione,
ma
ti manca la cattiveria che dovrebbe accompagnarla.
Ciò
che vorresti fortemente, lo vorresti santamente;
non
vorresti giocare sporco, eppure vorresti vincere slealmente. :.
{ Lady Macbeth } –
Note
Finali
(1) Dita Von Teese
(2) E
qui rinasce chi morì, / rinasce chi d'amor morì, poi dentro il vino annegherà.
(Il Val d’Amore – Notre Dame de Paris)
(3)
Macbeth.
Ringrazio
The Naiads e Cosmopolita per aver recensito!