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Autore: Sundy    21/06/2007    10 recensioni
che cosa non si fa per evitare di pensare al peggio!? niente di nuovo sotto il sole, gente che si ubriaca e finisce a letto insieme, magari con l'amore della sua vita, il che rende tutto più agevolmente infarcibile di romanticismo. Hime e Uryuu alle prese con la loro prima notte/mattina. Voglio vedervi morire tutti in preda a un attacco di glicemia fulminante. Seriamente, avevo solo voglia di sdolcinatezze a gratis.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inoue Orihime, Ishida Urya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Odore di sapone.
Girandosi tra le lenzuola celesti verso la finestra semiaperta, l’odore di sapone tornò a solleticarle le narici, si sfregò il naso con una mano, allontanando una ciocca di capelli dagli occhi, e sbattendo le palpebre mormorò tra sé e sé :
-..ortopedia..
La parola ‘ortopedia’ troneggiava al centro del suo campo visivo, stampata in grossi caratteri occidentali su uno dei volumi impilati sotto la scrivania, a fianco del letto. Il ragazzo si lasciò sfuggire un mugolio gutturale, infastidito dal suono di quella parola sgradevole, e continuò a respirare regolarmente contro la sua spalla, un braccio abbandonato intorno alla vita di lei.
C’era più disordine in quella stanza di quanto si sarebbe aspettata, ma era periodo di esami all’università e probabilmente lo studio portava via al padrone di casa la maggior parte del tempo che avrebbe entusiasticamente dedicato alle faccende.
Il riflesso attraverso gli occhiali sporchi abbandonati sul comodino, l’acqua nella bottiglietta di plastica verde sul davanzale, un po’ di polvere al di là delle tende, il verde cupo delle foglie di un ranuncolo giallo affacciato ai vetri della finestra..
odore di sapone: tutto, lentamente, prese forma dentro di lei, destandola, definitivamente, in quella stanza di studente universitario disordinato e distratto dagli esami che respirava piano contro la sua spalla nuda.
Orihime si girò lentamente su se stessa, scivolando tra le lenzuola che cambiavano lentamente odore man mano che si avvicinava a lui, e appoggiò di nuovo la testa sul cuscino, fermando gli occhi all’altezza dei suoi occhi. Il ragazzo le sorrise ancora prima di schiudere le palpebre, appena infastidito dalla luce del giorno, i capelli arruffati e il volto rilassato, come lo si poteva a stento immaginare, anche conoscendolo da una vita.
- Mi vedi..? – gli chiese in un sussurro, con esagerata aria di segretezza
- Certo che ti vedo – rispose lui schiarendosi la voce – perché non dovrei?
- …gli occhiali…
Lui le allungò un buffetto sulla testa – scema - e sorrise, affondando la testa nel cuscino. Lei rispose sorridendo a sua volta, poi si girò sulla schiena a guardare il soffitto.
Le trame sottili delle ragnatele proiettavano il loro reticolo di ombre chiare sul bianco dell’intonaco. Sì, quella stanza era decisamente più sporca e disordinata di quanto ci si potesse aspettare dal suo ordinatissimo, quasi maniacale ospite – ci sono anche le ragnatele… - mormorò, più sorpresa che polemica, ma il lampo di risentimento che attraversò gli occhi ancora assonnati del ragazzo la fece ridere, e rinunciare ad ogni ulteriore commento sullo stato di abbandono di quella casa. Si voltò di nuovo verso di lui e sussurrò “buongiorno”, appoggiandogli un bacio leggero sulle labbra. L’accenno di tensione sul volto del lui sbiadì rapidamente, mentre si tirava su sui gomiti per ricambiare il suo gesto. Teneva gli occhi bassi, Uryuu, mentre le accarezzava le guance con i polpastrelli delle dita, mentre le accarezzava le labbra con le sue, teneva gli occhi bassi e non parlava, mentre i suoi baci si facevano più pieni, più intensi.
In quella notte e poco più , Hime aveva imparato di lui che Uryuu non parlava quando faceva l’amore, né prima, né dopo, né durante, e non aveva dubbi sul fatto che anche dopo mille notti sarebbe stato così. Uryuu era uno di quegli uomini che amano in silenzio, in ogni circostanza. Mentre lo guardava con gli occhi socchiusi avventurarsi a baciarle il collo, le orecchie, i capelli, le sue mani scorrevano distratte sulle spalle chiare di lui, mentre l’ortopedia, gli occhiali e le ragnatele sparivano, sciogliendosi nel calore che le risaliva il ventre, dal suo campo visivo.
Silenzioso, ma caldo, vicino, sentiva il tocco attento delle sue mani risvegliare i suoi sensi. Pensò a come, probabilmente, una cosa del genere lo faceva arrossire, ma non c’era nessuna esitazione nei suoi movimenti, mentre le percorreva i fianchi e le gambe, con quelle mani lunghe, precise, perfette. Erano bellissime le sue mani, pensò, mentre le intrecciava con le sue, mentre le guidava sui suoi seni ai quali, per chissà quale assurda inibizione, o per volerle dimostrare una serietà che non necessitava di conferme, non osava avvicinarsi spontaneamente; erano mani sottili ma ferme, intarsiate di tante, minuscole cicatrici, segnate in più punti dal lavoro e dall’arte del tiro con l’arco, sensibili, calde, attente, più disinvolte del loro padrone che stringendosi a lei nascondeva la testa sulla sua spalla, tra i suoi capelli. Uryuu le parlava con le mani, quelle mani che, contro ogni aspettativa, sapevano già così tanto di lei e ancora, il suo corpo, piano, ma con fermezza, nel silenzio di quella reverenza assoluta che solo un uomo come lui, con la sua anacronistica cortesia e il suo impeccabile contegno, le sapeva riservare.
E rimase sinceramente stupita, sopresa nel constatare quanto non avesse mai fatto caso al poco riguardo con cui gli altri uomini si erano presi fino a quel giorno, i suoi baci, le sue carezze, il suo corpo… Uryuu era diverso. Con quell’esattezza silenziosa dei movimenti, quella dolcezza matematica nel ritmo dei baci che le seminava sul collo, sulle guance, sulle labbra, Uryuu le riempiva il cuore di una tenerezza che nessuno le aveva mai dato, le riempiva la testa di parole che nessuno le aveva mai detto, e tutto questo solo con l’attenzione che metteva nel farla sua, senza fretta né imbarazzo, con la precisione geometrica di chi sa esattamente, a memoria, quale forma dare ai propri desideri. Ed era la sua forma, nient’altro che la sua, la stessa forma che ripercorreva lentamente ma senza indugio con le mani, con le labbra, adorandola in ogni respiro e riconoscendola in ogni centimetro di pelle. Era silenzioso anche nell’estasi, Uryuu, aggrappato ai suoi fianchi e alla sua nuca con la stessa percentuale di delicatezza e fermezza, e Orihime, solitamente rumorosa e chiacchierona come in qualunque altra cosa che faceva, sentiva le parole e i suoni che le nascevano nel petto spegnersi lentamente mentre risalivano insieme ai suoi respiri, al flusso ritmico e potente del suo sangue lungo le carotidi, le sentiva svanire e liquefarsi di fronte quel silenzio caldo che onda dopo onda si impossessava di lei, completamente, e le sue parole diventavano niente di più che un sospiro sulle labbra sottili di lui….

La baciò con il torace ancora scosso dai sussulti, la baciò accarezzandole il volto con i polpastrelli delle dita, la baciò come se fosse stato il primo bacio e non l’ultimo di una serie infinita, con tutto l’amore che poteva, prima di abbandonare la testa nell’incavo morbido tra il collo e la spalla. Hime lo strinse a sé con la tenerezza che si riserva a un figlio, il respiro irregolare che le sollevava il seno generoso, un brivido di emozione che ancora le percorreva la schiena e il ventre, mentre Uryuu affondava il volto tra i suoi capelli sussurrando, finalmente, il suo nome, una, due volte, poco più che un bisbiglio ma che suonava nelle sue orecchie come un’invocazione.
E Orihime rimase nuovamente sorpresa di quanto naturale suonasse, in quel distratto mercoledì mattina di esami e polvere sui vetri delle finestre , la rivelazione che Uryuu la amava di una passione tanto sfrontata, così poco consona alla sua misurata persona.

Era arrivata in quella casa partendo da un punto casuale del pomeriggio precedente, da una tazza vuota in un café del quartiere universitario dietro la quale un giovane magro con gli occhiali cercava di riordinare appunti esaustivi, ma maledettamente confusi, per l’esame di anatomia patologica. Lo aveva salutato calorosamente, erano mesi che non lo vedeva, ma lui aveva risposto nella sua solita misurata, a tratti distante, maniera. Non sapeva esattamente dire quando, né spiegarsi il perché, ma negli anni, Uryuu si era allontanato da lei più di chiunque altro. La vita di tutti i giorni, lentamente, li aveva divisi, e quella vicinanza che aveva sentito per lui al tempo in cui avevano combattuto fianco a fianco si era atrofizzata invece di crescere, fino a diventare poco più di uno sterile ricordo. C’erano state altre persone e altri incontri, e nelle occasioni in cui entrambi si ritrovavano con gli amici del liceo, il calore e l’affetto speciali che Hime gli riservava si scontravano con la sua educata ritrosia, fino al punto di darle la sensazione che Ishida-kun avesse cominciato a tenersi deliberatamente a distanza di sicurezza.
Quel pomeriggio era stata la prima volta dopo anni, forse addirittura dalla cena d’addio al club di fai-da-te in terza superiore, che Orihime aveva avuto l’occasione di parlargli da sola, senza il resto del gruppo, senza nessun ‘rumore di fondo’.
Quando il fatto che Orihime non se ne sarebbe andata se non dopo una lunga ed esauriente conversazione era diventato evidentemente ineluttabile, Uryuu aveva ordinato senza esitazione una cioccolata in tazza aromatizzata alla ciliegia con panna e zuccherini ed un altro tè alla menta, si era seduto rigidamente di fronte a lei e aveva atteso, tra l’esasperante e l’esasperato, ore e ore di aggiornamenti sul suo corso di studi e su ogni sua nuova invenzione alla quale, nei progetti strampalati della ragazza, spettava a lui dare forma concreta, prima di rilassare i muscoli del viso, e accennare un sorriso. Era una sfumatura da niente, ma alla vista di quel sorriso qualcosa che stagnava da tempo dentro di lei aveva cominciato ad evaporare fino a scomparire del tutto, lasciandole un senso di sollievo, una gioia pura, elementare, come la soddisfazione che da un – Sì - secco quando non ci si aspetta altro che quella risposta.
Alle sette, Orihime era ancora a metà del secondo brevetto e Uryuu aveva ordinato due aperitivi, accarezzandole leggermente la mano per richiamare la sua attenzione quando si era trattato di scegliere tra succo d’arancia o d’ ananas come base.
Alle otto, gli aperitivi erano diventati tre, gli occhiali di Uryuu scivolavano continuamente dal suo naso e le sue risate sembravano risate normali di una persona solo mediamente sobria che ride di gusto di qualunque idiozia; Orihime si era sentita sinceramente felice, e aveva rincarato la dose progettando un cuscino con portalampada e porta libro inserito che permettesse di leggere a letto a pancia su senza sforzare le braccia.
Alle nove, la guerra su quale ricamo doveva decorare il suddetto cuscino era totale, ma due ore , un katsudon e molto sakè più tardi Uryuu aveva finalmente capitolato di fronte all’evidenza che nessuno dei loro amici comuni, che rappresentavano la prima e più accessibile clientela per il loro innovativo articolo di produzione domestica avrebbe mai acconsentito, con l’unica possibile eccezione dell’ignara Michiru, ad acquistare un oggetto finemente cosparso di piccole accattivanti croci dei Quincy in veste di motivo decorativo. Una volta stabilito che il cuscino si sarebbe fatto, che sarebbe stato adornato di minute margherite azzurre e che a Hime, in quanto quasi nullatenente, spettava moralmente il 50, 1% del ricavato delle vendite, avevano pagato un conto catastrofico per le loro rispettive miserabili finanze e si erano lasciati inghiottire dalle vie della città che non si spegneva mai, neanche di martedì sera.
Avevano percorso a piedi giardini, strade, scalinate, viali, kilometri, chiacchierando del più e del meno, di Sado che pensava di tornare in Messico, di Tatsuki che era entrata in polizia, di Kurosaki che – forse – si sposava a maggio- così , come se fosse una cosa da niente - mentre le ore divoravano se stesse fino a restare solo in due, e la notte era annegata nel buio silenzioso ma non troppo in cui le persone smettono di essere sole, e diventano naufraghe.
Allora Uryuu, con uno sforzo sproporzionato, aveva osato chiederle il permesso di riaccompagnarla a casa, e lei aveva candidamente risposto che una casa in quel momento non ce l’aveva, che l’avevano sfrattata per la decima, trentesima o millesima volta, non ricordava, giusto la settimana prima… e quando lui l’aveva abbracciata con trasporto e le aveva sussurrato, sforzandosi di mantenere un contegno “allora, puoi passare la notte da me, se vuoi…” aveva accettato senza malizia, domandandosi perché, dopo tutti quegli anni, Uryuu continuava a commuoversi del fatto che lei non avesse una fissa dimora quando ormai quello stato di cose era diventato per lei per prima la normalità.
Era stato quando le aveva preso la mano per salire le scale, giustificandosi con un impacciato e non richiesto “la luce non funziona, devono ancora venire a ripararla..” che, nella luce della luna, la pressione delle sue dita sul suo polso le aveva finalmente trasmesso quel desiderio, quel calore che il ragazzo si sforzava in ogni modo – chissà poi perché, si era chiesta Orihime fissando le sue spalle esili dietro le cuciture del suo giubbotto scamosciato, mentre salivano le scale - di dissimulare. Tremava leggermente, la mano di Uryuu dentro la sua, quella stessa mano che sapeva reggere il suo arco da Quincy con la fermezza di una morsa d’acciaio, quella mano affilata e precisa come uno strumento chirurgico, in quel momento le era sembrata percorsa da un fremito di domanda, e allora l’aveva stretta più forte. E dall’angolo sbieco della rampa di scale che saliva su se stessa aveva potuto intravedere un sorriso formarsi sul viso di lui, nella riverbero delle lune artificiali della città che penetravano dalle finestre nelle scale buie. Il suo ospite perfetto l’aveva fatta entrare in casa tenendole aperta la porta per la milionesima volta in quella giornata, il calore del suo tocco che ancora le arrossava la guance e le faceva fremere la mano, la sua cavalleria demodé che continuava a farla sorridere. La stanza era minuscola, ma un finestra molto grande la illuminava bene, doveva essere molto ariosa di giorno. Nella penombra, si intravedevano le sagome di alcuni vestiti appesi in giro ad asciugare, un frigorifero, un divano piuttosto piccolo e un tavolino stretto e lungo a separare quello che doveva essere l’angolo cottura dal resto della stanza.
Senza chiedere il permesso, Orihime si era seduta sul divano e si era lasciata circondare dalle pareti di quella stanza. La casa aveva, nulla di più naturale, ma se ne era accorta con piacere, lo stesso identico odore delle camicie perfettamente stirate di lui…
- Posso offrirti qualcosa? – le aveva chiesto il ragazzo con una disinvoltura mal simulata, mentre sistemava la giacca sull’attaccapanni vicino alla porta
- Sì, come se avessimo bevuto poco…! – aveva riso lei stirandosi le braccia, mentre il suo ospite le si sedeva un po’ impacciatamente accanto sul divano; con lo stesso beato sorriso lei lo aveva accolto di nuovo vicino a sé.
- Beh, in ogni caso fa come se fossi a casa tua… però sarebbe meglio che tu chiedessi a me se ti serve qualche cosa, perché in uno spazio così piccolo tenere tutto in ordine è un problema e nulla è dove uno si aspetterebbe quindi se ti serve qualcosa….. che c’è..? – aveva sbottato risentito, vedendo un risolino divertito formarsi sul viso di lei
- Niente, niente… però..- e quel sorriso le aveva illuminato gli occhi delle stesse mille luci che splendevano nella notte fuori della finestra – Uryuu – aveva sussurrato dolcemente, ma con una punta di scherno – non hai acceso la luce…
Il ragazzo si era irrigidito, paralizzato dall’imbarazzo, immobile come una statua cercando di pensare a una via d’uscita dignitosa, una qualunque, da quel terribile passo falso, ma Orihime non gli aveva lasciato il tempo di salvare la faccia, perché senza smettere di ridere lo aveva baciato, senza possibilità di equivoco, sulle labbra, stringendogli delicatamente il viso tra le mani, sentendosi trascinare lentamente tra le sue braccia, sentendosi avvolgere dal calore del suo corpo come si era sentita avvolgere dalle pareti della stanza, dal profumo di sapone della sua biancheria stesa ad asciugare dall’istante in cui aveva messo piede in quella casa.
Sapone.
C’era ancora quell’odore nell’aria, mentre i suoi polmoni si distendevano e il suo respiro tornava regolare, tra i riflessi confusi delle ragnatele, e i capelli sottili di Uryuu che scorrevano, umidi, tra le sue dita.
- Uryuu – gli chiese, rompendo quel religioso silenzio di carezze, più distratte ma altrettanto delicate, in cui lui si era di nuovo barricato. Gli occhi seguivano la danza di luci e ombre sul soffitto – quella sera .. la sera della cena d’addio al club del fai- da-te…
- Sì…- annuì lui, e la sua voce era ferma e trasparente. Aspettava di sentirsi chiedere quello che lei, in tutti quegli anni, non aveva mai messo a fuoco. Orihime si voltò a guardalo in faccia con aria terribilmente colpevole.
- .. . quel discorso complicato che mi hai fatto prima che andassimo tutti alla Torre… tu volevi chiedermi di uscire quella volta, vero?
Il ragazzo si lasciò scappare un mezzo sorriso soffocato e abbassò gli occhi. Lei continuava a guardarlo con la stessa aria abbattuta
- Io non avevo capito…
- Lo immaginavo – rispose lui schermendosi, e posandole un bacio leggero sulla spalla
- …quando hai cominciato a parlare di quella fiera dell’artigianato che ti interessava, sabato, che non sapevi con chi andare, e io pensavo “che strano che si preoccupi di una cosa del genere, lui va sempre dappertutto da solo”… - Uryuu sbuffò di nuovo a metà tra l’imbarazzato e il divertito. A volte Orihime riusciva a essere così naturale nella sua mancanza di riguardo da risultare più comica che offensiva.
- ..e quindi hai pensato bene di rispondermi che se volevo potevo andare, ma che sabato c’era la festa di compleanno di Kurosaki – mormorò con una smorfia di ironica amarezza al ricordo di quanto si era sentito stupido, ferito, respinto, in quella sera fresca di luglio di tanti anni prima. Hime si fece piccola piccola tra le sue braccia e appoggiandogli la testa sul torace sussurò, con lo stesso tono mortificato di poco prima
- Mi dispiace tantissimo, ti giuro che non avevo davvero capito che tu … e non so che cosa ti avrei risposto anche se..- proseguì, con un turbamento leggero nella voce, ma Uryuu la interruppe sollevandole il viso e posandole un bacio rassicurante sulla fronte.
- Ha qualche importanza, adesso? – le chiese continuando ad accarezzarle i capelli.
Orihime scosse la testa, abbracciandolo, e socchiuse gli occhi, appoggiandosi al suo torace scarno, mentre le mani e le braccia di Uryuu continuavano a circondarla con la stessa silenziosa adorazione. Se Uryuu aveva un dono, era quello di farla sentire al sicuro. Ovunque fossero, in qualunque situazione, bastava la sua sola presenza a darle la certezza che non aveva nulla da temere tutto si sarebbe risolto per il meglio. Era sempre stato così, e tra le sue braccia sottili, quel mercoledì mattina, scoprì, tra le altre cose, di non averlo mai dimenticato. Uryuu la faceva sentire a casa, e Orihime che una casa era abituata a non averla, amava quella sensazione. Amava la goffaggine con cui lui si sforzava di dissimulare le sue mille manie. Amava il modo in cui si sforzava di non ridere delle scemenze che lei raccontava, e adorava vincerlo con quella stessa arma, strappargli sorrisi, uno dopo l’altro, come nessun altro sapeva fare. Amava la cura che metteva nel prendere in mano le cose, amava la sua cavalleria demodè, il reverente silenzio con cui l’aveva amata fino all’istante precedente e con cui l’avrebbe amata in quello successivo. Amava la lingua muta e perfetta delle sue dita sottili sul suo corpo.
E soprattutto, amava l’odore di sapone delle sue lenzuola.

No, non aveva più alcuna importanza.
  
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