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Autore: Anima97    03/12/2012    1 recensioni
TITOLO MODIFICATO DA "Евгения si pronuncia Yevgeniya"!!
La storia di un portacontainer malridotto, di persone comuni e malinconiche, di una natura bella e splendente come l'acqua dell'oceano Pacifico al sole d'autunno.
Евгения: un nome, una lingua, una storia... la nostra storia.
Chi lo desidererà, leggendo vivrà un'avventura oltre i confini dell'immaginabile!
Genere: Introspettivo, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Евгения
Si pronuncia 'Yevgeniya'.


Prologo - Clandestina
 
 
Mi tappai il naso poco dopo essere entrata: nonostante il raffreddore, il puzzo di pesce era nauseante e potevo sentirlo sino in gola. Era la prima cosa che si percepiva appena entrati nella mia nuova "camera da letto": 3 metri quadrati di muffa, una mensola vuota, fissata talmente in alto da essere inutilizzabile, sopra una brandina con un tappetino in gomma, come materasso, ed un sacco, di cui non osai immaginare cosa contenesse, come cuscino. Nessuna finestra, nessun colore, l'unica luce presente era quella emanata dalla lampada ad olio datami dal vice comandante: un uomo sulla quarantina, nato col sorriso sulle labbra, dai tratti dolci e dall'aria bonaria, di cui solo gli occhi trasmettevano una grande malinconia e un vissuto degno di un marinaio.
La nave che dirigeva, sarebbe stata quella che mi avrebbe portato in Europa, da una famiglia inesistente che dovetti inventarmi pur di non essere buttata in mare nel momento in cui sono stata scovata dal mio nascondiglio. Era una nave mercantile abbandonata e riutilizzata (senza restaurazione) come portacontainer, mai troppo carica per il timore che affondasse a causa del materiare di scarsa qualità col quale era stata costruita; aveva un nome straniero che non riuscivo mai a ricordare.
Il ponte era come un labirinto a causa dei conteiner sparsi disordinatamente su tutto quell'ampio spazio, fu in uno di questi che mi nascosi per poter espatriare di nascosto, tra grandi travi in metallo e assi di legno di cui ignoravo il futuro utilizzo; ma a quanto pare l'equipaggio non era come quelli che avevo evitato in altri viaggi: prima di portare il carico sulla nave perlustravano il contenuto dei container con così scarso interesse e tanta fretta, che quando la porta si apriva per lasciar entrare l'ultima luce naturale che avrei visto di li a qualche mese, avrei potuto mettermi anche li davanti ai loro occhi e passare inosservata.
Cosa che in un certo senso avveniva davvero e non mi dispiaceva affatto.
Quella volta, però, fu tutto diverso: la perlustrazione durò un giorno intero, ad ogni container dedicavano minimo un quarto d'ora di perlustrazione, fu molto difficile non farsi notare; temevo di essere stata scoperta ma poco dopo la richiusura della porta, sentii il container sollevarsi ed essere posizionato sulla nave. Tirai un sospiro di sollievo, mi sembrava irreale ciò che era successo: sapevo di essere stata vista, ricordavo chiaramente di aver incontrato lo sguardo severo di uno dell'equipaggio, eppure dopo essersi soffermati a guardare quell'ammasso di stracci e capelli neri che si portava sulle spalle un piccolo zainetto pieno di cibarie e soldi rubati, erano passati oltre, indifferenti.
Non passò molto tempo prima che la porta venisse riaperta, rivelando la figura di una donna. Mi chiedevo cosa ci facesse ancora li, perchè avesse aperto proprio il mio container, cosa cercasse... ma la risposta la conoscevo già. Cercavo di illudermi di poterli ancora abbindolare, nella vana speranza che cercasse qualche materiale a lei utile in quel momento.
La sua voce mi riportò alla triste realtà.
-Chi sei?
Non risposi, ero davvero così ottusa e spaventata da sperare che si dicesse di aver avuto un abbaglio, di non aver visto nessuno, di dover chiudere quella maledetta porta e tornare a lavorare.
-Chi sei?, ripetè la domanda urlando.
La sua voce grave e meccanica mi smosse: no, non c'era più niente da fare.
-Vi prego lasciatemi qui! Non darò fastidio a nessuno! Farò silenzio! Devo andarmene dagli Stati Uniti, ho famiglia in Europa, mi hanno costretta! Mi hanno minacciata! Ho dei bambini, una madre, vi prego, vi supplico! continuai a supplicare parlandole della rara malattia che i miei "figli" avevano e di quanto avessero bisogno della medicina che avevo nello zaino, medicina che di solito usavo per rinfrescare l'alito.
-Taci.
-Vi scongiuro! No!
-Taci! urlò. 
Tacqui. Tremavo, incassai la testa tra le spalle, strinsi le gambe al petto e cercai di farmi vedere il meno possibile dalla donna. Nonostante non vedessi il suo volto, sentivo il suo sguardo pesante sul mio corpo fragile come una foglia secca, lo osservava cadere dall'albero, mentre perdeva la sua dignità versando false lacrime per un passato inventato sul momento.
Le vidi voltare la testa verso ovest, per osservare qualcosa che sembrava essere distante. Il quel momento il sole le illuminò parte del volto, mettendo in risalto i suoi tratti decisi ed allo stesso tempo di una femminilità affascinante, il suo naso leggermente aquilino, le sue labbra carnose, le sue ciglia lunghe, la benda che le copriva un occhio. Aveva un grande cappello di paglia poggiato sulla nuca calva, ed indossava una camicia infilata in un paio di jeans molto larghi... Non aveva le scarpe.
 -Adesso neanche con le loro sentinelle del cazzo riuscirebbero a vederti. Esci di qui, è buio.
Non la capivo, cominciavo a confondermi e la paura non si era afflievolita. Mi tornarono alla mente tante storie sui clandestini di mare, su rotte deviate, su corpi annegati...
-Non fatemi del male, sussurrai con flebile voce.
-Che idiota... Muoviti, non sei una merce da container, hai diritto anche tu al sole.
 
Avevo respirato, avevo mangiato, mi avevano dato una coperta ed ora ero in quell'attimo, in quella stanzetta simile a quelle dei campi di concentramento, in cui tenevano i poveri deportati. Era così che mi sentivo, strappata via all'unico luogo che mi ha sempre protetta dai fantasmi della legge, desiderosi di riportarmi nel luogo dal quale scappavo da anni, la mia seconda casa: il container.
Ad essere sicera, preferivo il freddo dei metalli, l'odore delle assi di legno e la debole luce che filtrava dagli angoli della struttura, che quel buco puzzolente scavato nella carena della nave.
Ma da quel momento in poi avrei dovuto accontentarmi, almeno fin quando non saremmo arrivati in Europa, avrei dovuto ringraziare di essere viva. Mi dicevo che avrei abbandonato quella nave appena avrei potuto, che sarei scappata, che avrei continuato a viaggiare come sempre, grazie a qualche autostop o ai portacontainer... Non sapevo ancora cosa sarebbe successo di li a qualche tempo.

 
Mondo Nutopiano:
Grazie e buonanotte!

Pace, Amore e Poc'anzi.
MelinAnima.
  
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