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Autore: Manila    16/12/2012    0 recensioni
Tutte le strade portano al Settimo Cielo, specie se è la vigilia di Natale, si è soli e non si sa dove andare. Una mini raccolta sui pensieri dei vari personaggi rispetto al passato e al presente, una nostalgica rivisitazione dei tempi andati e una speranza per il futuro.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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Sì, sono io.
Sì, è una fan fiction natalizia.
Sì, lo so che speravate di avermi messo a tacere per un po’, però a Natale si è tutti più buoni e spero mi sopporterete.
Questa serie di situazioni è decisamente diversa dalle Dis-avventure a cui sto lavorando (mi dispiace per voi, a gennaio torneranno sui vostri schermi). I toni sono più tristi, non dico seri perché la serietà mi è estranea, però non ci sarà nessun Cid a fare da consulente matrimoniale, né una Yuffie disposta a drogare Vincent per abusare di lui. La storia è ambientata ipoteticamente tra la fine del videogioco Final Fantasy VII e Advent Children ed è stata ispirata dalla mia puntuale depressione natalizia.
E’ possibile che ci saranno delle incongruenze, ma sono tutte volute e lascio alla vostra discrezione se considerarle plausibili o meno, segnalo comunque l’OOC in modo da non shockarvi.
Non sono sicura che la mini raccolta sarà ultimata entro il 21 e neanche per il 25 dicembre, perché lo studio incombe sulla mia testa ormai satura. Nel caso non ce la dovessi fare pubblicherò il resto entro gennaio, così festeggiamo l’Epifania…
Ogni capitolo ha una sorta di colonna sonora, in questo caso vi suggerisco “Dottor Zivago” ( colonna sonora del film del 1965).
Un bacio a tutti e a presto.

 



On the way to Christmas


The case of Vincent

Le goccioline fuoriuscivano dai tubi scoperti del soffitto, ricadendo laconiche in scodelle poggiate sul pavimento dalle mattonelle smosse. Sui muri grigi e scrostati, squarci di pallido colore probabilmente appartenente a carta da parati cercavano di non soccombere al mare di muffa che cercava di inghiottirli; un po’ come  la lotta per restare a galla delle zattere su cui i naufraghi si aggrappano disperatamente per non soccombere alla tempesta. L’odore era quello dell’umidità che cancella i profumi tipici di una casa brulicante di vita, lasciando nelle narici l’acre consapevolezza di trovarsi in un luogo ormai morto. Gli spifferi di vento che penetravano dai vetri rotti delle finestre  spingevano le goccioline che cadevano dal soffitto, deviando la loro traiettoria e spingendola tra le fughe sudice di quel posto abbandonato.
Vincent Valentine alzò lievemente lo sguardo rosso, nascosto dietro il collo alto del pesante mantello. Fissò senza particolare attenzione il soffitto, i tubi scoperti corrosi dalla ruggine e l’acqua che ancora passava attraverso di essi, nonostante la zona circostante fosse totalmente disabitata.
Fatta eccezione per gli orfani e per i disperati,
pensò suo malgrado.
Ascoltò distrattamente la monotona nenia provocata dalle gocce che rimbalzavano sui bordi di latta delle scodelle che avrebbero dovuto contenerle, lasciò che l’artiglio dorato stridesse contro l’imperfezione delle mattonelle e inspirò profondamente la puzza di muffa che stuprava il colore pallido di una carta da parati ormai arresa all’idea di naufragare.
Sospirò, lasciando che il suo fiato caldo si condensasse in una nuvoletta presto inghiottita dal gelo di quel dicembre spietato.
Gli occhi gli si chiusero, riaprendosi nel periodo in cui le sue iridi non erano rosse e lo scenario che gli si presentava acquisiva man mano le tinte del passato.
Il soffitto non era più percorso da una ragnatela di tubi, le pareti indossavano  stucchi e decorazioni dai colori sgargianti, il pavimento era tirato a lucido per permettere di ballare a chi lo calpestava con scarpe eleganti e gli odori erano quelli dei dopobarba degli uomini dai cognomi importanti, dei profumi da donna costosi e sensuali, degli incensi e della tavola imbandita, così lunga da poter percorrere l’intero Pianeta.
Da che aveva memoria, il 24 dicembre veniva trascorso tra le alte mura di un castello solo in apparenza dorato. La decadenza era ignorata ai piani alti del palazzo della ShinRa, così come il fatto che l’oro e il suo bagliore scomparivano qualche livello più in basso, lasciando posto al freddo colore dell’acciaio. La costruzione apriva le sue fauci intrappolandovi gli abitanti dei settori inferiori.
Quanti anni erano trascorsi da allora, cinquanta?
Eppure ricordava ancora le melodie intonate dai violini, il suono delle campanelle e il tintinnio dei calici che si scontravano dopo essere stati levati verso il cielo notturno di Migdar. Sentiva ancora le risatine delle signorine che parlottavano fitto fitto da dietro i ventagli piumati, mentre lanciavano occhiate languide verso i giovanotti, intenti a discutere di politica e sport. Rivedeva perfettamente la figura alta e altera di suo padre, nel completo scuro che confrontava le sue teorie con quelle degli altri scienziati, tra un sigaro e un bicchiere di amaro. Desiderava tanto essere come lui, somigliargli, parlare e muoversi con sicurezza, padroneggiare con maestria il suo intelletto, argomentare le proprie ragioni lasciando piacevolmente sorpresi gli interlocutori. Lo spiava da dietro le tende delle alte vetrate che separavano il lussuoso salone dal resto di un Pianeta a cui, ancora non  poteva saperlo, stavano risucchiando anche l’anima; lo spiava e, nonostante la tenera età, avvertiva la consapevolezza che mai sarebbe riuscito ad eguagliarlo e, vagamente, sentiva che quel mondo effimero e fatto di luci e colori assuefanti  ben presto sarebbe scomparso chiedendo un tasso d’interessi vertiginosamente alto per quei privilegi di cui si erano impropriamente impossessati.
Avrebbero pagato tutto con il proprio sangue e con quello dei propri cari, fino all’ultima goccia, fino all’ultimo ansito di vita.
Il Pianeta dà, il Pianeta prende …
L’unico tesoro veramente concreto in quel quadro di perfezione dipinto con la tavolozza della bugia era lo sguardo di sua madre.
Sua madre …
La donna dal passo da regina, dai capelli morbidi e lunghi, dalle dita affusolate, dal tocco delicato e dagli occhi luminosi che percorrevano il salone in lungo e in largo con sublime apprensione per individuarlo. Puntualmente lo trovava rannicchiato nel suo nascondiglio di seta ricamata che aveva promesso di non toccare con le manine sporche, perché le tende erano sì un espediente valido per celarsi all’occhio umano, ma era anche piuttosto delicato e bisognava fare particolare attenzione quando si era ospiti in casa d’altri.
Gli sorrideva ammiccando per poi tornare alle sue amiche, donne addobbate come l’alto abete che incombeva al centro del salone, ma non avevano neanche lontanamente la grazia di colei che lo aveva messo al mondo. Per lui rappresentava praticamente tutto. Non importava quanti fallimenti riuscisse a collezionare, per lei ogni battaglia persa era un memento utile per alzarsi ogni giorno più forte di quello precedente. Era lei il ponte tra lui e suo padre, l’elemento di raccordo trai loro mondi paralleli mai destinati a incontrarsi, la medium tra due anime opposte. Morta sua madre, il sogno aveva cominciato a sgretolarsi.
Vincent si strinse nel mantello appena il vento trascinò dentro alla casupola i primi fiocchi di neve e abbottonò meglio gli alamari. Quel cimelio rappresentava una sorta di eredità lasciatagli da suo padre e stringersi in esso era un po’ come muoversi all’interno di quell’abbraccio che non si erano mai permessi di concedersi. Lo aveva trovato a Nibelheim, nella casa degli ShinRa.
Anche lì aveva trascorso il Natale diversi anni dopo, quando della sua famiglia non restava che qualche fotografia nell’appartamento in cui viveva da bambino.
Anche quei ricordi erano nitidi, come se i suoi trent’anni di reclusione gli avessero permesso di non farli corrompere dalla vita negatagli da un folle.
La vigilia in quel recondito angolo di mondo era come una favola scritta tra la nebbia che, quando si dissipava, lasciava il posto alla coltre bianca della neve. Bianco era anche l’abito elegante di Lucrecia che entrava nel salone brillante ed eterea come un angelo.
L’altra donna della sua vita era bella come una Madonna,ma imperfetta come un cerchio tracciato senza l’ausilio del compasso. Anch’essa divenne un ponte tra lei e la figura paterna, solo nell’accezione più negativa del termine. Ma quel Natale era lontano anni luce dagli spiacevoli avvenimenti che avrebbero portato alla fine della sua vita così come la conosceva, e lui si beava della vista di quella creatura che gli sembrava incorruttibile.
Le casette intorno contrastavano nettamente con la maestosità di quella residenza riscaldata da un enorme camino e totalmente addobbata. Ricordava le luci intermittenti dell’albero, le ghirlande avvolte intorno alle ringhiere, le palline in cui i figli dei dipendenti si divertivano a specchiarsi, i candelabri sul tavolo e il vischio sotto gli architravi delle porte.
E il Valzer. Vincent ricordava il valzer in cui Lucrecia lo aveva trascinato e le decorazioni di agrifoglio che roteavano tutte intorno mentre il resto del mondo scompariva e gli occhi ammalianti della dottoressa lo risucchiavano.
Il suono della musica, delle risate e dei respiri affannati si dissolse e Vincent riaprì gli occhi sulla miseria che lo circondava. Tutto ciò che restava di Midgar era la carcassa di un mostro d’acciaio ripiegata su se stessa, tutto ciò che restava del suo passato era seppellito da trent’anni di peccato.
Una leggera ombra penetrò all’interno della stanza dalla porta di legno che marciva sui cardini. L’ex Turk aveva già notato quella presenza ma sperava tanto di essersi sbagliato. Non desiderava compagnia. Non desiderava la sua compagnia, specie quella sera.
- Cosa ci fai qui?- soffiò senza guardarla.
- Sono molto contenta che tu me lo abbia chiesto!- la voce squillante di Yuffie Kisaragi coprì il canto nervoso del vento, il suono delle goccioline sulle scodelle e lo stridio del guanto metallico dell’uomo contro le mattonelle.
La stanza fu invasa da un profumo di caramella o qualcosa di zuccherato, riuscendo a coprire addirittura l’acre olezzo di muffa. Contrariamente al suo solito abbigliamento che rasentava l’indecente, la principessa di Wutai gli si parò platealmente davanti saltando i gradini che introducevano nell’ambiente, con addosso un cappotto di un ridicolo color canarino le cui estremità erano sporche di fango probabilmente raccolto per strada, visto che l’indumento raggiungeva abbondantemente il pavimento. Lei e il suo enorme pastrano risaltavano atrocemente contro il grigio scrostato delle pareti. Al collo esibiva una sciarpa talmente lunga che l’aveva avvolta con diversi giri e ancora i lembi penzolavano come rami di un salice piangente, il colore di un azzurro intenso  sembrava volersi far beffe di chi osservava la sua proprietaria.
- A chi hai rubato questa roba?-gli sfuggì di bocca.
- Oh, che offesa!- si lamentò la ragazza  - Non ho rubato questo cappotto, l’ho solo preso in prestito e lo restituirò in primavera. La persona a cui l’ho preso non deve essersene neanche accorta, non era altro che la moglie di uno di quei ricconi che sposano le ragazzine per dimostrare agli amici di avere ancora un cavallo funzionante -
Vincent conosceva bene la categoria descritta dalla ninja, solo non gli sembrava un valido motivo per appropriarsi indebitamente di qualcosa. Ovviamente tenne il pensiero per sé.
- … E poi era tutta impellicciata. Se l’avesse vista Tifa le avrebbe fatto il culo così! -  si sentì in dovere di aggiungere la ragazza. Non ricordava avesse un linguaggio così colorito …
Con molta nonchalance poggiò a terra uno scatolo mezzo rotto e cominciò a gironzolare per la stanza, sbirciando in ogni angolo, osservando anche il più nascosto granello di polvere e fissando con intensità le goccioline che cadevano dai tubi. Con un movimento del piede spostò la ciotola di latta che le sembrava fuori posto e concentrò la sua attenzione sui cassetti sgangherati di un comò sfondato. Cominciò ad aprirli uno per uno come per cercare un oggetto di cui neanche lei aveva idea di come fosse fatto.
Vincent scosse il capo, avrebbe trovato sicuramente qualcosa da rubare in mezzo a tanto nulla.
Ma le sue ricerche non ebbero successo, quindi abbandonò l’idea di perlustrare anche l’armadio e si rivolse all’uomo seduto per terra.
- Questo posto è un tugurio …  – annunciò come se la cosa fosse diventata evidente solo in seguito alla sua consulenza non richiesta - … e il vino in questo bicchiere fa schifo, sembra la miscela che Cid usava per far volare il suo adorato rottame- sentenziò dopo essersi bagnata le labbra del liquido scuro che giaceva a terra, accanto all’uomo vestito di rosso.
L’ex Turk sbuffo.
- Cosa ci fai qui, Yuffie?- ripetè per la seconda volta.
- Mmm, anche io sono felice di rivederti, vampiro! E fammi spazio … -
Non solo la risposta non fu soddisfacente ma la principessa delle cattive maniere allargò un lembo del suo mantello per mettercisi sotto.
-Wow, questo telone da circo è caldissimo!- esclamò con la meraviglia di un bimbo nella voce. Vincent, però, non era un baby sitter e la situazione continuava a non piacergli.
- Che diamine ci fai in un posto come questo? Oggi è la vigilia di Natale e tu sei già vestito a tema-
L’uomo si raddrizzo un po’, cercando di fare ordine nei suoi pensieri.
- Visto che è la vigilia perché non sei a Wutai a festeggiare ?-
La ninja arricciò il nasino arrossato dal freddo.
- Il Natale non è una festa riconosciuta a Wutai!- quella sottospecie di fantasma in rosso con capiva niente di niente, era senza speranza. La meravigliò il fatto che, pur di liberarsi di lei, aveva preso la parola di sua spontanea volontà.
Zotico quasi quanto Cid …
- Sai che Tifa ha aperto un nuovo bar? Si trova in un sobborgo poco distante da Midgar, lo ha chiamato Seventh Heaventh come il precedente. Che fantasia, eh? E’ lì che sono diretta. Chi se ne frega se nel mio paese il Natale non è una festa riconosciuta, no c’è niente di meglio di una bella zuppa cucinata dalla Lockheart e poi non si sa mai, magari mangiando il suo cibo crescono le tette anche a me. Non le vorrei così grandi, però, devono essere molto scomode nel caso si voglia lanciare lo shuriken. Immagini che figurone farei con un bel paio di tette nuove? A mio padre verrebbe un infarto! Beh, magari sarebbe una buona scusa per mandarlo in pensione. Però così grosso non lo voglio, si vede che lascerò a metà tutte le portate, così mangerò un po’ di tutto e avrò una bella coppa. Tu che lettera mi suggerisci?-
Lettera? L’uomo non riusciva a capire che attinenza ci fosse tra la misura del seno e le lettere dell’alfabeto.
La ragazza sbattè le palpebre.
- Oh, ma insomma, sto parlando delle coppe! A, B, C oppure D?-
- … - fu tutto ciò che l’amico fu in grado di rispondere.
- Ah, già, dimenticavo che ai tuoi tempi andavate tutti in giro con addosso pelli di moguri … -
Non sapendo più cosa dire per convincerla a togliere il disturbo, Vincent fu colpito da una forte crisi di silenzio acuto, intervallato di tanto in tanto dal borbottio sommesso della ragazza, oppure dalla sua voce che canticchiava qualche motivetto natalizio.  Era stonata come una campana, non conosceva le parole delle canzoni, quindi le inventava oppure le sostituiva con strani mugugni , tendeva a rendere troppo acuta qualsiasi nota. Tra la wutaiana canterina e il monotono coro delle gocce che precipitavano dal soffitto e si suicidavano nel pentolame, Vincent pensò che quello fosse il suo personalissimo inferno in cui scontare i peccati passati. Avrebbe fatto volentieri a cambio con Lucrecia e la sua teca eterna …
Quando entrambi ne ebbero abbastanza del silenzio,delle canzoncine e della pessima musica, la principessa si alzo con un colpo di reni.
- Ooooooooooooooook, adesso me ne vado. Caro signor Vincent/antiNatale/Valentine, ti rivolgo i miei saluti. Stammi bene e ci vediamo l’anno prossimo-
Mentre saltellava sugli scalini  ai piedi della porta di legno che stava marcendo sui cardini, l’ex Turk la bloccò.
- Yuffie, a parte il concerto non richiesto, perché sei venuta qui?- era la terza volta che le rivolgeva quella domanda e si sarebbe morso la lingua, solo che gli era scappata e non sapeva neanche lui il perché.
La ragazza si voltò verso l’amico, si portò platealmente una manina screpolata alla bocca e saltò nuovamente giù. Per un momento l’uomo temette che si sarebbe messa a parlare della misura delle mutande. A smentire le sue paure ci pensò lei stessa.
- Oh, quasi me ne dimenticavo! Ecco, questo è il mio regalo di Natale per te – e gli piazzò in mano lo scatolo mezzo rotto che aveva precedentemente depositato sul pavimento.
- Buon Natale, Vincent Valentine!- gli augurò dedicandogli un sorriso obliquo.
Con una certa titubanza l’uomo sciolse il nodo dello spago che teneva chiuso il contenitore che si rese conto essere bucherellato. Allertati tutti i sensi, con molta cautela sollevò il coperchio. Con somma sorpresa vide due pallottole di pelo rannicchiate vicino.
- Che roba è?- chiese scettico.
- Sono gatti!- rispose prontamente lei.
In effetti erano gatti.
-Sai, li ho trovati là fuori tutti spauriti e infreddoliti. Li ho portati da te pensando che potessi farne due cose: tenerli, oppure mangiarli-
Vincent sgranò gli occhi rossi.
- Perché quella faccia? Non è questo che fate voi vampiri quando non avete di meglio con cui sfamarvi?- domandò come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
- Yuffie, io non sono un vamp… - si morse la lingua. Rispondere a quella provocazione avrebbe significato innescare tutta una serie di bizzarre domande a cui non aveva voglia di fornire risposta, anche perché la Kisaragi sembrava voler capire solo ciò che le conveniva.
Si portò le mani alle tempie, era da ben trent’anni che non aveva più mal di testa e sperimentare nuovamente l’esperienza non gli stava provocando alcun piacere.
Inspirò profondamente per mantenere la calma poi si rivolse nuovamente a lei.
- Seriamente, cosa dovrei farmene di quest … - ma quando alzò gli occhi nel punto esatto in cui l’aveva lasciata non la trovò. Si guardò intorno e lasciò vagare lo sguardo per la stanza vuota. Ormai era solo.
Accarezzò uno dei gattini con la mano destra facendo oscillare il nastrino rosa legato al bicipite. Anche quella morbidezza gli ricordava qualcosa del passato,qualcosa di ormai irrimediabilmente perso.
Qualcosa di irrimediabilmente perso?
 In un attimo gli fu tutto chiaro, mollò il gattino con cui stava giocherellando e controllò la sua tasca destra pericolosamente leggera.
Un ruggito sommesso gli affluì alle labbra: la sua materia era diretta verso il Seventh Heavens, verso la zuppa calda di Tifa Lockheart.


Accidenti a quella dannata ladra …
  
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