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Autore: Arkadio    12/07/2007    3 recensioni
Rilettura del "Piccolo principe" di Saint-Exupéry... perché tra saru e kitsune, tra volpe e principe, non c'è troppa differenza...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima di cominciare.

Il piccolo principe è uno di quei libri eletti che cambiano valore a diversi periodi della propria vita. Da piccoli lo si odia sempre. Forse perché per un bambino sono cose scontate quelle lì riportate. Un bambino ha in sé l’ingenuità del mondo. Quindi un libro così semplice per lui da capire lo annoia.

Ma più si diventa grandi, più diventa bello. Forse perché ci si accorge di quello che si è perso. Forse perché diventare grandi non è così bello.

In particolare la volpe. Che sia dannatamente simile a una volpe a noi conosciuta, non nel carattere, ma almeno… nei pensieri?

Alla mia Sensei. Perché un libro non è solo un libro. È la storia che c’è dietro… e bella o brutta che sia, è la nostra storia.

E a Seika… perché forse, questa volta, le sue richieste saranno esaudite.

Cosa vuol dire addomesticare?

“…Cosa vuol dire addomesticare?”

“è una cosa da tempo dimenticata. Vuol dire creare legami.”

Tratto da “Il piccolo principe”, di Antoine de Saint-Exupéry.

Un passaggio.

Quel passaggio.

Gli era rimasto in testa, nella mente, nel sangue.

Nell’anima.

Kaede Rukawa che si affidava a qualcuno.

Che consegnava la palla dell’incontro a qualcuno che non era lui stesso.

Hanamichi non capiva. Come non capiva quell’high five a fine partita.

Come non capiva ormai molte cose.

O forse le aveva sempre capite, ma non poteva accettarle.

Non poteva accettare che quella baka kitsune non fosse poi tanto baka.

Non poteva ritrattare idee e fatti troppo radicati in lui.

Anche se.

Anche se il gioco di Rukawa cominciava a colpirlo, cominciava a interessarlo.

Anche se metteva in luce i suoi limiti.

Mise lentamente un piede giù dal letto, tanto di dormire quella notte non se ne poteva parlare. Troppa adrenalina in corpo.

Lentamente, con la schiena che faceva ancora molto male, raggiunse la porta e con l’aiuto di una stampella cominciò a camminare in una calda sera d’estate, cercando risposte.

Risposte su quel rapporto.

Un rumore familiare riempì l’aria.

Come a crearlo dal niente, Rukawa comparve in un campetto da basket nel parco.

Hanamichi rimase a fissarlo, senza farsi vedere.

Era… forte.

Preciso, costante.

Il suo gioco incantava, inebriava, irretiva i sensi.

Era una lenta e sinuosa danza.

Che avrebbe voluto osservare più da vicino.

Non resistette più. Uscì dalla siepe lentamente e si sedette sulla panchina.

L’altro se ne accorse. Lo fissò, poi riprese a giocare senza spiccicare parola.

Non disse nulla sulla partita, sui suoi errori, sull’ultimo tiro.

Solo, giocò.

Continuò nella sua danza, quasi che quei movimenti, quei canestri, fossero una dedica al rossino per quel tiro.

Nessuno dei due avrebbe potuto dire quanto rimasero lì. Minuti, ore, anni.

A giocare con la testa.

A pensare a un anno passato.

E infine, a loro.

Perché nessuno, che non si chiamasse Kaede Rukawa o Hanamichi Sakuragi, avrebbe potuto capire un rapporto come quello.

E, in un crescendo di spettacolarità, la volpe finì in schiacciata il suo spettacolo.

La palla prese a rimbalzare lontano dal canestro.

Finché il rosso non si decise.

“Perché mi hai passato la palla?”

“Hn?”

“Andiamo Kit, hai capito benissimo.”

Il moro andò a recuperare quella benedetta sfera arancione con passo lento, prima di rispondere.

“Perché ero marcato”

“Non prendermi per il culo. Hai forzato tiri come quello un’infinità di volte. A volte era dentro, altre fuori. Ma in zona tiro non hai mai passato palla a me.”

Prese a palleggiare lentamente.

“Eri l’unico in zona…”

“Altra cazzata. Ryota stava passando alla tua destra. Potevi passare a lui. Era decisamente più sicuro di me…”

“… al diavolo do’aho. Perché mi fidavo di te.”

Hanamichi rimase basito qualche istante, tentando di somatizzare quelle parole.

“Tu… ti fidi… di me?”

“Sì… - rispose l’altro, incurante – hai la mia stessa fame di vittoria. Il mio stesso egocentrismo e la mia stessa cocciutaggine. Per quanto questa affermazione faccia schifo più a me che a te, io e te siamo più simili di quello che credi.

Potremmo smetterla con questa farsa. O forse no?”

Senza aspettare risposta, si incamminò verso l’albergo. E fece bene.

Perché l’altro non rispose. Stette semplicemente fermo a fissare quel canestro. A pensare cosa sarebbe successo l’anno dopo.

Lui, la volpe e il tappo.

Sì…

Si sarebbero divertiti.

Anche senza continuare una commedia che ormai stava stretta.

A tutti e due.

“Per favore, addomesticami…”

To be continued

  
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