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Autore: MarchesaVanzetta    30/12/2012    0 recensioni
Un colloquio di lavoro folle, una mente che si perde e un mondo surreale.
*
Dedicata ad Airlys, perché c'è sempre, ed è una di quelle persone, di quelle amiche, con cui non ti annoi mai, e perché è una beta eccezionale (non avreste sotto gli occhi qualcosa di leggibile, senza di lei) e, ultimo ma non ultimo, perché mi ha ispirato lei questo racconto e queste 2280 di cui vado molto fiera. Ti voglio bene
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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A Dioniso, al vino e alla follia
 
Prese un respiro profondo, lisciò la camicetta e abbassò la maniglia di quella porta anonima, pronta al suo ennesimo colloquio di lavoro. Entrata, vide una donna al bancone, occhiali sul naso e viso concentrato sul foglio che teneva in mano, sopra il caos di fogli, post-it e penne che invadeva la scrivania. Le si avvicinò, cercando di mostrarsi sicura.
“Buongiorno, ho un colloquio di lavoro. A chi devo rivolgermi?” domandò cortese, facendo mostra del suo sorriso più smagliante. Senza neanche degnarla di uno sguardo, le indicò una porta di legno, che sembrava molto antica. La giovane donna, salutandola, si diresse verso quella porta, temendo che ci fossero molti candidati a quel posto, se la segretaria era così sbrigativa.
Entrata nella seconda stanza, vide un vecchio seduto su una sedia in un angolo, con una divisa sgualcita e lisa, e tre grandi quadri che occupavano ognuno una parete. Si avvicinò all’uomo per chiedergli informazioni, ma lui la precedette: “Signorina, so che non si aspettava questa stanza, ma deve guardare bene i quadri. Bene, mi raccomando! È importante” e, detto questo, calò di nuovo il berretto sulla fronte e riprese a sonnecchiare.
La giovane si avvicinò al primo quadro: era in stile neoclassico e rappresentava un banchetto, presumibilmente, dove il vino scorreva a fiumi macchiando le vesti delle donne, già poco coperte e tutti i personaggi mostravano evidenti segni di ubriachezza.
Il secondo, sempre nello stesso stile, era evidentemente un’orgia, un unico ammasso di corpi e desideri inestricabili, con una montagna di vesti multicolori in un angolo, a rimarcare ancora di più la nudità dei personaggi.
Il terzo, il più incomprensibile, aveva da un lato un corteo funebre, con vesti stracciate e donne ululanti di dolore, dall’altro lato si rappresentava un dramma, con maschere e platea in visibilio; ma quello che colpiva di più era la figura al centro che, ridente e folle, ballava con  tralci di vite tra i capelli e fiere ai suoi piedi. Spaventata dall’irrealtà di quei quadri si diresse veloce in un’altra stanza, separata da quella dei quadri da una moderna porta d’acciaio.
Entrò e subito sentì un profumo di pasta alla carbonara e arrosto, e si scoprì affamata. Si diresse verso destra, dove aveva visto un’enorme cucina, e si avvicinò all’uomo, dalla divisa bianca e le mani sporche di farina.
“Se hai fame, siediti al tavolo e mangerai. Altrimenti vattene, qui si sta lavorando” la precedette l’uomo, mentre faceva volare una pizza in aria e allo stesso tempo mescolava un sugo in un’enorme pentola.
Stranita decise di sedersi, cercando di capire dove fosse finita. Era lì per un posto di assistente avvocato in uno studio legale e, se la quadreria poteva starci, come si spiegava il piccolo ristorante? Era forse la mensa dello studio? I suoi pensieri vennero interrotti dall’arrivo di un grande piatto di trofie alla genovese, portate da chissà chi –magari da quella figura che trottolava in giro tra i tavoli servendo tutti.
Mentre mangiava la pasta cercò di contare quanti coperti ci fossero: quando era entrata le sembravano solo tre tavoli da quattro, e ora il rumore sembrava quello di un’autentica mensa e i tavoli erano minimo cinque e molto più lunghi di quello che le sembrava di aver visto. A quanto pareva non le era concesso pensare, perché lo stesso cameriere girovagante le tolse il piatto da sotto il naso sostituendolo con del salmone in crosta e carote al burro. Sempre più perplessa, iniziò ad assaporare anche quel piatto ma a ogni boccone che ingoiava le sembrava di dimenticarsi pezzi di sé.
Spaventata raccolse la borsa che aveva posato a terra e fuggì, seguita dalle invettive del cameriere per non aver finito il piatto.
Si fiondò verso una porta di vetro satinato e, ansimante, si chiuse alle spalle quel folle ristorante. La stanza in cui era entrata era buia e invasa di vapore che sembrava provenire da un angolo. Si diresse verso la fonte del vapore, cauta e un po’ curiosa: dalle piastrelle sembrava essere un bagno, e quantomeno era più accettabile di un ristorante senza limiti. Trovò un’enorme vasca idromassaggio e una voce maschile la chiamò: “Signorina, ben arrivata. Prego, si accomodi”.
Non riuscì a identificare da chi venisse la voce ma, senza neanche accorgersene, si tolse i vestiti e si infilò nell’acqua calda e ricca di bolle con solo l’intimo addosso. Procedette a tentoni, un po’ camminando e un po’ nuotando, finché la sua mano non andò a posarsi su un seno nudo e prosperoso e, scusandosi, ritirò la mano.
“Bene, eccola qui. Ragazze, andatevene” sentì dire la stessa voce di prima, maschile e profonda. Sentì il lieve muoversi dell’acqua mossa da quelle ‘ragazze’ e un braccio grande e peloso che le abbracciava le spalle. Intontita si rilassò e aspetto quieta che quell’uomo le dicesse cosa fare.
“È a suo agio? Ottimo. Dunque, ho visto il suo curriculum e mi sembra davvero buono. Vorrei solo accertarmi di qualche particolare…” continuò, con voce calma e professionale.
“Mi dica” borbottò la giovane, abbandonandosi al piacere di quell’acqua.
A quell’invito non seguirono parole, ma una mano che lenta e decisa iniziò a massaggiarle il seno destro e un’altra che si faceva strada lungo la sua pancia fino al bordo delle mutandine che indossava. Quando le dita della seconda mano la toccarono si riprese dall’intorpidimento e, data una gomitata nel costato di quello che temeva essere il suo possibile datore di lavoro, cercò di uscire velocemente da quella vasca. Nella foga sbatté un ginocchio contro il bordo e, imprecando, uscì. Raccolse in un lampo la sua borsa e i suoi vestiti e scappò, spintonando con la spalla la porta.
Si ritrovò, mezza nuda e bagnata, nel corridoio in cui era prima. Fortunatamente era vuoto e si rivestì in fretta. Quando si toccò i capelli, cercando di capire quanto fossero bagnati, li trovò stranamente asciutti e soffici, come se fosse stata dal parrucchiere. Cercò di non porsi troppe domande e entrò di nuovo nella prima stanza in cui era entrata. Si guardò intorno, ma non vide nessuno; solo delle tracce di sangue scorrevano lungo il parquet e, facendo attenzione a non sporcarsi le scarpe, si diresse versa la porta di legno antico.
Si trovò di fronte allo stesso omino che l’aveva esortata a guardare i quadri: almeno qualcosa era come prima, pensò, rassicurandosi un poco. Gli sorrise, ma lui parve non riconoscerla; gli indicò solo i quadri e tornò a crogiolarsi nella sua solitudine. Non sapendo perché, la donna si avvicinò di nuovo ai quadri e notò che, anche se i soggetti erano i medesimi, lo stile era cambiato: sembravano quadri di Monet, dai colori sfumati e le forme sfocate. Li guardò per un po’, cercando di capire in quale versione li preferisse, ma poi si rese conto di dover andare avanti.
Spinse la porta del ristorante, aspettandosi confusione e luce, ma si trovò in un locale fumoso e mal illuminato. Si avvicinò al bancone, unto e puzzolente, e cercò di trovare qualcuno con cui parlare; vide solo mensole e mensole piene di liquori di ogni tipo e bicchieri sporchi. Finalmente un cinquantenne tarchiato e scontroso le si avvicinò, pulendo un bicchiere con uno straccio lercio.
“Ehi pupa, vuoi bere qualcosa?” le chiese, ammiccando. Schifata dalla sporcizia del locale e da quel personaggio se ne andò, cercando di non sfiorare niente né con la borsa né coi vestiti: le sembrava che quello sporco la potesse contaminare, rovinandola per sempre. Arrivata alla porta di vetro satinato, frugò nella borsa alla ricerca del pacchetto di fazzoletti e, trovatolo, aprì la porta con un fazzoletto a proteggerla.
Temette di entrare di nuovo nel bagno di quel vecchio porco ma fortunatamente l’ambiente era più illuminato e non c’era traccia di vapore. Sulla sua destra si schierava una fila di docce e a sinistra vide panche e armadietti , come se si trovasse nello spogliatoio di una palestra o di una piscina.
Desiderosa di lavarsi di dosso l’odore e lo sporco del pub che aveva appena lasciato, posò su una panca mezza libera la borsa e i suoi vestiti e si diresse verso l’unica doccia chiusa. Non appena aprì il getto dell’acqua, arrivò da chissà dove un chiassoso gruppo di giovani donne che si fiondarono nelle docce aperte. Tranquillamente continuò a lavarsi, massaggiando i capelli con dello shampoo fruttato che aveva trovato in un angolo. Canticchiava con gli occhi chiusi quando sentì due mani calde e bagnate massaggiarle la schiena con tocchi gentili ma decisi. Si lasciò coccolare per qualche minuto, incantata dal movimento di quelle mani, ma poi si girò: trovò una ragazza dai capelli corti e scuri, il naso affilato e i piccoli seni inevitabilmente in evidenza.
“Ciao” disse la giovane, cercando di mantenere una parvenza di normalità in quella situazione surreale.
“Mi piaci un casino” rispose la ragazza, assecondando il senso di irrealtà che le circondava.
“Cosa vorresti fare?” domandò la giovane, ormai disillusa di poter capire qualcosa.
“Potremmo iniziare a chiudere l’acqua…” propose la ragazza, allungando la mano verso il miscelatore e interrompendo il getto dell’acqua. Un alito di vento gelido fece rabbrividire la giovane, prima che la ragazza le si spalmasse addosso, portando anche l’altro braccio sul muro alle sue spalle e facendo collimare seni, pance e gambe all’altra. La vide sorridere maliziosa, soddisfatta del piccolo sospiro di sollievo che si era lasciata sfuggire, e poi la baciò impetuosa.
La giovane donna, la schiena appoggiata alle piastrelle fredde del muro, si lasciò travolgere da quella ragazzina che, notata l’approvazione della più grande, iniziò  baciarle il collo, facendola gemere, per poi scendere a vezzeggiarle i seni. Era arrivata all’ombelico quando sentirono delle voci femminili chiedersi concitate di chi fossero quei vestiti mai visti prima. La giovane capì subito che si trattava delle sue cose e, pur a malincuore, uscì dalla doccia, qualche spruzzata di schiuma ancora sui capelli e il viso rosso.
“Sono miei, scusate l’intrusione…” si palesò, avvicinandosi alla panchina su cui aveva posato la borsa.
“Cosa ci fai qui?” chiese una, particolarmente grossa e minacciosa.
“Non lo so, mi ci sono trovata e volevo lavarmi” rispose sincera, suscitando le perplessità del gruppo.
“Hai due minuti, poi vattene” decise quella che aveva parlato prima, facendo disperdere  la piccola folla che si era creata intorno all’intrusa. Vergognosa, vestendosi in fretta, la giovane donna scappò di nuovo da quel bagno, lanciando un ultimo sguardo alla ragazzina che la stava guardando.
Si trovò per la terza volta in quel dannato corridoio da cui era partita quella situazione assurda. Ricordava di aver salito le scale, per arrivarci, ma non ne vedeva: l’unica cosa che poteva fare era entrare dalla porta che aveva già varcato.
Entrò e vide due poliziotti esaminare la scrivania e il pavimento. Vide in loro la salvezza e, buttandosi tra le braccia di quello più vicino alla porta, chiese: “Come siete arrivati qui? Come posso uscire? Io non riesco più…”.
Il poliziotto la guardò perplessa, facendo poi un cenno al collega: evidentemente quella giovane donna non era del tutto sana di mente, e forse aveva bisogno di un medico.
“Signorina, si calmi. Cosa succede?” domandò premuroso.
La giovane stava per rispondere, quando vide i due uomini assumere sempre più velocemente tratti d’insetto: lunghe antenne partivano dai loro crani ormai verdi, grandi occhi sfaccettati si illuminavano come palle da discoteca e le gambe si trasformavano in sottili zampe da cavalletta. Fuggì, gli occhi spalancati dal terrore, nella sala dei quadri: l’uomo sulla sedia non c’era ed era anzi sostituito da uno scheletro.
Quello sulla destra, degli ubriachi, sembrava uscito da un quadro di Dalì, con elefanti dalle gambe chilometriche spuntati da chissà dove e uova tra gli invitati e un’aura surreale e inquietante; se ne allontanò sempre più spaventata da quel mondo strano in cui era capitata. Rimirò per un poco il secondo, che aveva assunto forme da Chagall: i corpi erano in parte sospesi in aria, in parte a terra e con visi ovali e pallidi. Andò verso l’ultimo quadro e tirò un sospiro di sollievo quando lo vide uguale a com’era la prima volta: in stile neoclassico, folle e bellissimo.
 Si accasciò sotto quella tela, nascondendo la testa fra le braccia e le ginocchia, e iniziò a piangere di frustrazione. Pian piano i rumori che venivano dall’esterno –i poliziotti che si interrogavano su quella ragazza e poi scherzavano tra loro, le indefinite voci che venivano dalla stanza successiva, altri rumori vaghi ma inquietanti- sparirono e rimase solo il silenzio. Si beò per un attimo di quella quiete, finché non sentì, in lontananza, un lieve suonare di sirti e cetre e lamenti e risate.
Non volle aprire gli occhi, cercando di far sparire quei suoni, ma quelli si avvicinavano sempre di più, sempre più velocemente, fino a inglobarla. E senza aprire gli occhi seppe di essere ormai dentro il quadro.
Sentì intorno a lei gemiti e urla di dolore e elegie in greco del morto: era nel corteo funebre e si presupponeva che si adattasse al contesto e, come spinta da un’invisibile forza, si stracciò la camicetta ormai martoriata come le donne accanto a lei si strappavano le vesti e ferì le sue guance su cui scorrevano ancora le lacrime, non sapendo per chi stesse mostrano il suo dolore. Si allontanò con noncuranza, a passo felpato e si rifugiò nel teatro, cercando di coprirsi con la camicetta a brandelli e prestando poca attenzione allo spettacolo. Trovò finalmente un posto e, nonostante il caldo cocente e la puzza che emanava quell’insieme di uomini, iniziò a ridere delle battute di quei commedianti. Qualcosa però la mosse anche da lì e la fece dirigere verso quel giovane che sovrastava tutto. Senza pensarci si accasciò ai piedi di Dioniso, bellissimo e folle, e rimase lì ad adorarlo, per tutta la vita.
  
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