Dedico questa storia a mia sorella.
Ora sei piccola per capirla, ma quando
crescerai, voglio che tu cerchi in essa te stessa.
Allora mi troverai a braccia aperte ad
accarezzarti i capelli, come sempre.
Ti voglio bene.
«Andiamo, Lilian».
Dall’auto scese una bambina di circa sei anni con un vestitino bianco, i
capelli rosso scuro raccolti in un nastro rosa pallido
come le scarpette e grandi occhi color azzurro cielo a incorniciare il volto
pallido.
Kurt le sorrise e le porse la mano. «Sei pronta?».
Lei si guardò i piedi, deglutì un paio di volte, alzò lo sguardo verso il fratello
maggiore e annuì.
Kurt Hummel e Lilian Hummel entrarono nell’alto edificio di un banale marrone
scuro tenendosi per mano e salutando i passanti.
La bambina si guardava attorno con attenzione, scrutando le persone; una grassa
donna sulla cinquantina dal volto gentile le sorrise, e lei si mise la mano
destra davanti alla bocca e guardò in basso, nascondendosi.
«Ehi, piccolina! Guarda, c’è Tess
lì!» esclamò Kurt, abbassandosi verso di lei e indicando con un dito una
giovane ragazza dai capelli castano scuro legati in
una coda e dolci occhi marroni.
«Ciao Lilian!» salutò la terapista, avvicinandosi alla bambina e sorridendole.
Lilian si limitò a fare un piccolo sorriso.
«Beh, almeno non ti nascondi più dietro la gamba di tuo fratello» rise lei. «Vuoi venire a giocare? Ti faccio fare
tantissimi salti nella piscina con le palline, che ne dici? E poi c’è il signor
Bryant che ti aspetta, dopo gli facciamo visita, ha portato un sacco di
caramelle solo per te!» esclamò, porgendole la mano.
Lilian la guardò per qualche secondo, prima di annuire e di darle la mano. Tess sorrise e poi si rivolse a Kurt: «A più tardi».
«A dopo! Ciao piccola,
divertiti!».
Lilian lo guardò per qualche istante, gli occhi chiari pieni di parole non
dette, e scomparì dietro la porta. Kurt sospirò e si sedette sulla panchina
attaccata al muro di fronte, per poi prendere un libro e un evidenziatore
giallo dalla borsa e cominciare a sottolineare.
Avevano scoperto che Lilian aveva qualcosa che non andava quando le maestre
avevano detto alla madre: «Non abbiamo mai sentito la voce della bambina, non
vuole mai parlare». Sì, Kurt e Carole ci avevano fatto caso, ma pensavano fosse
dovuto alla timidezza.
La cosa era un po’ più complicata di come sembrasse, in realtà. Avevano
scoperto che Lilian aveva subito un trauma qualche mese prima di iniziare la
scuola: Carole era stata vittima di un incidente stradale, ed era stata in
ospedale per un paio di settimane; Lilian era con lei in auto, ma non aveva
riportato ferite, solo qualche graffio superficiale. La bambina, però, aveva
subito un tale spavento per l’incidente e – soprattutto – per le condizioni
della madre, che aveva deciso di non parlare più con nessuno che non facesse
parte della sua famiglia.
«Ci aspettavamo molto di peggio, considerata la dipartita di vostro padre»
aveva confessato Tess.
La sottolineatura uscì fuori dal rigo.
Burt era morto un anno prima, vittima di un tumore. Avevano sofferto tutti, ma
Lilian era colei che ne aveva subite di più le conseguenze. Perdere un padre è un
dolore troppo grande perché una bambina di quattro anni e mezzo possa
sopportarlo. Kurt stava per crollare e abbandonarsi a se stesso; ma il senso di
responsabilità nei confronti di sua sorella (no, non sorellastra; erano legati
non da un mero legame di sangue, bensì da un rapporto molto più profondo) e
della sua matrigna lo avevano risvegliato e impedito
di disperdersi.
E ora, eccolo in quel centro affollato ma accogliente, ad aspettare che Lilian
tornasse dalla terapia di psicomotricità e di logopedia, a
cui partecipava ogni due settimane.
Il ragazzo sospirò e si passò le dita sugli occhi,
strofinandoseli.
Si alzò e uscì fuori in cortile; aveva bisogno di aria
aperta, stare lì dentro lo faceva sentire in trappola. Alzò il volto e fissò le
nuvole rincorrersi tra loro; chiuse gli occhi.
«Papà, perché le nuvole hanno quelle strane forme?»
chiese un piccolo Kurt seduto sul porticato di casa sua, il naso rivolto verso
il cielo.
«Perché in esse ci sono tutte le anime delle persone che ora stanno lassù, e
quando piove parte di loro torna giù sotto forma di acqua per salutarci e per
abbracciarci» rispose il padre.
«E lassù c’è anche la nuvola di mamma?» domandò il bambino, scrutando.
L’uomo rimase in silenzio per qualche secondo, prima di rispondere un debole:
«Sì».
Il bambino cercò a lungo, prima che sorridesse estasiato, gli occhi luccicanti:
«Papà, guarda! Eccola lì! Quelli sono i suoi capelli!
E quello è il vestito che indossava sempre! E gli occhi… e la mano! Mi sta salutando, papà!» e scosse la mano ripetutamente verso il
cielo limpido.
Burt fissò le nuvole e una singola lacrima solcò il suo volto. «Ciao, Elizabeth».
Poi cominciò a piovere.
Kurt riaprì lentamente
gli occhi, fissando il cielo. Ritornò dentro.
Stava attraversando il corridoio, quando un urlo squarciò l’aria. Kurt sobbalzò
e si guardò intorno, gli occhi sgranati.
Nella sala d’attesa un ragazzo si dimenava sulla sedia a rotelle, urlando come
un ossesso, mentre una donna – che doveva essere la madre – accanto a lui
cercava di calmarlo. Tutte le persone che si trovavano lì – per di più madri –
lo fissavano.
Il ragazzo si contorceva e strillava, dimenandosi dalla presa della madre, che
continuava a ripetergli: «Ti prego, sta’ calmo, cosa
c’è che non va? Calmati, non preoccuparti, non succederà niente…».
Kurt guardò la donna con sguardo compassionevole, per poi lanciare occhiate di
fuoco alle donne nella sala. “Cosa
diamine avete da guardare? Nessuno che si degni di chiamare
un terapista o un infermiere, però, vero?”.
Poi, Kurt si ritrovò ad attraversare la sala e a passare accanto al
ragazzo; questi, con un guizzo fulmineo, afferrò il polso di Kurt. La madre
sgranò gli occhi ed esclamò: «No!», prendendo la mano del figlio. Kurt li fissò
per un momento, momentaneamente stupito, ma non per il gesto: la stretta non era
dolorosa, il ragazzo non gli stava
facendo del male. «Lo lasci stare» disse alla donna. Questa si irrigidì, senza però lasciare la presa. «Non c’è
problema, davvero, lo lasci stare».
Il ragazzo continuava a urlare, così Kurt cominciò ad accarezzargli la mano e
il braccio. Non parlava, non gli diceva nulla, lo accarezzava e basta. Il
ragazzo continuava a urlare, ma adesso lo stava fissando.
Aveva gli occhi color miele, e nocciola, e verde scuro. Erano gli occhi più
belli che avesse mai visto.
Spostò il tocco dal braccio al volto, accarezzandolo delicatamente. Aveva la pelle scura e pungente per via della
poca barba che stava ricrescendo; spostò un ricciolo moro che era caduto sulla
fronte, per poi continuare a delineare il profilo del
volto con le dita. Sentì le occhiate delle persone accanto a lui, ma non se ne
curò.
Non seppe perché, ma gli venne in mente una ninna nanna che la madre gli
cantava sempre prima di andare a dormire; era una canzone un po’ triste, molto
lenta, struggente persino, ma estremamente bella.
Cominciò a cantarla senza accorgersene.
Il ragazzo lo fissò con intensità e le sue urla diminuirono fino a scemare del
tutto. Kurt gli sorrise e sorrise anche lui di
rimando.
«Come ha fatto?» chiese la donna, fissandolo con stupore e meraviglia. Kurt la
guardò – ora poteva osservarla meglio – e non ebbe più dubbi che quel ragazzo
fosse il figlio: avevano gli stessi occhi.
«L’ho solo accarezzato» rispose lui.
«Avrebbe potuto farti del male».
«Certo che no. Voleva solamente prendermi la mano» replicò gentilmente, accarezzando i capelli del ragazzo.
La donna lo fissò con uno sguardo così intenso e grato che Kurt non poté fare a
meno di sorriderle.
«Cosa succede?».
Tre terapisti si avvicinarono al ragazzo. «Era nervoso già da quando siamo
partiti, non voleva venire qui; ha cominciato a
urlare, ma lui», indicò Kurt, «è riuscito a calmarlo».
I tre uomini si girarono a fissarlo, per poi spostare lo sguardo sulle mani
ancora intrecciate, e Kurt si sentì improvvisamente in imbarazzo.
«Non ho fatto nulla» si affrettò a precisare, ma a quanto pare gli altri non
erano dello stesso parere: lo guardavano come se fosse uno di quei guaritori
miracolosi o roba del genere.
Per tutto il tempo il ragazzo non aveva smesso di
guardarlo.
Si sentì afferrare la giacca e, voltandosi, vide Lilian che alternava sguardi
incuriositi tra Kurt e il ragazzo. «Ehi, piccolina.
Già finito?».
Lilian annuì e guardò il ragazzo.
«Andiamo?» disse uno dei terapisti.
Kurt sorrise e disse: «Adesso devi proprio lasciarmi
andare, però. Prometto che ci rivedremo».
Il ragazzo lo fissò, per poi allentare la presa, ma senza lasciare la sua mano.
Kurt riuscì a liberarsi e gli sorrise, accarezzandogli
i capelli un’ultima volta. Poi rivolse un sorriso alla donna, che lo ringraziò.
«Vieni, piccola».
Lilian si voltò verso il ragazzo e lo fissò; poi gli accarezzò la mano, gli sorrise e se ne andò.
Il ragazzo sorrideva ancora quando lo portarono nell’altra sala.
«Forza, Blaine, in marcia!» esclamò uno dei terapisti, guidando la sedia a
rotelle.
14 anni dopo
«Kurt! Dove diamine hai messo le chiavi della
macchina?!» esclamò una ragazza sulla ventina, sistemandosi
le ciocche rosso scuro di capelli dietro l’orecchio.
«Al solito posto, Lilian!» rispose una voce proveniente dalla cucina.
«Non ci sono!».
«Controlla meglio, lo sai che sei sbadata!».
«Non ci sono, ti dico!» disse, frugando nel cassetto.
Kurt sbuffò e si avvicinò alla sorella, prendendo un
mazzo di chiavi dal vasetto in vetro sul comodino e facendole dondolare davanti
al naso. «Erano proprio qui davanti a te».
«L’ultima volta le hai messe nel cassetto» borbottò Lilian, afferrando le
chiavi.
«Non farei mai una cosa del genere. Sarà stata mamma».
Lilian ridacchiò e Kurt le fece un occhiolino.
La piccola bambina che non parlava mai e che si nascondeva dietro la sua gamba
era cresciuta e diventata una giovane donna; ventuno anni, laureanda in
Psicologia e Disturbi del Comportamento Infantile, attualmente
iscritta al terzo anno; campionessa per due volte consecutive nella gara di
divisione in sillabe indetta dalla sua scuola elementare e nel Campionato
Regionale; vincitrice della borsa di studio alle scuole superiori per gli
studenti eccellenti; intelligente, allegra, imbranata e…
«D’accordo, torno dopo cena, io e Jay
andiamo a vedere un film e andiamo a mangiare qualcosa dopo… ti chiamo quando
sto per tornare, se vedo un solo squillo sul cellulare ti uccido, a meno che
non sia qualcosa d’importante – in tal caso ti autorizzo a prendermi a
padellate sulle gengive se ti tratto male – oddio ho tutti i soldi? E i
capelli? Come sono? Mi sono truccata troppo, lo sapevo! Questi vestiti fanno
schifo, cosa pensavo quando li ho indossati, non vorrà mai più guardarmi in
faccia…».
«Lilian, calmati. I capelli stanno benissimo, i
vestiti sono perfetti … voglio dire, li ho scelti io! Il trucco ti risalta gli
occhi ed è meraviglioso, tu sei stupenda e farai centro. È solo un appuntamento
con Jaime, la ragazza dei tuoi sogni, nulla di cui essere preoccupata».
… e, cosa più importante di tutte, Lilian era estremamente,
irrimediabilmente chiacchierona.
Lilian inspirò ed espirò profondamente, chiudendo gli occhi. «Se scopro che mi
hai detto una bugia ti prendo a schiaffi».
Kurt ridacchiò e la abbracciò. «Buona fortuna, piccola».
Lei sorrise nella sua spalla. «Grazie, fratellone».
La salutò mentre entrava in macchina di Jaime, un sorriso emozionato e
impaurito. Le fece il segno dei pollici alzati e lei si coprì la bocca per non
ridere.
Quando l’auto svoltò e sparì alla sua vista, Kurt sospirò.
Né lui né Carole erano rimasti sorpresi quando Lilian disse
loro della sua bisessualità. Insomma, lui era gay,
quindi l’avrebbe dovuta capire per forza. Anzi, quel coming
out lo aveva aiutato a cambiare idea sulla situazione: aveva sempre creduto che
i ragazzi che si dichiaravano bisessuali fossero semplicemente confusi o non
volevano ammettere la loro completa omosessualità; si era dovuto ricredere
quando aveva visto quanto i sentimenti di Lilian per Jay
fossero veri. È stata quella che sembrava una semplice cotta a farla
risvegliare.
Il ragazzo sorrise e si sedette sulla panca di legno sotto il porticato. Fissò
il cielo a lungo, osservando le nuvole, come quando era piccolo.
Badate a lei, ora che non posso vederla.
Cominciò a mormorare una melodia lenta e malinconica, persa nei meandri
della sua mente.
Le nuvole galleggiavano sul tetto della sua casa; erano un coniglio, un
contadino, una signora anziana; c’era chi piangeva, chi correva, chi zoppicava;
c’erano capelli lunghi, mani affusolate; c’erano occhi dolci color miele e
capelli ricci scuri come ebano.
Kurt fissò a lungo quella nuvola; gli sembrava familiare, ma non sapeva perché.
Poi il ricordo gli tornò alla mente, il respiro gli si mozzò in gola e le
lacrime offuscarono i suoi occhi. Sorrise e canticchiò quella melodia,
piangendo e scendendo in cortile.
Poi cominciò a piovere.