[ Disclaimer | Personaggi, luoghi, nomi e tutto ciò che
deriva dalla trama ufficiale da cui ho elaborato la seguente storia non mi
appartengono, ma sono di proprietà di Fanny Robert e Sophie Lebarbier, che ne
detengono tutti i diritti. Viceversa, gli elementi di mia invenzione, non
esistenti in Profiling, appartengono
solo a me. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro. ]
[ Note | Post 3x03. ]
Dedicato
a DadaOttantotto, la mia prima e unica Socia, che quando ci si mette sa
essere più testarda di un mulo incazzato.
CON LUI
SAREBBE DIVERSO
Nei
romanzi che sua moglie amava tanto – quelli che ha sigillato in uno scatolone e
nascosto in soffitta, tanto per essere sicuro di non vederli mai più – si parlava sempre
dell’inebriante profumo di fiori che un uomo avverte mentre bacia una donna.
Non che lui stia baciando una donna, certo, però la situazione non lo mette in
condizione di fare altri pensieri. Lui non ha la benché minima idea di quale
sia il profumo delle fresie, o dei mughetti, o delle orchidee, o dei gigli:
l’unico profumo di fiori che è certo di poter distinguere è quello delle rose.
E ricorda bene di averlo sempre trovato nauseante.
Per sua fortuna, Chloé non profuma di rose – né di altri
fiori, per quanto possa capirne un profano come lui. Inspira piano con il naso
e riesce a distinguere l’odore del cuoio della sua borsetta nuova, una traccia
dolciastra di limone, un vago sentore di terra zuppa di pioggia.
Però quelli sono odori comprensibili,
odori razionali, odori che hanno un senso: giusto quel
pomeriggio Chloé si è sporcata il cappotto con del gelato al limone, e la sua
borsetta è uscita dalla pelletteria non più di sette giorni prima, e circa due
ore prima dell’incidente con il gelato, entrambi si sono inginocchiati in un
parco pubblico, scavando a mani nude intorno alle radici di un castagno per
cercare indizi.
Il problema è che quelli sono odori che non dovrebbe sentire, perché circoscritti allo spazio vitale di
Chloé: per avvertirli, occorre essere vicini.
Più che vicini, incollati.
E così è per lui.
Un idiota alla guida di un SUV è appena sfrecciato lungo la
strada che stanno costeggiando, e invece di annotare la targa e denunciarlo per
guida pericolosa, Rocher non ha trovato di meglio da fare che frapporsi tra gli
schizzi di acqua e fango e Chloé, spingendola contro il muro di un palazzo e
parandosi davanti a lei come uno scudo umano. Non si è rivelata una cattiva
idea, visto che entrambi sono rimasti puliti – ma non asciutti, perché nella foga lei ha abbassato l’ombrello, lasciando
entrambi esposti a quel cattivo tempo che sembra infinito.
Il rombo del motore dell’auto si è ormai spento, lasciando
la strada quasi deserta e immersa nel rumore ovattato tipico di una città che
da più di tre giorni non vede altro che pioggia. In uno scenario poetico come
quello, l’azione cavalleresca di Thomas si è lasciata alle spalle un’eco
assordante. Se ci fosse bel tempo e il sole splendesse, se quel marciapiede e
la strada fossero congestionati dal traffico, se tutti avessero fretta e cose
da fare con urgenza, forse non avrebbe trascorso gli ultimi cinquanta secondi
praticamente appoggiato a Chloé. E se
non piovesse, se non fosse costretto a tenere lo sguardo basso per non
riempirsi gli occhi d’acqua, forse non sarebbe costretto a guardarla negli occhi.
“Io… complimenti per la sua intuizione di oggi, Chloé. È
stata brillante.”
“Grazie.”
“Sul serio, la sua teoria è stata davvero illuminante, e… necessaria alla risoluzione del caso.”
“Grazie.”
E se Chloé fosse una ragazza normale, se gli facesse notare che sono fermi nella stessa
posizione da quasi due minuti, senza una ragione e senza argomenti, forse tutto
diventerebbe più semplice. Il problema è che è letteralmente impossibile
inserire nello stesso pensiero i concetti Chloé
Saint-Laurent e normalità, a meno
che tra i due non intercorra una negazione.
Ad un tratto, senza che nessuno dei due abbia detto o fatto
qualcosa di particolare, Thomas si rende conto che è stato lui a creare
l’imbarazzo, e che sarà lui a doversene cavare se desidera tornare a casa da
suo figlio, invece di restare immobile a sostenere un vecchio palazzo con
entrambe le mani. “Chloé, io volevo… volevo solo dirle che sono molto felice di
essere riuscito a convincerla a… riprendere
il suo posto. Il dipartimento non era più lo stesso, senza di lei. Lei sa
dare alle indagini un contributo davvero prezioso.”
“Grazie.”
Rocher alza gli occhi al cielo – cosa che gli capita spesso,
da quando ha a che fare con Chloé. “Ma sa dire solo grazie, oggi?”
“Non so che dirle. È la forma di gratitudine più semplice e
diretta che conosca. A questo proposito” prosegue, abbassando lo sguardo, “io
la ringrazierei di cuore se potesse
spostarsi, così potrei raddrizzare l’ombrello e la smetteremmo di farci piovere
addosso.”
A malincuore, Thomas si sposta e aspetta che lei si
risistemi. Mentre riprendono a camminare lungo il marciapiede non riesce a non
pensare a cosa sarebbe successo se al suo posto ci fosse stato il giudice
Hoffman: Chloé a lui non avrebbe
chiesto di spostarsi, davanti a lui
non avrebbe abbassato lo sguardo. Con una punta d’amarezza, mentre percorrono i
quattro metri che li separano dall’auto, Rocher invidia quell’uomo, perché
quell’uomo, senza sforzo, ha saputo ottenere l’affetto di Chloé, mentre lui,
che nemmeno per un istante smette di lottare, può contare soltanto su un ‘Grazie’.
“Credo che per oggi abbiamo finito” dice, prendendo le
chiavi della macchina dalla tasca. “La accompagno a casa.”
“Grazie.”